Giacomo Oberto

 

IL RUOLO DELL’ART. 159 C.C.

NEL SISTEMA DEI RAPPORTI PATRIMONIALI

DEL MATRIMONIO E DELL’UNIONE CIVILE

 

Sommario: 1. Generalità. La regola di cui all’art. 159 c.c. e la sua genesi. - 2. L’art. 159 c.c. e il favor communionis. - 3. Art. 159 c.c. e onere della prova sull’esistenza del regime di comunione legale. - 4. L’effettiva portata dell’art. 159 c.c. Comunione legale e separazione dei beni: qualche spunto di tipo sociologico. - 5. Il ruolo dell’art. 159 c.c. nella determinazione dell’autonomia privata dei coniugi in comunione dei beni. - 6. Il ruolo dell’art. 159 c.c. nella definizione della nozione di convenzione matrimoniale (e della relativa natura contrattuale). - 7. Ulteriori profili di negozialità delle convenzioni matrimoniali (in particolare: rappresentanza, impugnabilità, elementi accidentali). - 8. Convenzioni matrimoniali e contratto di matrimonio. Il concetto di «regime patrimoniale della famiglia». - 9. Convenzioni matrimoniali, matrimonio e crisi coniugale. - 10. Convenzioni matrimoniali e autonomia negoziale. L’ammissibilità di regimi patrimoniali atipici. - 11. Convenzioni matrimoniali e autonomia negoziale. La progressiva erosione della sfera di applicabilità delle regole in tema di forma delle convenzioni matrimoniali. - 12. Il problema del trust familiare. Il dibattito sull’ammissibilità di un trust «interno». - 13. Alcune specifiche questioni relative al trust familiare. Trust, vincolo ex art. 2645 ter c.c. e convenzione matrimoniale. - 14. Le convenzioni matrimoniali nel quadro generale dei rapporti patrimoniali tra civilmente uniti. La tecnica normativa adottata dalla novella del 2016. – 15. Le disposizioni codicistiche in tema di convenzioni matrimoniali escluse dal rinvio e quelle espressamente richiamate in tema di unione civile. - 16. L’art. 159 c.c. nel sistema dei rapporti patrimoniali dell’unione civile.

 

 

1. Generalità. La regola di cui all’art. 159 c.c. e la sua genesi.

 

L’art. 159 c.c., collocato in apertura del Capo VI del Titolo VI del Libro I, dedicato al regime patrimoniale della famiglia, pone la regola fondamentale secondo cui, a seguito della riforma del 1975 (l. dir. fam.), il regime patrimoniale operante ex lege, in mancanza di diverso accordo tra i coniugi, è quello della comunione dei beni[1]. Il superamento del previgente sistema separatista, retaggio del diritto romano, di quello comune, nonché dei codici preunitari, del c.c. 1865 e di quello vigente sino all’entrata in vigore della riforma predetta, ha senz’altro costituito uno dei punti qualificanti di quest’ultima.

L’origine di tale «rivoluzione copernicana» va ricercata nei movimenti d’opinione formatisi nel decennio compreso tra la metà degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta dello scorso secolo, periodo che appare di fondamentale importanza per comprendere la genesi dell’odierno diritto di famiglia italiano[2]. Il punto di partenza per quest’opera legislativa fu il cosiddetto (primo) Progetto Reale del 1967[3]. Nello stesso periodo assunse un rilievo determinante l’attività della Corte costituzionale[4], che eliminò alcune delle più evidenti storture della legislazione ordinaria rispetto al principio costituzionale d’uguaglianza scolpito negli artt. 3 e 29 della Carta fondamentale[5], in tal modo preparando, anche in relazione ai regimi patrimoniali, in maniera definitiva e irreversibile, quello che in altra sede chi scrive ha definito il «passaggio dalla concezione istituzionale alla concezione costituzionale della famiglia»[6].

La scelta della comunione dei beni come regime patrimoniale legale fu compiuta già dal primo Progetto Reale, che prevedeva la sostituzione dell’art. 215 c.c. 1942 con il seguente, di contenuto identico proprio all’articolo qui in esame: «Il regime patrimoniale legale della famiglia, in mancanza di diversa convenzione stipulata per atto pubblico, anche dopo il matrimonio, è costituito dalla comunione dei beni». Due le motivazioni addotte per questo mutamento legislativo: da un lato, si voleva «eliminare l’autonomia patrimoniale di ciascun coniuge nell’ambito della famiglia, che determina inevitabilmente il costituirsi di elementi di contrasto» all’interno del nucleo familiare. Dall’altro si dichiarava di voler «sopprimere un’evidente ingiustizia nei confronti della donna il cui lavoro domestico (...) si sostanzia sovente in una dura se pur non appariscente fatica»[7]. In base al principio di parità morale e giuridica, richiesto dal dettato costituzionale, sembrò dunque agli estensori del progetto Reale che la comunione dei beni fosse il regime patrimoniale meglio rispondente alle esigenze della «nuova» famiglia italiana[8].

Da notare ancora, rispetto a tale progetto[9], che, in esso, accanto ad una comunione immediata, che si risolveva nella comproprietà dei beni acquistati, a qualunque titolo, dall’uno o dall’altro coniuge dopo il matrimonio[10], appariva per la prima volta un modello «alternativo» di compartecipazione, riconducibile alla figura della contitolarità che oggi definiremmo come de residuo, per i proventi dell’attività lavorativa ed i frutti di beni propri di ciascun coniuge, essendo stabilito al riguardo che tali beni si sarebbero considerati appartenenti alla comunione se, allo scioglimento di questa, non fossero stati consumati. Venivano poi esclusi dal regime legale «i beni di ciascun coniuge destinati all’esercizio di una impresa, anche se questa è costituita dopo il matrimonio», nonché quelli «derivanti da donazione o da successione, ovvero fatti col prezzo del trasferimento di beni già appartenenti in proprio ad uno dei coniugi, purché ciò risulti espressamente dall’atto di acquisto»[11].

Al primo Progetto Reale fece seguito un secondo Progetto Reale, presentato alla Camera dei Deputati il giorno 11.10.1968, oltre ad altri progetti di diverse colorazioni politiche, noti per i nomi dei relativi proponenti: Ruffini e Martini, Jotti, Gatti Caporaso, Falcucci, Fortuna[12]. Mentre la proposta di legge Reale e quella Jotti prevedevano, quale oggetto della comunione, gli acquisti eseguiti congiuntamente o disgiuntamente dai coniugi successivamente al matrimonio e la quota non consumata di proventi dell’attività separata di ciascun coniuge, nonché i frutti dei beni personali, la proposta di legge Falcucci e quella Ruffini e Martini comprendevano nella comunione accanto agli altri acquisti, anche i redditi individuali ed escludevano unicamente i beni pervenuti per donazione o per successione a causa di morte, oltre a quelli acquistati con i proventi di uno di questi beni o di quelli acquistati dal coniuge prima del matrimonio. Il progetto Gatti Caporaso, infine, comprendeva nella comunione gli acquisti fatti a qualunque titolo dai coniugi, congiuntamente o separatamente, dopo il matrimonio, eccezion fatta per i diritti inalienabili, i crediti e le pensioni non cedibili.

Come rilevato in dottrina[13], l’analisi dei diversi progetti e delle relazioni che li accompagnano pone in evidenza come, al di sotto dell’apparente adesione ad una comune idea fondamentale – la quale si sostanziava nel convincimento dell’intima e necessaria coerenza tra concezione comunitaria della famiglia e comunione dei beni tra coniugi – si muovessero nell’ambito dei partiti politici e della cultura giuridica italiana due posizioni fondamentali tra loro contrapposte[14]. Da un lato, infatti, si poneva chi, sostanzialmente riprendendo i temi già espressi nella relazione al progetto preliminare del codice civile del 1942, riteneva che la concezione unitaria e comunitaria della famiglia dovesse necessariamente esprimersi, nel settore patrimoniale, in una comunione possibilmente estesa a tutti i redditi e a tutti gli acquisti comunque realizzati dall’uno o dall’altro coniuge durante il matrimonio[15]. Dall’altro lato si poneva invece chi riteneva inaccettabile una concezione che riducesse la famiglia ad una struttura sostanzialmente aziendalistica, affermando che si sarebbero comunque dovuti riservare degli spazi di libertà a chi avesse ritenuto di vivere la sua vita familiare con una certa autonomia nel campo economico[16].

Queste contrapposte visioni confluirono poi nel testo che portò a definitivo compimento l’opera di riforma: vale a dire il cosiddetto Progetto unificato, elaborato da un Comitato ristretto della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati nell’aprile 1971 sulla base delle varie proposte di legge fino ad allora presentate. In seguito all’anticipato scioglimento delle Camere il testo unificato, approvato il 18 dicembre 1971, decadde, ma nella VI legislatura venne ripresentato[17] e definitivamente approvato[18].

Si è esattamente rilevato in dottrina[19] che la storia dei progetti di riforma è, per questa parte, essenzialmente la storia dei tentativi di comporre questi diversi criteri ispiratori, realizzando la sintesi tra il principio di solidarietà e quello di libertà. Di grande rilievo fu il ruolo giocato in quel periodo dagli Studiosi che, anche per mezzo di pregevoli studi fondati sulla comparazione con sistemi stranieri[20], posero in evidenza come la proposta nuova disciplina legale dei rapporti patrimoniali tra coniugi fosse volta a realizzare la finalità di migliorare la posizione familiare della donna e ciò sia in vista di una più puntuale attuazione del dettato costituzionale della parità tra coniugi, sia in vista di una maggiore e più equa valutazione dei lavoro domestico[21]. La soluzione legislativa adottata nel 1975, pur realizzando il lodevole intento di modernizzare il sistema dei rapporti patrimoniali della famiglia italiana, sembra però aver troppo fortemente risentito della frattura tra le contrapposte visuali di cui si è riferito, risolvendosi, sul piano della tecnica legislativa e redazionale[22], nella predisposizione di un istituto dai caratteri incerti e contraddittori, che mal si presta a realizzare i risultati voluti e che anzi mortifica l’ordinamento patrimoniale della famiglia in una serie di regole spicciole, che è difficile concepire in unità di ratio[23]. Questa ambigua soluzione di politica legislativa, pur di fronte ad una quantità rilevante di problemi lasciati irrisolti, ed anzi evidenziati dall’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, ha trovato peraltro conferma oltre quarant’anni dopo con la l. 20.5.2016, n. 76, che ha sostanzialmente reso applicabili all’unione civile pressoché tutte le norme relative al regime patrimoniale tra coniugi[24]. Per tali ragioni continuano a mantenere vigore le raccomandazioni formulate in altra sede dallo scrivente per salvare ciò che merita di essere salvato del regime legale[25].

 

 

   2.  L’art. 159 c.c. e il favor communionis.

 

L’art. 159 c.c. svolge un ruolo di primo piano nell’individuazione dell’esistenza, nel nostro ordinamento, di un favor communionis. È noto, al riguardo, che nonostante la chiarezza del dettato normativo di cui alla disposizione in esame, non sono mancate voci, nell’ambito dottrinale, le quali hanno contestato la possibilità di individuare un criterio di favor legis verso l’istituto della comunione legale.

Prova dell’inesistenza di un principio legislativo di favore verso la comunione sarebbe data[26] dal 1° co. dell’art. 228 della novella: una norma che concedeva, in relazione alle coppie costituite prima dell’entrata in vigore della riforma, la possibilità di escludere l’applicazione del regime legale sulla base di una manifestazione di volontà anche solo unilaterale. Ma a quest’impostazione si potrebbe obiettare che la disciplina transitoria non può certo essere presa in considerazione quale modello paradigmatico per estrapolare principi valevoli per la disciplina di un istituto novellamente introdotto. Se si pensa al fatto che la comunione legale, sostanzialmente estranea alla nostra tradizione giuridica, veniva introdotta dopo secoli di regime separatista ed applicata (anche se con efficacia ex nunc) anche alle coppie già costituite alla data di entrata in vigore della riforma, cioè a persone unite in matrimonio in regime di separazione dieci, venti, trent’anni prima, appare più che logico[27] pensare che non si sia inteso negare favore verso la comunione nel momento in cui, pur prevedendosi come legale il nuovo istituto anche per le vecchie coppie (con riguardo agli acquisti effettuati dopo l’entrata in vigore del regime), si concedeva la possibilità a ciascuno dei coniugi di impedire tale effetto e dunque di continuare a vivere sotto il regime nella vigenza del quale il vincolo matrimoniale era sorto.

Pure l’altro argomento addotto a sostegno dell’inesistenza di un favor communionis poggia su di una disposizione nata per risolvere un problema del tutto peculiare e ormai superato. Ad avviso di una parte della dottrina[28], infatti, il legislatore avrebbe mostrato il suo sfavore nei riguardi della comunione legale consentendo, con la riforma dell’art. 162, 3° co., c.c., di cui alla l. 10.4.1981, n. 142, una più facile «fuga» da tale regime. Occorre ricordare in proposito che, prima della modifica in questione, la disposizione in esame stabiliva che «Le convenzioni possono essere formulate in ogni tempo, ferme restando le disposizioni dell’art. 194. Dopo la celebrazione del matrimonio possono essere mutate soltanto previa autorizzazione del giudice». Ora, secondo la tesi qui criticata, l’eliminazione del requisito dell’autorizzazione giudiziale[29] avrebbe determinato l’effetto di rendere più agevole l’abbandono del regime legale, così manifestando l’inesistenza di un favore legislativo verso la comunione. Sul punto andrà però ricordato che – a parte l’evanescenza dei criteri in base ai quali il giudice avrebbe dovuto concedere o negare l’autorizzazione[30] – dopo alcune iniziali incertezze, l’opinione dominante circa l’interpretazione della prima versione del nuovo art. 162, 3° co., c.c., introdotto dalla riforma del 1975, quanto meno in giurisprudenza, si era (correttamente) assestata sulla tesi che riteneva necessaria l’autorizzazione soltanto nel caso di passaggio da un regime convenzionale a quello legale, non essendovi, nella situazione opposta, alcuna convenzione da modificare[31].

È chiaro quindi che, nei fatti, la soppressione di ogni forma di intervento giurisdizionale per qualsiasi mutamento di regime venne a togliere di mezzo un ostacolo (assai più formale, peraltro, che non reale) che poteva esistere proprio per le coppie desiderose di passare da un regime convenzionale, quale quello separatista, a quello comunitario. La ‘miniriforma’ del 1981[32] venne dunque ad incoraggiare, di fatto, il passaggio dalla separazione alla comunione e non viceversa: essa non può pertanto, in alcun modo, essere presa in considerazione per contrastare l’esistenza di un favor legislatoris nei riguardi del regime legale.

Un più serio elemento di contrasto rispetto alla possibilità di individuare l’esistenza di un principio di favor communionis potrebbe anche essere visto nella disposizione (cfr. art. 162, 2° co., c.c.) che consente ai coniugi di derogare al regime legale, all’atto della celebrazione delle nozze, senza ricorrere alle formalità (oltre che alle spese) dell’atto notarile: la regola, che non sembra avere corrispondenti nei principali sistemi di riferimento europei, contribuisce a spiegare, almeno in parte, il successo di siffatta dichiarazione e la conseguente fuga delle nuove coppie dal regime di comunione di questi ultimi anni[33]. Non vi è dubbio che l’eliminazione del formalismo costituito dal rogito notarile può costituire un elemento tale da indurre ad una scelta non sufficientemente ponderata. Peraltro, da questo dato normativo sembra potersi ricavare non tanto una smentita del principio del favor communionis, quanto piuttosto una conferma della «dignità» propria del negozio giuridico matrimoniale, consacrato in un atto sicuramente pubblico, oltre tutto particolarmente «qualificato», poiché redatto da un particolare pubblico ufficiale, quale l’ufficiale dello stato civile, unico legittimato al riguardo[34].

Ma il vero attacco alla possibilità di individuare un favore legislativo verso la comunione viene da quella tesi che afferma, addirittura, il carattere eccezionale dell’istituto: carattere che deriverebbe dal fatto che la regola del coacquisto automatico ex lege, ai sensi dell’art. 177 c.c., si porrebbe quale norma in deroga rispetto al principio generale di cui all’art. 1372 c.c., che limita alle sole parti del contratto gli effetti di quest’ultimo[35].

Diciamo subito che, da un punto di vista generale, l’argomento in oggetto appare sminuire in maniera eccessiva il concetto stesso di acquisto automatico, riducendolo ai soli acquisti a titolo derivativo; ma, a parte tale rilievo, non vi è dubbio che l’idea di «generalità» o «specialità» di una data disposizione vada determinata con riguardo al sistema – o, come si preferisce dire oggi, al «microsistema» – in cui la norma stessa si colloca. Ora, se è vero che gli acquisti in comunione costituiscono un tipo speciale di acquisto rispetto alla categoria generale degli acquisti tout court, è altrettanto vero che gli acquisti ex contractu rappresentano a loro volta una categoria speciale rispetto a quelli in comunione, che, come si è dimostrato in altra sede, possono comprendere anche altri titoli acquisitivi, dal testamento all’usucapione[36], onde ben potrebbe dirsi che, in questo caso, si versa in una situazione di «specialità reciproca», con conseguente improponibilità dell’argomento basato sull’asserita eccezionalità del fenomeno del coacquisto automatico. A ciò s’aggiunga che appare dogmaticamente scorretto configurare la prospettabilità di un rapporto regola-eccezione tra l’art. 1372 c.c. e l’art. 177 c.c., posto che la prima norma costituisce, semmai il presupposto (rectius: uno degli alternativamente possibili presupposti) perché possa darsi un acquisto (nella specie, ex contractu) per cui trovi quindi applicazione il fenomeno dell’acquisto automatico. Ne segue che nessuna contrapposizione può ipotizzarsi tra le due norme.

Neppure può ipotizzarsi una supposta eccezionalità della comunione, in quanto situazione «essenzialmente provvisoria e destinata a risolversi mediante lo strumento della divisione»[37], atteso che, nella dinamica dei rapporti patrimoniali, essa ha vocazione a permanere per tutta la durata del rapporto coniugale, tranne che abbia luogo una delle cause (queste, sì, eccezionali!) che ex art. 191 c.c. appaiono idonee a determinarne lo scioglimento[38]. Non vi è dubbio quindi che, nel sistema giusfamiliare (che è l’unico rilevante ai fini dell’indagine su di un istituto che proprio in tale ambito si colloca) la comunione costituisca la norma e la separazione dei beni l’eccezione, come del resto confermato dal fatto che la disciplina dei rapporti patrimoniali tra coniugi si apre con una proclamazione di principio, contenuta nell’art. 159 c.c., che non lascia adito a dubbi sul carattere «di regola» proprio del regime legale[39].

 

 

   3.  Art. 159 c.c. e onere della prova sull’esistenza del regime di comunione legale.

 

Ci si potrà limitare in questa sede ad evidenziare, sempre in relazione all’argomento qui trattato, un’importante ricaduta sul piano processuale dell’affermazione di principio consacrata nell’art. 159 c.c. Ci si intende qui riferire alla regola relativa all’onere probatorio, secondo cui, in ogni controversia nella quale sia rilevante accertare se una data coppia si trovi o meno in regime di comunione, l’esistenza di un regime difforme da quello legale va dimostrata da chi lo invoca[40].

Sul punto non possono non venire in rilievo anche le disposizioni contenute negli artt. 195 e 219 c.c., in relazione alle quali potrà ricordarsi come un’autorevole dottrina abbia fondato la sussistenza di un favor communionis proprio sugli articoli citati, peraltro ritenendo «più convincente» il richiamo alla seconda norma[41], la quale ha il vantaggio, rispetto alla prima, di riferirsi indistintamente ad ogni tipo di bene e non (come disposto dall’art. 195 c.c.) ai soli mobili[42], sebbene l’opinione prevalente imponga lo stesso genere di limitazione anche alla disposizione dettata in materia di separazione dei beni, cioè appunto all’art. 219 c.c.[43]. La ragione di questa limitazione risiede però nel fatto che, avuto riguardo alle peculiari regole di trasferimento degli immobili, occorrerà pur sempre partire dall’indagine sui titoli d’acquisto, per raffrontare la data d’acquisto comparente sugli stessi con quella di celebrazione delle nozze e con l’eventuale presenza di annotazioni a margine dell’atto di matrimonio, da cui risulti l’esistenza di regimi convenzionali.

Meno condivisibile appare invece il rilievo[44] secondo cui l’art. 195 c.c. sarebbe norma «non particolarmente perspicua», non chiarendo la stessa la sua riferibilità al solo caso di beni in compossesso, ovvero oggetto di possesso da parte di uno solo dei coniugi, o addirittura dei terzi. Ma il mancato inserimento nell’articolo in esame di limitazioni sembra proprio voler manifestare l’intento legislativo di porre una regola valevole, in ogni caso possibile ed immaginabile, a determinare, in favore del rivendicante (per la metà), una relevatio ab onere probandi, così favorendo un «rafforzamento» della comunione. Per quanto attiene, poi, all’art. 219 c.c., è senz’altro vero che pure da siffatta disposizione si possono trarre elementi in favore dell’esistenza di un favor communionis, posto che, altrimenti, «non si capirebbe perché la presunzione di contitolarità debba valere nel caso in cui i coniugi siano soggetti al regime di ‘separazione dei beni’ e non quando vivano in regime di comunione legale»[45].

In definitiva, entrambe le norme citate sembrano mostrare l’intento del legislatore di esprimere un favor operante come regola di giudizio sul piano probatorio, al punto da autorizzare a ritenere che il favore predetto possa far sì che la parte interessata sia sollevata dall’onere probatorio non solo con riferimento ai dubbi circa l’appartenenza di singoli beni alla massa comune, ovvero a quella dei beni personali, ma anche circa la vigenza stessa per una data coppia del regime legale. Come stabilito, infatti, dalla Suprema Corte, «L’art. 228 della l. dir. fam., il quale, per i beni acquistati, dopo la data di entrata in vigore della legge stessa, da parte delle famiglie già costituite, prevede la manifestazione della volontà contraria di uno dei coniugi, per escludere l’assoggettamento a comunione dei beni medesimi, introduce una deroga al regime ordinario della comunione fra coniugi, la cui ricorrenza, pertanto, deve essere provata da chi l’invoca»[46].

 

 

   4.  L’effettiva portata dell’art. 159 c.c. Comunione legale e separazione dei beni: qualche spunto di tipo sociologico.

 

Nel sistema vigente anteriormente alla riforma del 1975 il regime patrimoniale legale risultava essere, come noto, quello della separazione, anche se nessuna norma sanciva espressamente tale principio[47], a differenza di quanto prevede ora per la comunione legale proprio l’art. 159 c.c. La conclusione era peraltro arguibile dal complesso delle disposizioni legislative, atteso che gli altri regimi previsti (comunione, dote e patrimonio familiare) potevano instaurarsi solo attraverso la stipulazione di un’apposita convenzione. Pertanto, se nessuna convenzione veniva prevista, i patrimoni dei coniugi erano destinati a restare separati, mentre le disposizioni in tema di beni parafernali trovavano applicazione non soltanto in relazione ai beni della moglie, ma, per effetto della disposizione di cui all’abrogato art. 214 c.c., anche a quelli del marito, nel caso in cui questi ne avesse avuto l’amministrazione e il godimento. Già si è fatto rapido cenno al ricco dibattito che accompagnò nel 1975 il declassamento della separazione dei beni a mero regime convenzionale e che portò gli interpreti a salutare con favore l’introduzione della comunione quale regime patrimoniale legale delle famiglie italiane, esattamente qualificata come «la maggiore novità della riforma, sul piano dei rapporti patrimoniali»[48].

Ciò che preme dire, ad alcuni decenni di distanza, è che la cattiva prova di sé che, nei fatti, il regime ex artt. 177 ss. c.c., così come concretamente attuato, ha fornito in questo periodo sta risospingendo un numero vieppiù crescente di coniugi verso il «vecchio» sistema di separazione, trasformando la relativa opzione in sede di celebrazione delle nozze – per lo meno in vaste zone del nostro Paese – in una vera e propria «clausola di stile». Il regime legale, invero, ha ampiamente dimostrato di potersi tramutare, nel momento cruciale del suo scioglimento (specie se visto nella dinamica della crisi coniugale), in un groviglio inestricabile di lacci serrati attorno alla libertà d’azione di coniugi che si vorrebbero ormai reciprocamente svincolati, così offrendo più di un’occasione all’uno di esercitare verso l’altro pressioni indebite e, talora, veri e propri ricatti[49]. Di conseguenza, il vertiginoso aumento del numero delle crisi coniugali cui abbiamo assistito nel corso di questi ultimi anni ha finito con il favorire il massiccio ricorso, da parte delle nuove coppie, al regime di separazione dei beni[50].

Il fenomeno – che è stato descritto in altra occasione come un vero e proprio uso dello strumento della convenzione matrimoniale in contemplation of divorce[51] – appare strettamente legato anche ad alcune pervicaci rigidità giurisprudenziali (e non solo) sul versante, da un lato, degli accordi in vista della crisi coniugale[52] e, dall’altro, sul tema della libertà negoziale dei coniugi in comunione: libertà che taluno vorrebbe ingabbiare in un sistema di vincoli tanto ingiustificati quanto inspiegabili, quando si sia in presenza del consenso di entrambi[53].

Si comprende dunque perché, dopo un iniziale accoglimento favorevole della comunione legale da parte delle coppie italiane, che, tanto per fare un esempio, avevano optato nel 1976 per il regime di separazione in misura inferiore all’1%[54], anno dopo anno, è continuamente aumentata la quota di coloro che, al momento della celebrazione delle nozze, hanno scelto il regime separatista. In un primo momento, tale opzione cominciò ad essere effettuata, principalmente, dalle coppie in cui uno dei coniugi svolgeva attività imprenditoriale o una professione liberale (specie in considerazione dei rischi cui l’art. 189 cpv. c.c. espone il patrimonio comune, sia pure pro quota, avuto riguardo alle possibili azioni esecutive dei creditori personali)[55], nonché dalle famiglie a reddito medio-alto[56].

Come esattamente rilevato in dottrina, con riguardo a queste ultime il regime di separazione consente un’articolazione più flessibile dei rapporti patrimoniali[57], anche al fine di evitare – mediante l’esclusione del regime di comunione – la somma dei benefici che derivano al coniuge superstite dall’applicazione del regime legale e dalla normativa sulle successioni; e ciò soprattutto in considerazione del fatto che, nelle ipotesi di mancanza di figli (statisticamente, tra l’altro, sempre più ricorrenti in Italia), il concorso delle due discipline determina, in ragione della semplice premorienza, uno spostamento di ricchezza da un gruppo familiare all’altro che non trova nel costume sufficiente «giustificazione» o consenso sociale[58]. Non va, inoltre, neppure trascurato che proprio l’esigenza di sottrarre determinati cespiti al regime legale ha favorito il ricorso nella pratica a taluni atti negoziali – estromissione di un bene dalla comunione o rifiuto di coacquisto – che, pur non presentando gli estremi della convenzione matrimoniale, restringono comunque l’oggetto della comunione e ampliano la sfera di applicazione delle norme dettate per la separazione dei beni[59].

