Giacomo Oberto

 

ANCORA SULLA PRETESA GRATUITÀ

DELLE PRESTAZIONI LAVORATIVE SUBORDINATE RESE DAL CONVIVENTE MORE UXORIO

Nota a Cass., 19 settembre 2015, n. 19304

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Nel momento in cui si vivacizza il dibattito sull’introduzione di una disciplina ad hoc per le unioni civili e le convivenze di fatto, la Cassazione torna ad affrontare il tema della rimunerazione delle attività lavorative prestate da un convivente in favore del partner. L’approccio continua ad essere quello «tradizionale», basato sull’estensione alla convivenza more uxorio di quella presunzione di gratuità del lavoro prestato in favore del coniuge (o di altro familiare), che da quarant’anni si pone in contrasto con il disposto dell’art. 230-bis c.c. Lo scritto si prefigge di illustrare l’evoluzione del principio in esame nel contesto della famiglia fondata sul matrimonio e dell’unione di fatto, per poi presentare una soluzione che, prescindendo del tutto da una (ormai inesistente) presunzione di gratuità, si fonda sul presupposto della subordinazione, da considerare peraltro, nel contesto della compagine familiare, con un occhio attento alle peculiarità del rapporto coniugale o para-coniugale. Il lavoro si chiude con la presentazione di alcune prospettive de iure condendo, alla luce del d.d.l. in discussione di fronte al Parlamento.

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Sommario: 1. Introduzione. Il lavoro del convivente nel contesto dei rimedi di diritto comune. L’inestensibilità per via analogica dell’art. 230-bis c.c. — 2. Le prestazioni lavorative subordinate endofamiliari come prestazioni effettuate affectionis vel benevolentiae causa. — 3. L’applicazione, da parte della giurisprudenza, della presunzione di gratuità alle prestazioni lavorative subordinate a favore del convivente. — 4. I criteri individuati dai giudici per il superamento della presunzione di gratuità, pur in presenza di un accertato rapporto di convivenza more uxorio. — 5. Il lavoro del convivente tra subordinazione e parasubordinazione: rilievi critici. 6. Per una diversa concezione del concetto di subordinazione (attenuata). — 7. Il lavoro del convivente nel d.d.l. N. 2081/S/XVII («Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze»).

 

 

1. Introduzione. Il lavoro del convivente nel contesto dei rimedi di diritto comune. L’inestensibilità per via analogica dell’art. 230-bis c.c.

       

        Nella perdurante assenza (e nella trepidante attesa) di una disciplina normativa organica della famiglia di fatto, i nostri giudici continuano a fare applicazione di principi di diritto comune. Questa «via necessitata», se, nei settori ormai «tradizionali» dell’obbligazione naturale, dell’arricchimento ingiustificato e dei contratti di convivenza, continua ad offrire soluzioni in grado di funzionare a livello, quanto meno, di palliativo per le perduranti inadempienze legislative, in altri campi, quali quello, per l’appunto, del lavoro del convivente, rischia, alla luce dell’evoluzione di altri settori giusfamiliari e, soprattutto, del costume sociale, di condurre a risultati del tutto avulsi dalla realtà.

        Occupandosi già diversi anni or sono della problematica delle prestazioni lavorative tra conviventi more uxorio, lo scrivente aveva tentato di dimostrare come un’evoluzione storica pluricentenaria evidenziasse un tendenziale favor per l’apprestamento di svariate forme di «rimunerazione» delle operae prestate dal(la) convivente, senza mai dedurre, e neppure cercare di dedurre, dalla peculiare situazione affettiva delle parti, ragioni che potessero costituire ostacolo al riconoscimento giuridico di conseguenze patrimoniali (il più delle volte mercé il ricorso alla soluti retentio propria delle obbligazioni naturali) favorevoli a chi per anni aveva prestato lavoro, vuoi domestico, vuoi d’altro tipo, nel contesto di un ménage paramatrimoniale [1].

Se è vero, peraltro, che già nel lontano 1965 un giurista certo non «barricadero», quale Arturo Carlo Jemolo, si sentiva in dovere di spezzare una lancia in favore della ex convivente che «per tutta la vita ha lavorato con il compagno, nella bottega, nell’azienda agricola o industriale: senza stipendio, senza assicurazioni sociali», dichiarando «veramente iniqua» la soluzione che le avesse negato ogni diritto [2] e se è vero come è vero che, come appena ricordato, a questa sensibilità fa comunque riscontro un’evoluzione storica addirittura plurisecolare [3], occorre riconoscere che la tesi dell’obbligazione naturale, attraverso la quale siffatto favore ha sempre trovato espressione, non riesce a porre rimedio a tutti quei casi in cui il partner «forte» non ritenga di adempiere spontaneamente ai doveri morali e sociali che dottrina e giurisprudenza riconoscono nascere tra conviventi [4].

D’altro canto, ben noti e tutt’altro che trascurabili sono i dubbi che la via dell’arricchimento ingiustificato può far sorgere, sebbene la giurisprudenza più recente, sulla scia di rilievi da diversi anni presentati dallo scrivente, sembri aver superato, anche se in modo non del tutto convincente, il tradizionale principio secondo cui «la volontaria prestazione esclude(rebbe) l’ingiustizia dell’arricchimento» [5].

Al tema delle prestazioni lavorative tra conviventi chi scrive ha dedicato un’apposita monografia, cui non rimarrà che fare riferimento [6], cercando in questa sede di cogliere solo gli spunti offerti dalla dottrina e dalla giurisprudenza più recenti, nonché dalle prospettive d’intervento normativo che si profilano all’orizzonte.