Ben presto, peraltro, il processo di disaffezione verso il regime legale è venuto ad interessare tutti gli strati sociali.

Risalgono già ai primissimi anni di applicazione della riforma i numerosi abbandoni del regime legale effettuati, per così dire, «in corso d’opera» dai coniugi che – consapevolmente o meno – avevano scelto la comunione all’atto della celebrazione delle nozze, o si erano comunque trovati sottoposti a tale regime per effetto delle disposizioni transitorie. Pur non esistendo statistiche al riguardo, non potrà non menzionarsi l’impressionante numero di decisioni relative alla questione della necessità o meno di autorizzazione giudiziale per siffatto mutamento di regime: problema, questo, poi risolto – come noto – dalla l. 10.4.1981, n. 142[60].

Ma è sul versante delle nuove coppie che si deve registrare una vera e propria rivoluzione. Una rivoluzione che ha avuto luogo in tutto il Paese, sebbene con velocità assai diverse nelle sue parti. Essa è stata molto più rapida nelle regioni settentrionali che in quelle meridionali, tanto da suscitare negli esperti di sociologia «un senso di stupore e di incredulità »[61]. Chi ha studiato la famiglia sa bene che la sua è in genere una storia di lentissimo svolgimento. Invece qui, dal 1976 al 1991, la quota degli sposi che scelgono la separazione dei beni è passata dall’1% al 40, al 50 o addirittura al 69%. Già nel 1995 risultava che nelle regioni dell’Italia settentrionale, la maggioranza delle nuove coppie preferivano la separazione dei beni; peraltro, in quelle meridionali gli sposi che si comportavano in tal modo non raggiungevano il 30%[62], con il risultato che il dato complessivo a livello nazionale si attestava sul 55% a favore della comunione. Ma la tendenza negativa per il regime legale non ha fatto che accentuarsi negli anni successivi.

Ora, già i dati generali Istat relativi ai matrimoni celebrati in Italia nell’anno 2003[63] suggellavano il definitivo «sorpasso» del regime di separazione dei beni rispetto alla comunione a livello di media nazionale complessiva, che vedeva – con riguardo alle coppie formatesi nell’anno di riferimento – il regime legale scendere al 44.7%, con punte che andavano da un minimo del 24,9% della Valle d’Aosta ad un massimo del 58,2% della Sardegna, rimanendo confermato che la comunione apparivae costituire il regime maggioritario ormai solo nell’Italia meridionale ed insulare, laddove nel Nord-Ovest si attestava al 37,6%, nel Nord-Est al 40,6% e nel Centro al 34%. I dati relativi al 2007 sottolineavano un ulteriore, pesante, calo del regime legale al 38,66% di tutti i matrimoni celebrati in Italia in quell’anno, mostrando che la comunione era ormai divenuta – per quel periodo di riferimento – il regime minoritario in ciascuna delle «macro-regioni» della nostra Penisola, ivi comprese quelle del Sud e delle Isole[64].

L’evoluzione successiva non ha fatto che confermare tale trend[65]. Così, i dati ISTAT relativi al 2016 mostrano che in Italia la scelta delle nuove coppie per il regime di comunione è scesa abbondantemente al di sotto del terzo [66].

A dispetto dell’opzione di politica legislativa compiuta nel 1975, può ben dirsi che il regime di separazione dei beni sia ormai divenuto, da tempo, nei fatti, il regime «normale» delle famiglie italiane, e il fenomeno non può trovare una sua spiegazione se non nella crescente consapevolezza, da parte di vasti strati della popolazione, del serio rischio che corre oggi la famiglia italiana di andare incontro (in molti casi assai presto) ad una crisi, e nel timore di dover venire un giorno a «fare i conti» con i complessi meccanismi giuridici legati allo scioglimento del regime legale. Estremamente significativo al riguardo è il fatto che, come dimostrato dai citati dati statistici, l’incremento delle opzioni per il regime di separazione vada di pari passo, per aree geografiche, con quello dei tassi di «separazionalità » e «divorzialità » del nostro Paese[67] ed è confermato dal raffronto con una realtà come quella della vicina Francia, dove il fenomeno della crisi coniugale è esploso ormai diversi decenni fa ed in cui il regime della séparation de biens è maggioritario da almeno quarant’anni[68].

Anche in Germania si rileva che il regime convenzionale della Gütertrennung «den Vorzug der rechtlichen Klarheit und Einfachheit hat», anche perché essa «vermeidet oft unerfreuliche Auseinandersetzungen beim Scheitern der Ehe und betont die Eigenverantwortlichkeit des Ehegatten»[69], specie quando «ein Ehepartner ein großes Vermögen mit in die Ehe bringt», posto che in tal caso «Der schematisierte erbrechtliche Zugewinnausgleich wäre dann – insbesondere bei kurzer Ehedauer – zu hoch und die güterrechtliche Ausgleichsforderung könnte nach längerer Ehedauer manchen Betrieb in den Konkurs führen»[70]. Tutto ciò, si badi, in un sistema che non ha eretto alcuna forma di contitolarità a regime legale (la Zugewinngemeinschaft, è, come noto, un regime sostanzialmente separatista, «mitigato» da una compartecipazione – a livello puramente obbligatorio – de residuo), e che da tempo ammette la possibilità di predeterminare, sin dal momento della celebrazione delle nozze, le conseguenze di un eventuale divorzio[71]. Allargando ancora ulteriormente il campo dell’indagine si può scoprire che la separazione dei beni è ancora il regime legale in diversi paesi del mondo e d’Europa e segnatamente in molti dei sistemi di Common Law, nei quali peraltro gli sbalorditivi (per lo meno ai nostri occhi) poteri concessi all’autorità giudiziaria in sede di regolamento dei rapporti di dare-avere al momento della crisi coniugale consentono un notevole assouplissement delle asprezze della regola rigidamente separatista[72].

 

 

   5.  Il ruolo dell’art. 159 c.c. nella determinazione dell’autonomia privata dei coniugi in comunione dei beni.

 

L’art. 159 c.c. svolge poi, a livello sistematico, un ruolo decisivo nella determinazione dell’autonomia privata dei coniugi in comunione dei beni. Lasciando ad altra sede la trattazione delle questioni specifiche circa l’ammissibilità del rifiuto del coacquisto ex lege e della derogabilità per via convenzionale delle disposizioni in tema di scioglimento del regime e di rapporti con i creditori, potrà rimarcarsi come non facciano difetto, in Italia, voci, anche autorevoli, che tendono a porre in luce il carattere «vincolato» della comunione[73], evidenziando come, di contro al regime di separazione, in cui i coniugi possono liberamente decidere se acquistare beni separatamente, ovvero congiuntamente, a quote uguali o diseguali, disponendo liberamente di queste ultime, ecc., nel regime ex artt. 177 ss. c.c. «ciascun coniuge perde in parte la sua autonomia». Così l’eguaglianza delle quote e le disposizioni sull’amministrazione non sono derogabili (art. 210, 3° co., c.c.), i beni indicati nelle lett. c)e d) dell’art. 179 c.c. non possono essere messi in comune (art. 210, 2° co., c.c.), ciascuno coniuge non può disporre unilateralmente della sua quota né sull’intero patrimonio comune, né sui singoli beni che ne fanno parte[74].

Eppure, anche di fronte a queste limitazioni, andrà tenuto presente che anche la comunione legale è collocata sotto l’«ombrello» dell’art. 159 c.c. Così, è proprio la prima disposizione in tema di rapporti patrimoniali endofamiliari a chiarire che la legge interviene solo in funzione «suppletiva» rispetto alla volontà (rectius: al difetto di volontà) dei privati, i quali possono optare per un regime diverso: dalla pura e semplice separazione dei beni, alla comunione convenzionale nella forma ‘ampliativa’, ad assetti patrimoniali ‘intermedi’ che, oltre tutto, ben possono esulare dalle categorie elencate dal legislatore e che – pur nel rispetto dei principi generali e speciali inderogabili – ben possono a piacimento delle parti, introdurre modifiche, tanto marginali e superficiali, quanto profonde e stravolgenti[75] del regime legale. L’opzione di politica legislativa di concedere ai coniugi il diritto di scartare ‘a pie’ pari’ il regime comunitario è stata ritenuta così pregnante da far esclamare ad autorevole dottrina che con essa il legislatore avrebbe reso l’autonomia privata vincente su esigenze che sembravano invece doverla sovrastare[76]. La regola appena richiamata, invece che un’incoerenza del sistema – il quale pure meriterebbe una serie di aggiustamenti volti a consentire ai privati di eliminare alcune rigidità che contribuiscono a favorire l’abbandono della comunione[77] – va considerata, proprio per via del più ampio contesto di negozialità endoconiugale in cui, come si è visto, si colloca, il punto di riferimento imprescindibile per ogni considerazione sui rapporti tra comunione legale ed autonomia privata[78].

Sarà poi d’uopo accennare ad un’altra considerazione, di cui non sembra si sia tenuto sufficiente conto. Ci si intende qui riferire al superamento, con la riforma del 1975, del criterio della espressa inderogabilità delle norme in materia di comunione, fissato dal previgente art. 216, 2° co., c.c. Stabiliva, invero, tale articolo – dopo aver precisato al 1° co. che «Gli sposi possono stabilire patti speciali per la comunione; in mancanza di questi patti, si applicano le disposizioni relative alla comunione in generale» – che «In ogni caso si osservano le disposizioni seguenti» (cioè quelle di cui agli artt. da 217 a 230, antesignane degli odierni artt. 177 ss. c.c.). Ora, la dottrina dell’epoca non aveva mancato di cogliere il significato che la regola appena ricordata veniva ad assumere sul profilo dell’inderogabilità delle norme della comunione coniugale[79], la quale pure, non dimentichiamolo, traeva fonte dal contratto e non dalla legge.

Ora, proprio l’abrogazione di quella previsione normativa, unita alla considerazione del criterio generale di cui all’art. 159 c.c., deve indurre ad affermare il carattere generalmente derogabile di tutte le disposizioni di cui agli artt. compresi tra il 177 e il 197 c.c., fermo restando, come più volte già chiarito, il limite delle norme inderogabili del macrosistema civilistico (cfr. art. 1418 c.c.), nonché quelle inderogabili del microsistema giusfamiliare, attinenti vuoi alla parte generale delle convenzioni matrimoniali (artt. 161- 166 bis c.c.), vuoi a quella speciale della convenzione tramite la quale il

regime legale può venire modificato (art. 210, 2° e 3° co., c.c.).

Ciò posto, appare del tutto inspiegabile come la decisione che, nel 2003, ha segnato il risoluto revirement della Corte Suprema sul rifiuto del coacquisto[80], prenda le mosse dal presupposto di un asserito «carattere pubblicistico» della disciplina della comunione legale, legato all’art. 160 c.c. Tesi, questa, clamorosamente smentita proprio dall’art. 159 c.c., che consente ai coniugi di optare, tutto al contrario, addirittura per un regime interamente e rigorosamente separatista[81]. L’opinione, sia detto per incidens, è accostabile a quella di quegli Autori che non sembrano avvedersi dell’intima contraddizione che sussiste nell’avvicinare (correttamente), da un lato, alla materia contrattuale il tema dei rapporti patrimoniali tra coniugi e negare poi, dall’altro, che l’autonomia negoziale possa svolgervi un qualche ruolo[82].

 

 

   6.  Il ruolo dell’art. 159 c.c. nella definizione della nozione di convenzione matrimoniale (e della relativa natura contrattuale).

 

L’art. 159 c.c. in esame assume un importante rilievo sistematico anche in ordine all’accertamento della nozione di convenzione matrimoniale e della relativa natura. Al riguardo va subito constatato che invano si ricercherebbe nel codice una chiara definizione, assente non solo nella legislazione vigente, bensì anche in quelle che l’hanno preceduta (cfr. artt. 159 ss. c.c. 1942; 1378 ss., 1384 c.c. 1865; 1508 ss., 1515 c.c. albertino). Ora, l’art. 159 cit., nello stabilire che il regime patrimoniale legale della famiglia, «in mancanza di diversa convenzione stipulata a norma dell’art. 162», è costituito dalla comunione dei beni, presenta proprio la caratteristica di definire (indirettamente) la convenzione matrimoniale alla stregua di una fonte di regimi patrimoniali diversi da quello legale[83].

Il rilievo non fornisce però ancora una spiegazione esaustiva sulla natura delle convenzioni matrimoniali, né sui rapporti tra tale figura ed il paradigma contrattuale. Invero, la nozione di convenzione richiama immediatamente quella di accordo e questa, vertendosi in materia di rapporti giuridici patrimoniali, quella di contratto (art. 1321 c.c.). Il dibattito dottrinale sulla natura contrattuale delle convenzioni matrimoniali vede senz’altro prevalere la tesi affermativa[84], pur non facendo difetto, nelle posizioni degli Autori, svariate nuances. Così il richiamo – anche sul piano terminologico – al concetto di «convenzione» consentirebbe, secondo taluno, di ravvisare, quale categoria di riferimento, quella di negozi idonei a incidere su valori che «certamente trascendono le dimensioni dell’individuo», pur collocandosi comunque nel più ampio ambito contrattuale. La conseguenza sarebbe dunque data dal fatto che a tali figure si applicherebbero «regole speciali, deroganti alle corrispondenti norme generali, e solo in via sussidiaria a queste ultime»[85].

Sotto un altro profilo, si è sottolineata la differenza che, rispetto al contratto, sarebbe data dal carattere «programmatico» tipico della convenzione[86], carattere che peraltro non contraddistingue necessariamente ogni aspetto dell’istituto[87] e che comunque non appare incompatibile con il paradigma contrattuale[88].

Non vi è dubbio che molte delle perplessità di cui si è dato conto siano state generate dalla terminologia impiegata dal legislatore, anche se, come si è già avuto modo di vedere, all’espressione «convenzione» non si può riferire altro significato se non quello di «accordo su questioni di carattere patrimoniale». Sarà appena il caso di aggiungere che nessun argomento in senso contrario alla tesi qui sostenuta può essere ricavato dalla collocazione della materia in esame, operata dal codice del 1942, in seno al libro primo, in luogo del libro dedicato alle obbligazioni e ai contratti. Come è stato esattamente rimarcato in dottrina, da tale nuova collocazione delle convenzioni matrimoniali – legata al solo fatto che esse «in vista della famiglia (...) vengono a formarsi»[89] – non è derivata una rinnovata configurazione della materia, che viceversa ha continuato a svolgersi secondo la tradizionale impostazione, con poche novità non significative[90]. Ogni dubbio in proposito sembra ora comunque dissipato dal dato normativo proveniente dal recepimento della normativa comunitaria in tema di commercio elettronico: è innegabile, infatti, che l’art. 11 d.lgs. n. 70/2003, stabilendo l’inapplicabilità della relativa regolamentazione ai «contratti disciplinati dal diritto di famiglia», faccia chiara allusione alle convenzioni matrimoniali, oltre che ai contratti della crisi coniugale che, come si avrà modo di vedere, rinvengono il loro fondamento causale in specifiche disposizioni giusfamiliari.

Al riguardo sarà opportuno soffermarsi ancora brevemente sull’affermazione dottrinale secondo cui le convenzioni matrimoniali non costituirebbero «un ‘contratto’ corrispondente alla figura delineata dal Titolo II del libro IV, secondo la definizione dell’articolo 1321 c.c.», poiché il contratto potrebbe produrre soltanto, in alternativa, effetti reali od obbligatori e le relative prestazioni non potrebbero che trovarsi «in rapporto sinallagmatico», mentre gli istituti in esame non sarebbero caratterizzati «né da efficacia obbligatoria, né da efficacia reale»[91].

Non condivisibile appare la premessa, così come ancor meno condivisibili appaiono le conseguenze che se ne vorrebbero trarre. Per ciò che attiene alla prima, basterà ricordare che l’art. 1321 c.c. prevede che il contratto serva non solo a costituire o estinguere, ma anche a «regolare» rapporti giuridici patrimoniali e che «si regola un rapporto non solo quando lo si modifica, ma anche quando lo si accerta, quando si pattuisce un rovesciamento dell’onere di provare i fatti che lo determinano»[92]. Ciò per sottolineare (sebbene non sia certo questa la sede per affrontare ex professo il problema) che la limitazione degli effetti del contratto alla antitesi tra effetti reali ed effetti obbligatori appare quanto meno riduttiva. Altrettanto inaccettabile risulta poi il citato asserto in tema di necessaria sinallagmaticità dei contratti, posto che nessuno dubita che possano esistere contratti anche non sinallagmatici.

Inaccettabili, si diceva, appaiono poi anche le conseguenze della cennata impostazione: vale a dire che le convenzioni matrimoniali non sarebbero contratti, perché inidonee a produrre effetti reali traslativi o obbligatori. Tutto al contrario, tali particolari tipi di contratti sono sicuramente idonei a produrre effetti reali traslativi, tanto differiti (basti pensare al fenomeno del coacquisto automatico ex art. 177, lett. a), disposto da una convenzione costitutiva del regime di comunione legale tra coniugi già in regime di separazione dei beni, oppure di comunione convenzionale relativamente a determinate categorie di beni che sarebbero altrimenti escluse dal regime legale), che immediati (si pensi ad una comunione convenzionale comprensiva dei beni di cui ciascun coniuge è già proprietario). Per non parlare poi di tutte le obbligazioni cui danno vita, a tacer d’altro, le norme in materia di amministrazione dei beni in comunione convenzionale (a cominciare da quella di munirsi del necessario consenso del coniuge per il compimento di atti di amministrazione straordinaria) o in fondo patrimoniale. E che dire, ancora (e sempre per restare a livello di mero esempio), degli ‘obblighi’ dell’usufruttuario espressamente richiamati dall’art. 218 c.c.? S’aggiunga, infine, che nemmeno a voler accettare l’idea (assolutamente non condivisibile) secondo cui le convenzioni matrimoniali non sarebbero idonee a produrre «effetti patrimoniali attuali o immediati»[93], si potrebbe giungere alla conclusione secondo cui ciò costituirebbe «un dato sufficiente per portarle ‘fuori’ dalla configurazione codicistica del contratto»[94]: ché, altrimenti, contratto non potrebbe essere considerato neppure il negozio con contenuto patrimoniale sottoposto a condizione sospensiva o a termine iniziale.

 

 

   7.  Ulteriori profili di negozialità delle convenzioni matrimoniali (in particolare: rappresentanza, impugnabilità, elementi accidentali).

 

La dottrina sottolinea il carattere personalissimo del negozio di convenzione matrimoniale, attesa la sua stretta correlazione con il matrimonio, ciò che dovrebbe impedirne la conclusione a mezzo di rappresentante[95], consentendo, quale unica forma di sostituzione personale, quella del nuncius[96]. La citata natura personale sembrerebbe del resto confermata dall’art. 165 c.c., che concede al minore la capacità di concludere tutte le relative convenzioni matrimoniali nelle forme di assistenza (e non già di rappresentanza) ivi previste. La disposizione potrebbe dunque considerarsi espressione del principio generale secondo cui non è ammessa la stipulazione di negozi di diritto familiare a contenuto patrimoniale senza la partecipazione diretta dei soggetti che devono risentirne gli effetti[97].

Di contro potrebbe però osservarsi che, per il caso di convenzioni da stipularsi in costanza di matrimonio, occorre tenere conto del fatto che la sentenza di interdizione legittima a domandare la separazione giudiziale dei beni (art. 193 c.c.). Non si comprende pertanto per quale motivo dovrebbe pervenirsi a tale risultato unicamente per via contenziosa. Quindi, poiché il procedimento di cognizione ordinario eventualmente instaurato può definirsi anche con la conciliazione delle parti, deve necessariamente riconoscersi al tutore dell’interdetto il potere di accordarsi con l’altro coniuge per instaurare pure in via negoziale – con le autorizzazioni giudiziali debitamente richieste, trattandosi di atto eccedente l’ordinaria amministrazione – il regime di separazione dei beni. A questo punto tuttavia, di fronte al silenzio della legge, che non consente alcuna diversità di trattamento secondo il contenuto della singola convenzione, diviene inevitabile per l’interprete riconoscere al tutore di chi venga interdetto dopo le nozze il potere di stipulare in nome e per conto dello stesso qualsivoglia convenzione matrimoniale[98].

Quanto sopra sembrerebbe suggerire la possibilità  di tracciare una linea di demarcazione tra rappresentanza volontaria e rappresentanza legale, nel senso che il carattere personalissimo delle convenzioni matrimoniali ne escluderebbe la stipulabilità a mezzo di rappresentante volontario, ma non ne impedirebbe la conclusione a mezzo di rappresentante legale. In realtà, una più approfondita valutazione del tema, che valorizzi adeguatamente l’innegabile natura contrattuale dei negozi in discorso[99] deve portare a ritenere che, quanto meno in linea di massima, tanto la rappresentanza legale, che quella volontaria possano ritenersi consentite. E’ chiaro peraltro che, in ogni caso, la procura dovrà essere rivestita della forma pubblica alla presenza di testimoni, in ossequio al principio formale imposto dall’art. 1392 c.c.[100]. Per ciò che attiene agli altri profili negoziali non sembrano sussistere invece ostacoli alla tendenziale applicazione delle disposizioni codicistiche della parte generale del contratto: dalla causa, alla condizione, agli elementi accidentali, all’interpretazione, alle cause di nullità e di annullabilità[101].

Per ciò che attiene, in particolare, alla possibilità di apporre alle convenzioni matrimoniali condizioni sospensive e termini iniziali, la dottrina italiana appare orientata generalmente per la soluzione positiva, anche in considerazione della regola generale, adottata dalla riforma del 1975, della mutabilità delle convenzioni medesime[102]; la medesima dottrina consente inoltre, se la convenzione contiene una liberalità, la previsione di un modo[103], avuto altresì riguardo alla più volte ricordata natura contrattuale delle convezioni in discorso. Sembra però evidente la necessità di accertare, caso per caso, che la prefissione di un termine o di una condizione non venga a porsi in contrasto con principi inderogabili: così non sarebbe possibile la previsione di un termine iniziale o di una condizione sospensiva tali da rendere una convenzione prenuziale efficace prima della celebrazione del matrimonio[104]. Secondo parte della dottrina andrebbe comunque esclusa l’apponibilità di un termine finale e di una condizione risolutiva, in quanto si violerebbe in tal modo la regola della tassatività delle cause di scioglimento delle convenzioni[105]. Ma altro è norma tassativa (con ciò volendosi esprimere un vincolo per l’interprete), altro è norma inderogabile (con ciò volendosi esprimere un vincolo alla libertà negoziale dei paciscenti). E così anche questo ulteriore profilo di contrattualità viene ad inserirsi nel panorama degli elementi che caratterizzano l’autonomia negoziale dei coniugi[106].

 

 

   8.  Convenzioni matrimoniali e contratto di matrimonio. Il concetto di «regime patrimoniale della famiglia».

 

Il legislatore continua ad impiegare, ancorché non nell’art. 159 c.c., l’antica espressione «contratto di matrimonio»: cfr. artt. 166, 774, 1° co., c.c.[107]. La dottrina, già prima della riforma del 1975, si era divisa sull’interpretazione di tale concetto. Oggi sembra pacifica l’idea secondo cui il contratto di matrimonio è lo strumento formale, il documento negoziale che contiene le pattuizioni fatte in occasione o in previsione di un determinato matrimonio, ivi comprese le convenzioni matrimoniali, intese a loro volta come atti diretti a regolare il regime patrimoniale della famiglia, oltre ad altre eventuali stipulazioni contestualmente contratte[108], concezione che, del resto, sembra corrispondere a quella in voga già sotto l’Ancien Régime, come attestato da Pothier, che definiva il contrat de mariage come l’acte qui contient les conventions de mariage[109], conformemente del resto al dettato di alcune coutumes, tra le quali quella d’Orléans, città del celebre giurista francese[110], anche se oggi il termine «convenzione matrimoniale» esprime – come già visto – solo quel negozio che si pone quale fonte di un regime diverso da quello legale[111]. Ma, a ben vedere, lo stretto legame esistente tra le figure della convenzione matrimoniale, da un lato, e dei regimi patrimoniali ‘eccezionali’, dall’altro, non va esente da contraddizioni e perplessità. Se infatti è innegabile che la separazione dei beni trovi la sua origine in una apposita convenzione, va constatato che l’art. 228, 1° co., l. n. 151/1975, ha consentito – in via transitoria – la nascita di tale regime in forza non già di una convenzione, bensì di un atto unilaterale. Discorso per certi versi analogo va compiuto in relazione al fondo patrimoniale, che può costituirsi anche per testamento e rappresenta anche per altre ragioni un regime, per così dire, anomalo, non riguardando categorie generali ed astratte di beni, bensì beni determinati e potendo il medesimo coesistere tanto con il regime comunitario che con quello separatista. D’altro canto (e per converso), si discute sul carattere autonomo del regime costituito in forza di convenzione di comunione ex artt. 210 ss. c.c., che secondo alcuni sarebbe una semplice variante del regime di comunione legale. Per concludere questa rapida carrellata delle ipotesi in contrasto con l’affermazione di fondo che lega la convenzione ai regimi patrimoniali «eccezionali», andrà osservato come lo stesso regime legale possa trovare applicazione anche in forza di convenzione, allorquando una coppia decida di abbandonare il regime di separazione anteriormente prescelto.

Peraltro, con le precisazioni e le limitazioni testé apportate, l’esistenza di un chiaro legame tra i concetti di convenzione matrimoniale e di regime patrimoniale della famiglia appare incontestabile. Proprio tale legame consente di criticare la conclusione secondo cui al concetto di convenzione matrimoniale dovrebbe essere necessariamente estraneo ogni effetto di tipo traslativo[112]: assunto, questo, smentito dall’inscindibile rapporto che il citato art. 159 c.c. pone tra i concetti di convenzione matrimoniale e di regime patrimoniale della famiglia; regime che, in una ricca serie di ipotesi, si può porre quale causa di per sé sufficiente alla creazione di effetti reali traslativi sia differiti [si pensi solo alla regola del coacquisto automatico ex art. 177, lett. a), c.c., implicitamente richiamata dall’art. 210 c.c. per tutti gli acquisti relativi ai beni che i coniugi decidono di inserire in comunione convenzionale], sia attuali [si pensi ad esempio alla convenzione che dia vita ad un regime di comunione convenzionale su beni ex art. 179, lett. a), c.c.]; per non dire poi del fondo patrimoniale, il cui effetto è quello di dar vita, con efficacia immediata e reale, a precisi vincoli di (limitata) indisponibilità (cfr. art. 169 c.c.) e di (limitata) inespropriabilità (cfr. art. 170 c.c.).

Né, in proposito, varrebbe obiettare che il negozio inter vivos costitutivo del fondo patrimoniale non sarebbe una convenzione matrimoniale[113]. Questa tesi, invero, appare chiaramente smentita non solo – se ci si passa l’espressione – dalla ‘topografia’[114] e dalla ‘toponomastica’[115] legislative, ma anche dal fatto che, per i beni sottoposti a tale vincolo, vigono regole (di ‘regime’) difformi rispetto a quelle valevoli per il regime legale: il negozio che a tale regime dà vita è pertanto riconducibile alla definizione che del concetto di convenzione matrimoniale risulta estrapolabile dall’art. 159 c.c.

Il fatto è che occorre intendersi sul concetto di «regime patrimoniale della famiglia»: se per tale si dovesse ritenere esclusivamente la regola che assegna alla proprietà comune o personale dei coniugi i futuri ed eventuali acquisti, è chiaro che la convenzione ex artt. 167 ss. c.c. non apparirebbe idonea all’uopo, posto che il vincolo del fondo non può per definizione costituirsi se non su beni predeterminati. Seguendo dunque il principio secondo cui la convenzione matrimoniale è necessariamente fonte di un regime patrimoniale della famiglia, se ne dovrebbe concludere che tale non potrebbe essere l’accordo diretto a costituire un fondo patrimoniale. Ma la disciplina della comunione legale dimostra che il concetto di «regime» non si esaurisce nella regola del coacquisto; essa si risolve anche in una serie di precetti e di vincoli che vengono ad influenzare la «vita» stessa dei beni nel corso dell’unione matrimoniale: dall’amministrazione all’alienazione, al pignoramento e, più in generale, alle vicende che coinvolgono terzi creditori e/o aventi causa.

E puntuale giunge, anche sul punto, la conferma dall’analisi storica, dalla quale si ricava che l’espressione régime, utilizzata per secoli in Francia per contrapporre il régime en communauté (proprio delle regioni di droit coutumier) a quello dotal (caratteristico delle regioni di droit écrit), e dunque nell’accezione, generalissima, di «regola», dopo la codificazione napoleonica venne intesa dalla dottrina come «l’ensemble des règles qui régissent l’association conjugale quant aux biens»[116]. Regole che, come icasticamente posto in evidenza dalla dottrina contemporanea d’Oltralpe, attengono non solo ad una question de propriété, ma anche ad una question de pouvoirs[117].

Se così stanno le cose, è evidente che anche la convenzione costitutiva del fondo patrimoniale, in quanto diretta a dettare regole speciali di amministrazione, vincoli e ‘vita’ di beni della famiglia, in (parziale) deroga ai principi propri della comunione (o della separazione dei beni), viene a costituire proprio uno di quei possibili negozi in deroga al regime legale che l’art. 159 c.c. raggruppa sotto l’espressione «diversa convenzione»[118].

In considerazione dell’interpretazione restrittiva del concetto di convenzione matrimoniale sopra propugnata, è oggi certa la risposta negativa circa la riconducibilità a tale categoria delle donazioni obnuziali, così come di tutti quegli atti che, sebbene obnuziali, cioè compiuti in contemplazione causale di un determinato matrimonio (come potrebbero essere mandati o contratti sociali), non abbiano per oggetto la scelta di un regime patrimoniale della famiglia, ma si riferiscano all’assegnazione in proprietà, all’uno o all’altro coniuge, o ad entrambi, di specifici beni o rapporti[119]. Lo stesso deve valere per quegli atti con cui i coniugi decidono di immettere nella – o di estromettere dalla – comunione legale singoli beni determinati[120], cui va pertanto negata la natura di convenzione matrimoniale.

Tutti questi negozi tra coniugi, non costituenti convenzioni matrimoniali, ben potranno essere inseriti nel «contratto di matrimonio», modificati e risolti in ogni tempo, secondo le regole proprie dei vari tipi di contratto. A quelli testé citati andranno aggiunte, ovviamente, le donazioni (anche non obnuziali), non più colpite – come noto – dal secolare divieto di liberalità tra coniugi, così come qualsiasi tipo di contratto a titolo gratuito o oneroso. Per quanto riguarda in particolare le liberalità si dovrà poi tenere conto della possibilità che determinate convenzioni possano contenere vere e proprie donazioni indirette. Sempre in tema di contenuto delle convenzioni matrimoniali potranno ancora aggiungersi i patti relativi all’assunzione degli obblighi contributivi, sicuramente ammissibili alla luce del disposto dell’art. 144 c.c.[121], mentre, per ciò che attiene al trust si fa rinvio a quanto verrà detto più oltre nel testo[122].

 

 

   9.  Convenzioni matrimoniali, matrimonio e crisi coniugale.

 

Neppure l’evidente legame che sussiste tra la convenzione matrimoniale ed il matrimonio, inteso sia come atto che come rapporto, appare idoneo a scalfire la natura contrattuale della prima. Per approfondire questo aspetto andrà tenuto presente, in primo luogo, che le convenzioni matrimoniali poggiano sull’evidente presupposizione della celebrazione delle nozze e/o della persistenza del vincolo matrimoniale. Per quanto attiene al primo profilo (rapporti tra convenzioni matrimoniali e matrimonio inteso come negozio giuridico), andrà detto che le convenzioni possono stipularsi sia prima che dopo la celebrazione delle nozze. Le prime (convenzioni prenuziali o ante nuptias) presuppongono pur sempre la contemplazione di un matrimonio determinato, nel senso che debbono essere note, al momento della loro conclusione, le persone dei nubendi: è nulla quindi la convenzione in vista del futuro ed eventuale matrimonio di un infante[123].

Contestabile sembra invece l’affermazione secondo cui la stipula di una convenzione matrimoniale presupporrebbe sempre l’intervenuto scambio della promessa di matrimonio[124].

Se infatti l’analisi storica dimostra che un tempo la menzione dell’intervenuto scambio della reciproca promessa di matrimonio compariva immancabilmente, a mo’ di preambolo, nei contratti di matrimonio (scritte nuziali, capitoli matrimoniali, costituzioni dotali)[125], oggi può forse dirsi, rovesciando l’impostazione precedente, che l’interprete è autorizzato a desumere l’esistenza di una situazione rilevante ex artt. 79 ss. sulla base del fatto che i contraenti si siano rivolti al notaio per la stipula di una convenzione matrimoniale, manifestando così nella maniera più inequivocabile l’esistenza di un reciproco impegno di contrarre le nozze. La conclusione dovrebbe, ovviamente, mutare qualora i contraenti facessero ricorso ad espressioni tali da indurre a ritenere che essi non hanno ancora inteso assumere un impegno al riguardo (neppure ai limitati effetti disciplinati dalle norme in tema di promessa di matrimonio), ma che hanno semplicemente voluto – con una sorta di ‘contratto normativo’, se ci si passa l’espressione – disciplinare il regime patrimoniale di una loro futura eventuale unione coniugale.

L’efficacia della convenzione prenuziale è naturalmente subordinata alla celebrazione delle nozze (arg. ex art. 785 c.c.), che ne viene così a costituire una condicio iuris[126], ma alla quale non può applicarsi il disposto dell’art. 1359 c.c., allorquando uno dei nubendi, senza giusto motivo, rifiuti di ottemperare alla promessa di matrimonio, per il riconoscimento che si deve alla libertà matrimoniale[127].

Prima della riforma del 1975 si riteneva che la validità delle convenzioni fosse collegata strettamente a quella del matrimonio, e si invocava al riguardo l’argomento tratto dall’art. 785 c.c.[128]. Oggi esiste però una regolamentazione speciale nel campo dei regimi patrimoniali della famiglia: gli artt. 191 c.c., in relazione alla comunione legale e 171 c.c., con riguardo al fondo patrimoniale, stabiliscono infatti che l’annullamento del matrimonio determina la cessazione del regime, con efficacia ex nunc[129]. Lo scioglimento del vincolo matrimoniale provoca la perdita d’efficacia delle convenzioni, ad eccezione di quanto stabilito per il fondo patrimoniale dall’art. 171 c.c., in presenza di figli minori. Per quanto attiene alla separazione personale, invece, andrà distinto tra fondo patrimoniale (di cui tale evento non determina lo scioglimento: arg. ex art. 171 c.c.) e comunione convenzionale, cui andrà applicata la regola posta dall’art. 191 c.c.[130]. Anche questo peculiare aspetto denota dunque che le convenzioni matrimoniali vivono, per così dire, una vita per molti aspetti «autonoma» rispetto a quella del rapporto matrimoniale, ciò che contribuisce inevitabilmente ad esaltare la natura contrattuale degli istituti in discorso.

Passando dalla considerazione dei rapporti tra convenzioni ed atto matrimoniale a quella delle relazioni tra convenzioni e rapporto matrimoniale, va detto che la giurisprudenza di legittimità ha delimitato i confini dell’istituto in esame escludendo da tale novero quegli accordi, dall’efficacia tanto reale che obbligatoria, conclusi in occasione di separazione consensuale, negozi configurati come contratti atipici, meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento giuridico, ex art. 1322 c.c., non in contrasto con l’ordine pubblico e caratterizzati da una causa loro propria, ben distinta da quella propria delle convenzioni matrimoniali, le quali postulano «il normale svolgimento della convivenza coniugale» ed hanno «riferimento ad una generalità di beni anche di futura acquisizione» e non l’esigenza di assetto dei rapporti personali e patrimoniali dei coniugi separati[131]. Anche per i giudici pare dunque assodato che i contratti della crisi coniugale[132], ed in particolare i negozi traslativi di diritti tra coniugi in crisi, rimangono estranei alla tipologia delle convenzioni matrimoniali[133], ancorché le rationes decidendi s’incentrino talvolta su di un’esaltazione della contrapposizione tra «fase fisiologica» e «fase patologica» del regime legale[134], talvolta sul carattere «programmatico» delle convenzioni matrimoniali, di contro a quello attributivo del contratto postmatrimoniale.

In realtà, a ben vedere, anche una convenzione matrimoniale può inserirsi in un più ampio accordo teso a disciplinare gli aspetti patrimoniali della crisi coniugale: si pensi, per esempio, al caso in cui una coppia in regime di comunione legale decida di separarsi di fatto prevedendo un certo assetto dei relativi rapporti e optando per il regime di separazione dei beni; oppure si ipotizzi la costituzione di un fondo patrimoniale tra separati nell’interesse di figli economicamente non autosufficienti[135]. D’altro canto, nulla esclude che il contenuto di un accordo postmatrimoniale abbia anche (o, al limite, esclusivamente, sebbene trattisi di ipotesi quasi di scuola) un contenuto programmatico. Si pensi all’ipotesi in cui i coniugi, separandosi, si impegnino – a definitiva regolamentazione dei propri rapporti – a trasferirsi determinati diritti su certi beni che potrebbero diventare di loro proprietà (per esempio: Ti darò la metà degli incassi realizzati dal mio negozio nei prossimi x anni; ti trasferirò la quota del ...% della proprietà degli alloggi che acquisterò nel periodo compreso tra il ... e il ... nella città di ...; ecc.). Ciò che, in definitiva, sembra porre un’insormontabile linea di confine tra convenzioni matrimoniali e contratti della crisi coniugale sembra costituito – come si è già detto – dall’inidoneità di questi ultimi a porsi quale fonte di uno dei regimi patrimoniali della famiglia disciplinati agli artt. 159 ss. c.c.[136].

 

 

   10.        Convenzioni matrimoniali e autonomia negoziale. L’ammissibilità di regimi patrimoniali atipici.

 

Discorrendo della considerazione del rilievo che assume la negozialità nel campo dei rapporti patrimoniali tra i coniugi ci si imbatte inevitabilmente nel problema del carattere tipico o meno dei regimi patrimoniali apprestati dal legislatore, discutendosi al riguardo circa l’esistenza o meno di un numerus clausus di convenzioni e, conseguentemente, di regimi matrimoniali. In proposito si erano già pronunziati variamente gli Autori in epoca anteriore alla riforma del 1975[137], mentre la tesi dell’atipicità era stata accolta dalla giurisprudenza[138]. La dottrina successiva alla riforma ha, innanzitutto, posto in luce come il legislatore del 1975 non abbia accolto la proposta di modifica dell’art. 160 c.c. avanzata dal progetto della sen. Falcucci (art. 36), secondo cui «gli sposi non possono disporre dei diritti loro attribuiti dalla legge all’infuori dei casi previsti dalle norme seguenti»[139] ed abbia anzi respinto un emendamento (proposto dall’on. Morvidi) del seguente tenore letterale: «ogni convenzione matrimoniale diversa da quelle espressamente previste dal presente capo è nulla»[140], anche se non sono mancate voci nel senso della tipicità[141]. Proprio con riguardo all’argomento tratto dai lavori preparatori si è voluto in dottrina proporre un dubbio da parte di chi – giustamente preoccupato della necessità di evitare «indebite trasposizioni di diversi piani concettuali» – si è chiesto se «alla atipicità della fattispecie possa o no corrispondere la atipicità del rapporto a questa relativo»[142]. Ma l’interrogativo, a sommesso avviso dello scrivente, non ha motivo di porsi nel caso di specie, atteso che l’art. 159 c.c. scolpisce nella maniera più chiara – come più volte si è detto – lo strettissimo legame esistente, nel nostro ordinamento, tra convenzioni matrimoniali e regimi patrimoniali[143].

È dunque evidente che l’art. 159 c.c., ponendo uno stretto rapporto tra convenzioni matrimoniali e regimi patrimoniali della famiglia, non stabilisce in alcun modo che le convenzioni debbano essere solo quelle regolate dalla legge. La possibilità di liberamente conformare il contenuto di queste ultime discende inoltre dal fondamentale principio scolpito nell’art. 1322 c.c., applicabile anche alla materia in esame per effetto del già illustrato carattere contrattuale delle convenzioni e, più in generale, dell’appartenenza della materia in esame al campo del diritto privato[144], in cui il principio della autonomia negoziale rappresenta la regola e non già l’eccezione. Ed anzi, proprio il fatto che il legislatore sia intervenuto, nel campo delle convenzioni, dichiarando di volta in volta nullo questo o quel patto (si pensi per esempio al divieto ex art. 166 bis c.c.) consente di desumere a contrariis la regola della generale libertà, quanto al contenuto, delle medesime[145]. Le conclusioni di cui sopra sembrano ricevere del resto conferma anche sul piano di un’indagine estesa ai principi costituzionali, laddove il richiamo all’art. 1322 c.c. trova il proprio riconoscimento nel fondamentale principio di cui all’art. 29 Cost.[146] e sono sicuramente confortate dall’indagine storica[147], così come da quella comparatistica[148].

Sul punto rileva poi anche, per il diritto italiano, l’abrogazione del divieto di donazioni tra coniugi. Come si è rilevato, l’art. 781 c.c. sanciva semplicemente il carattere inderogabile delle regole legali e convenzionali sulle relazioni patrimoniali tra coniugi: la sua abrogazione impedisce oramai di farlo rivivere desumendolo dall’insieme delle norme sul regime patrimoniale della famiglia[149].

Accanto alle convenzioni nominate (fondo patrimoniale, comunione convenzionale, separazione dei beni) ne andranno pertanto ammesse di atipiche, disciplinate dagli accordi tra le parti[150], con il rispetto dei limiti posti dalle norme inderogabili e in particolare di quelli fissati dagli artt. 160, 161, 162, 3° co., 166 bis, 210, 3° co., c.c.[151]. Dal punto di vista pratico, però, andrà ancora detto che la scelta di fondo sembra ridursi all’alternativa tra comunione e separazione; e poiché è difficile ipotizzare una qualche modifica del regime di separazione che non ne alteri irrimediabilmente i connotati, è solo sul regime comunitario che si può esercitare la libertà di scelta dei coniugi[152]. La dottrina ha, invero, giustamente rilevato che, in realtà, i modelli legali finiscono con l’imporsi nella prassi, quasi a prescindere da più o meno esplicite comminatorie di inderogabilità, con conseguente scarso rilievo pratico della questione qui discussa[153].

 

 

   11.        Convenzioni matrimoniali e autonomia negoziale. La progressiva erosione della sfera di applicabilità delle regole in tema di forma delle convenzioni matrimoniali.

 

Una questione che, nel «diritto vivente», sembra assumere un rilievo pratico assai più pregnante di quella appena illustrata, ponendosi nel contempo quale dimostrazione dell’estensione che il principio della libertà contrattuale va assumendo in subiecta materia, concerne la progressiva erosione – sancita, a partire dalla riforma del diritto di famiglia, da svariate pronunzie di legittimità – della sfera di applicabilità delle regole formali previste per le convenzioni matrimoniali dall’art. 162 c.c.[154].

Si potrà qui citare, in primo luogo, il rifiuto di riconoscere natura di convenzione matrimoniale all’accordo con il quale i coniugi in regime legale attribuiscono ad un bene da acquistarsi natura personale a prescindere dalla sussistenza di uno dei requisiti ex art. 179 c.c., ovvero al costante disconoscimento del carattere di convenzione all’intesa diretta a trasferire da un coniuge separando all’altro uno o più cespiti immobiliari o mobiliari[155]. A ciò s’aggiunga ancora, con riguardo ad un precedente non troppo remoto, il caso in cui la Cassazione ha negato che l’accordo intercorso, prima della riforma del diritto di famiglia del 1975, tra coniugi in regime di separazione dei beni, con il quale questi si obbligavano a versare in un unico conto corrente i proventi delle rispettive attività professionali costituisse convenzione matrimoniale da stipularsi con atto pubblico a pena di nullità, ammettendo la prova di tale intesa a mezzo di testimoni[156].

Altro esempio di interpretazione (correttamente) restrittiva del concetto di convenzione matrimoniale, con conseguente esclusione dell’art. 162 c.c. è poi fornito da quelle pronunce che ne hanno (esattamente) negato l’applicabilità alla divisione amichevole operata dai coniugi sul patrimonio già in comunione legale, una volta intervenuta una causa di scioglimento di quest’ultima[157], ovvero all’accordo per scrittura privata con il quale un coniuge, successivamente alla stipula della convenzione di scioglimento del regime legale, rinunziava ad ogni sua pretesa su un’azienda commerciale acquistata nel vigore del regime di comunione e, corrispettivamente, l’altro si obbligava a versargli una somma di denaro[158]. Ancora successivamente la Corte Suprema, ponendosi su questa stessa linea, ha affermato che «Il progetto divisionale di un bene immobile predisposto e voluto dalle parti e dichiarato esecutivo con ordinanza dal giudice istruttore, all’esito di un subprocedimento nel corso di un giudizio di separazione, ha natura di negozio, alla cui validità non osta il fatto che il bene ricada in comunione legale tra i coniugi, essendo rimessi alla discrezionalità e comune volontà di questi gli atti dispositivi sui beni in comunione e l’esistenza della comunione stessa; tale atto divisionale, che non presuppone la stipula di una convenzione matrimoniale, costituisce titolo per la trascrizione, unico requisito previsto essendo la forma scritta ai sensi dell’art. 1350 n. 11 c.c.»[159]. Il risultato pratico di questo filone giurisprudenziale consiste – come sarà apparso evidente – nella esclusione della necessità del rispetto della forma dell’atto pubblico notarile, richiesta per le convenzioni matrimoniali[160]. Ne consegue, in pratica, un ulteriore ampliamento della libertà negoziale sotto lo specifico profilo, questa volta, della libertà delle forme. Sarà appena il caso di aggiungere in chiusura di tale argomento, che la cennata progressiva erosione della sfera di applicabilità delle regole in tema di forma sembra ricevere conferma dallo stesso legislatore. L’art. 30, l. n. 218/1995, invero, stabilendo, in deroga al principio generale secondo cui «I rapporti patrimoniali tra coniugi sono regolati dalla legge applicabile ai loro rapporti personali», che «I coniugi possono tuttavia convenire per iscritto che i loro rapporti patrimoniali sono regolati dalla legge dello Stato di cui almeno uno di essi è cittadino o nel quale almeno uno di essi risiede» è venuto infatti a prevedere un pactum de lege utenda svincolato dal rispetto della forma notarile[161].

 

 

   12.        Il problema del trust familiare. Il dibattito sull’ammissibilità di un trust «interno».

 

Non è certo questa la sede per affrontare i persistenti, seri, dubbi circa l’ammissibilità nel nostro ordinamento della creazione di un trust c.d. interno, sulla base della Convenzione internazionale dell’Aja del 1985[162], ratificata dall’Italia con l. 16.10.1989, n. 364 (entrata in vigore l’1.1.1992)[163]. Sono note, del resto, le questioni poste dai rapporti dell’istituto in esame con il disposto dell’art. 2740 c.c., con il principio del numerus clausus dei diritti reali, con quello della tassatività delle ipotesi in cui è consentito creare enti dotati di autonomia patrimoniale, con quello della tassatività delle fattispecie soggette a trascrizione, o al profilo di un’eventuale antiteticità rispetto all’art. 2744 c.c., in relazione alla possibilità di costituire, tramite trust, nuovi meccanismi di garanzia, alla potenziale frizione con i principi del nostro sistema successorio, pur nell’àmbito delle clausole c.d. di salvaguardia di cui agli artt. 15 ss. della Convenzione: si pensi, in particolare, al divieto dei patti successori[164] e di sostituzione fedecommissaria[165], all’inapponibilità di pesi e condizioni sulla legittima e, più in generale, alle norme a tutela della successione necessaria[166]. Questi temi hanno scatenato, come ampiamente risaputo, furibondi dibattiti dottrinali, sui quali – attesa anche la sconfinata quantità di contributi al riguardo[167] – non è possibile qui soffermarsi[168]. Basti solo dire, che, a ben vedere, la vera difficoltà sembra essere quella di estrapolare da norme tipicamente di conflitto, quali quelle di cui alla citata convenzione dell’Aja, una regola di diritto interno, applicabile ai casi in cui non siano prospettabili collisioni tra diversi ordinamenti[169]. In proposito sarà sufficiente ricordare, a conferma dei dubbi sull’accettabilità della tesi che asserisce la validità dei trusts ‘interni’, che proprio quei lavori preparatori della Convenzione cui i fautori di tale opinione fanno richiamo[170] contengono, in realtà, il chiaro riferimento al potere del giudice di dichiarare la nullità di un trust «parce qu’il estime qu’il s’agit d’une situation interne»[171]. Per giunta, proprio tali lavori preparatori rendono evidente come l’intenzione dei redattori non sia mai stata quella di apprestare norme di diritto materiale uniforme per paesi che, come il nostro, non conoscevano l’istituto del trust[172].

A ciò s’aggiunga che nemmeno l’argomento[173] fondato sulla disparità di trattamento ingenerata dalla soluzione che non ammette il trust ‘interno’ rispetto alle situazioni caratterizzate da un obiettivo elemento di estraneità (nelle quali non vi è dubbio che la validità del trust debba essere riconosciuta) appare del tutto convincente. Sembra infatti a chi scrive che scopo delle norme di diritto internazionale privato sia (e si perdoni l’apparente paradosso) proprio quello di ‘creare’ disparità di trattamento, al fine di adattare la soluzione alle peculiarità di una fattispecie obiettivamente caratterizzata da elementi di estraneità e dunque concretamente diversa da quella in cui tali elementi di estraneità sono assenti. In altre parole, è proprio l’eventuale presenza di elementi di estraneità ‘oggettivi’ (e dunque distinti dal mero capriccio delle parti) ad imporre (ai sensi del 28, anziché del 1° co., dell’art. 3 cost.) un trattamento differenziato di situazioni obiettivamente diversificate. D’altro canto, sarà sufficiente riflettere sul fatto che l’argomento fondato sulla disparità di trattamento, ove spinto alle sue estreme conseguenze, porterebbe puramente e semplicemente all’inaccettabile risultato di una declaratoria di incostituzionalità di tutte le norme di diritto internazionale privato[174].

Ciò premesso, va dato comunque atto della circostanza che il ‘diritto vivente’ si sta comunque orientando verso un uso sempre più diffuso nel trust pure nell’ambito familiare[175], anche sulla scorta di talune pregevoli opere di orientamento delle prassi notarili verso la redazione di clausole che, pur se tratte da esperienze straniere, appaiano rispettose dell’«ambiente» normativo nel quale vengono trapiantate[176]. Ulteriori argomenti in favore della validità del trust interno sono stati portati dalla riforma del 2016 sul c.d. «dopo di noi» (l. 22.6.2016, n. 112), anche se tale normativa, curiosamente, pur dando per scontato che il trust sia, di per sé, ammissibile (ciò che, ovviamente, nessuno pone in contestazione), non sembra prendere posizione sul tema specifico del trust interno, ben guardandosi, oltre tutto, dal dettare principi idonei a consentire un’armonizzazione delle regole derivanti dall’applicazione del richiamato diritto straniero con quelle con esse difficilmente compatibili dettate dal diritto interno.

Certamente, nel senso della validità del trust interno vanno orientandosi, larga parte della dottrina e della giurisprudenza più recenti[177], sebbene proprio in talune delle decisioni di merito più vicine nel tempo deve registrarsi una vera e propria «ribellione» alla tesi che ormai va per la maggiore. Siffatta resistenza ha suscitato, nei fautori della tesi della validità, reazioni e toni di asprezza paragonabile solo a quella che era propria dei sostenitori della tesi contraria, allorquando l’idea del «trust tricolore» era vista come una stravaganza[178]. Inutile dire che la Cassazione, a ben vedere, non è si mai espressa funditus sul tema, dando invece per scontato la validità di siffatto tipo di trust, ma senza rispondere mai al fondamentale interrogativo sul perché mai una convenzione di diritto internazionale privato dovrebbe essere letta alla stregua di una convenzione di diritto materiale uniforme.

Così pure l’attenzione con cui la legislazione fiscale ha guardato al fenomeno (da ultimo cfr. le disposizioni di cui alla l. 22 giugno 2016, n. 112) non fornisce ancora base sufficiente all’ammissibilità civilistica dell’istituto. Lo stesso è a dirsi per il contratto c.d. di affidamento fiduciario, rispetto al quale, addirittura, nessuna norma del vigente ordinamento prevede l’effetto segregativo del patrimonio: effetto che, alla luce del disposto dell’art. 2740 c.c., solo un atto avente forza di legge (certo non l’autonomia contrattuale) può prevedere[179].