Proprio da queste ultime emerge l’indicazione dell’applicazione ai conviventi della disciplina dell’impresa familiare: soluzione, questa, che di sicuro potrebbe giocare un ruolo decisivo a tutela del convivente «debole» nei confronti del partner imprenditore il quale rifiuti di condividere quegli incrementi patrimoniali conseguiti anche grazie alla collaborazione spontaneamente prestata dall’altro. Secondo diverse voci, sarebbe, anzi, l’identità di ratio, consistente nella tutela del collaboratore economicamente svantaggiato, a giustificare l’estensione analogica al convivente dei principi di cui all’art. 230-bis c.c., pure in assenza di un intervento normativo specifico [7].

Per ciò che attiene alla giurisprudenza di legittimità [8], una decisione del 1994 [9] ha escluso l’applicazione analogica dell’art. 230-bis c.c. sulla base del carattere eccezionale della norma, spingendosi a dichiarare infondata una questione di legittimità costituzionale in relazione all’art. 3 Cost., con la motivazione – alquanto criticata da una parte della dottrina [10] – che dalla convivenza non possono sorgere gli analoghi doveri che discendono dal matrimonio [11].

Anche successivamente la Suprema Corte ha ribadito il medesimo principio [12], stabilendo che «Presupposto per l’applicabilità della disciplina in materia di impresa familiare è l’esistenza di una famiglia legittima e, pertanto, l’art. 230 bis cod. civ. non è applicabile nel caso di mera convivenza, ovvero alla famiglia cosiddetta ‘di fatto’, trattandosi di norma eccezionale, insuscettibile di interpretazione analogica».

Non fanno, peraltro, difetto declamazioni di segno almeno apparentemente opposto, sull’estensibilità analogica dell’art. 230-bis c.c. alla famiglia di fatto, anche se queste si risolvono, ad un attento esame delle fattispecie, vuoi in meri obiter dicta [13], vuoi nel concreto rifiuto di fare uso, nel caso di specie, del citato rimedio giusfamiliare tipico a favore di quel convivente.

Di quest’ultima situazione appare emblematica una decisione del 2006, pur universalmente presentata come favorevole alla tesi dell’estensione analogica. Nella stessa, infatti, è dato leggere che è «possibile inquadrare il rapporto stesso nell’ipotesi della comunione tacita familiare come delineata dall’art. 230 bis c.c.; principio che può estendersi anche alla vera e propria impresa familiare atteso che la famiglia di fatto costituisce una formazione sociale atipica a rilevanza costituzionale ex art. 2 Cost. (cfr. C. cost. 18 novembre 1986 n. 237)». Nella specie, peraltro, la domanda della ex convivente è stata rigettata, assumendosi che la sua attività lavorativa sarebbe stata «ascrivibile esclusivamente ai vincoli di solidarietà ed affettività tipici di un rapporto di convivenza more uxorio». Il che equivale, in concreto (e al di là delle generiche declamazioni di principio), a ricavare dalla presenza di una famiglia di fatto una regola di tendenziale esclusione dell’applicabilità dei rimedi descritti dall’art. 230-bis c.c. [14].

Non appare quindi corretto affermare che la giurisprudenza di legittimità si sarebbe «convertita», nel corso della sua evoluzione, alla tesi dell’estensibilità analogica alla famiglia di fatto dell’art. 230-bis c.c.

D’altro canto, l’elenco dei soggetti dell’impresa familiare, di cui al terzo comma dell’art. ult. cit., appare tassativo, in quanto esclusivamente correlato al dato formale della presenza di un rapporto di coniugio, ovvero di parentela o di affinità entro gradi ben individuati [15]. Si badi, in proposito, che il richiamo a tale dato formale appare particolarmente «forte», essendo addirittura espresso per ben due volte. Da un lato, infatti, esso è indicato direttamente, mediante la previsione del requisito del coniugio, mentre dall’altro esso è ripetuto, indirettamente, tramite il requisito dell’affinità [16].

Né del resto sembra possibile fondare il ricorso al procedimento analogico su di una presunta ratio di tutela della convivenza [17]. Il rilievo, ove spinto alle sue estreme conseguenze, dovrebbe indurre ad estendere al caso in esame il ragionamento seguito dalla sentenza della Corte costituzionale 7 aprile 1988, n. 404 [18] che ha, come noto, ampliato il novero dei soggetti di cui all’art. 6, l. 27 luglio 1978, n. 392, sino a ricomprendervi il convivente more uxorio, proprio perché appariva del tutto irrazionale l’esclusione di tale soggetto da una norma chiaramente diretta alla tutela della convivenza, eventualmente anche non fondata su di un rapporto di parentela (sintomatica è la menzione in essa dell’erede in quanto tale, anche se non congiunto) [19].

Una ratio analoga non sembra però riscontrabile nell’art. 230-bis c.c., che mira a proteggere non già la convivenza (che della disposizione non costituisce neppure un presupposto), bensì il lavoro prestato da certe persone che possono anche non avere instaurato tra di loro alcuna comunione di vita, ma che debbono comunque trovarsi in uno di quei particolari rapporti di parentela, affinità o coniugio con il titolare dell’impresa [20].

A ben vedere, in conclusione, non è solo il (supposto) carattere eccezionale dell’istituto delineato dall’art. 230-bis c.c. [21], quanto la – in altra sede già ampiamente evidenziata [22] – difficoltà di riscontrare nel caso di specie «casi simili o materie analoghe» (art. 12 cpv., disp. prel. c.c.), per il rifiuto da parte dei conviventi di sottoporre il ménage alle regole dettate dall’ordinamento per l’unione legittima, con conseguente insanabile diversità delle situazioni da porre a raffronto, ad impedire de iure condito un’estensione pure innegabilmente suggerita da considerazioni di tipo equitativo.

Sarà, semmai, sul piano del jus condendum che andrà posto il problema dell’equiparazione del lavoro prestato dal convivente a quello del coniuge: su questo tema si tornerà più avanti [23].

 

 

2. Le prestazioni lavorative subordinate endofamiliari come prestazioni effettuate affectionis vel benevolentiae causa.

 

La decisione qui in commento si muove nel solco di una consolidata tradizione, che tende a ricondurre le prestazioni lavorative tra conviventi more uxorio al novero di quelle eseguite affectionis vel benevolentiae causa e dunque gratuitamente, in forza di una vera e propria estensione analogica «odiosa», o in malam partem (pur nel rigetto, come si è visto, dell’applicazione dell’art. 230-bis c.c.) di una regola ampiamente elaborata con riguardo ai rapporti tra coniugi.

        Ed invero, con l’introduzione dell’art. 2094 c.c. si è affermata, già a partire dagli anni Cinquanta dello scorso secolo, la regola della tendenziale presunzione (iuris tantum) di gratuità delle prestazioni lavorative svolte nel contesto di una compagine familiare. Il punto di riferimento è, ovviamente, vista anche l’epoca, tendenzialmente sempre la famiglia fondata sul matrimonio, laddove i soggetti coinvolti sono quasi sempre il coniuge, ma anche alcuni parenti stretti, quali genitori, figli e fratelli.

        La mole del corpus giurisprudenziale così elaborato nel corso dei decenni risulta piuttosto impressionante [24].

        Tra i casi esaminati spiccano, oltre alle «classiche» rivendicazioni tra coniugi in crisi, anche le controversie per la rimunerazione delle prestazioni lavorative rese dalla «perpetua» a favore del fratello sacerdote [25], quanto meno prima dell’entrata in vigore del d.P.R. 31 dicembre 1971, n. 1403, che, all’art. 1, presuppone, anche in presenza di vincoli di parentela tra le parti, l’esistenza di un rapporto (oneroso) di lavoro domestico quando prestazioni di carattere domestico siano effettuate «nei confronti dei sacerdoti secolari di culto cattolico» [26].

        Si sono estesi, poi, i principi in questione anche agli affini [27], richiedendosi, per altro verso, sempre la presenza di vincoli familiari «stretti» tra le parti [28].

        E’ rimasto invece piuttosto controverso, sempre in relazione ai predetti rapporti di coniugio, parentela o affinità (strette), l’ulteriore requisito della convivenza, proprio al fine dell’operatività della citata presunzione di gratuità. Qui, dopo qualche oscillazione, la Cassazione era giunta in un primo tempo a ritenere che la presunzione di gratuità operasse solo in presenza della convivenza all’interno di un gruppo familiare, dato che solo in questo caso vi è una partecipazione costante dei vari membri alla vita ed agli interessi della comunità, e cioè uno stato di mutua solidarietà ed assistenza [29]. In seguito, tuttavia, in presenza di stretti legami di parentela, la Corte ha negato la necessità della convivenza [30]. Sul punto, si è affermato in dottrina [31] che la soluzione che richiede la convivenza è più equilibrata dell’altra, perché il non convivente, in linea di massima, è un soggetto debole che non usufruisce, o usufruisce di meno rispetto al convivente, dei benefici della comunanza di vita e di interessi e della mutua solidarietà ed assistenza.

        In realtà, come si dirà tra breve [32], è il presupposto stesso dell’applicabilità ai rapporti endofamiliari (vuoi «legittimi», vuoi «di fatto») di una presunzione di gratuità a rivelarsi insostenibile.

        Da notare, ancora, che la categoria delle prestazioni affectionis vel benevolentiae causa è per la giurisprudenza, almeno potenzialmente, più ampia di quella che abbraccia le prestazioni rese all’interno di un rapporto di famiglia, come testimoniato da alcune decisioni che investono, ad esempio, l’effettuazione di attività di tecnico presso un laboratorio provinciale di igiene e profilassi, senza obblighi di orario e senza subordinazione e collaborazione, al fine di ottenere una futura sistemazione e di conseguire una preparazione tecnica per partecipare a concorsi [33], o, ancora, la partecipazione a gare automobilistiche da parte di un pilota di autovetture da corsa nei rapporti con una società sportiva [34], o il compimento di attività lavorative di vario genere (tra cui lo svolgimento delle mansioni di imbianchino, manovale, muratore, manutentore) da parte di un seminarista di un istituto biblico in funzione di pagamento della retta presso il detto istituto [35], o, infine, l’effettuazione di prestazioni oggettivamente lavorative, peraltro riconducibili all’attività di militanza all’interno di un partito politico [36].

 

 

3. L’applicazione, da parte della giurisprudenza, della presunzione di gratuità alle prestazioni lavorative subordinate a favore del convivente.

 

La giurisprudenza italiana ha sempre applicato ai conviventi gli stessi criteri utilizzati per i rapporti di lavoro tra persone sposate, o comunque all’interno di una compagine familiare, così dichiarando operante per i primi quella medesima presunzione di gratuità che unanimemente si riconosceva vigente tra queste ultime, quanto meno sino all’entrata in vigore della riforma del diritto di famiglia [37].

La regola elaborata per le relazioni coniugali e familiari «tradizionali» voleva, come detto, che la presunzione di gratuità potesse essere vinta, da parte del familiare che rivendicava l’onerosità del rapporto, solo attraverso la rigorosa e puntuale allegazione probatoria, che dimostrasse l’animus contrahendi comune ad entrambe le parti e lo svolgimento del rapporto secondo lo schema tipico del lavoro subordinato; in caso contrario, per unanime convincimento della giurisprudenza, la prestazione di lavoro sarebbe stata a titolo gratuito [38].

Il principio, la cui ratio veniva per lo più individuata nella presunta (fino a prova contraria) impossibilità di coesistenza tra animus contrahendi e affectio coniugalis [39], ha continuato a essere ribadito dai giudici anche dopo che l’introduzione dell’art. 230-bis c.c. aveva indotto buona parte della dottrina a proclamare la morte della presunzione di gratuità delle prestazioni lavorative tra coniugi, e la correlativa nascita di una presunzione in senso diametralmente opposto [40]. Conclusione, oltre tutto, quest’ultima, che, secondo la dottrina giuslavoristica, contrastava con i principi costituzionali, dato che la presunzione di gratuità, pur potendo attenere indifferentemente ad entrambi i coniugi o conviventi, in realtà concerneva il lavoro della donna e finiva col svalutarlo del tutto, ponendola in uno stato di dipendenza economica e morale che minava alla radice ogni principio di parità, di effettiva libertà e di possibilità di crescita della persona [41].