In ogni caso, è chiaro che le disposizioni della Convenzione trovano sicura applicazione da noi in relazione alle fattispecie di trusts caratterizzati dall’effettiva presenza di un elemento di estraneità; situazioni, queste ultime, di cui la giurisprudenza ha già avuto modo di occuparsi[180].

Siffatto innesto non è peraltro senza conseguenze, avuto riguardo alla necessità, espressa dallo stesso art. 15 della Convenzione, di rispettare le norme inderogabili dell’ordinamento designato dalle regole di conflitto del foro, con la conseguenza che, in tutte le situazioni ‘interne’, in cui la legge italiana appare applicabile ai sensi dell’art. 30, l. 31.5.1995, n. 218, il trust familiare dovrà comunque rispettare il disposto degli artt. da 160 a 166 bis

c.c., oltre, proprio in materia di comunione, all’art. 210, 3° co., c.c., in cui il legislatore menziona espressamente il carattere inderogabile di determinate disposizioni in materia di regime legale.

 

 

   13.        Alcune specifiche questioni relative al trust familiare. Trust, vincolo ex art. 2645 ter c.c. e convenzione matrimoniale.

 

Rinviando ad altre sedi per la trattazione dei profili generali sopra indicati[181], va detto che, nello specifico settore dei rapporti personali e patrimoniali tra coniugi (e con la prole), l’art. 15 della citata Convenzione stabilisce che «La Convention ne fait pas obstacle à l’application des dispositions de la loi désigné e par les règles de conflit du for lorsqu’il ne peut être dérogé à ces dispositions par une manifestation de volonté, notamment dans les matières suivantes: a) la protection des mineurs et des incapables; b) les effets personnels et patrimoniaux du mariage». Ai sensi di questa disposizione, la legge del trust cede non alla legge del foro (protetta dagli artt. 16 e 18), ma alle disposizioni della legge, straniera o meno, indicata dalle regole di conflitto del foro. Orbene, nel caso di specie, le regole di conflitto italiane, in materia di rapporti patrimoniali tra coniugi, designano in primo luogo, quale legge applicabile, quella «nazionale comune» (cfr. art. 30, l. 31.5.1995, n. 218, che rinvia in parte qua all’art. 29), ponendo poi una complessa serie di regole destinate ad entrare in vigore in presenza di un elemento di estraneità.

Partendo dunque dal presupposto che la coppia coniugata sia composta da due cittadini italiani, è alle norme imperative dettate dal codice civile italiano in tema di rapporti patrimoniali tra coniugi che andrà fatto riferimento. Al riguardo il nostro ordinamento prevede limiti all’autonomia negoziale nelle disposizioni di carattere generale contenute agli artt. 160, 161, 162 e 166 bis c.c. A tali ostacoli vanno ancora aggiunti quelli stabiliti in relazione a ciascuno dei tipi di convenzione: il caso più evidente è quello contemplato dall’art. 210, 3° co., c.c., in cui il legislatore menziona espressamente il carattere inderogabile di determinate disposizioni in materia di comunione legale.

Tra i limiti in esame all’autonomia negoziale dei coniugi occorre menzionare in primo luogo quello che pone il divieto di costituzione, sotto ogni forma, di beni in dote (art. 166 bis c.c.), con riguardo al quale la dottrina concorda nell’affermare che la regola in oggetto pone uno specifico limite all’autonomia negoziale dei coniugi in sede di pattuizione delle convenzioni matrimoniali diretto ad impedire, attraverso il collegamento con gli artt. 1344 e 1418 c.c., che l’effetto proprio della dote venga realizzato attraverso un contratto in frode alla legge.

Una volta definita la dote come quella convenzione che attribuisce ad un coniuge – indipendentemente dal fatto che sia il marito o la moglie – una posizione di supremazia rispetto all’altro, conferendogli il potere di amministrare e gestire beni nei confronti dei quali egli non vanti alcun diritto reale, appare piuttosto evidente come, mercé la stipula di un trust, si potrebbe dar luogo ad apporti patrimoniali di provenienza di un coniuge (o della sua famiglia), nella veste di costituente, in favore dell’altro (nella veste di trustee), con conferimento di potere di amministrazione esclusivo in capo a quest’ultimo, con vincolo di utilizzo e destinazione ad onera matrimonii ferenda, con divieto di alienazione dei cespiti ‘segregati’ ed obbligo di restituzione per il caso di separazione legale o scioglimento del vincolo matrimoniale. In questa fattispecie appare difficilmente contestabile l’operatività, anche in relazione ad un ipotetico trust ‘interno’, della norma codicistica citata, proprio per effetto del rinvio di cui all’art. 15, lett. b), della Convenzione dell’Aja alle disposizioni inderogabili relative agli «effets personnels et patrimoniaux du mariage», disposizioni inderogabili, tra le quali dovrebbe sicuramente rientrare anche l’art. 166 bis c.c. nel caso in cui, come si è detto, entrambi i coniugi siano cittadini italiani, ovvero ogniqualvolta, per effetto dell’art. 30, l. n. 218/ 1995, debba applicarsi la legge italiana.

Trattando di altri possibili limiti va detto che, ad es., il principio posto dall’art. 160 c.c. vale a rendere inderogabili i doveri di contribuzione ex art. 143, 3° co., c.c. e di mantenimento dei figli, ex artt. 147, 148 c.c. D’altro canto non vi è dubbio che, nelle ipotesi e nei limiti in cui si ammetta la costituzione in Italia di un trust, quest’ultimo ben potrebbe essere impiegato per adempiere ai doveri testé citati. Nel caso di applicabilità del diritto italiano per effetto del disposto dell’art. 30, l. n. 218/1995, dovrebbero però ritenersi nulle tutte le clausole che dovessero eventualmente derogare ai criteri di proporzionalità («in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo») scolpiti negli articoli del codice cui si è fatto riferimento. Per ciò che attiene all’art. 161 c.c. va anticipato che, come si vedrà, l’art. 161 c.c. vieta una mera relatio a norme straniere o consuetudinarie, ma non impedisce che le parti si limitino a tradurre dalla lingua straniera la regolamentazione di un certo istituto e ad inserirla tale e quale nelle loro pattuizioni. D’altro canto il principio deve essere coordinato con il disposto dell’art. 30, l. 31.5.1995, n. 218: ne consegue che, in presenza di uno o più degli elementi di estraneità di cui alla citata norma, la possibilità ivi concessa di concludere un pactum de lege utenda verrà a consentire ai coniugi di effettuare nelle convenzioni matrimoniali richiami, eventualmente anche solo per relationem, al sistema di un paese straniero, con la naturale conseguenza che l’art. 161 c.c. trova oggi applicazione solo quando i rapporti patrimoniali tra coniugi sono sottoposti alla legge italiana.

La constatazione sembra così confortare ulteriormente la conclusione secondo cui il rinvio ad una legge straniera che conosce i trusts è ammissibile solo in presenza di un oggettivo elemento di estraneità. In ogni caso andrà aggiunto che, anche volendo ammettere in generale la possibilità di costituire trusts ‘interni’, nella specifica ipotesi di costituzione tra coniugi cittadini italiani, ovvero nel caso in cui comunque le regole di conflitto dovessero ‘puntare’ verso la legge italiana, occorrerebbe (per evitare di incorrere negli strali dell’art. 161 c.c.) quanto meno riportare per esteso nell’atto costitutivo del trust le disposizioni della legge straniera richiamata.

Venendo ora a dire dei limiti ex artt. 162-166 c.c. all’autonomia negoziale dei coniugi, potrà dirsi che, esclusi i trusts costituiti in relazione alla crisi coniugale ed i c.d. trusts ‘autodichiarati’ (cioè costituiti sulla base di una unilaterale dichiarazione del costituente), sembra possibile riconoscere nel trust gli estremi di una convenzione matrimoniale, come tale sottoposta alle inderogabili norme di cui agli artt. 162 ss. c.c., allorquando esso venga a costituire un vero e proprio regime patrimoniale della famiglia.

È noto infatti che[182] la libertà negoziale dei coniugi può spingersi a creare regimi patrimoniali atipici. Ora, se è vero che per regime patrimoniale deve intendersi non solo l’insieme delle regole che precostituiscono la sorte di una serie indeterminata d’acquisti (determinabili unicamente ex post), compiuti dai coniugi, bensì anche l’insieme di quelle regole che precostituiscono (e qui il fondo patrimoniale docet) l’eventuale separazione patrimoniale di una certa massa determinata di beni apportati ad onera matrimonii ferenda, oltre che le norme per la loro amministrazione ed alienazione, si può agevolmente comprendere come anche il trust, ancorché avente ad oggetto una massa determinata di beni, possa ricadere in tale categoria. In conclusione sul punto dovrà dunque dirsi che, nell’ipotesi appena delineata (di «segregazione», cioè, di beni di uno o dell’altro dei coniugi, destinati a sostenere gli oneri del matrimonio e ad essere amministrati dal trustee secondo regole predeterminate dal settlor nell’interesse della famiglia), l’atto costitutivo del trust andrà considerato alla stregua di una convenzione matrimoniale, con tutto ciò che ne consegue in tema di forma, pubblicità, simulazione, capacità e quant’altro disposto dagli artt. da 162 a 166 c.c. Analoghe conclusioni possono svilupparsi relativamente al vincolo di destinazione ex art. 2645 ter c.c.[183].

 

 

14.       Le convenzioni matrimoniali nel quadro generale dei rapporti patrimoniali tra civilmente uniti. La tecnica normativa adottata dalla novella del 2016.

 

Anche per il settore specifico dei rapporti patrimoniali dei soggetti civilmente uniti valgono, in linea di massima, le osservazioni svolte in generale dalla dottrina sui d.d.l. che hanno preceduto la l. 20.5.2016, n. 76. Al riguardo, svariati Autori[184] hanno rimarcato che l’Italia, con queste disposizioni, si è venuta ad avvicinare ai molti altri Paesi firmatari della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (e non solo quelli), che hanno dato riconoscimento giuridico alle unioni affettive same-sex e, più in generale, apprestato tutela alle convivenze etero- od omosessuali non matrimoniali[185]. Si è tentato così di colmare il vuoto di tutela segnalato, tra l’altro, dalla Corte di Strasburgo, che aveva stigmatizzato l’inerzia dell’Italia, evidenziando il mancato assolvimento, in violazione dell’art. 8 CEDU sul diritto al rispetto della vita privata e familiare, dell’obbligo positivo di assicurare alle coppie omosessuali riconoscimento e protezione con l’emanazione di una normativa ad hoc[186]. Si è voluto altresì dar seguito alle esortazioni della Consulta (formulate ormai nel giugno 2014) di provvedere con «la massima sollecitudine» a dare forma giuridica alle unioni, originariamente matrimoniali e divenute same-sex a seguito del mutamento di genere di uno dei coniugi, in presenza della volontà dei partner di mantenere in vita il rapporto di coppia[187].

È noto peraltro che gli svariati interventi sul testo inizialmente presentato al Senato e, soprattutto, il maxiemendamento governativo del febbraio 2016 hanno finito con lo stravolgere l’impianto originario della riforma[188]. Gli autori di tali interventi non sembrano peraltro essersi avveduti del fatto che proprio le discriminazioni così introdotte rispetto al matrimonio determineranno, prima o poi, ricadute inattese sui rapporti tra coniugi: dalla maggiore libertà nella scelta del cognome, all’esclusione dell’obbligo di fedeltà, all’ulteriore semplificazione delle procedure divorzili, all’esclusione della necessità  della separazione legale quale presupposto per il divorzio, alle prospettive di una diversa regolamentazione dell’adozione e della procreazione medicalmente assistita, etc.[189].

Purtroppo, tanto la regolamentazione dei rapporti tra le persone che abbiano siglato un’unione civile, così come la normativa che disciplina le relazioni tra i «conviventi di fatto»[190], manifestano smagliature e criticità molto gravi, in merito sia alla formulazione tecnica di quasi tutte le previsioni, sia al difetto di coordinamento con norme già esistenti, senza parlare di una certa sciatteria[191] nel linguaggio giuridico[192].       

Quanto alla soluzione normativa concretamente adottata dalla novella del 2016, va detto che i rapporti patrimoniali delle unioni civili riposano in gran parte sul sistema del rinvio puro e semplice operato dalla riforma alle disposizioni codicistiche in tema di rapporti patrimoniali dell’unione coniugale[193]. Sul punto è pure stato rilevato in dottrina che l’unione civile è stata costruita proprio sulla falsariga dell’atto matrimoniale e dei contenuti del relativo rapporto, attraverso la predisposizione di regole che, di fatto, riproducono, salva qualche variante, indiscutibilmente anche assai significativa, il contenuto di buona parte delle disposizioni codicistiche dedicate al matrimonio[194].

Tale rinvio non si esplica però alla stessa maniera in relazione a tutte le norme che governano questo tipo di relazioni tra i coniugi. Per comprendere appieno queste differenze occorre partire dall’esame del tenore letterale dei commi da 13 a 20 dell’art. 1 della novella.

Come appare evidente, il co. 20 estende il rinvio alle disposizioni in materia, eventualmente contenute in norme diverse da quelle citate nei commi precedenti, che si riferiscano al matrimonio o che contengano le parole «coniuge», «coniugi» o «termini equivalenti» (dunque, verosimilmente: «marito», «moglie», «sposi» etc.). Norme, si badi, contenute non solo nelle leggi speciali, ma anche in codici diversi da quello civile, naturalmente anche al di fuori del campo dei rapporti patrimoniali (si pensi, ad es., a quegli articoli che nel codice penale o nel codice di procedura penale che trattano del coniuge, quale soggetto attivo o passivo di reati propri, o, ancora, quale titolare del diritto di astenersi dalla testimonianza ecc.). Invero, il co. cit. – come emerge dal relativo tenore letterale – è volto ad «assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile tra persone dello stesso sesso»[195].

Per ciò che attiene, invece, al codice civile, provvede la parte finale del citato co. 20 a stabilire che il rinvio di cui alla prima parte dello stesso comma, per l’appunto, «non si applica alle norme del codice civile non richiamate espressamente nella presente legge, nonché alle disposizioni di cui alla legge 4 maggio 1983, n. 184». Mentre, dunque, nella prima versione del c.d. «testo Cirinnà», la riferibilità delle norme matrimoniali ai soggetti civilmente uniti si poneva come il frutto di un’agevole, pressoché integrale, trasposizione, la soluzione adottata in via definitiva, già introdotta dalla seconda versione del c.d. «testo Cirinnà» e fatta propria poi dal «maxiemendamento» presentato al Senato il 26 febbraio 2016, risulta, invece, fondata sulla summa divisio tra norme del codice civile (e della legge del 1983 sull’adozione), da un lato, e norme di tutte le altre leggi (ma anche dei regolamenti, degli atti amministrativi e dei contratti collettivi), dall’altro[196]; naturalmente, a questa seconda categoria appartengono anche le disposizioni di tutti i codici diversi da quello civile[197].

La via così prescelta, dettata, evidentemente, dal timore di avvicinare « troppo » l’unione civile al matrimonio, suscita perplessità in ordine a possibili dubbi di costituzionalità in ordine a lacune di un certo peso. Lacune che – per quanto attiene agli istituti disciplinati dal codice civile – non appaiono certo colmabili con il ricorso all’analogia, posto che la ricordata disposizione di cui al co. 20 rende evidente il carattere eccezionale e tassativo dei richiami a determinati articoli, sezioni, capi e titoli del codice civile, contenuti nei commi precedenti (ma anche seguenti: si pensi ad es. a quanto previsto dall’immediatamente successivo 21° co.)[198]. Come chiarito in altra sede alla luce di qualche esempio concreto[199], la citata tassatività non riguarda però tutte le norme del codice civile astrattamente applicabili alle unioni civili. Essa, invero, sembra riferibile a quelle sole disposizioni (del codice civile) che hanno quale campo d’azione diretto il matrimonio o comunque i rapporti tra i coniugi, come reso evidente dall’inciso di apertura del co. 20 cit., che si riferisce alle «disposizioni che si riferiscono al matrimonio e [al]le disposizioni contenenti le parole “coniuge”, “coniugi” o termini equivalenti».

 

 

15.       Le disposizioni codicistiche in tema di convenzioni matrimoniali escluse dal rinvio e quelle espressamente richiamate in tema di unione civile.

 

Il 13° co. dell’art. 1 della riforma del 2016 opera un rinvio esplicito alle «sezioni II, III, IV, V e VI del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile», vale a dire agli articoli compresi tra il 167 e il 230 bis c.c. Per ciò che attiene, invece, alla sezione I, cioè agli articoli compresi tra il 159 ed il 166 bis c.c., relativi alla parte generale delle convenzioni matrimoniali, la tecnica adottata è triplice: alcune disposizioni sono espressamente richiamate, altre sono trasfuse in un testo dal contenuto analogo, altre, infine non vengono richiamate (e la loro richiamabilità, per le ragioni già esposte, va considerata tassativamente esclusa). In particolare, gli articoli non espressamente richiamati sono i seguenti: 159, 160, 161, 165 e 166 bis c.c., come è dato agevolmente arguire da una lettura a contrariis del co. 13°. Sono, questi, gli articoli la cui espunzione spiega il perché del mancato rinvio del citato comma all’intera sezione I del capo VI del titolo VI del libro I, laddove tutte le altre sezioni del predetto capo VI sono, per l’appunto, espressamente richiamate «in blocco».

Non appare chiaro perché, nell’iter che ha condotto dal «secondo testo Cirinnà» al testo concretamente approvato dal Parlamento, si sia passati dall’esclusione dei soli artt. 161 e 165 all’esclusione anche degli altri tre articoli. L’unica spiegazione plausibile ha a che vedere con il tentativo – operato per soddisfare le sempre più pressanti richieste di una parte della maggioranza governativa – di pervenire ad una più evidente «dematrimonializzazione» della riforma[200]. Va peraltro subito chiarito che, dei cinque articoli sopra menzionati, solo tre vanno considerati come del tutto esclusi (cfr. gli artt. 161, 165 e 166 bis c.c.), laddove il testo dei rimanenti due (artt. 159 e 160 c.c.) è stato trasfuso nel 13° co. citato. Vengono invece espressamente richiamati gli artt. 162, 163, 164 e 166 c.c., per un dettagliato commento ai quali (impossibile nella presente sede), in relazione alla loro trasposizione all’unione civile, si fa rinvio ad altri lavori[201].

 

 

16.       L’art. 159 c.c. nel sistema dei rapporti patrimoniali dell’unione civile.

 

L’art. 159 c.c., come detto, risulta sostanzialmente trasfuso nella prima parte del 13° co. cit. («Il regime patrimoniale dell’unione civile tra persone dello stesso sesso, in mancanza di diversa convenzione patrimoniale, è costituito dalla comunione dei beni»), laddove l’art. 160 c.c. fa ora capolino nel contesto del terzo periodo del citato capoverso («Le parti non possono derogare né ai diritti né ai doveri previsti dalla legge per effetto dell’unione civile»). La ragione (tutta «politica») di tale modus operandi va ricercata nell’intento di sostituire l’espressione «convenzione matrimoniale» con quella «convenzione patrimoniale». Operazione testuale, questa, in altra sede qualificata alla stregua di una sorta di «prestidigitazione linguistica», quasi evocante il gioco della sciarada[202], sebbene lo scopo risulti solo in minima parte raggiunto, atteso che gli artt. 162, 163 e 164 c.c., espressamente richiamati, contengono (talora addirittura nella rubrica) la terminologia incriminata, mentre l’art. 166 c.c. racchiude niente di meno che la «perla» ottocentesca del «contratto di matrimonio»[203].

Esclusi tali rilievi, nonché quelli presentati nei §§ precedenti, va detto che i rapporti patrimoniali dei soggetti dell’unione civile appaiono sicuramente ricalcare, in gran parte, quelli dei coniugi. Ciò vale, in primis, per quell’istituto (rectius: complesso di istituti) che si individua con l’espressione sintetica «regime patrimoniale della famiglia» e che forma oggetto del capo VI del titolo VI del libro I del codice civile. In base alla fondamentale regola scolpita nell’art. 159 c.c., non richiamata, come detto, ma riprodotta con gli «opportuni» adattamenti e sterilizzazioni (patrimoniale, anziché matrimoniale) nel contesto del co. 13°, anche nei confronti della coppia omosessuale, civilmente unita, che non abbia operato una scelta di tipo diverso, troverà applicazione il regime della comunione legale dei beni, che pertanto diviene anche in questo caso il regime patrimoniale legale operante ex lege, in mancanza di diversa convenzione matrimoniale (o patrimoniale, che dir si voglia) tra le parti.

Ovviamente, scopo della norma non è certo quello[204] di operare «una imprevista (e forse non meritata) “rivitalizzazione”» del regime patrimoniale legale della famiglia introdotto nel 1975, bensì quello di realizzare (nei limiti, peraltro, criticabilissimi, introdotti dalla politica italica) una ormai doverosa (e, in caso contrario, incostituzionale) equiparazione delle coppie omosessuali a quelle eterosessuali.

La questione della revisione generale del sistema dei regimi patrimoniali è altro paio di maniche. Essa s’impone, senza dubbio, ormai da tempo, ma, almeno sul punto, il messaggio normativo appare chiaro: qualunque riforma non potrà essere immaginata, se non in maniera uniforme tra matrimonio ed unione civile. L’espresso richiamo all’art. 162 c.c. consente di affermare che la coppia potrà optare per il regime di separazione nella stessa «dichiarazione di fronte all’ufficiale di stato civile», resa «alla presenza di due testimoni» (ex art. 1, 2° co., della novella sulle unioni civili), che dovrà ritenersi costituire (anche se l’uso della parola è stato evitato per evidenti ragioni «politiche») l’equivalente di quell’«atto di celebrazione» in cui, dal Concilio di Trento e dall’Ordonnance de Blois, si sostanzia il matrimonio; atto cui fa, appunto, rinvio l’art. 162 cpv. c.c.[205].

La trasposizione della regola scolpita nell’art. 159 c.c. nel campo dei rapporti patrimoniali dell’unione civile consente di riferire a tale istituto anche la – in altra sede ricordata[206] – regola processuale relativa all’onere probatorio, secondo cui, in ogni controversia in cui sia rilevante accertare se una data coppia si trovi o meno in regime di comunione, l’esistenza di un regime difforme da quello legale va dimostrata da chi lo invoca. 

Per quanto attiene ai tradizionali regimi patrimoniali della famiglia coniugale ed alle relative convenzioni matrimoniali, non vi sono, dunque, altre particolarità da segnalare rispetto a quelle già individuate, se non il curioso effetto «terminologico» per cui, in un istituto che si è voluto (per le sin troppo note ragioni) tenere separato dal matrimonio, trovano perfetta applicazione tutte le principali disposizioni in materia di convenzioni matrimoniali. «Matrimoniali», per l’appunto (e non «convenzioni d’unione civile» o simili), posto che qui il legislatore non ha disposto un mutamento di terminologia, come è avvenuto, ad es., nel campo della filiazione, ove si sono espressamente voluti cancellare i termini «potestà», «figlio legittimo», «figlio naturale», «figlio adulterino», «figlio legittimato» con un’apposita disposizione omnibus (cfr. art. 105, d.lgs. 28.12.2013, n. 154 «Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219», in vigore dal 7 febbraio 2014).

Come appena detto, infatti, il tentativo di «dematrimonializzazione», anche linguistica, mercé il cambio di un’iniziale («p» anziché «m»), non appare pienamente riuscito. Dunque i soggetti dell’unione civile, pur non potendo unirsi in matrimonio, perché omosessuali, potranno stipulare tra di loro convenzioni matrimoniali[207].

Quanto sopra vale anche per le disposizioni in tema di impresa familiare, estese in blocco all’unione civile dal citato 13° co., mercé l’espresso rinvio al capo VI del titolo VI del libro primo. Dal punto di vista della tecnica legislativa non si è, invece, ritenuto di inserire il soggetto dell’unione civile nel testo dell’art. 230 bis c.c., confermandosi così, ancora una volta, una scelta «politica» di non introdurre nel testo del codice le nuove disposizioni, quasi che si temesse di «contaminarlo» con la presente materia[208].

Fermo quanto sopra, è chiaro che tutta l’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale in tema di regimi patrimoniali e convenzioni matrimoniali sarà trasponibile alla materia qui in esame. Così, ad esempio, anche per i civilmente uniti dovrà considerarsi valevole il principio di atipicità delle convenzioni e dei regimi, con la conseguenza che pure a siffatte nuove situazioni dovranno applicarsi regole, idee, soluzioni a lungo discusse con riguardo ai rapporti inter coniuges: dalla possibilità di dar vita a regimi patrimoniali non espressamente previsti e «nominati» dal codice[209], alla libera costituibilità di vincoli di destinazione nell’interesse della famiglia, ex art. 2645 ter c.c.[210], alla istituzione di trusts familiari, eventualmente «interni»[211] e via dicendo.

 

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[1] Per approfondimenti e richiami, con particolare riguardo al ruolo dell’art. 159 c.c. nel sistema del regime legale si fa rinvio a Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, in Tratt. Cicu-Messineo, Milano, 2010, 329 ss., 356 ss., 372 ss., 1082 ss., 1114 ss., II, 2137 ss.

[2] Per alcuni rilievi su tale evoluzione cfr. Cian, Introduzione generale, sui presupposti storici e sui caratteri generali del diritto di famiglia riformato, in Comm. Carraro, Oppo, Trabucchi, I, 1, Padova, 1977, 35; v. inoltre Sacco, Del regime patrimoniale della famiglia, in Comm. Cian, Oppo, Trabucchi, III, Padova, 1992, 4 ss.; Lo Moro Biglia, Lo scioglimento della comunione legale tra i coniugi, Padova, 2000, 46 ss.; Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., 162 ss.

[3] Il documento è disponibile in www.legislature.camera.it. Il primo Progetto Reale venne esaminato in modo molto approfondito nel corso di un Convegno svoltosi presso la Fondazione Cini di Venezia nei giorni 30 aprile-1 maggio 1967, dal titolo «La riforma del diritto di famiglia», i cui atti sono pubblicati nei Quaderni della Riv. dir. civ., 1967. Per Cattaneo, Il diritto di famiglia, relazione tenuta in occasione del Convegno di Milano, 4-6.6.1992, dal titolo I cinquant’anni del codice civile, Milano, 1993, I, 144, «è nel periodo tra il 1967 e il 1975 che alcune grandi riforme hanno (...) attuato la trasformazione del sistema».