Queste riflessioni sembrano però aver lasciato indifferenti i Supremi Giudici, posto che l’unico effetto conseguente all’introduzione dell’impresa familiare pare essere stato quello di una sorta di «aggiustamento di tiro», nel senso di una limitazione dei casi di applicazione della presunzione di gratuità, che si ritiene possa ora entrare in gioco soltanto qualora venga positivamente accertata «una convivenza contraddistinta dalla comunanza spirituale e affettiva e dall’equa ed effettiva partecipazione dei conviventi alle risorse della famiglia di fatto» [42].

Per il resto si è continuato a ribadire, sotto questo peculiare profilo, la totale equiparazione tra famiglia fondata e famiglia non fondata sul matrimonio [43].

La giurisprudenza di merito, dal canto suo, ha in particolare escluso l’operatività della presunzione in presenza di un «semplice rapporto affettivo e sessuale» [44], oppure nel caso del rapporto «tra il proprietario di un albergo e una signorina la cui convivenza, sebbene improntata a estrema confidenza e familiarità, essendo limitata al periodo della stagione termale (di massima compresa tra maggio e ottobre)», difettava di «una stabile e duratura comunione di vita, materiale e spirituale, assimilabile, pur in mancanza di un legame legale, all’unione matrimoniale» [45].

Nei casi testé citati, dunque, si è esclusa la stessa operatività della presunzione, una volta accertata l’inesistenza inter partes di un rapporto di convivenza more uxorio. In questa situazione si è anche esclusa la configurabilità ipso iure di «una presunzione di contrario contenuto, indicativo cioè dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato», concludendosene che «pertanto, in caso di contestazione, la parte che faccia valere diritti derivanti da tale rapporto ha comunque l’obbligo di dimostrarne, con prova precisa e rigorosa, tutti gli elementi costitutivi e, in particolare, i requisiti indefettibili della onerosità e della subordinazione» [46].

Anche i più recenti interventi giurisdizionali non sembrano deviare da un percorso che, come già osservato in passato, risulta caratterizzato dall’obiettiva difficoltà di fornire una rigorosa prova di elementi idonei a suffragare l’esistenza di una subordinazione, considerando in particolare che si continua ad escludere tale situazione, in presenza di una comunione di vita e di affetti, che induce invece a ricondurre la prestazione al novero di quelle effettuate affectionis vel benevolentiae causa, come tali caratterizzate dalla gratuità [47].

Proprio in questo quadro si iscrive la decisione qui in commento, secondo cui «La prestazione di una attività lavorativa, per oltre sei anni, tra due parti legate da una relazione sentimentale, che sia oggettivamente configurabile come di lavoro subordinato, si presume effettuata a titolo oneroso, ma può essere ricondotta ad un diverso rapporto, istituito affectionis vel benevolentiae causa, ove risulti dimostrata la sussistenza della finalità di solidarietà in luogo di quella lucrativa, per una comunanza di vita e di interessi tra i conviventi tale da realizzare una partecipazione, effettiva ed equa, del convivente alla vita e alle risorse della famiglia di fatto» [48].

A margine di quest’ultima pronunzia potrà rimarcarsi, in particolare, l’affermazione, nel contesto della motivazione, del principio processuale secondo cui «La circostanza dello svolgimento di un’attività lavorativa affectionis vel benevolentiae causa, e pertanto della sua natura gratuita, non costituisce un’eccezione in senso proprio, integrando piuttosto, alla luce della allegazione di un rapporto affettivo tra le parti dalla ricorrente stessa (…), un elemento di valutazione della prova e quindi criterio di accertamento del fatto costitutivo della pretesa (sussistenza o meno di subordinazione)». La regola assume evidente rilievo in relazione alle decadenze comminate dall’art. 416 cpv. c.p.c. Decadenze irriferibili, per l’appunto, all’allegazione, da parte del convenuto, della sussistenza di un rapporto di convivenza more uxorio, per contrastare le pretese della parte ricorrente a titolo di rimunerazione dell’attività lavorativa prestata.

 

 

4. I criteri individuati dai giudici per il superamento della presunzione di gratuità, pur in presenza di un accertato rapporto di convivenza more uxorio.

 

Nel caso di positivo accertamento della sussistenza di un rapporto more uxorio, con conseguente (persistente, secondo la tesi giurisprudenziale) operatività della presunzione, fermo restando il pacifico relativo carattere di presunzione iuris tantum, i giudici hanno elaborato svariati criteri per consentirne il superamento.

Così la Cassazione, in una pronunzia del 1977 [49], ha individuato tali canoni in un complesso di elementi indiziari consistenti nella specie in: a) una lettera di licenziamento proveniente dall’erede del datore di lavoro; b) il periodico versamento, da parte del datore di lavoro, dei contributi previdenziali e di somme di danaro su libretti bancari intestati al lavoratore; c) l’essere il medesimo rapporto iniziato come un ordinario rapporto di lavoro subordinato. Successivamente, la stessa Corte [50] ha ritenuto superabile la presunzione di gratuità tra conviventi «quando la prestazione è svolta a vantaggio di una società di capitali, anche se di comodo, costituita fra due soci, uno dei quali sarebbe il convivente favorito e l’altro un solo prestanome entrato a far parte della società per evitare la responsabilità illimitata del primo». Alla necessità di indagare sull’orario di lavoro, sulle direttive impartite e le mansioni espletate fa invece cenno la Cassazione in una pronunzia del 1990 [51].

A queste stesse circostanze si richiama poi una successiva decisione di legittimità, la quale ha negato la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato in presenza di un complesso di condizioni consistenti «a) nella dichiarazione resa dalla stessa [convivente] all’Ispettore del lavoro in data 1.3.88 (…), la quale si configura alla stregua di confessione stragiudiziale fatta ad un terzo, ex art. 2735 c.c., in quanto ammissiva di fatti rilevanti in contrasto con la domanda, evincendosi dalla stessa la gratuità delle prestazioni lavorative effettuate nello studio dentistico del convivente Dr (…); confessione, d’altronde, non contestata ex adverso e trasfusa in verbale assistito dalla presunzione di veridicità; b) nelle modalità della prestazione lavorativa, effettuata senza vincolo di orario, liberamente e con elaborazione fittizia della busta paga, dal momento che il corrispondente denaro non veniva versato alla [convivente], ma utilizzato per le spese correlate alle esigenze familiari; c) nella circostanza che il preteso carattere della subordinazione onerosa non solo non risultava avvalorato aliunde, ma appariva smentito dalla indeterminatezza e genericità della prestazione lavorativa, dal mancato inserimento costante della ricorrente nell’organizzazione dello studio dentistico, dalla assoluta carenza di prove circa aspetti retributivi diversi dalla tradizionale busta paga, e dalla mancanza di ogni obbligo di continuità e di predeterminazione dell’orario lavorativo» [52].

Ancora, potranno citarsi i criteri che, nelle decisioni meno remote di legittimità, valorizzano, al fine di ritenere sussistente un vincolo di subordinazione, l’interruzione della convivenza tra le parti, unitamente all’assenza di una «condivisione del tenore di vita in relazione ai cospicui redditi dell’attività commerciale, avendo beneficiato l’interessata solo di alcune elargizioni, quali l’uso gratuito di un appartamento, il pagamento di qualche debito e il prelevamento gratuito di merce – abiti – dal negozio)» [53]. Ulteriormente, al fine dell’affermazione della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato domestico intercorso tra due donne legate da vincolo affettivo, la Cassazione – in una decisione che precede di pochissimi mesi quella in commento – ha posto in rilievo la prova dell’effettivo svolgimento, per circa vent’anni, «di plurime mansioni di pulizia ed accudimento delle faccende di casa da parte di una di esse sotto la direzione dell’altra e dietro promessa di un compenso mai effettivamente corrisposto» [54].

Passando alla giurisprudenza di merito, va subito detto che, a quanto consta, un solo precedente edito ha ritenuto inapplicabile la presunzione di gratuità del lavoro domestico prestato dalla convivente, con conseguente riconoscimento al riguardo dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato [55]. Due pronunzie del Pretore di Latina risalenti al 1982, dopo aver applicato la presunzione di gratuità al lavoro del convivente, hanno ritenuto rilevanti al fine del superamento della detta presunzione, rispettivamente, l’espressa pattuizione dell’onerosità [56], nonché l’esistenza di elementi quali un preciso vincolo d’orario, una subordinazione, una attribuzione di mansioni specifiche, una costante presenza sul posto di lavoro [57].

Successivamente, il Pretore di Roma ha affermato il diritto della ex convivente alla retribuzione, sulla base delle seguenti circostanze: a) che a suo tempo era stata presentata richiesta di regolarizzazione contributiva a favore della donna all’Inps per un pregresso periodo quinquennale; b) che il denaro per gli acquisti di generi alimentari proveniva sempre dal solo convivente; c) che, al termine di un primo periodo quinquennale di convivenza, il convivente aveva corrisposto alla donna una somma a titolo di «buonuscita» [58]. Secondo un’altra decisione del Tribunale di Genova sono elementi rilevanti, in via esemplificativa, «il fatto che il lavoro sia prestato con le caratteristiche che di solito distinguo­no le prestazioni di lavoro in maniera subordinata (come la sottoposizione alle direttive tecnico‑funzionali impartite per l’esecuzione e la disciplina del lavoro, il vincolo dell’orario ecc.)», nonché «l’esistenza della tipica documentazione riguardante la persona del lavoratore subordinato (libretto di lavoro)» [59].

Sotto il profilo probatorio, fermo restando che «in ogni caso, del carattere contrattuale del rapporto deve dar la prova colui che, per avvantaggiarsene, lo invoca (art. 2697 c.c.)» [60], si è precisato che «tale dimostrazione si concretizza nel suggerimento di una più marcata severità nel vaglio del materiale probatorio, ma non nella esclusione aprioristica dell’utilizzabilità di singoli mezzi di prova tra quelli previsti e disciplinati dagli art. 2699 e seguenti cod. civ.» [61]. Se ne è concluso pertanto che «il giudice (…), anche nella materia di cui trattasi, può utilizzare oltre quella per testimoni, anche la prova per presunzioni di cui agli artt. 2727 e seg. cod. civ., che concorrono, ove il giudice correttamente ritenga di farvi ricorso, pur nel rispetto del principio dispositivo, all’adempimento dell’onere imposto dall’art. 2697 cod. civ.».

 

 

5. Il lavoro del convivente tra subordinazione e parasubordinazione: rilievi critici.

 

Passando ad una valutazione critica delle conclusioni cui giunge la giurisprudenza, va ribadito [62] che il problema del rilievo delle prestazioni del convivente nell’ambito della categoria della locatio operarum non va impostato sotto il profilo dell’estensibilità o meno di una supposta presunzione di gratuità del lavoro svolto dal coniuge [63].