[4] Per una rassegna delle sentenze della Corte costituzionale, pronunciate nell’arco degli anni 1961-1973 cfr. Barile, L’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi nella giurisprudenza costituzionale, in Atti del Convegno di Napoli, svoltosi nei giorni 14-15 dicembre 1973, dal titolo «Eguaglianza morale e giuridica dei coniugi», indetto dalla Facoltà di Economia e commercio, Napoli, 1975, 37 ss.; cfr. inoltre Lanzillo, Zanetti, Le sentenze della Corte costituzionale in materia di diritto di famiglia, in Dir. famiglia, 1976, I, 360 ss.

[5] Sul tema si fa rinvio per tutti a Sesta, Diritto di famiglia, Padova, 2005, 21 ss., 27 ss. Si potrà ricordare anche C. cost., 26.6.1974, n. 187, in Foro it., 1974, I, c. 2248 ss., di poco precedente all’emanazione della riforma del 1975, che dichiarava infondata la questione di costituzionalità dell’art. 215 c.c., in quanto tale norma non prevedeva che la comunione incidentale degli acquisti fosse presunta tra i coniugi, indipendentemente dalla stipula dell’atto pubblico, in riferimento all’art. 29 cost. Nella motivazione della sentenza si rilevava che «è incontestabile che la vigente disciplina legislativa (...), può dar luogo a situazioni di inadeguata tutela giuridica, tra le quali appare particolarmente grave e meritevole di protezione (...) quella della donna priva di un proprio lavoro professionale autonomo, che abbia dedicato la sua attività all’adempimento dei doveri di moglie e di madre». La Corte riconobbe che il codice civile del 1942 «presenta una vera lacuna» e dichiarò che «Il potere di colmare questa lacuna compete esclusivamente al legislatore», soggiungendo che «La riforma del regime dei rapporti patrimoniali tra i coniugi si inserisce necessariamente in una più ampia, organica riforma dell’intero ordinamento del matrimonio e del diritto di famiglia».

[6] Ci si intende qui riferire a quel movimento culturale e normativo che ha visto la posizione espressa nel 1945 da Francesco Santoro-Passarelli contrapporsi – a mo’ di frattura quasi epocale – a quella combattivamente propugnata, già da prima dell’avvento al potere del Fascismo, da Antonio Cicu: sul tema cfr. per tutti Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, Milano, 1999, 103 ss., 125 ss.; per una successiva riscoperta dello scritto di Santoro Passarelli (Santoro Passarelli, L’autonomia privata nel diritto di famiglia, in Dir. e giur., 1945, 3 ss. e in Saggi di diritto civile, I, Napoli, 1961, 381 ss.) cfr. Zoppini, L’autonomia privata nel diritto di famiglia, sessant’anni dopo, in Riv. dir. civ., 2001, 213 ss.; v. inoltre Bocchini, Autonomia negoziale e regimi patrimoniali familiari, in Riv. dir. civ., 2001, 446 ss.; Autorino Stanzione, Autonomia negoziale e rapporti coniugali, in Rass. dir. civ., 2004, 3 ss.; Costanza, Rapporti patrimoniali e autonomia privata, in Tratt. Ferrando, II, Bologna, 2008, 256 ss.; Criaco, Liberalità e rapporti patrimoniali tra coniugi, Milano, 2008, 12 ss. Sottolinea che l’affermazione del principio costituzionale d’uguaglianza ha reso possibile il superamento dei limiti tradizionalmente posti all’autonomia privata tra i coniugi anche S. Patti, I rapporti patrimoniali tra coniugi. Modelli europei a confronto, in Tratt. Ferrando, II, cit., 235. Sul tema v. anche Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., 163 ss., II, cit., 2117 ss.

[7] Pure la relazione al primo Progetto Reale è disponibile in www.legislature.camera.it.

[8] Anche se, come rilevato in dottrina (cfr. Lo Moro Biglia, Lo scioglimento della comunione legale tra i coniugi, cit., 47), ad una tale enunciazione di principi non faceva riscontro, ancora, una piena realizzazione. Basti pensare, ad esempio, all’attività di gestione ordinaria della comunione, per la quale il citato progetto (cfr. l’art. 220, 1° co., del testo novellato) stabiliva che «L’amministrazione e la rappresentanza in giudizio della comunione spettano al marito», salva la facoltà della moglie di ricorrere al giudice in caso di disaccordo (testo disponibile in Comm. Carraro, Oppo, Trabucchi, II, Padova, 1977, 272). Andrà peraltro subito aggiunto che, per gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione, il medesimo progetto prevedeva il necessario agire congiunto dei coniugi, in tal modo stemperando di gran lunga la posizione di ‘supremazia’ tradizionalmente riconosciuta al marito.

[9] Sulla disciplina della comunione nel progetto Reale cfr. Rescigno, I rapporti patrimoniali tra coniugi, in AA.VV., La riforma del diritto di famiglia. Atti del convegno di Venezia svolto presso la fondazione ‘Giorgio Cini’ nei giorni 30 aprile-1 maggio 1967, Padova, 1969, 60 ss.

[10] Cfr. art. 13 del disegno di legge Reale (nuovo testo dell’art. 217 c.c.).

[11] Questo regime giuridico che, secondo la critica, si risolveva dal punto di vista della effettiva tutela degli interessi in gioco, in una communio de residuo, e cioè in un modello atto a realizzare la sola finalità di assicurare alla moglie, all’atto dello scioglimento della comunione, il concreto riconoscimento dell’apporto da essa recato alla creazione del patrimonio familiare (cfr. Moscarini, Parità coniugale e governo della famiglia, Milano, 1974, 179), suscitò reazioni contrarie nella dottrina prevalente; si rilevò, infatti, che se lo scopo della nuova disciplina doveva essere solo quello di riconoscere nel suo giusto valore l’apporto del lavoro domestico della donna alla formazione del patrimonio familiare, sarebbe stata sufficiente una riforma che introducesse una espressa valutazione di tale apporto (cfr. Trabucchi, I principi generali della riforma del diritto di famiglia, in AA.VV., La riforma del diritto di famiglia, cit., 18; Oppo, Interventi, ivi, 148). D’altro canto, si affermò che la introduzione di un regime di comunione avrebbe pregiudicato la snellezza e la sicurezza dei traffici, ed avrebbe inserito nel nostro ordinamento un istituto non corrispondente al costume sociale, che già aveva rigettato la comunione convenzionale degli utili e degli acquisti prevista dal codice civile del 1942 (sul punto cfr. Spinelli, I rapporti patrimoniali tra coniugi nel progetto di riforma, in Dir. famiglia, 1973, 183; Scaduto, Intervento, in AA.VV., La riforma del diritto di famiglia, cit., 123 ss., spec. 134 ss.; Betti, Intervento, ivi, 173 ss., spec. 138 s.). Sul tema cfr. anche Nuzzo, L’oggetto della comunione legale tra coniugi, Milano, 1984, 24 ss.; Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., 163 ss.

[12] Tutti questi testi sono ora disponibili in www.legislature.camera.it, nell’archivio dei documenti relativi alla Quinta Legislatura. Essi sono raccolti in versione cartacea nel Comm. Carraro, Oppo, Trabucchi, II, Padova, 1976, 266 ss.

[13] Cfr. Nuzzo, L’oggetto della comunione legale tra coniugi, cit., 25 ss.

[14] Per una analisi comparativa dei diversi progetti cfr. Zatti, Il diritto di famiglia nei progetti di riforma, in Riv. dir. civ., 1970, II, 371 ss.

[15] In questo senso v. soprattutto Moscarini, Parità coniugale e governo della famiglia, cit., 196, il quale afferma che, nel quadro di una consapevole valutazione globale di tutta la problematica giuridica della famiglia, sembra ineluttabile, per la piena attuazione del principio di parità coniugale, la scelta di un regime patrimoniale di comunione puro o integrale non suscettibile di esclusione convenzionale, o quanto meno derogabile solo in presenza di ben determinati presupposti di censo, soggetti ad un rigoroso controllo preventivo del giudice. Sostanzialmente nello stesso senso Schlesinger, Della comunione legale, in Comm. Carraro, Oppo, Trabucchi, I, 1, Padova, 1977, 366 ss., il quale rileva che il sistema seguito dalla legge appare contraddittorio e perfino venato da un dubbio di legittimità costituzionale, in quanto il regime di separazione dei beni non sembra compatibile con il principio di eguaglianza cosicché, in parte, l’averlo conservato, potrebbe giustificare il sospetto di una carente attuazione dell’art. 29 cost. Contro questa impostazione, cfr. Pino, Spunti critici sul disegno di legge in riforma del diritto familiare, III, I rapporti familiari tra coniugi, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1967, 1233 ss. Secondo questo Autore, infatti, l’affermazione di una necessaria connessione tra regime di comunione dei beni e principio di solidarietà familiare non tiene conto del fatto che i procedimenti tecnici sono sempre neutri rispetto agli orientamenti ideologici.

L’esistenza di una connessione necessaria tra affermazione dell’obbligo di contribuzione di entrambi i coniugi per il reciproco mantenimento e la previsione di un diritto della moglie sui beni acquistati dal marito in costanza di matrimonio fu sostenuta da Trabucchi nel commento alla sentenza della C. cost., 24.6.1970, n. 133, la quale aveva dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 145 c.c., nella parte in cui non subordinava alla condizione che la moglie non avesse mezzi sufficienti, il dovere del marito di mantenerla in proporzione alle sue sostanze (Trabucchi, La contribuzione agli onera matrimonii e il principio costituzionale di parità, in Riv. dir. civ., II, 1970, 465). Sul tema della costituzionalità o meno del regime di separazione dei beni cfr. per tutti Oberto, Il regime di separazione dei beni tra coniugi. Artt. 215-219, in Comm. Schlesinger, Milano, 2005, 20 ss.; Id., La comunione dei beni tra coniugi, I, cit., 343 ss.

[16] Il principio fu espressamente affermato anche nel corso della discussione parlamentare del progetto della legge di riforma: per tutti, v. gli interventi dell’On. Castelli, in Camera, V legislatura, IV Commissione, resoconto stenografico della seduta del 7 luglio 1971, 813, e dell’On. La Loggia, ivi, 811.

[17] Cfr. il progetto n. 23/VI/C, in www.legislature.camera.it.

[18] La discussione iniziò il 2.8.1972 e terminò il 18.10.1972: il testo fu approvato senza alcuna modificazione, in quanto i gruppi politici, pur rilevando imperfezioni e lacune del testo unificato, furono concordi nell’approvarlo allo scopo di accelerare i lavori. Il testo di riforma venne trasmesso dal Presidente della Camera al Presidente del Senato il 7.10.1972. La Commissione Giustizia del Senato esaminò il testo proponendone uno parzialmente diverso da quello approvato dalla Camera. Il testo proposto dalla Commissione venne accompagnato da una relazione del sen. Agrimi e da una relazione di minoranza. Il Senato in aula esaminò il progetto di legge e, a causa delle modifiche apportate, il Presidente del Senato trasmise alla Presidenza della Camera il 5.3.1975 il nuovo testo. La proposta di legge, assegnata per l’esame in sede legislativa alla quarta Commissione Giustizia, venne da questa definitivamente approvata il 22.4.1975. La legge entrò in vigore il 20.9.1975. Sull’iter parlamentare della legge di riforma del diritto di famiglia cfr. Finocchiaro A. e Finocchiaro M., Diritto di famiglia, I, Milano, 1984, 1 ss.

[19] Cfr. Nuzzo, L’oggetto della comunione legale tra coniugi, cit., 27 ss.

[20] Fondamentale al riguardo l’analisi di Bin, Rapporti patrimoniali tra coniugi e principio di eguaglianza, Torino, 1971, in partic. 149 ss.; Moscarini, Parità coniugale e governo della famiglia, cit., in partic. 173 ss.; Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., 172 ss., anche per ulteriori richiami (per l’evoluzione storica, anche sotto il profilo comparato, 3 ss.). Sui rapporti tra principio di uguaglianza e regime della Zugewinngemeinschaft cfr. Labrusse-Riou, L’égalité des époux en droit allemand, Paris, 1965, 201 ss. Per uno studio sui rapporti tra principio di uguaglianza e riforma spagnola (nel 1981) del regime di sociedad de gananciales cfr. Aviles Garcia, Libertad e igualdad en la nueva sociedad de gananciales, Madrid, 1992, spec. 85 ss. (alle 137 ss. viene presentata una analisi comparativa dei sistemi di amministrazione della comunione francese, spagnola e italiana).

[21] Cfr. De Paola, MacrÌ, Il nuovo regime patrimoniale della famiglia, Milano, 1978, 77 ss. Sul tema cfr. anche Corsi, Il regime patrimoniale della famiglia, I, in Tratt. Cicu-Messineo, Milano, 1979, 54 ss., il quale ritiene che la considerazione del lavoro domestico sia stato uno degli elementi determinanti della scelta legislativa a favore della comunione, negando però che la comunione costituisca il corrispettivo dell’attività di lavoro domestico.

[22] Denunciava gravi carenze tecniche nella legge di riforma del 1975, ad esempio, già Corsi, Il regime patrimoniale della famiglia, I, cit., 1 che si esprimeva in termini di «vera sciatteria»; v. inoltre Schlesinger, Il nuovo regime patrimoniale tra coniugi. La contrattazione e la pubblicità immobiliare, in AA.VV., Diritto, di famiglia. Società Contrattazione immobiliare, Milano, 1978, 30 ss., ad avviso del quale la predetta riforma «rappresenta, dal punto di vista tecnico, la peggiore delle leggi di diritto privato approvata negli ultimi trent’anni!». Nel senso che una delle cause della disaffezione verso il regime legale sarebbe data dall’«enorme mole di problemi sollevati dall’infelice formulazione delle norme» cfr. Schlesinger, I regimi patrimoniali della famiglia, in AA.VV., La riforma del diritto di famiglia dieci anni dopo. Bilanci e prospettive, Atti del convegno di Verona 14-15.6.1985, Padova, 1986, 126; nello stesso senso v. anche Russo E., L’oggetto della comunione legale e i beni personali. Artt. 159-166 bis, in Comm. Schlesinger, Milano, 1999, 6. Inutile dire che l’‘evoluzione’ successiva del diritto privato italiano si è incaricata di sottrarre alla riforma del 1975 siffatto non commendevole primato.

[23] Palermo, Ordinamento patrimoniale della famiglia, in AA.VV., Sulla riforma del diritto di famiglia. Seminario diretto dal prof. Francesco Santoro-Passarelli, Padova, 1973, 257.

[24] V. infra §§ 14 ss.

[25] Cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., 380 ss.

[26] Cfr. Finocchiaro A. e Finocchiaro M., Diritto di famiglia, I, cit., 711; 2485 ss.

[27] Oltre che conforme al principio dell’efficacia della legge solo per il futuro, considerando un diritto acquisito da ciascuno dei ‘vecchi coniugi’, all’atto della celebrazione delle nozze, quello di non vedere costituirsi un regime diverso da quello applicabile al momento della creazione dell’unione coniugale.

[28] Cfr. Finocchiaro A. e Finocchiaro M., Diritto di famiglia, I, cit., 743 ss.

[29] Conservata soltanto in via di diritto transitorio: sul punto cfr. per tutti Oberto, L’autonomia negoziale nei rapporti patrimoniali tra coniugi (non in crisi), cit., 643 ss.

[30] Al riguardo v. per tutti Oberto, L’autonomia negoziale nei rapporti patrimoniali tra coniugi (non in crisi), in Familia, 2003, 643 ss.

[31] Cfr., tra le tante, T. Rieti, 23.4.1976, in Riv. notariato, 1976, 583; T. Bergamo, 16.3.1978, in Giur. di Merito, 1978, 503, con nota di Finocchiaro M.; T. Sanremo, 15.2.1978, in Foro it., 1978, I, 1556; A. Palermo, 10.2.1978, in Vita notarile, 1978, 131; T. Verbania, 19.2.1978, in Vita notarile, 1978, 209; A. Napoli, 16.1.1978, in Giust. civ., 1978, I, 972; A. Napoli, 7.12.1977, in Vita notarile, 1977, 1069; T. Catania, 25.3.1977, in Vita notarile, 1977, 922, con nota di De Rubertis; T. Genova, 21.4.1978, in Riv. dir. ipotecario, 1978, 54; A. Bologna, 13.6.1977, in Riv. notarile, 1977, 727; A. Ancona, 27.4.1979, in Riv. notarile, 1979, 960; A. Bari, 14.2.1979, in Riv. notarile, 1979, 648; A. Catanzaro, 16.1.1979, in Giur. it., 1979, I, 2, 289; T. Torino, 17.6.1978, in Vita notarile, 1978, 854; T. Roma, 30.11.1977, in Dir. famiglia, 1978, 890; contra, A. Catania, 23.3.1979, in Foro it., 1979, I, 2734, con nota di De Rubertis; A. Firenze, 19.10.1979, in Riv. notarile, 1979, 1249; T. Cosenza, 10.3.1978, in Foro it., 1978, I, 1556; T. Genova, 14.10.1977, in Giur. di Merito, 1978, 503. Il problema era anche stato portato all’attenzione della Consulta, che aveva però dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. cit. nel testo vigente prima della riforma del 1981: v. C. cost., 31.3.1988, n. 385; in dottrina cfr. sul punto Pacia Depinguente, Autonomia dei coniugi e mutamento del regime patrimoniale legale, in Riv. dir. civ., 1980, II, 518 ss.; Gabrielli, Pacia Depinguente, Commentario alla l. 10 aprile 1981, n. 142, in Leggi civ. comm., 1981, 854 ss.

[32] Una vera e propria ‘legge francobollo’, la cui approvazione, di fronte ai baratri di incertezze ermeneutiche scavati dalla riforma del 1975, sembra sfuggire ad ogni razionale spiegazione.

[33] Su cui v. infra, § 4.

[34] Sull’atto di matrimonio cfr. per tutti Ferrando, Il matrimonio, in Tratt. Cicu-Messineo, Milano, 2002, 344 ss.

[35] Così invece Russo E., Ancora sull’oggetto della comunione legale: favor communionis o favor personae coniugis?, in Dir. famiglia, 1998, 206 ss.; Id., L’oggetto della comunione legale e i beni personali, cit., 11 ss., 20 ss.; 373 ss., 486 ss.; sul tema del favor communionis v. inoltre Id., Nuove considerazioni sull’oggetto della comunione legale, in Riv. dir. civ., 1997, I, 671 ss. e in Dir. famiglia, 1998, 1106 ss.; Quadri, L’oggetto della comunione legale tra coniugi: i beni in comunione immediata, in Famiglia e dir., 1996, 179, 184.

[36] Si pensi, per esempio, a quanto disposto dall’ultima parte dell’art. 179, lett. b), c.c., o alla possibilità che l’acquisto avvenga a titolo originario (su quest’ultimo tema v. per tutti Oberto, Acquisti a titolo originario e comunione legale, in Famiglia e dir., 1994, Allegato, passim; Id., La comunione legale tra coniugi, I, cit., 405 ss.).

[37] Così invece Russo E., L’oggetto della comunione legale e i beni personali, cit., 21.

[38] L’Autore (cfr. Russo E., L’oggetto della comunione legale e i beni personali, cit., 21 ss.) allega anche l’eccezionalità della comunione rispetto al principio secondo cui nemo invitus locupletari potest, ma è chiaro che, da un lato, la regola ex art. 177 c.c. non costituisce in alcun modo eccezione a tale principio generale (essendo la stessa derogabile sia in linea generale, mediante la stipula di convenzione di separazione, sia con riguardo a singoli acquisti) e, dall’altro, invitus non equivale certo a inscius.

[39] Così Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., 361 ss.; cfr. anche Auletta, La comunione legale, in Tratt. Bessone, Il diritto di famiglia, IV, 2, Torino, 1999, 19 ss., con ampi richiami. Da un punto di vista più ampio, scettico sulla possibilità di individuare principi generali nel campo del diritto di famiglia, vedendo in essi null’altro che ‘scatole vuote’, idonee, in astratto, a giustificare ogni tipo di soluzione, è Alpa, I principi generali del diritto di famiglia, in Riv. dir. fam., 1993, 270 ss.

[40] Sul tema cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., 364 ss.

[41] Schlesinger, Del regime patrimoniale della famiglia, in Comm. Cian, Oppo, Trabucchi, III, Padova, 1992, 87 ss. Anche Tanzi, In tema di beni relativi a beni personali nel regime di comunione legale, in Riv. dir. civ., 2001, 53, sottolinea il rilievo dell’art. 219 c.c. Sull’esistenza di un favor communionis cfr. inoltre Comporti, Gli acquisti dei coniugi in regime di comunione legale dei beni, in Riv. notariato, 1979, 50.

[42] In senso contrario v. però Lodo arbitrale, 27.3.1993, citato da Caravaglios, La comunione legale, I, Milano 1995, 297 ss. (con ulteriori richiami dottrinali); sui rapporti tra gli artt. 219 e 195 c.c. cfr. per tutti Santosuosso, Beni ed attività economica della famiglia, in Giur. sist. Bigiavi, Torino, 1995, 299, secondo cui tali disposizioni, «pur essendo parallele, funzionano ciascuna nella logica del proprio regime e con un significato totalmente differente. Mentre l’art. 195 c.c. rappresenta una conseguenza naturale del regime di comunione, l’art. 219 c.c., per contro, viene a facilitare la separazione del patrimonio, offrendo una soluzione al problema tutte le volte che non risulti la titolarità esclusiva in favore dell’uno o dell’altro coniuge»; sul tema cfr. pure Oberto, Il regime di separazione dei beni tra coniugi, cit., 261 ss.

[43] Sul punto, che non si può approfondire in questa sede, si fa rinvio a Oberto, Il regime di separazione dei beni tra coniugi, cit., 336 ss. Sul carattere probatorio e non sostanziale dell’art. 219 c.c. cfr. anche Santosuosso, Beni ed attività economica della famiglia, cit., 300.

[44] Schlesinger, Del regime patrimoniale della famiglia, 1992, cit., 88.

[45] Ibidem.

[46] Cfr. Cass., 15.7.1982, n. 4137. Nel senso dell’esistenza di una presunzione di sottoposizione al regime legale dei beni acquistati dopo il 20.9.1977, laddove «l’eventuale, diversa disciplina del regime di separazione dei beni acquistati durante il matrimonio» andrebbe provata dal coniuge che l’invoca, v. anche Cass., 17.8.1990, n. 8379, in Nuova giur. comm., 1991, I, 299, con nota di Pacia Depinguente. Si noti che, come osservato da autorevole dottrina – Schlesinger, Del regime patrimoniale della famiglia, 1992, cit., 87, nt. 4 – la massima ivi riportata, non ufficiale, non rispecchia affermazioni esplicite della sentenza, anche se il senso di questa corrisponde al principio massimato; in motivazione la Corte afferma che «Per i beni (...) acquistati dopo il 20.9.1977, la comunione legale di essi si presumeva, mentre l’eventuale, diversa disciplina di separazione dei beni medesimi doveva essere indubbiamente provata, non da chi la contestava, bensì da colui che l’invocava». Nel senso che lo stato coniugale dell’acquirente comporta di per sé la presunzione del regime legale v. anche Bonis, La pubblicità del regime patrimoniale dei coniugi. Bilancio di due anni di studi ed esperienze, in Riv. dir. ipotecario, 1977, 191; Bianca C.M., Gli atti di straordinaria amministrazione, in AA.VV., La comunione legale, a cura di Bianca C.M., I, Milano, 1989, 608.

[47] Cfr. Sesta, Valignani, Il regime di separazione dei beni, in Tratt. Zatti, III, Milano, 2002, 459; Oberto, Il regime di separazione dei beni tra coniugi, cit., 5 ss.; Id., La comunione legale tra coniugi, I, cit., 372 ss.

[48] Valga per tutti il richiamo a Schlesinger, Della comunione legale, 1977, cit., 361.

[49] Oberto, Il regime di separazione dei beni tra coniugi, cit., 7; Id., La comunione legale tra coniugi, I, cit., 372, 382, II, 1783.

[50] Di una «fuga verso la separazione» parlano anche Sesta, Valignani, Il regime di separazione dei beni, cit., 460. Per analoghe considerazioni v. anche Rimini, La tutela del coniuge più debole fra logiche assistenziali ed esigenze compensative, in Fam. dir., 2008, 414.

[51] Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., 558 ss.; per analoghe considerazioni v. anche Sesta, Titolarità e prova della proprietà nel regime di separazione dei beni, in Familia, 2001, 871 ss.

[52] Sul tema, che non può certo essere approfondito in questa sede, v. per tutti Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., 483 ss.; Id., «Prenuptial agreements in contemplation of divorce» e disponibilità in via preventiva dei diritti connessi alla crisi coniugale, in Riv. dir. civ., 1999, II, 171 ss.; Id., Contratto e famiglia, in Tratt. Roppo, VI, Interferenze, Milano, 2006, 251 ss.; Id., Gli accordi preventivi sulla crisi coniugale, in Familia, 2008, 25 ss.; Id., Per un intervento normativo in tema di accordi preventivi sulla crisi della famiglia, 2017, in www.giacomooberto.com; Balestra, Gli accordi in vista del divorzio: la Cassazione conferma il proprio orientamento, Commento a Cass., 14.6.2000, n. 8109 - Cass., 18.2.2000, n. 1810, in Corriere giur., 2000, 1023 ss.; Angeloni, La cassazione attenua il proprio orientamento negativo nei confronti degli accordi preventivi di divorzio: distinguishing o perspective overruling?, in Contratto e impresa, 2000, 1136 ss.; Bargelli, L’autonomia privata nella famiglia legittima: il caso degli accordi in occasione o in vista del divorzio, in Riv. critica dir. priv., 2001, 303 ss.; Di Gregorio, Divorzio e accordi patrimoniali tra coniugi, nota a Cass., 14.6.2000, n. 8109, in Notariato, 2001, 17 ss.; Dellacasa, Accordi in previsione del divorzio, liceità e integrazione, nota a Cass., 14.6.2000, n. 8109, in Contr., 2001, 46; Ferrando, Crisi coniugale e accordi intesi a definire gli aspetti economici, nota a Cass., 14.6.2000, n. 8109, in Familia, 2001, 245; Pazzaglia, Riflessioni sugli accordi economici preventivi di divorzio, in Vita notarile, 2001, 1017; Busacca, Autonomia privata dei coniugi ed accordi in vista del divorzio, in Diritto & Formazione, 2002, 57 ss.; Catanossi, Accordi in vista del divorzio e ‘ottica di genere’. Uno sguardo oltre Cass. n. 8109/2000, in Riv. critica dir. priv., 2002, 169 ss.

[53] Sul tema si fa rinvio per tutti a Oberto, L’autonomia negoziale nei rapporti patrimoniali tra coniugi (non in crisi), cit., 617 ss., 655 ss.