Tanto per cominciare, quest’ultima, quando era ancora in esistenza, non trovava la sua vera ratio giustificatrice in una pretesa incompatibilità tra affectio coniugalis e animus contrahendi: il contratto di lavoro rappresenta proprio una di quelle situazioni in cui il rapporto giuridico può nascere sulla base di un comportamento oggettivo, a prescindere dall’intento negoziale delle parti [64]. Essa – come già posto in luce da chi scrive – andava piuttosto individuata nell’esistenza tra i coniugi di ben precisi rapporti giuridici tali da fondare reciproche pretese (cfr. art. 143 c.c.) e, soprattutto, una garanzia per il futuro, sotto forma di diritti successori [65]. E’ chiaro dunque che, se anche si volesse ritenere sopravvissuta (in contrasto con il principio risultante dall’art. 230-bis c.c.) una presunzione di gratuità tra coniugi, non se ne potrebbe comunque ammettere l’estensione alla convivenza more uxorio [66], quanto meno sin tanto che non fossero estese ai conviventi le garanzie previste in favore del coniuge separato, divorziato o superstite.

Ma, come più volte detto, non è nella presunzione di gratuità che va cercata la soluzione del problema, proprio perché tale presunzione, oltre a non trovare fondamento in alcun principio giuridico, è espressamente contraddetta, per la famiglia fondata sul matrimonio, dall’art. 230-bis c.c., mentre altrettanto dovrà dirsi nel momento in cui il legislatore interverrà ad estendere la disposizione alla famiglia di fatto.

E’ dunque vero che, come posto in luce in dottrina [67], in primo luogo, l’accertamento giudiziale dovrebbe disinteressarsi della situazione affettiva esistita tra le parti e limitarsi a verificare la ricorrenza degli elementi della subordinazione così come emersi dalle risultanze probatorie. L’interprete, infatti, dovrebbe ignorare il dato interprivato della relazione personale, così come avviene in qualsiasi altra ipotesi contrattuale (l’amicizia, l’affetto, la condivisione di spazi o una lontana parentela ai fini dell’analisi giuridica non rilevano), e ragionare in termini di presunzione di onerosità, non attribuendo alcun valore alla relazione affettiva al fine di escluderne la compatibilità con la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato.

A maggior ragione dovrebbe prescindersi dal requisito della convivenza. Come pure posto in luce da un Autore [68], «In contrasto con quanto ritiene la giurisprudenza, la convivenza è irrilevante. Non si capisce perché la  coabitazione dovrebbe essere un indice privilegiato del vincolo affettivo o dovrebbe conferire a esso maggiore risalto o essere un segnale della sua stabilità. Ciò non traspare affatto dall’esperienza comune e non è in sintonia con l’evoluzione dei comportamenti sociali; vi sono legami affettivi quanto mai stabili in carenza della convivenza, e questa non dimostra né la serietà delle intenzioni, né l’intensità delle emozioni».

Piuttosto, il vero ostacolo – comune tanto al matrimonio che alla convivenza nel contesto di un’union libre – è un altro: vale a dire quello della ravvisabilità nei rapporti in esame del connotato della subordinazione [69], intesa come sottoposizione del lavoratore al potere del datore di lavoro di organizzare le energie lavorative altrui e come osservanza delle direttive impartite da quest’ultimo nell’ambito di un rapporto di collaborazione caratterizzato da una (almeno tendenziale) continuatività [70]. Non per nulla, l’analisi della giurisprudenza di merito mostra come il più delle volte lo scoglio sul quale naufraga il tentativo dell’ex convivente di ricostruire in termini di onerosità il rapporto sia rappresentato proprio dalla difficoltà di dimostrare «quello che è l’elemento fondamentale della subordinazione, vale a dire la sottoposizione del prestatore di lavoro al potere gerarchico, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro» [71].

Quest’ultimo tema è stato toccato anche da una ormai remota pronunzia di legittimità [72] in relazione ad un caso in cui la convivente aveva prestato per diversi anni una collaborazione non generica, ma particolarmente qualificata, quale quella di una pasticciera professionale nell’azienda del proprio compagno; per i Supremi Giudici, peraltro, tale circostanza – così come la titolarità del libretto sanitario, la natura non familiare dell’impresa in cui prestavano attività anche altre persone e l’osservanza di un orario di lavoro identico a quello dei dipendenti – non era idonea a dimostrare la subordinazione, non essendo tali elementi «indici rivelatori chiari ed univoci di un assoggettamento al datore di lavoro e al suo predomi­nio gerarchico».

Sulla questione, poi, dell’inserimento della convivente nell’organizzazione aziendale del compagno ha rilevato la Cassazione che tale fattore «non comporta necessariamente la subordinazione, specie quando, come nel caso presente, i rapporti personali tra la prestatrice e il datore li lavoro interferiscono in modo tale da lasciare uno spazio meno definito a una gerarchia sul piano lavorativo, bastando che, per la resa di una proficua prestazione da parte dell’istante, essa si adeguasse agli interessi dell’azienda, sospinta dal rapporto affettivo col datore di lavoro. In altre parole, il solo inserimento della prestazione lavorativa nell’organizzazione dell’attività aziendale non è sufficiente a costituire e a dimostrare la subordinazione, potendosi ben spiegare con la coordinazione che è tipica del rapporto parasubordinato».

Per tali motivi la Corte Suprema ha confermato l’inquadramento del rapporto effettuato dai giudici di merito nell’ambito della «prestazione d’opera continuativa e coordinata, anche se non subordinata», respingendo anche il ricorso incidentale del convivente, condannato, per il predetto titolo, in primo e in secondo grado al pagamento di una somma piuttosto modesta (all’incirca sette milioni di lire) rispetto a quella (di circa duecentocinquanta milioni di lire) richiesta dalla ricorrente a titolo di retribuzione.

Come rilevato in dottrina [73], il fatto che il collaboratore sia legato al datore di lavoro da un rapporto di convivenza more uxorio, costituisce non tanto presunzione di gratuità della sua prestazione, quanto presunzione di esclusione di un rapporto di lavoro subordinato, dovendosi invece intendere che sussista, con lui, un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa e cioè un rapporto di c.d. «parasubordinazione» (art. 409, n. 3, c.p.c.). Il precedente in discorso rappresenta pertanto un «discreto passo avanti, anche se cauto e parziale» [74], i cui effetti risultano, oltre tutto, «attutiti» nel caso di specie, in cui la difesa della ricorrente non aveva sfruttato appieno le sue possibilità, astenendosi dal censurare, sotto il profilo della logicità e sufficienza della motivazione, la determinazione quantitativa compiuta dal giudice di merito [75].

       Il principio testé enunciato sembra aver ricevuto applicazione da parte di una successiva pronunzia di merito, secondo la quale la convivente che collabori in modo continuativo all’attività professionale del compagno (nella specie: commercialista) ha diritto al relativo compenso, ove fornisca prova dell’attività svolta, potendo pertanto ottenere il compenso in mancanza di prova contraria dell’avvenuto pagamento [76]. A commento della pronunzia si è esattamente rilevato come in essa si dia per scontato, sia pur in modo implicito, il superamento della presunzione di gratuità delle prestazioni lavorative svolte durante la convivenza [77], anche se appare forse prematuro salutare nella decisione il «tramonto della presunzione di gratuità delle prestazioni lavorative svolte tra conviventi» [78].

       Occorrerà ancora tenere presente, sotto il profilo probatorio, che nemmeno il richiamo al concetto di parasubordinazione esonera la parte che agisca in giudizio chiedendo il compenso di prestazioni eseguite a tale titolo dall’onere di dimostrare (non solo l’esistenza del rapporto citato, ma anche) «le singole prestazioni che del diritto al corrispettivo rappresentano i fatti costitutivi» [79], mentre non sarà indispensabile qualificare esattamente il rapporto dedotto in giudizio, «essendo sufficiente accertare l’espletamento di una serie di incarichi (…) riconducibili allo schema generale del lavoro autonomo, ancorché rientranti in una pluralità di figure contrattuali tipiche, le cui modalità di esplicazione possono essere caratterizzate dall’impiego prevalente di attività personale non subordinata, ricadente nell’ambito di una collaborazione continuativa e coordinata» [80].

E’ comunque chiaro che l’eventuale ricorso al rimedio del contratto d’opera caratterizzato dalla parasubordinazione sarà immaginabile solo in relazione al lavoro svolto nell’ambito di un’attività di impresa o di un’attività professionale, mentre sarà inapplicabile alla prestazione di lavoro domestico [81]. Per quest’ultimo, dunque, la soluzione torna ad essere rimessa alla possibilità di riconoscere l’esistenza di un vincolo di subordinazione.

 

 

6. Per una diversa concezione del concetto di subordinazione (attenuata).

 

        Una recente ricostruzione dottrinale ha prospettato una soluzione fondata su di una diversa concezione del concetto di subordinazione, che consentirebbe un più facile accoglimento di una serie di rivendicazioni avanzate dal(la) convivente in relazione a prestazioni di tipo lavorativo erogate in favore del partner.

        Muovendo dalla constatazione per cui la «stella polare di questo percorso interpretativo deve essere il disposto di cui al comma 1° dell’art. 35 Cost., saldamente ancorato al principio di cui all’art. 1 Cost.», si è rimarcato che «In tale prospettiva il diritto è chiamato a proteggere il lavoro in tutte le sue forme e manifestazioni alla stregua dei valori che ne hanno caratterizzato l’evoluzione storica» [82], ulteriormente evidenziando che, secondo svariati Autori, «in effetti, la subordinazione, come modalità di adempimento della prestazione lavorativa, può ben riscontrarsi anche in contesti associativi», quale può essere considerato anche quello del lavoro nell’impresa familiare [83], nel cui ambito si ritiene che si possano individuare delle caratteristiche tipiche dello svolgimento di una prestazione di lavoro subordinato «compatibili con una condizione di subordinazione tecnica dei familiari coadiuvanti» [84].

Si è altresì posto in luce che l’ipotesi dell’applicazione della disciplina destinata all’area delle collaborazioni parasubordinate oggi pare sempre più ardua, perché l’introduzione per via legislativa, in primo tempo, del contratto di collaborazione a progetto ha ridotto radicalmente il catalogo delle attività riconducibili alle collaborazioni coordinate e continuative residuali, mentre la successiva tendenza del legislatore si è rivolta, come noto, a convogliare le attività di lavoro quanto più possibile nell’ambito del lavoro subordinato [85].

Ora, tali rilievi non sembrano, di per sé, in grado di togliere rilievo alle considerazioni sopra svolte in tema di lavoro parasubordinato, laddove i relativi estremi siano effettivamente riscontrabili nelle fattispecie qui in esame, posto che neppure la recente rivoluzione del mercato del lavoro operata dal c.d. Jobs Act (cfr. l. 10 dicembre 2014, n. 183, «Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro»; d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81, «Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183 ») si è spinta ad abrogare l’art. 409, n. 3, c.p.c. [86].

Ciò posto, è peraltro innegabile che la fattispecie contrattuale di cui all’art. 2094 c.c. individua l’elemento tipico che contraddistingue il rapporto di lavoro subordinato da quello autonomo nell’eterodirezione – assoggettamento personale – intesa come una «componente modale (cioè non-descrittiva) esprimente una modalità personale che la posizione di dipendenza (servizio) del prestatore di lavoro, determinata dall’inserimento nell’organizzazione creata dal datore, assume nel modello sottostante alla disciplina legale, impostata sulla figura più frequente (normale) di lavoratore subordinato» [87].

Considerato, quindi, che la subordinazione intesa come eterodirezione deve comunque sussistere, anche se in via solo potenziale, e unitamente all’inserimento stabile e continuativo nell’organizzazione imprenditoriale del datore di lavoro, rappresenta il nucleo essenziale in cui si riflette la nozione di subordinazione [88], va tenuto conto del fatto che, di recente, una parte della giurisprudenza e della dottrina giuslavoristiche hanno elaborato una nozione di subordinazione cosiddetta «attenuata». Siffatta concezione non esclude la presenza degli elementi qualificanti della fattispecie della subordinazione, ma ammette che, nel caso concreto, possano emergere dati di una sussistenza sfumata dell’eterodirezione in ragione della particolare natura della prestazione, che potrebbe essere o talmente ripetitiva e predeterminata da non avere bisogno di indicazioni tecniche, ovvero talmente intellettuale da escludere l’intervento organizzativo del datore di lavoro [89].