[54] Barbagli, La scelta del regime patrimoniale, in AA.VV., Lo stato delle famiglie in Italia, a cura di Barbagli e Saraceno, Bologna, 1997, 105.

[55] Cfr. Cavallaro, Il regime di separazione dei beni fra i coniugi, Milano, 1997, 5 ss.

[56] Già a dieci anni di distanza dalla riforma Schlesinger, I regimi patrimoniali della famiglia, in La riforma del diritto di famiglia dieci anni dopo. Bilanci e prospettive, Atti del convegno di Verona 14-15.6.1985, Padova, 1986, 121 ss. notava che la comunione veniva rifiutata dal corpo sociale, almeno nelle famiglie che avevano una certa consistenza economica e la cui attività era di carattere imprenditoriale. Nello stesso senso cfr. Russo E., L’oggetto della comunione legale e i beni personali, cit., 6.

[57] Particolare, questo, evidenziato da Gabrielli, I rapporti patrimoniali e successori nell’ambito della famiglia, cit., 48 ss.; nello stesso senso Cavallaro, Il regime di separazione dei beni fra i coniugi, cit., 5.

[58] In tal senso v. Gabrielli, La successione per causa di morte nella riforma del diritto di famiglia, in AA.VV., La riforma del diritto di famiglia dieci anni dopo, Padova, 1986, 180 ss.

[59] Cfr. Gabrielli, I rapporti patrimoniali e successori nell’ambito della famiglia, in Aa.Vv., Famiglia e diritto a vent’anni dalla riforma, a cura di Belvedere e Granelli, Padova, 1996, 49 ss.; Oppo, Autonomia negoziale e regolamento tipico nei rapporti patrimoniali fra coniugi, in Riv. dir. civ., 1997, I, 19; Cavallaro, Il regime di separazione dei beni fra i coniugi, cit., 6. Sui temi specifici dell’estromissione di beni dalla comunione e del rifiuto preventivo del coacquisto v. i richiami in Oberto, L’autonomia negoziale nei rapporti patrimoniali tra coniugi (non in crisi), cit., 655 ss.

[60] Per analoghe considerazioni v. anche Russo E., Le convenzioni matrimoniali. Artt. 159-166 bis, in Comm. Schlesinger, Milano, 2004, 504 ss., che parla al riguardo di ‘fuga’ dal regime di comunione legale. Per i richiami giurisprudenziali sulla questione di cui al testo si rinvia a Oberto, Le convenzioni matrimoniali: lineamenti della parte generale, in Famiglia e dir., 1995, 610 ss.

[61] Barbagli, op. cit., 106.

[62] Ibidem.

[63] Cfr. Istat, Matrimoni, separazioni e divorzi 2003, Roma, 2006, 9, 50, 86 (tavole 1.1, 2.10, 2.11, 2.20), in www.istat.it.

[64] Cfr. i dati di cui al rapporto Istat, in www.demo.istat.it. Da tali risultati emerge che su 250.360 matrimoni celebrati in quell’anno 153.563 sono stati caratterizzati dalla scelta per il regime di separazione, laddove solo 96.797 dalla comunione. Interessanti poi i dati che incrociano il regime patrimoniale prescelto dai novelli sposi con riguardo al titolo di studio di questi ultimi (cfr. Istat, op. cit., 50, tavola 2.11. V. inoltre, per il 2007, www.demo.istat.it). Da tali dati emergeva che, a livello nazionale, il regime di separazione veniva già (maggioritariamente) prescelto dai laureati con percentuali assai più elevate rispetto alla media generale e con un rapporto nella media dai titolari di diploma di scuola media superiore, mentre i possessori di licenza di scuola media inferiore o di scuola elementare sceglievano (rectius, più probabilmente: non sceglievano) ancora maggioritariamente il regime di comunione.

[65] Per i dati relativi al 2007 cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., 377 s.

[66] Più esattamente, in tale anno hanno deciso di non scegliere il regime di separazione dei beni solo il 27% delle nuove coppie, con un minimo regionale del 19,7% in Calabria ed un massimo pari al 34,6% in Trentino-Alto Adige (cfr. http://demo.istat.it/altridati/matrimoni/2016/tav1_1.pdf).

[67] «Il secondo fattore è l’aumento del numero delle separazioni legali e dei divorzi, che ha fatto nascere, in un numero crescente di coppie, il timore che anche il loro matrimonio possa finire nell’aula di un tribunale. Così, è la paura di dover cedere metà del patrimonio familiare ad un coniuge con cui ci si è accorti in ritardo di non riuscire a vivere che spinge molti sposi a preferire il regime della separazione dei beni e molti dei loro genitori a consigliarli in questo senso (...). È significativo, da questo punto di vista, che gli strati della popolazione che sono alla testa del mutamento del regime patrimoniale sono anche quelli che corrono più rischi di rompere il matrimonio con un divorzio: i più secolarizzati, i più ricchi e i più istruiti delle regioni settentrionali» (cfr. Barbagli, op. cit., 105 ss.). Le considerazioni di cui sopra sono pienamente confermate dai dati Istat già citati, relativi agli anni 2003 e seguenti.

[68] Cfr. Lamboley e Laurens-Lamboley, Droit des régimes matrimoniaux, Paris, 1998, 88 ss.: «Au sein des régimes conventionnels, la séparation de biens occupe la première place, au regard des données statistiques établies par le Conseil supérieur du notariat à la suite d’une enquête menée en 1973 auprès des notaires de France, représentant à elle seule plus de 53% des contrats de mariage; la seconde place est occupé e par la communauté réduite aux acquêts qui, bien qu’elle soit devenue communauté légale le 1er février 1966, représente encore 29,38% des contrats de mariage; la troisième place est occupé e par la communauté des meubles et acquêts qui continue de subsister, puisque près de 10% des couples qui se marient avec contrat l’adopte encore; la quatrième place est occupé e par la communauté universelle avec un pourcentage de 5,78%. La participation aux acquêts ne recueille, quant à elle, que 0,18%». Interessante poi è il raffronto con la situazione della stessa Francia a cavallo tra Ottocento e Novecento. Come attestato dalla dottrina dell’epoca (cfr. Colin, Capitant, Cours élémentaire de droit civil français, III, Paris, 1929, 247), la separazione non era a quel tempo adottata che «par des époux déjà âgés, possédant chacun une fortune personnelle, et n’espérant pas avoir d’enfants de leur union, ou par des époux qui ont des enfants d’un premier lit. La statistique de l’année 1898 nous révèle que sur les 82.346 contrats de mariage rédigés au cours de cette année, 2.128 seulement ont adopté la séparation de biens». Gli Autori testé citati concludevano quindi rilevando che «Dans notre pays, accoutumé par une longue tradition à la communauté, la séparation de biens nous parait peu conforme à l’union que le mariage crée entre les époux».

[69] Cfr. Brambring, Ehevertrag und Vermögenszuordnung unter Ehegatten, Mnchen, 1997, 45.

[70] Cfr. Von nch, Ehe-und Familienrecht, München, 1996, 151.

[71] Sul tema v. per tutti Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., 529 ss.; Id., ‘Prenuptial agreements in contemplation of divorce’ e disponibilità in via preventiva dei diritti connessi alla crisi coniugale, cit., 189 ss.; Id., Contratto e famiglia, cit., 251 ss.

[72] Per approfondimenti v. i rinvii in Oberto, La comunione coniugale nei suoi profili di diritto comparato, internazionale ed europeo, in Dir. famiglia, 2008, 367 ss.; Id., La comunione legale tra coniugi, I, 377 ss.

[73] Così, per tutti, Schlesinger, Della comunione legale, 1977, cit., 77 ss.

[74] Ibidem.

[75] Sulla possibilità di introdurre, ad esempio un regime analogo alla Zugewinngemeinschaft cfr. per tutti Oberto, L’autonomia negoziale nei rapporti patrimoniali tra coniugi (non in crisi), cit., 617 ss.; Id., Contratto e famiglia, cit., 147 ss.; v. inoltre Quadri, Regime patrimoniale e autonomia dei coniugi, in Dir. famiglia, 2006, II, 1817.

[76] Cfr. Oppo, Autonomia negoziale e regolamento tipico nei rapporti patrimoniali tra coniugi, in Riv. dir. civ., 1997, I, 21 (sulla legittimità costituzionale delle norme che consentono ai coniugi di derogare in tutto o in parte al regime legale v. per tutti Gabrielli, Regime patrimoniale della famiglia, in Digesto civ., XVI, Torino, 1997, 336). L’attribuzione di un carattere meramente suppletivo alla comunione è vista anche da Morelli, Autonomia negoziale e limiti legali nel regime patrimoniale della famiglia, in Famiglia e dir., 1994, 105 come sintomo di un maggior spazio aperto all’autonomia negoziale; nel medesimo senso v. anche Carnevali, Le convenzioni matrimoniali, in Il diritto di famiglia, Tratt. Bonilini-Cattaneo, II, Il regime patrimoniale della famiglia, Torino, 1997, 18; Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., 155 ss.; Patti, Regime patrimoniale della famiglia e autonomia privata, in Familia, 2002, 290 ss.; Andreola, Autonomia negoziale dei coniugi e regime patrimoniale legale. Riducibilità della comunione e rifiuto del coacquisto ex lege, in Riv. dir. civ., 2007, 55 ss. Riconosce l’opportunità del riconoscimento di un’adeguata autonomia dei coniugi anche Quadri, Regime patrimoniale e autonomia dei coniugi, cit., 1806 ss.

[77] Sull’argomento v. supra, § 4. Cfr. inoltre Falzea, Il regime patrimoniale della famiglia, in AA.VV., La riforma del diritto di famiglia. Atti del II Convegno di Venezia, cit., 62, il quale, proprio dal carattere vincolato del regime legale, deduce l’incoerenza della legge, in quanto essa da un lato consente ai coniugi un’illimitata libertà di deroga, attraverso lo strumento della separazione, dall’altro limita a tal punto la libertà dei coniugi che non hanno stipulato un’esplicita convenzione, al punto da costituire forti stimoli ad emigrare dal regime legale; anche per Cian, Villani, La comunione dei beni tra coniugi (legale e convenzionale), in Riv. dir. civ., 1980, I, 400: «l’eccesso di garantismo per il coniuge vivente in regime di comunione rischia di generare un effetto in un certo senso contrario: l’esclusione stessa del regime di comunione, per lo meno per quelle coppie che non abbiano un’economia di consumo».

[78] Oberto, Il regime di comunione legale tra coniugi, II, cit., 2138 ss.

[79] Cfr. per tutti Gangi, Il matrimonio, Milano, 1969, 523, ad avviso del quale dal 2° co. dell’art. 216 c.c. doveva ricavarsi che le disposizioni in tema di comunione tra coniugi avevano ‘carattere cogente’.

[80] Cfr. Cass., 27.2.2003, n. 2954, in Foro it., 2003, I, 1039, con nota di De Marzo; in Dir. famiglia, 2003, 348, con nota di Bernardo; in Riv. notariato, 2003, 412, con nota di Lupetti; in Familia, 2003, 1123, con note di Arceri e Di Pace; in Contr., 2003, 669, con nota di Calice e Acquaviva; in Dir. e giustizia, 2003, 18, 49, con note di San Giorgio e di Minniti F. e Minniti M.; in Nuovo dir., 2003, 363, con nota di Scacchi; in Guida dir., 2003, 16, 32, con nota di Grisi; in Arch. civ., 2003, 725; in Giust. civ., 2003, I, 910; in Famiglia e dir., 2003, 559, con nota di Patti F.; in Giust. civ., 2003, I, 2107, con nota di Finocchiaro M.; in Nuova giur. comm., 2003, I, 911 ss., con nota di Regine; in Vita notarile, 2003, 886; in Vita notarile, 2003, 676, con nota di Giuliani; in Giur. it., 2004, 281, con nota di Cerolini; in Riv. dir. privato, 2003, 573, con nota di Romano S. Per una critica della decisione e per ulteriori richiami cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., 1102 ss. 

[81] Anche Napolitano, Beni personali e rifiuto del coacquisto, Nota a Cass., 27.2.2003, n. 2954, in Contratto e impresa, 2004, 574 ss., rileva che «la comunione legale appare improntata a criteri di derogabilità, come sancito dagli artt. 210 ss. c.c. in materia di comunione convenzionale e di separazione dei beni; in particolare per quanto concerne la comunione convenzionale, gli unici limiti all’autonomia privata sono quelli costituiti dal rispetto dell’uguaglianza delle quote e dei poteri di amministrazione sui beni che entrerebbero in comunione e di quelli previsti dall’art. 161 c.c. Ancora più significativo è il riferimento all’art. 30 della l. n. 218/1995 di riforma del diritto internazionale privato relativo ai rapporti patrimoniali coniugali caratterizzati da elementi di estraneità, nella sua funzione di choice of law, che prevede accanto ai criteri della nazionalità e della prevalente localizzazione della vita matrimoniale, anche quello della volontà dei coniugi, seppur nel rispetto di date condizioni».

[82] Cfr. ad esempio la tesi di Calice, Acquaviva, Inammissibilità del rifiuto del coacquisto, Nota a Cass., 27.2.2003, n. 2954, in Contr., 2003, 669 ss., secondo cui «In replica ai sostenitori della tesi che ritiene legittimo il rifiuto del coacquisto si deve rispondere che, se è vero che al silenzio della legge non sempre corrisponde un divieto, è anche vero che le norme in tema di comunione legale sono speciali e derogano alla disciplina più generale dettata in sede contrattuale». Sui rapporti tra contratto, autonomia contrattuale e rapporti patrimoniali tra coniugi cfr. per tutti Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., 136 ss.; Id., L’autonomia negoziale nei rapporti patrimoniali tra coniugi (non in crisi), cit., 617 ss.; Id., Contratto e famiglia, cit., 147 ss.

[83] Rimane così superata l’impostazione – per così dire, più ‘largheggiante’ – consentita dalla formulazione precedente della disposizione testé citata («I rapporti patrimoniali tra coniugi sono regolati dalle convenzioni delle parti e dalla legge»), che induceva la dottrina a qualificare alla stregua di convenzione matrimoniale ogni accordo contenuto in un contratto di matrimonio, in connessione diretta con la relativa situazione patrimoniale, e non altrimenti disciplinato dalla legge (cfr. Busnelli, Convenzione matrimoniale, in Enc. Dir., X, Milano, 1962, 514; v. inoltre Tedeschi, Il regime patrimoniale della famiglia, in Jemolo e Tedeschi, Il matrimonio, Il regime patrimoniale della famiglia, in Tratt. Vassalli, III, 1, Torino, 1950, 469 ss.). Per la definizione del concetto di convenzione matrimoniale dopo la riforma del 1975 cfr. Oberto, Le convenzioni matrimoniali: lineamenti della parte generale, cit., 596 ss.; Bargelli, Busnelli, Convenzione matrimoniale, in Enc. Dir., Agg., IV, Milano, 2000, 436 ss., 442 ss.; Ieva,  Le convenzioni matrimoniali, in Tratt. Zatti, III, 2a ed., Milano, 2012, 55 ss.; Giletta, Le convenzioni matrimoniali, in Tratt. Ferrando, II, Bologna, 2008, 310 ss., nonché gli Autori citati alle note seguenti.

[84] Cfr., tra gli altri, Messineo, Convenzione (dir. priv.), in Enc. Dir., X, Milano, 1962, 512, secondo cui l’uso del termine ‘convenzione’ è qui improprio; Santosuosso, Il regime patrimoniale della famiglia, in Comm. cod. civ., Torino, 1983, 55; Cattaneo, Corso di diritto civile. Effetti del matrimonio, regime patrimoniale, separazione e divorzio, Milano, 1988, 52; Oberto, Le convenzioni matrimoniali: lineamenti della parte generale, cit., 597; Sesta, Diritto di famiglia, Padova, 2003, 185.

[85] Moscarini, Convenzioni matrimoniali in genere, in AA.VV., La comunione legale, a cura di Bianca C.M., II, Milano, 1989, 1004 ss., 1007.

[86] Russo E., L’autonomia privata nella stipulazione di convenzioni matrimoniali, in Le convenzioni matrimoniali ed altri saggi sul nuovo diritto di famiglia, Milano, 1983, 155 s.; Bocchini, Rapporto coniugale e circolazione dei beni, Napoli, 1989, 182, 185; Galasso, Tamburello, Del regime patrimoniale della famiglia, I, in Comm. Scialoja-Branca, I, Roma-Bologna, 1999, 54. Anche Gabrielli, Acquisto in proprietà esclusiva di beni immobili e mobili registrati da parte di persona coniugata, in Vita notarile, 1984, 658 rileva che le convenzioni sono negozi regolatori in astratto del regime patrimoniale e non già dispositivi, in concreto, di singoli beni determinati.

[87] Si pensi per esempio alla convenzione costitutiva di un fondo patrimoniale o a quella avente ad oggetto una comunione convenzionale comprendente beni di cui uno dei coniugi o entrambi siano già titolari: sul punto cfr. Oberto, Le convenzioni matrimoniali: lineamenti della parte generale, cit., 597; in senso conforme v., anche per ulteriori rinvii, Bargelli, Busnelli, Convenzione matrimoniale, cit., 444 ss.; sul tema cfr. inoltre Giletta, op. cit., 295 s.

[88] Tanto per fare un esempio, come si è dimostrato in altra sede (cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, Milano, 1991, 262 ss.), i contratti di convivenza ben possono programmaticamente prevedere la caduta in comunione (ordinaria, ma ora anche legale: cfr. art. 1, 53° co., l. 20.5.2016, n. 76) di determinati diritti al momento dell’acquisto dei medesimi da parte dell’uno o dell’altro dei partners.

[89] Cfr. Relazione della Commissione parlamentare, 761; analogamente, Relazione del Guardasigilli al progetto definitivo, 169.

[90] Così Bocchini, Autonomia negoziale e regimi patrimoniali familiari, cit., 433.

[91] Così Russo E., Le convenzioni matrimoniali, cit., 172.

[92] Così Sacco, Il contratto, in Tratt. Vassalli, Torino, 1975, 482.

[93] Così Russo E., Le convenzioni matrimoniali, cit., 172.

[94] Così sempre Russo E., Le convenzioni matrimoniali, cit., 172. Si noti che peraltro lo stesso Autore, nella parte del suo lavoro in cui esamina il rapporto tra il concetto di contratto e di convenzione (su cui cfr., anche per i richiami, Oberto, L’autonomia negoziale nei rapporti patrimoniali tra coniugi (non in crisi), cit., 617 ss., 620 ss.), non esita a parlare di «contratto di convenzione matrimoniale» e a definire le convenzioni matrimoniali come «contratti tipici nella loro struttura essenziale, ma atipici nel loro contenuto» (cfr. Russo E., Le convenzioni matrimoniali, cit., 177).

[95] Santoro-Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1978, 276; Mazzocca, I rapporti patrimoniali tra i coniugi nel nuovo diritto di famiglia, Milano, 1977, 37; Oberto, Le convenzioni matrimoniali: lineamenti della parte generale, cit., 597; Ieva, Le convenzioni matrimoniali, cit., 74 ss.

[96] Santarcangelo, La volontaria giurisdizione nell’attività negoziale, IV, Milano, 1989, 29; De Paola, Il diritto patrimoniale della famiglia coniugale, II, Milano, 1995, 34 ss.

[97] Grasso, Il regime patrimoniale delle famiglia in generale, in Tratt. Rescigno, 3, Torino, 1982, 384; Jannuzzi, Manuale della volontaria giurisdizione, Milano, 1990, 281; Cannizzo, Le convenzioni matrimoniali e gli incapaci, in Vita notarile, 1993, 1007.

[98] Beninteso, dopo essersi in ogni caso fornito di autorizzazione giudiziale: così Gabrielli, Cubeddu, Il regime patrimoniale dei coniugi, Milano, 1997, 247.

[99] Per la quale si fa rinvio a Oberto, Il regime patrimoniale dell’unione civile, Commento all’art. 1, 13° co., l. 20.5.2016, n. 76, in Sesta (a cura di), Codice dell’unione civile e delle convivenze, Milano, 2017, 380 s.

[100] Giletta, op. cit., 306. Ovviamente, la conclusione di cui sopra è valida nei limiti in cui la particolare struttura della fattispecie non impedisca all’interprete di ricondurla alla figura del contratto, ovvero l’esistenza di norme speciali non imponga di qualificare l’atto medesimo come strettamente personale e, quindi, tale da non consentire sostituzione: è il caso del fondo patrimoniale costituito, rispettivamente, mediante testamento o donazione. Da un lato, il principio della personalità della volontà testamentaria rende inammissibile non solo la procura, ma anche la disposizione per relationem, con rinvio cioè a determinazioni altrui, come risulta dalle previsioni contenute negli artt. 631 e 632 c.c.: è valido tuttavia, per quanto in questa sede rileva, il legato alternativo in favore di persona da scegliere tra più soggetti già individuati dal testatore. Dall’altro, la norma speciale dell’art. 778 c.c. ammette soltanto la procura con espressa indicazione della persona del donatario e dell’oggetto della donazione (Gabrielli, Cubeddu, op. cit., 248 s.).

[101] In questo senso cfr. De Paola, Il diritto patrimoniale della famiglia coniugale, II, cit., 45, che giunge però a tale conclusione non in forza di applicazione diretta delle regole codicistiche, ma invocando l’analogia; sullo specifico aspetto dell’applicabilità degli artt. 1339 e 1419 c.c. cfr. Donisi, Convenzioni modificative del regime della comunione legale tra coniugi e nullità parziale, in Rass. dir. civ., 1992, 515 ss.

[102] V. per tutti De Paola, Il diritto patrimoniale della famiglia coniugale, II, cit., 187 ss.; Oberto, Le convenzioni matrimoniali: lineamenti della parte generale, cit., 599 ss. (con le limitazioni, peraltro, di cui tra breve nel testo); Carnevali, Le convenzioni matrimoniali, cit., 20; per la dottrina anteriore alla riforma cfr. Tedeschi, Il regime patrimoniale della famiglia, cit., 474. Dubbi vengono invece espressi da Corsi, Il regime patrimoniale della famiglia, II, in Tratt. Cicu-Messineo, Milano, 1984, 23.

[103] Cfr. De Paola, Il diritto patrimoniale della famiglia coniugale, II, cit., 187 ss.; Carnevali, Le convenzioni matrimoniali, cit., 20.

[104] Cfr. Oberto, Le convenzioni matrimoniali: lineamenti della parte generale, cit., 600.

[105] De Paola, Il diritto patrimoniale della famiglia coniugale, II, cit., 185 ss.

[106] Regola, questa, tra l’altro, sicuramente estesa, negli stessi limiti, ai soggetti civilmente uniti, in base alla riforma del 2016 (cfr. art. 1, 13° co., l. 20.5.2016, n. 76. Sul punto cfr. per tutti Oberto, I rapporti patrimoniali nelle unioni civili e nelle convivenze di fatto, in Blasi, Campione, Figone, Mecenate, Oberto, La nuova regolamentazione delle unioni civili e delle convivenze, Torino, 2016, 54 ss.). La conclusione rende peraltro ancora più manifesta l’assurdità della previsione di cui al 56° c. della novella citata, che nega, invece, ai partners dell’union libre la possibilità di apporre termini e condizioni al contratto di convivenza (per la critica e per una lettura restrittiva al riguardo cfr. ivi, 90 ss.).

[107] L’espressione «contratti di matrimonio» di cui all’art. 48 l. not. è stata sostituita da quella «convenzioni matrimoniali» per effetto del disposto dell’art. 12, 2° co., lett. c) della l. 28.11.2005, n. 246 (Semplificazione e riassetto normativo per l’anno 2005).

[108] Cfr. Busnelli, Convenzione matrimoniale, cit., 512 ss.; D’Antonio, Convenzioni matrimoniali, donazioni e capacità del minore nel disposto dell’art. 165, in Riv. dir. civ., 1989, I, 658, nt. 2; De Paola, Il diritto patrimoniale della famiglia coniugale, II, cit., 48.

[109] Pothier, Traité du Contrat de Mariage, in Pothier, Traités sur différentes matières de droit civil, appliquées à l’usage du barreau et de jurisprudence françoise, Paris-Orléans, 1781, 145 s.; nel medesimo senso, già prima di Pothier, v. [Du Perray], Traité des contrats de mariage, Du Mesnil, 1741, 117; per Denisart, Collection de décisions nouvelles et de notions relatives à la jurisprudence actuelle, I, Paris, 1763, 591, il contrat de mariage è l’«acte qui règle les conditions de la société qui se forme entre les futurs é poux»; per De Ferriere, Dictionnaire de droit et de pratique, I, Paris, 1769, 369 si tratta dell’«acte ou contrat qui précède la bénédiction nuptiale, et qui contient les clauses et conventions faites par rapport au mariage».

[110] Cfr. art. 202: «En traité de mariage, et avant la foy baillée, et bénédiction nuptiale, homme et femme peuvent faire et apposer telles conditions, douaires, donations, et autres conventions, que bon leur semblera».

[111] Cfr. Grasso, Il regime patrimoniale delle famiglia in generale, cit., 378; Santosuosso, Il regime patrimoniale della famiglia, cit., 55 ss.; Spinelli, Parente, Le convenzioni matrimoniali, in I rapporti patrimoniali della famiglia Saggi dai corsi di lezioni di diritto civile tenute dai proff. Spinelli e Panza, Bari, 1987, 43 ss.; Bocchini, Rapporto coniugale e circolazione dei beni, cit., 185; Galletta, I regolamenti patrimoniali tra coniugi, Napoli, 1990, 7; De Paola, Il diritto patrimoniale della famiglia coniugale, II, cit., 29 ss.; Oberto, Le convenzioni matrimoniali: lineamenti della parte generale, cit., 597 s.; Bocchini, Autonomia negoziale e regimi patrimoniali familiari, cit., 447 s.

[112] Cfr. Russo E., Le convenzioni matrimoniali, cit., 74, 100 ss., ove l’Autore critica la «funzione dispositiva o attributiva» riferita dalla dottrina alle convenzioni matrimoniali.

[113] L’assunto è sviluppato da Russo E., Le convenzioni matrimoniali, cit., 77, 124 ss., 136 ss. essenzialmente sulla base del rilievo secondo cui il codice non qualifica expressis verbis il negozio costitutivo del fondo patrimoniale alla stregua di una convenzione matrimoniale.

[114] Il fondo patrimoniale si trova collocato nel codice tra la parte generale delle convenzioni matrimoniali e la comunione legale, all’interno di una sezione posta sullo stesso piano di quelle dedicate alla comunione legale, alla comunione convenzionale, alla separazione dei beni e all’impresa familiare.

[115] Gli artt. 167 ss. fanno pur sempre parte del Capo VI (del Titolo VI del Libro I del codice), intitolato «del regime patrimoniale della famiglia», dopo una parte generale che, come si è appena detto, è interamente dedicata alle convenzioni matrimoniali.

[116] Così Laurent, Principes de droit civil, XXI, Bruxelles, 1878, 8.

[117] Cfr. Flour, Champenois, Les régimes matrimoniaux, Paris, 1995, 5.

[118] Per non dire poi (concludendo sul tema), che una conferma della natura di convenzione matrimoniale propria del negozio inter vivos costitutivo del fondo patrimoniale sembra venire dalla riforma dell’art. 48 l. not., di cui alla l. n. 246/2005, laddove la disposizione novellata si limita a menzionare, tra gli ‘atti familiari’ bisognosi dell’assistenza di due testimoni, le convenzioni matrimoniali e le dichiarazioni di scelta del regime di separazione dei beni, così rendendo evidente che il fondo patrimoniale non può ascriversi se non alla prima delle due tipologie, apparendo altrimenti assurda l’esclusione della convenzione in esame (che ex art. 167 c.c., deve stipularsi per atto pubblico), dalla sfera di operatività della disposizione. E si noti che la disposizione di cui all’art. 48 l. not., non potrebbe neppure estendersi in via analogica, atteso che dal combinato disposto degli artt. 47 e 48 l. not., nella versione riformata dalla citata l. n. 246/2005, chiaramente emerge che l’obbligo dell’assistenza dei testimoni è eccezionale. Non si riuscirebbe dunque a comprendere perché mai solo per la costituzione del fondo patrimoniale non dovrebbe essere richiesta la presenza di testimoni.

[119] Sul punto si rinvia ancora, a Oberto, Le convenzioni matrimoniali: lineamenti della parte generale, cit., 598 ss. In senso contrario Bocchini, Autonomia negoziale e regimi patrimoniali familiari, cit., 448, secondo cui sarebbero ascrivibili al novero delle convenzioni matrimoniali anche quegli accordi «che orientano le appartenenze e le destinazioni di singoli beni da acquisire o (che) incidono sullo statuto (titolarità e/o destinazione) di singoli beni attuali»; nello stesso ordine di idee cfr. Parente, Il preteso rifiuto del coacquisto ex lege da parte di coniuge in comunione legale, nota a Cass., 2.6.1989, n. 2688, in Foro it., 1990, I, 608 ss.

[120] Cfr. Finocchiaro A. e Finocchiaro M., Diritto di famiglia, I, cit., 1153; Gabrielli, Scioglimento parziale della comunione legale fra coniugi. Esclusione dalla comunione di singoli beni e rifiuto preventivo del coacquisto, in Riv. dir. civ., 1988, I, 347; Roppo, Coniugi I) Rapporti personali e patrimoniali tra coniugi, in Enc. Giur., VIII, Roma, 1988, ad vocem, 2.

[121] Sul tema v., anche per gli ulteriori rinvii, Bargelli, Busnelli, Convenzione matrimoniale, cit., 447 ss.

[122] Per un approfondimento delle questioni relative all’impiego del trust nei rapporti familiari si fa rinvio per tutti a Oberto, Trust e autonomia negoziale nella famiglia, in Famiglia e dir., 2004, 201 ss.; cfr. inoltre Id., Il trust familiare, in www.giacomooberto.com.

[123] A. Catania, 16.4.1981, in Dir. famiglia, 1981, 1056.

[124] In questo senso cfr. invece A. Catania, 16.4.1981, cit.; in dottrina sembra orientato in tale senso anche Finocchiaro F., Del matrimonio, Artt. 79-83, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1971, 147.

[125] Cfr., con riferimento alla prassi notarile nell’Italia preunitaria, Ungari, Il diritto di famiglia in Italia dalle Costituzioni ‘giacobine’ al Codice civile del 1942, Bologna, 1970, Appendici, 211 ss., 217, 277, 281, 309, 311.

[126] Busnelli, Convenzione matrimoniale, cit., 516.

[127] De Paola, Il diritto patrimoniale della famiglia coniugale, II, cit., 185 ss.

[128] Tedeschi, Il regime patrimoniale della famiglia, cit., 471 ss.

[129] Russo E., L’autonomia privata nella stipulazione di convenzioni matrimoniali, cit., 217 ss.; Corsi, Il regime patrimoniale della famiglia, II, cit., 21 ss.

[130] Così Corsi, Il regime patrimoniale della famiglia, II, cit., 22 ss.

[131] Cass., 11.5.1984, n. 2887; Cass., 11.11.1992, n. 12110; Cass., 12.9.1997, n. 9034; per la giurisprudenza di merito v. A. Bologna, 29.1.1980, in CED Cass., Arch. Merito, pd. 820052; per l’esclusione del carattere di convenzione matrimoniale in relazione ai trasferimenti di diritti tra coniugi in sede di separazione e divorzio v. anche Zoppini, Contratto, autonomia contrattuale, ordine pubblico familiare nella separazione personale dei coniugi, nota a Cass., 23.12.1988, n. 7044, in Giur. it., 1990, I, 1, 1321.

[132] Per gli approfondimenti cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale,I e II, cit., passim.

[133] Condivide la conclusione (già prospettata ed argomentata in Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., 683 ss.) Ieva, Le convenzioni matrimoniali, cit., 58.

[134] Questa è anche l’opinione di Morelli, Il nuovo regime patrimoniale della famiglia, cit., 61.

[135] La conclusione sembra potersi argomentare a contrariis dal 1° co. dell’art 171 c.c. e a fortiori dal capoverso del medesimo articolo; nel senso che l’utilità del fondo permane anche in presenza di una crisi coniugale v. anche Auletta, Il fondo patrimoniale, Milano, 1990, 337 ss.; contra Oppo, Tizio e Mevia, che hanno costituito, all’atto del loro matrimonio, un fondo patrimoniale in ‘comproprietà’, attendono un figlio quando Tizio fallisce nell’esercizio di impresa commerciale iniziata dopo il matrimonio. Quale la sorte del fondo?, in Questioni di diritto patrimoniale della famiglia discusse da vari giuristi e dedicate ad Alberto Trabucchi, Padova, 1989, 126.

[136] Sul tema delle convenzioni matrimoniali con ‘motivo postmatrimoniale’ si fa rinvio, per ulteriori approfondimenti, a Oberto, I contratti della crisi coniugale, II, Milano, 1999, 1037 ss.

[137] Sul tema v., in senso favorevole alla regola dell’atipicità, Gangi, Il matrimonio, cit., 317 ss.; Busnelli, Convenzione matrimoniale, cit., 514; contra Ferrara, Diritto delle persone e della famiglia, Napoli, 1941, 297; Tedeschi, Il regime patrimoniale della famiglia, cit., 477 s.; sostiene che, prima della riforma, «era opinione diffusa che la libertà convenzionale potesse solo scegliere tra i regimi tipici adottati dalla legge» Bocchini, Autonomia negoziale e regimi patrimoniali familiari, cit., 436 ss. Per la dottrina sul c.c. 1865 cfr. Bianchi, Del contratto di matrimonio, Napoli, 1907, 30 ss. (secondo cui il contratto di matrimonio «si ispira al concetto della più sconfinata libertà (...). La libertà è la regola, il divieto è l’eccezione»); contra Stolfi, Diritto civile, V, Diritto di famiglia, Torino, 1921, 285 (secondo cui nelle convenzioni matrimoniali «l’autonomia individuale ha un campo non molto esteso»).

[138] Cfr. Cass., 16.9.1969, n. 3111, in Foro it., 1970, I, 900, con nota di Spallarossa; Cass., 9.8.1973, n. 2309.

[139] Cfr. Sacco, Regime patrimoniale e convenzioni, cit., 325, nt. 6.

[140] Cfr. il resoconto della seduta in data 6.7.1971, della IV Commissione, 777; in dottrina cfr. Sacco, Regime patrimoniale e convenzioni, cit., 325, nt. 6; Finocchiaro A. e Finocchiaro M., Diritto di famiglia, I, cit., 196 ss.; Morelli, Autonomia negoziale e limiti legali nel regime patrimoniale della famiglia, cit., 105 ss.

[141] In questo senso cfr. Tamburrino, Lineamenti del nuovo diritto di famiglia italiano, Torino, 1978, 210 s.; Russo E., L’autonomia privata nella stipulazione di convenzioni matrimoniali, cit., 154 ss.; Maiorca, Regime patrimoniale della famiglia (disposizioni generali), in Noviss. Dig. it., App., VI, Torino, 1986, 472 ss.; De Rubertis, La comunione convenzionale tra coniugi, in Riv. notariato, 1989, 42 ss.; Moscarini, Convenzioni matrimoniali in genere, cit., 1103; Zatti, Colussi, Lineamenti di diritto privato, Padova, 2001, 876 ss. Contra, per la atipicità, Irti, Della comunione convenzionale, in Comm. Carraro, Oppo, Trabucchi, I, 1, Padova, 1977, 459 ss.; De Paola, MacrÌ, Il nuovo regime patrimoniale della famiglia, cit., 219 ss.; Santosuosso, Il regime patrimoniale della famiglia, cit., 329 ss.; Morelli, Autonomia negoziale e limiti legali nel regime patrimoniale della famiglia, cit., 105 ss.; Id., Il nuovo regime patrimoniale della famiglia, Padova, 1996, 16 ss.; Oberto, Le convenzioni matrimoniali: lineamenti della parte generale, cit., 604 ss.; Quadri, Autonomia negoziale e regolamento tipico nei rapporti patrimoniali tra coniugi, in Giur. it., 1997, IV, 235 ss.; Bocchini, Autonomia negoziale e regimi patrimoniali familiari, cit., 453; Zaccaria, Possono i coniugi optare per un regime patrimoniale ‘atipico’?, in Studium iuris, 2000, 947 ss.; Patti, Regime patrimoniale della famiglia e autonomia privata, cit., 291 ss. Sul tema cfr. inoltre, in vario senso, Marti, Il problema delle convenzioni atipiche nel diritto di famiglia, in AA.VV., Tipicità e atipicità nei contratti, in Quaderni di Giurisprudenza Commerciale, 53, Milano, 1983, 89 ss.; Galletta, I regolamenti patrimoniali tra coniugi, cit., 9 ss., 36 ss.; Fusaro, Il regime patrimoniale della famiglia, Padova, 1990, 21 ss.; Bocchini, Rapporto coniugale e circolazione dei beni, Napoli, 1995, 5 ss.; Doria, Autonomia privata e ‘causa’ familiare. Gli accordi traslativi tra i coniugi in occasione della separazione personale e del divorzio, Milano, 1996, 156 ss.; Carnevali, Le convenzioni matrimoniali, cit., 18 ss.; Gabrielli, Regime patrimoniale della famiglia, cit., 382 ss.; Gabrielli, Cubeddu, Il regime patrimoniale dei coniugi, cit., 236 ss.; Montecchiari, In tema di forma e contenuto delle convenzioni matrimoniali modificative, nota a Cass., 11.11.1996, n. 9846, in Dir. famiglia, 1997, I, 1333; Quadri, Famiglia e ordinamento civile, Torino, 1997, 96. Per una rassegna delle diverse posizioni Pepe, Convenzioni matrimoniali Comunione convenzionale Separazione dei beni, in Nuova giur. comm., 1991, II, 233.

[142] Donisi, Limiti all’autoregolamentazione degli interessi nel diritto di famiglia, cit., 17.

[143] Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., 146 s.; nel medesimo senso Verde, Le convenzioni matrimoniali, Torino, 2003, 39.

[144] Sulla questione cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., 103 ss.

[145] Rescigno, Manuale del diritto privato italiano, Napoli, 1975, 274; per considerazioni analoghe cfr. Doria, Autonomia privata e ‘causa’ familiare. Gli accordi traslativi tra i coniugi in occasione della separazione personale e del divorzio, cit., 183 ss.

[146] Sul punto cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., 121 ss. e da ultimo anche Bocchini, Autonomia negoziale e regimi patrimoniali familiari, cit., 432, 440; Patti, Regime patrimoniale della famiglia e autonomia privata, cit., 292, nt. 18; Giletta, op. cit., 296 s.

[147] Che non è possibile svolgere in tale sede; al riguardo si fa rinvio a Oberto, I precedenti storici del principio di libertà contrattuale nelle convenzioni matrimoniali, in Dir. famiglia, 2003, I, 535 ss.

[148] Per la comparazione con il sistema tedesco e con quello francese contemporanei, nei quali vige il principio della libertà contrattuale ed è ritenuta come preferibile la regola della atipicità dei regimi patrimoniali cfr. Patti, Regime patrimoniale della famiglia e autonomia privata, cit., 297 ss.

[149] Sacco, Se tra i coniugi l’attuazione di fatto di un regime patrimoniale diverso da quello corrispondente a diritto dia luogo a restituzioni, in AA.VV., Questioni di diritto patrimoniale della famiglia dedicate a Trabucchi, cit., 91.

[150] Busnelli, Convenzione matrimoniale, cit., 514; in questo senso cfr. inoltre Cattaneo, Note introduttive agli artt. 82-88 Nov., in Comm. Cian, Oppo, Trabucchi, III, Padova, 1992, 396 ss.; Corsi, Il regime patrimoniale della famiglia, II, cit., 8 ss.; Gabrielli, Scioglimento parziale della comunione legale fra coniugi. Esclusione dalla comunione di singoli beni e rifiuto preventivo del coacquisto, cit., 349; Sacco, Del regime patrimoniale della famiglia, cit., 17 ss.; Morelli, Autonomia negoziale e limiti legali nel regime patrimoniale della famiglia, cit., 105 ss.; Oberto, Le convenzioni matrimoniali: lineamenti della parte generale, cit., 604 ss.; Angeloni, Autonomia privata e potere di disposizione nei rapporti familiari, Padova, 1997, 270 ss.; Carnevali, Le convenzioni matrimoniali, cit., 19; Confortini, La comunione convenzionale tra coniugi, in Il diritto di famiglia, Tratt. Bonilini-Cattaneo, Torino, 1997, 297; Gabrielli, Cubeddu, Il regime patrimoniale dei coniugi, cit., 8 ss., 294 ss.; Bargelli, Busnelli, Convenzione matrimoniale, cit., 436 ss., spec. 443 ss.; Valignani, I limiti dell’autonomia dei coniugi nell’assetto dei loro rapporti patrimoniali, in Familia, 2001, 381 ss., 384; Zoppini, L’autonomia privata nel diritto di famiglia, sessant’anni dopo, cit., 218; Patti, Regime patrimoniale della famiglia e autonomia privata, cit., 291 ss. Una parte della dottrina individua peraltro una possibile atipicità di contenuto all’interno degli schemi prefigurati dal legislatore (in argomento, tra gli altri, Russo E., L’autonomia privata nella stipulazione di convenzioni matrimoniali, cit., 154 ss.; Galletta, I regolamenti patrimoniali tra coniugi, cit., 36 ss.; Barchiesi, Il sistema della pubblicità nel regime patrimoniale della famiglia, Milano, 1995, 110), mentre altri preferiscono indicare un limite per ogni possibile regime atipico nel principio di «non contraddittorietà legato all’esigenza cioè di coerenza tra le regole volte nel loro complesso a realizzare il programma (obbligato) di equilibrio degli interessi in gioco» (Morelli, Autonomia negoziale e limiti legali nel regime patrimoniale della famiglia, cit., 107). Sull’ampiezza dei margini di autonomia lasciati dal legislatore del 1975 v. infine la riflessione di De Nova, Disciplina inderogabile dei rapporti patrimoniali e autonomia negoziale, in Studi in onore di Rescigno, Milano, 1998, 259 ss.

[151] Sui limiti all’autonomia privata nelle convenzioni matrimoniali v. anche Maiorca, Regime patrimoniale della famiglia (disposizioni generali), cit., 469 ss.; per uno studio comparatistico sull’autonomia privata nelle convenzioni matrimoniali in Italia e in Francia cfr. Dassio, Autonomia privata e convenzioni matrimoniali: l’esperienza francese a confronto con quella italiana, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1996, 837 ss., il quale giunge alle non condivisibili conclusioni – cfr. in partic. 875 ss. – secondo cui i coniugi italiani fruirebbero, rispetto ai loro omologhi francesi, di un assai minore grado d’autonomia, trascurando peraltro di attribuire il giusto rilievo, da un lato, al carattere essenzialmente atipico delle convenzioni in diritto italiano e, dall’altro, alla persistenza di gravi limitazioni alla modifica delle convenzioni matrimoniali nel diritto transalpino: cfr. artt. 1396 ss. Code Civil; nel senso che la possibilità di stipula e modifica in ogni tempo delle convenzioni costituisce un aspetto dell’autonomia dei coniugi cfr. anche Carnevali, Le convenzioni matrimoniali, cit., 19.

[152] Russo E., L’autonomia privata nella stipulazione di convenzioni matrimoniali, cit., 166; Corsi, Il regime patrimoniale della famiglia, II, cit., 9; Carnevali, Le convenzioni matrimoniali, cit., 19; per quanto concerne l’autonomia privata nella convenzione costitutiva del regime di comunione convenzionale (con particolare riguardo ai limiti fissati dall’art. 210) cfr. anche Lo Sardo, La comunione convenzionale nel regime patrimoniale della famiglia, in Riv. notariato, I, 1991, 1229 ss.

[153] Quadri, Autonomia negoziale e regolamento tipico nei rapporti patrimoniali tra coniugi, cit., 235 ss., il quale parla al riguardo di una «libertà virtuale» di creazione di nuovi tipi di convenzione matrimoniale, consentita dal legislatore «proprio in considerazione di un simile prevalente e spontaneo adeguamento degli interessati».

[154] Su cui v. per tutti Oberto, Le convenzioni matrimoniali: lineamenti della parte generale, cit., 608 ss.; per una rassegna di giurisprudenza al riguardo v. anche Pepe, Convenzioni matrimoniali Comunione convenzionale Separazione dei beni, in Nuova giur. comm., 1991, II, 237 ss. In senso contrario rispetto al segnalato trend giurisprudenziale si pongono i rilievi di quella dottrina che mira a proporre o ad estendere tecniche di controllo legate all’irrigidimento formale della fattispecie (cfr. Bargelli, Busnelli, Convenzione matrimoniale, cit., 449 ss. e, per una critica a tale posizione, Zoppini, L’autonomia privata nel diritto di famiglia, sessant’anni dopo, cit., 230).

[155] Cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale, II, cit., 1243 ss.; Id., Prestazioni ‘una tantum’ e trasferimenti tra coniugi in occasione di separazione e divorzio, cit., 77 ss.

[156] Cass., 18.8.1993, n. 8758: «L’accordo intercorso, prima della riforma del diritto di famiglia del 1975, tra coniugi in regime di separazione dei beni, con il quale questi si obbligavano a versare in un unico conto corrente i proventi delle rispettive attività professionali, costituendo esercizio della privata autonomia, è soggetto alle norme ordinarie e non costituisce convenzione matrimoniale da stipularsi con atto pubblico a pena di nullità, con la conseguenza che tale accordo può essere provato anche a mezzo di testimoni».

[157] Cass., 11.11.1996, n. 9846, in Giust. civ., 1997, I, 2220; la stessa pronuncia risulta peraltro pubblicata anche come Cass., 28.11.1996, n. 10586, in Foro it., 1997, I, c. 95; in Riv. notariato, 1997, 405, con nota di Migliori.

[158] Cass., 11.11.1996, n. 9846, cit.

[159] Cass., 15.11.2000, n. 14791.

[160] Sul punto, che non può essere approfondito in questa sede, si fa rinvio per tutti a Oberto, Le convenzioni matrimoniali: lineamenti della parte generale, cit., 608 ss.

[161] L’osservazione di cui al testo vale oggi a maggior ragione per i soggetti legati da unione civile, cui la riforma in materia è venuta a concedere la possibilità di esercizio di un’optio iuris in tutto e per tutto analoga a quella permessa ai coniugi (art. 32 ter, 4°c., l. 31.5.1995, n. 218, aggiunto dall’art. 1, d.lgs. 19.1.2017, n. 7, a mente del quale «Le parti possono convenire per iscritto che i loro rapporti patrimoniali sono regolati dalla legge dello Stato di cui almeno una di esse è cittadina o nel quale almeno una di esse risiede»). Quanto poi alla normativa UE sarà il caso di richiamare il Regolamento (UE) 2016/1103 del Consiglio del 24 giugno 2016 che attua la cooperazione rafforzata nel settore della competenza, della legge applicabile, del riconoscimento e dell’esecuzione delle decisioni in materia di regimi patrimoniali tra coniugi stabilisce, all’art. 23, che l’accordo sulla legge applicabile «è redatto per iscritto, datato e firmato da entrambi i coniugi. Si considera equivalente alla forma scritta qualsiasi comunicazione elettronica che consenta una registrazione duratura dell’accordo». Peraltro lo stesso articolo fa salva la possibilità che la forma richiesta per le convenzioni matrimoniali sia applicabile anche a tale accordo, a determinate condizioni. Analoghe disposizioni sono contenute all’art. 23 del  Regolamento (UE) 2016/1104 del Consiglio del 24 giugno 2016 che attua la cooperazione rafforzata nel settore della competenza, della legge applicabile, del riconoscimento e dell’esecuzione delle decisioni in materia di effetti patrimoniali delle unioni registrate.

[162] Convention de La Haye du 1er juillet 1985 relative à la loi applicable au trust et à sa reconnaissance (il relativo testo è disponibile in www.hcch.e-vision.nl).

[163] Su cui cfr., ex multis, Piccoli, L’avanprogetto di convenzione sul ‘trust’ nei lavori della Conferenza di diritto internazionale privato de L’Aja ed i riflessi di interesse notarile, in Riv. notariato, 1984, 844 ss.; Lupoi, Introduzione ai trusts. Diritto inglese, Convenzione dell’Aja, Diritto italiano, Milano, 1994, in partic. 125 ss., 155 ss.; Id., La sfida dei trusts in Italia, in Corriere giur., 1995, 1205 ss.; Id., Trusts - I) Profili generali e diritto straniero, in Enc. Giur., XXV, Roma, 1995, 7; Id., Trusts, Milano, 2001, 491 ss.; Id., La giurisprudenza italiana sui trust. Dal 1899 al 2005, Milano, 2005; Fumagalli, La Convenzione dell’Aja sul trust ed il diritto internazionale privato italiano, in Dir. comm. internaz., 1992, 533 ss.; AA.VV., Convenzione relativa alla legge sui trusts ed al loro riconoscimento, in Comm. Gambaro, Giardina, Ponzanelli, in Nuove leggi comm., 1993, 1211 ss.; Broggini, Il trust nel diritto internazionale privato italiano, in Beneventi (a cura di), I trusts, in Italia oggi, Milano, 1996, 11 ss.; Pocar, La libertà di scelta della legge regolatrice del trust, in Beneventi (a cura di), I trusts in Italia oggi, cit., 3 ss.; Luzzatto, ‘Legge applicabile’ e ‘riconoscimento’ di trusts secondo la Convenzione dell’Aja, in Trusts att. fid., 2000, 7 ss.; Carbone, Autonomia privata, scelta della legge regolatrice del trust e riconoscimento dei suoi effetti nella Convenzione dell’Aja del 1985, in Trusts att. fid., 2000, 145 ss.; Contaldi, Il trust nel diritto internazionale privato italiano, Milano, 2001; Renda, Ammissibilità del trust interno e questioni in materia di comunione legale, nota a T. Bologna, 1.10.2003, in Nuova giur. comm., 2004, I, 845 ss.; Santoro, Il trust in Italia, Milano, 2004; Bartoli, Muritano, Le clausole dei trusts interni, Torino, 2008. Cfr. inoltre i contributi più recenti citati nelle note seguenti.

[164] Sul rapporto tra trusts e patti successori, cfr. Rescigno, Trasmissione della ricchezza e divieto dei patti successori, in Vita notarile, 1993, 1281; Calò, Dal probate al family trust, riflessi ed ipotesi applicative in diritto italiano, Milano, 1996, 101 ss.; Miranda, Trust e patti successori: variazioni sul tema, in Vita notarile, 1997, 1578 ss.; Gambaro, Trusts, in Digesto civ., XIX, Torino, 1999, 459 ss.; Pene Vidari, Trust e divieto dei patti successori, in Riv. dir. civ., 2000, 851 ss.; Lupoi, Trusts, Milano, 2001, 663; Bartoli, Il trust, Milano, 2001, 667 ss.

[165] Sul rapporto tra trusts e sostituzione fedecommissaria, cfr., fra gli altri, Palazzo, I trusts in materia successoria, in Vita notarile, 1996, 671 ss.; Lupoi, Trusts, cit., 553 ss.; Amenta, Trusts a protezione di disabile, in Trusts att. fid., 2000, 618 ss.; Bartoli, Muritano, Le clausole dei trusts interni, cit., 177 ss.

[166] Sul tema cfr., anche per i richiami dottrinali e giurisprudenziali, Di Landro, Trusts per disabili. Prospettive applicative, in Dir. famiglia, 2003, 166 ss.; Bartoli, Muritano, Le clausole dei trusts interni, cit., 119 ss.; in giurisprudenza v. T. Udine, 18.8.2015, in Trusts att. fid., 2016, 250.

[167] Rileva Lupoi, Perché i trust in Italia, in Dogliotti, Braun (a cura di), Il trust nel diritto delle persone e della famiglia. Atti del convegno. Genova, 15 febbraio 2003, Milano, 2003, 19 che «La produzione della letteratura italiana al riguardo non ha l’eguale in alcun altro Paese di diritto civile, mentre il numero delle pronunce giurisprudenziali italiane in materia negli ultimi tre anni è probabilmente maggiore della somma delle sentenze emesse nel medesimo periodo in tutti gli altri paesi di tradizione civilistica del mondo».

[168] Sul tema cfr. ex multis Lupoi, Il trust nell’ordinamento giuridico italiano dopo la convenzione dell’Aja del 10 luglio 1985, in Vita notarile, 1992, 966 ss.; Id., Effects of the Hague Convention in a Civil Law Country - Effetti della Convenzione dell’Aja in un Paese civilista, in Vita notarile, 1998, 19 ss.; Broggini, op. loc. ult. cit.; Mazzamuto, Il trust nell’ordinamento italiano dopo la convenzione dell’Aja, in Vita notarile, 1998, I, 754 ss.; Moja, Trusts ‘interni’ e società di capitali: un primo caso, nota a T. Genova, 24.3.1997, in Giur. comm., 1998, 764 ss.; Castronovo, Il trust e ‘sostiene Lupoi’, in Europa e dir. priv., 1998, 449 ss.; Id., Trust e diritto civile italiano, in Vita notarile, 1998, 1326 ss.; Ragazzini, Trust ‘interno’ e ordinamento giuridico italiano, in Riv. notariato, 1999, 279 ss.; Palermo, Sulla riconducibilità del ‘trust interno’ alle categorie civilistiche, in Riv. dir. comm., 2000, 133 ss.; Pascucci, Rifiuto di iscrizione nel registro delle imprese di atto istitutivo di trust interno, nota a T. Santa Maria Capua Vetere, 1.3.1999 - T. S.M. Capua Vetere, 14.7.1999, in Riv. dir. impresa, 2000, 121 ss.; Gazzoni, Tentativo dell’impossibile (osservazioni di un giurista ‘non vivente’ su trust e trascrizione), in Riv. notariato, 2001, 11 ss.; Id., In Italia tutto è permesso, anche quel che è vietato (lettera aperta a Maurizio Lupoi su trust e altre bagattelle), in Riv. notariato, 2001, 1247 ss.; Id., Il cammello, il leone, il fanciullo e la trascrizione del trust, in Riv. notariato, 2002, 1107 ss.; Lupoi, Lettera a un notaio conoscitore dei trust, in Riv. notariato, 2001, 1159 ss.; Gambaro, Noterella in tema di trascrizione degli acquisti immobiliari del trustee ai sensi della XV Convenzione dell’Aja, in Riv. dir. civ., 2002, II, 257 ss.; Nuzzo, E luce fu sul regime fiscale del trust, in Banca, borsa, tit. cred., 2002, 245 ss.; Barbuto, La convenzione dell’Aja e il trust in Italia, in www.associazioneavvocati.it; Santoro, op. cit., 49 ss. Cfr. inoltre i contributi più recenti citati nelle note seguenti.

[169] Il dubbio è posto e superato da Calvo, La tutela dei beneficiari nel ‘trust’ interno, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1998, 51 ss., cui si fa rinvio anche per ulteriori richiami.

[170] Cfr. ad es. T. Bologna, 1.10.2003, in Foro it., 2004, I, 1295, con nota di Di Ciommo; in Trusts att. fid., 2004, 67; in Nuova giur. comm., 2004, I, 840, con nota di Renda; per la dottrina cfr. Lupoi, Trusts, cit., 520 ss.; Carbone, Trust interno e legge straniera, in Dogliotti, Braun (a cura di), Il trust nel diritto delle persone e della famiglia. Atti del convegno. Genova, 15 febbraio 2003, cit., 28.

[171] Cfr. il rapport explicatif (cfr. Von Overbeck, Rapport explicatif sur la Convention de La Haye du premier juillet 1985 relative à la loi applicable au trust et à sa reconnaissance, n. 123, a commento dell’art. 13; in www.hcch.net). Il passo cui fanno riferimento i sostenitori della validità del trust ‘interno’ è invece quello che, a commento dell’art. 6 (n. 65 e n. 66), dà atto del rigetto di una proposta tendente a legare la scelta della legge straniera all’esistenza di un «lien [réel] avec la loi choisie»; il rigetto di tale proposta s’accompagna però al rilievo secondo cui «l’opinion a prévalu qu’il était préférable de réprimer les choix abusifs dans ce qui allait devenir l’article 13»: appare dunque chiara l’intenzione di considerare ‘abusiva’ la scelta del ricorso ad una legislazione straniera per dare vita ad un trust ‘interno’ in un Paese che non conosca tale istituto.

[172] Così alle obiezioni sollevabili da parte di quegli ordinamenti nei quali si potrebbe temere «que les principes de leur système juridique ne soient ébranlés par l’intrusion d’une institution étrangère quelque peu inquiétante» risponde esplicitamente il rapport explicatif lapidariamente chiarendo «qu’il n’a jamais été question d’introduire le trust dans les pays de civil law, mais simplement de fournir à leurs juges les instruments propres à appréhender cette figure juridique». Ed è proprio qui, continua il rapport explicatif, che risiede l’interesse della Convenzione per gli Stati che non conoscono il trust: «L’institution n’étant pas prévue par leur droit matériel, ils ne possèdent pas non plus de règles de droit international privé qui puissent la régir et ils en sont réduits à chercher laborieusement à faire entrer les éléments du trust dans leurs propres concepts. Au contraire, la Convention met à disposition des règles de conflit de lois relatives au trust; puis elle indique en quoi doit consister la reconnaissance du trust, mais aussi les limites de cette reconnaissance» (cfr., testualmente, Von Overbeck, Rapport explicatif sur la Convention de La Haye du premier juillet 1985 relative à la loi applicable au trust et à sa reconnaissance, cit., n. 14). Del resto, proprio dall’ambito del diritto internazionale privato, da cui la Convenzione dell’Aja proviene, sembra potersi estrapolare la regola generale che fa divieto ai privati di scegliere a loro arbitrio la legge che disciplinerà i loro rapporti, in assenza di un elemento di estraneità, che pertanto non può essere costituito dalla sola legge dalle stesse parti indicata. Come rilevato in dottrina, l’ambito di applicazione del diritto internazionale privato va circoscritto alle fattispecie che presentino elementi di internazionalità sulla base di un giudizio ex ante, soltanto a seguito del quale, accertata la ricorrenza del carattere internazionale della fattispecie, può applicarsi la normativa di diritto internazionale privato e, quindi la norma che legittima la facoltà di scelta di una legge straniera. Ritenere, invece, che la legge straniera scelta dalle parti possa da sola fungere da elemento di internazionalità che giustifica l’applicazione della normativa di diritto internazionale privato significa operare una inversione concettuale contraria ai principi della logica (così Santoro, op. cit., 54). Al riguardo va detto che, se è vero che la Convenzione di Roma del 19.6.1980 sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali stabilisce, all’art. 3, che «il contratto è regolato dalla legge scelta dalle parti», è altrettanto vero che l’art. 1 della citata Convenzione delimita espressamente il campo d’applicazione della medesima alle sole «obbligazioni contrattuali nelle situazioni che implicano un conflitto di leggi», mentre il 3° co. dell’art. 3 cit. impedisce espressamente alle parti di derogare alle disposizioni imperative dell’ordinamento cui «nel momento della scelta tutti gli altri dati di fatto si riferiscano». La scelta non potrà dunque sortire l’effetto di eludere l’applicazione delle norme cogenti (si badi: quelle cogenti e non solo quelle di ordine pubblico) del Paese con cui il contratto è collegato in via esclusiva, proprio al fine di evitare che i soggetti di un rapporto giuridico privo di elementi di estraneità possano sfuggire all’applicazione delle norme imperative attraverso la designazione di una legge straniera.

[173] Su cui cfr. Calvo, op. cit., 51 ss.; cfr. inoltre Lipari, Fiducia statica e trusts, in Beneventi (a cura di), I trusts in Italia oggi, cit., 75; Lupoi, Legittimità dei trusts interni, ivi, 41; Calò, Dal probate al family trust, riflessi ed ipotesi applicative in diritto italiano, cit., 99, nt. 86.

[174] Ugualmente non persuasivo, a sommesso avviso dello scrivente, appare poi il tentativo di fondare sulla normativa del codice civile la possibilità di dar luogo a fenomeni di ‘segregazione’ patrimoniale al di là dei casi normativamente previsti. Si sono citati al riguardo, per ricordare solo alcune fattispecie, i fenomeni previsti in relazione agli acquisti del mandatario senza rappresentanza, alla posizione del debitore che ha costituito in pegno uno o più beni, alla situazione che si viene a produrre nella c.d. ‘fiducia statica’ (che altro non è se non il mandato senza rappresentanza fiduciae causa) o nel sequestro convenzionale (i rilievi sono stati presentati da Lupoi nel corso del convegno dal titolo «Autonomia patrimoniale e segregazione patrimoniale nel trust», organizzato dall’Associazione Avvocati del Distretto di Torino e dall’Associazione «Il trust in Italia», svoltosi a Torino il 24.1.2004; per un approccio riconducibile alla stessa ratio cfr. anche Lupoi, Trusts, cit., 551 ss.). In tutti questi casi (e fermo restando, naturalmente, che la questione meriterebbe ben altro approfondimento, impossibile nella presente sede), l’effetto ‘segregativi’, in deroga al disposto di cui all’art. 2740 c.c., sembra invero porsi quale esclusiva conseguenza di precise disposizioni di legge, in fattispecie che la legge stessa tassativamente descrive, ricollegandole a ben precise dichiarazioni negoziali (bilaterali, tra l’altro), inestensibili analogicamente. In altre parole, sembra a chi scrive che l’art. 2740 c.c. non possa subire deroghe se non nei casi tassativamente previsti dalla legge. Ciò sembra valere anche in relazione al tema (che non è possibile sviluppare nella presente sede) del contratto di affidamento fiduciario, su cui v. i richiami in nota infra.

[175] Sul tema cfr. Oberto, Trust e autonomia negoziale nella famiglia, cit., 201 ss., 310 ss.; Id., Il trust familiare, cit., §§ 15 ss.; v. inoltre Dogliotti, Piccaluga, I trust nella crisi della famiglia, in AA.VV., Il trust nel diritto delle persone e della famiglia. Atti del convegno. Genova, 15 febbraio 2003, a cura di Dogliotti e Braun, Milano, 2003, 138 ss.

[176] Cfr. ad es. Bartoli, Muritano, Le clausole dei trusts interni, cit.; v. inoltre Petrelli, La trascrizione degli atti di destinazione, in Riv. dir. civ., 2006, II, 161 ss.

[177] Per alcuni recenti pregevoli studi sul tema cfr. Petrelli, Trust interno, art. 2645-ter c.c. e “trust italiano”, in Riv. dir. civ., 2016, 167 ss.; Reali, I trusts, gli atti di assegnazione di beni in trust e la convenzione dell’Aja. Parte prima: i princìpi generali, in Riv. dir. civ., 2017, 398 ss.; Id., I trusts, gli atti di assegnazione di beni in trust e la convenzione dell’Aja. Parte seconda: le regole giuridiche operative, ibidem, 608 ss. Per una recente pronuncia di legittimità in tema di trust cfr. Cass., 27.1.2017, n. 2043, in Corr. giur., 2017, 781, con nota di Lupoi. Per una rassegna di giurisprudenza sul tema cfr. Fanticini, Relazione generale sullo sviluppo della giurisprudenza civile italiana, in Trusts att. fid., 2015, 455 ss., 546 ss.

[178] Cfr. ad es. le sentenze di merito colpite dagli strali polemici di Lupoi, Il dovere professionale di conoscere la giurisprudenza e il trust interno, in Trusts att. fid., 2016, 113 ss. e di Tonelli, I nuovi negazionisti, ivi, 2016, 250 ss.

[179] Sul contratto di affidamento fiduciario v. per tutti Lupoi, Il contratto di affidamento fiduciario, Milano, 2014, passim; Mazzone, La funzionalità del contratto di affidamento fiduciario, in Trusts att. fid., 2016, 351 ss.

[180] Per un significativo caso in proposito v. T. Milano, 21.11.2002, in Trusts att. fid., 2003, 265; il caso trattato dalla sentenza di merito è stato definitivamente risolto a livello di legittimità da Cass., 13.6.2008, n. 16022, in Corriere giur., 2009, 215, con nota di Galluzzo; in Nuova giur. comm., 2008, I, 78, con commento di Martone.

[181] Cfr. Oberto, Trust e autonomia negoziale nella famiglia, cit.; Id., Il trust familiare, cit.; Id., Il regime di separazione dei beni tra coniugi. Artt. 215-219, cit., 183 ss.

[182] Come si è visto: cfr. supra, § 10.

[183] Sul tema cfr., anche per gli ulteriori necessari richiami, Oberto, Atti di destinazione (art. 2645 ter c.c.) e trust: analogie e differenze, in Contratto impr./Europa, 2007, 351 ss.; Id., Vincoli di destinazione ex art. 2645 ter c.c. e rapporti patrimoniali tra coniugi, in Famiglia e dir., 2007, 202 ss.; Id., Le destinazioni patrimoniali nell’intreccio dei rapporti familiari, in Calvo, Ciatti (a cura di), Trattato dei contratti,19, I contratti di destinazione patrimoniale, Torino, 2014, 140 ss.; Id., Atto di destinazione e rapporti di famiglia, in Giur. it., 2016, 239 ss. Per un recente pregevole studio sull’art. 2645 ter c.c. cfr. Galluzzo, Gli atti di disposizione e di amministrazione dei beni destinati, in Contratto impr., 2016, 205 ss.

[184] Cfr. per tutti Romeo, Venuti, Relazioni affettive non matrimoniali: riflessioni a margine del d.d.l. in materia di regolamentazione delle unioni civili e disciplina delle convivenze, in Leggi civ. comm., 2015, 971 ss., 991 s.; per un quadro generale della situazione al momento dell’entrata in vigore della riforma del 2016 cfr. anche Oberto, I diritti dei conviventi. Realtà e prospettive tra Italia ed Europa, Padova, 2012, passim; Id., I contratti di convivenza nei progetti di legge (ovvero sull’imprescindibilità di un raffronto tra contratti di convivenza e contratti prematrimoniali), in Famiglia e dir., 2015, 165 ss.; Auletta, Modelli familiari, disciplina applicabile e prospettive di riforma, in Leggi civ. comm., 2015, 615 ss.; Id., Disciplina delle unioni non fondate sul matrimonio: evoluzione o morte della famiglia? (L. 20 maggio 2016, n. 76), in Leggi civ. comm., 2016, 371 ss.; Dell’Anna Misurale, Unioni civili tra diritto e pregiudizio. Prima lettura del nuovo testo di legge, in giustiziacivile.com, 2016, 1 ss.; De Filippis, Unioni civili e contratti di convivenza, Milano, 2016, 1 ss.; Ferrando, Le unioni civili: la situazione in Italia, in Rescigno, Cuffaro (a cura di), Unioni civili e convivenze di fatto: la legge, in Giur. it., 2016, 1771 ss.

[185] Per alcune disamine comparate cfr. Bonini Baraldi, Le nuove convivenze tra discipline straniere e diritto interno, Milano,, passim; Id., La famiglia de-genere. Matrimonio, omosessualità e Costituzione, Milano-Udine, 2010, passim; Bilotta (a cura di), Le unioni tra persone dello stesso sesso: profili di diritto civile, comunitario e comparato, Milano, 2008, passim; Pezzini, Lorenzetti (a cura di), Unioni e matrimoni same-sex dopo la sentenza 138 del 2010: quali prospettive?, Napoli, passim; Fusaro, Profili di diritto comparato sui regimi patrimoniali, in Giur. it., 2016, 1789 ss.

[186] Corte EDU, 21.7.2015, Oliari et al. c. Italia, in Famiglia e dir., 2015, 1069, con nota di Bruno; reperibile anche in hudoc.echr.coe.int; Corte EDU 30.6.2016, Taddeucci e McCall c. Italia, ivi, sul tema cfr. Oberto, I diritti dei conviventi. Realtà e prospettive tra Italia ed Europa, cit., 211 ss.; Dell’Anna Misurale, op. cit., 8 ss.; Romano C., Unioni civili e convivenze di fatto: una prima lettura del testo normativo, in Notariato, 2016, 334 s.; Rossi, La “legge Cirinnà” tra love rights e politica del diritto, in Studium iuris, 2016, 979 ss.; Ferrando, Le unioni civili: la situazione in Italia, cit., 1771 ss.

[187] Cfr. C. cost., 11.6.2014, n. 170. Con tale sentenza era stata dichiarata l’illegittimità costituzionale degli artt. 2 e 4, l. 1982/164, con riferimento all’art. 2 Cost., nella parte in cui non prevedono che la sentenza di rettificazione dell’attribuzione di sesso di uno dei coniugi, che comporta lo scioglimento del matrimonio, consenta, comunque, ove entrambi lo richiedano, di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata, che tuteli adeguatamente i diritti ed obblighi della coppia medesima, con le modalità da statuirsi dal legislatore; la dichiarazione di illegittimità era stata estesa all’art. 31, 6° co., d.lgs. 2011/150, che ha sostituito l’art. 4, l. 1982/164, abrogato dall’art. 36 del medesimo d.lgs., ripetendone, con minima ininfluente variante lessicale, in modo identico il contenuto (sulla decisione, in prospettiva critica, cfr. Palmeri, Venuti, L’inedita categoria delle unioni affettive con vissuto giuridico matrimoniale. Riflessioni critiche a margine della sentenza della corte costituzionale 11 giugno 2014, n. 170 in materia di divorzio del transessuale, in Nuova giur. comm., 2014, II, 553 ss.).

[188] Per le critiche cfr. Oberto, I rapporti patrimoniali nelle unioni civili e nelle convivenze di fatto, cit., 30 ss.; Id., Il regime patrimoniale dell’unione civile, cit., 340 ss.

[189] Oberto, I rapporti patrimoniali nelle unioni civili e nelle convivenze di fatto, cit., 30 ss.; in termini analoghi si esprime Quadri, “Unioni civili tra persone dello stesso sesso” e “convivenze”: il non facile ruolo che la nuova legge affida all’interprete, in Corr. giur., 2016, 898, ad avviso del quale «la ricerca di soluzioni originali nella regolamentazione delle “unioni civili” non ha mancato di risolversi nell’anticipazione di modelli di disciplina, prevedibilmente destinati ad estendersi alla materia matrimoniale»; per uno spunto in questo senso v. anche Gattuso Cosa c’è nella legge sulle unioni civili: una prima guida, 2016, in articolo29.it;, passim; sull’eliminazione dell’obbligo di fedeltà e sulla vicenda dell’adozione del figlio del partner cfr. De Filippis, Unioni civili e contratti di convivenza, cit., 107 ss.; Dell’Anna Misurale, op. cit.,12; Pacia, Unioni civili e convivenze, 2016, in juscivile.com, 3 ss.; sui rapporti tra matrimonio e unione civile v. anche Balestra, Unioni civili e convivenze di fatto: brevi osservazioni in ordine sparso, in giustiziacivile.com, 2016, 1 ss.; Id., Unioni civili, convivenze di fatto e “modello” matrimoniale: prime riflessioni, in Giur. it., 2016, 1779 ss.; Bianca Mirzia, Le unioni civili e il matrimonio: due modelli a confronto, in giudicedonna.it, 2016, 1 ss.; Querzola, Riflessioni sulla legge in materia di unioni civili, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2016, 843 ss., 855 ss.

[190] Su cui v. per tutti Oberto, I rapporti patrimoniali nelle unioni civili e nelle convivenze di fatto, cit., 59 ss.; Id., I contratti di convivenza, Commento all’art. 1, co. 50-63, l. 20.5.2016, n. 76, in Sesta (a cura di), Codice dell’unione civile e delle convivenze, Milano, 2017, 1334 ss. 

[191] In questi termini Oberto, I rapporti patrimoniali nelle unioni civili e nelle convivenze di fatto, cit., 32, con giudizio condiviso da Quadri,“Unioni civili tra persone dello stesso sesso” e “convivenze”: il non facile ruolo che la nuova legge affida all’interprete, cit., 895; stigmatizza la «confusa sequenza di 69 commi in un unico articolo» Pacia, op. cit., 1; di «ecomostro normativo» parla, condivisibilmente, Querzola, op. cit, 844.

[192] Come rilevato in dottrina (Rossi, op. cit, 985), «al fine di perseguire l’obiettivo di accontentare l’area cattolica, si è invertito il processo di costruzione normativa, legiferando per sottrazione, o meglio decostruendo il puzzle normativo. L’impressione, analizzando le proposte della relatrice, è che si sia principiato da una versione massimalista volta a prevedere una piena equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio per poi sottrarre progressivamente tessere al mosaico al fine di trasfigurare la figura dell’unione civile rendendola un istituto sostanzialmente corrispondente al matrimonio, ma formalmente alternativo, che garantisse comunque il soddisfacimento delle medesime esigenze sostanziali che trovano realizzazione nel matrimonio, sia pure attraverso una diversa forma giuridica». La stessa collocazione della riforma al di fuori del contesto codicistico appare sicuramente criticabile, in quanto possibile fonte di confusione ed incertezze (in questo senso v. anche, con riguardo alla precedente – penultima – versione del d.d.l. in tema di unioni civili, Casaburi, Il disegno di legge sulle unioni civili tra persone dello stesso sesso: verso il difficile ma obbligato riconoscimento giuridico dei legami omosessuali, in Foro it., 2016, V, 11 ss. e, successivamente, Id., Le unioni civili tra persone dello stesso sesso nella l. 20 maggio 2016 n. 76 (nota a T. Roma, 3.5.2016), ibidem, I, 2246 ss.). Trattasi, del resto, di un’evidente scelta «politica» volta a non introdurre nel «sacro» testo del codice le nuove disposizioni, quasi che si temesse di «contaminarlo» con la presente materia: il che marca una chiara differenza (negativa) rispetto all’opposto atteggiamento mostrato, ad esempio, dai cugini transalpini, allorquando questi, ormai diversi anni or sono, introdussero il PACS nel Code Civil (cfr. artt. 515-1 ss. del Code Civil, introdotti dalla l. n. 2007-308 del 3.5.2007, in vigore dal 1.1.2009) e, nel 2013, addirittura aprirono il matrimonio alle coppie dello stesso sesso, modificando in tal senso l’art. 143 dello stesso codice («Le mariage est contracté par deux personnes de sexe différent ou de même sexe»: cfr. art. 1, l. n. 2013-404 del 17.5.2013; per richiami comparati v. anche Fusaro, Profili di diritto comparato sui regimi patrimoniali, cit.,1789 ss.). E del resto, come pure rimarcato da autorevole dottrina, la mancata collocazione «risponde alla stessa – certamente discutibile – ratio per cui neppure il divorzio in esso abbia trovato sede, ed anzi neppure sia così chiamato dal legislatore, se non di sfuggita, come di recente accaduto nell’art. 6, l. 10 novembre 2014, n. 162» (Sesta, Unione civile e convivenze: dall’unicità alla pluralità dei legami di coppia, in Giur. it., 2016, 1792). Quanto sopra appare particolarmente evidente proprio con riguardo all’unione civile.

[193] Oberto, I rapporti patrimoniali nelle unioni civili e nelle convivenze di fatto, cit., 33 ss.; nello stesso senso v. anche Bianca Mirzia, op. loc. ultt. citt.

[194] Balestra, Unioni civili, convivenze di fatto e “modello” matrimoniale: prime riflessioni, cit., 1779 ss.; 1782. Altrove (cfr. ad es. Dell’Anna Misurale, op. cit., 10) si sottolinea come il legislatore, nel regolare il rapporto tra persone dello stesso sesso mediante il ricorso al modello dell’unione civile, scartando l’opzione matrimonio, abbia tuttavia attinto «a piene mani» dalla disciplina di quest’ultimo istituto, laddove, secondo altra Autrice (Pacia, op. cit., 19), la disciplina delle unioni civili rappresenta una «brutta copia del matrimonio» (sostiene che il legislatore ha voluto «una unione meno impegnativa ma anche con minori garanzie per i suoi componenti, indebolendone la stabilità nel discutibile intento di privilegiare l’unione matrimoniale» Auletta, Disciplina delle unioni non fondate sul matrimonio: evoluzione o morte della famiglia? (L. 20 maggio 2016, n. 76), cit., 382).

[195] Per un’interessante «anticipazione» della riforma da parte di una commissione tributaria, che ha esteso ai conviventi omosessuali tra persone dello stesso sesso legate tra loro da un’unione civile formalizzata all’estero la disciplina fiscale favorevole prevista per i coniugi in materia di donazioni cfr. Comm. Trib. Reg. Liguria 18.4.2016, n. 575, in jusdicere.it.

[196] Oberto, I rapporti patrimoniali nelle unioni civili e nelle convivenze di fatto, cit., 38 s.

[197] Così Oberto, I rapporti patrimoniali nelle unioni civili e nelle convivenze di fatto, cit., 38 s., con soluzione condivisa da Quadri,“Unioni civili tra persone dello stesso sesso” e “convivenze”: il non facile ruolo che la nuova legge affida all’interprete, cit., 895.

[198] Né in senso contrario può tentarsi (come vorrebbe invece Casaburi, Le unioni civili tra persone dello stesso sesso nella l. 20 maggio 2016 n. 76 (nota a T. Roma, 3.5.2016), cit., 2254) di far valere il carattere (incontestabilmente) eccezionale (a sua volta) della citata clausola di chiusura. Il ricorso all’analogia, invero, è ammesso solo in caso di incertezza sull’individuazione della regolamentazione di una certa situazione: ciò che è ben diverso dalla presenza, tutto al contrario, di una situazione di certezza, sebbene negativa. In altre parole, la legge appare estremamente chiara nell’escludere la possibilità di qualsiasi applicazione della normativa matrimoniale codicistica non espressamente richiamata e, in claris, non vi è spazio né per interpretazione, né per analogia.

[199] Oberto, I rapporti patrimoniali nelle unioni civili e nelle convivenze di fatto, cit., 45 ss.

[200] Oberto, I rapporti patrimoniali nelle unioni civili e nelle convivenze di fatto, cit., 40.

[201] Oberto, I rapporti patrimoniali nelle unioni civili e nelle convivenze di fatto, cit., 49 s.; Id., Il regime patrimoniale dell’unione civile, cit., 377 ss., 401 ss., 405 s., 407 ss.

[202] Oberto, I rapporti patrimoniali nelle unioni civili e nelle convivenze di fatto, cit., 44.

[203] Oberto, I rapporti patrimoniali nelle unioni civili e nelle convivenze di fatto, cit., 44.

[204] Come invece ritenuto da Casaburi, Le unioni civili tra persone dello stesso sesso nella l. 20 maggio 2016 n. 76 (nota a T. Roma, 3.5.2016), cit., 2253.

[205] così Oberto, I rapporti patrimoniali nelle unioni civili e nelle convivenze di fatto, cit., 47 ss.

[206] V. supra, § 3.

[207] Oberto, I rapporti patrimoniali nelle unioni civili e nelle convivenze di fatto, cit., 43 ss., 47 ss.

[208] Oberto, I rapporti patrimoniali nelle unioni civili e nelle convivenze di fatto, cit., 49; in senso conforme v. pure Quadri,“Unioni civili tra persone dello stesso sesso” e “convivenze”: il non facile ruolo che la nuova legge affida all’interprete, cit., 895.

[209] v. supra, § 10.

[210] A dispetto dell’esistenza per i coniugi – e, di conseguenza, per i soggetti civilmente uniti – dello specifico istituto del fondo patrimoniale, con cui il vincolo di destinazione introdotto nel 2006 ben potrà convivere: cfr., anche per i richiami, Oberto, Atto di destinazione e rapporti di famiglia, cit., 239 ss., 243 ss.

[211] Per chi crede a tale ultima possibilità, naturalmente, su cui v. supra, §§ 12 s.