Ora, nel tentativo di fornire una tutela sostanziale al convivente economicamente più debole, giova la prospettiva della subordinazione cosiddetta «attenuata», perché anche in questo caso è verosimile che l’elemento dell’assoggettamento del lavoratore alle direttive altrui non sia agevolmente apprezzabile in sede di accertamento giudiziale. In questi casi, infatti, è raro che il potere direttivo e il potere disciplinare trovino espressione e manifestazione all’esterno secondo le ordinarie vie formali, ma data l’atipicità e la variabilità dell’assetto di interessi nelle relazioni di fatto è assai più probabile che il canale di esercizio di questi poteri rimanga relegato all’ambito interprivato dei conviventi [90].

Cercare in questi casi l’apparenza dell’esercizio del potere disciplinare o del potere direttivo è un inutile esercizio retorico, che non può che condurre a negare la tutela tipica del rapporto di lavoro subordinato. Un eventuale rimprovero non avverrà mai secondo le previsioni statutarie e collettive, ma non per questo sarà meno efficace o dissuasivo; e un’indicazione inerente alle modalità di svolgimento della prestazione, infatti, non avrà rilievo formale ma sicuramente sostanziale, perché efficace sul versante della relazione privata [91].

Pertanto, ove la prestazione lavorativa del convivente sia inserita stabilmente nel contesto dell’organizzazione aziendale, senza partecipazione al rischio di impresa e senza ingerenza nella gestione dell’impresa stessa, si ricade nell’ipotesi di un rapporto di lavoro subordinato, in ragione di un generale favore accordato dall’art. 35 Cost. che tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni [92].

Nel caso non dovessero ravvisarsi nella specie gli estremi della subordinazione, neppure nella forma «attenuata» così descritta, occorrerebbe darsi luogo all’applicazione, in via residuale, delle disposizioni in tema di impresa familiare, ovviamente sul presupposto dell’introduzione di un’apposita previsione legislativa a favore del convivente [93].

 

 

7. Il lavoro del convivente nel d.d.l. N. 2081/S/XVII («Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze»).

 

        Sulla soluzione del problema posto dalla rimunerazione del lavoro prestato dal convivente vengono ad influire, in una prospettiva de iure condendo, anche le disposizioni del d.d.l. N. 2081/S/XVII («Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze»), d’iniziativa dei senatori Cirinnà e altri, comunicato alla Presidenza del Senato il 6 ottobre 2015. Il testo, che si colloca nel solco di una più che consistente schiera di progetti di legge presentati di fronte ai rami del Parlamento nel corso degli ultimi trent’anni [94], viene ad affrontare il tema in esame proponendo una soluzione differenziata a seconda che si tratti di unioni civili (tra persone dello stesso sesso), oppure convivenze di fatto (sia omo- che eterosessuali).

        Nel primo caso il riferimento obbligato è all’art. 230-bis c.c., richiamato espressamente dall’art. 3, comma terzo, del citato progetto di legge, laddove si stabilisce, tra l’altro, che «All’unione civile tra persone dello stesso sesso si applicano le disposizioni di cui alle sezioni (…) VI del capo VI del titolo VI (…) del libro primo del codice civile». Valgono qui, ovviamente, tutte le considerazioni che si sono sviluppate nei §§ precedenti.

        Nel secondo, in luogo di operare – come sarebbe più ragionevole e come pure suggerito da chi scrive [95] – un’estensione pura e semplice ai conviventi dell’art. 230-bis c.c., si prevede la creazione di una norma ad hoc del seguente tenore: «Art. 16. (Diritti nell’attività di impresa) 1. Nella sezione VI del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile, dopo l’articolo 230-bis è aggiunto il seguente: “Art. 230-ter. (Diritti del convivente). – Al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente spetta una partecipazione agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, commisurata al lavoro prestato. Il diritto di partecipazione non spetta qualora tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato».

        Inutile rimarcare che la disposizione citata appare lungi dal risolvere tutti i problemi attinenti alla materia qui in esame. Basterà dire, in primo luogo, che esula dalla norma in esame la considerazione delle prestazioni lavorative rese al di fuori di un’attività di impresa: si pensi al caso della segretaria del professionista, o all’ipotesi del lavoro domestico, atteso che la disposizione non contiene neppure l’inciso, «nella famiglia», espressamente posto nell’art. 230-bis c.c. in alternativa rispetto alla prestazione di attività continuativa di lavoro «nell’impresa familiare».

        Del resto, come la dottrina non ha mancato di notare, il confronto con la disciplina dell’impresa familiare introdotta nel 1975 fa apparire la posizione del convivente molto meno solida, in punto tutela, rispetto a quella del coniuge dell’imprenditore (figura che ovviamente è alternativa, anche per quanto stabilisce l’art. 8 del citato d.d.l., a quella del convivente), ma anche rispetto a quella degli altri familiari dell’imprenditore (parenti entro il terzo grado e affini entro il secondo) che prestino «in modo continuativo» (come stabilito dall’art. 230-bis c.c. e non «stabilmente», come disposto dall’art. 230-ter c.c.: ma la differenza stilistica non sembra voler sottendere, su questo punto specifico, diversità di trattamento giuridico) la propria attività nell’impresa [96].

        La nuova previsione contiene, a ben vedere, una disciplina circoscritta sia nei presupposti, sia negli effetti.

        Come già detto, è omesso, rispetto all’art. 230-bis c.c., l’estremo dell’attività prestata nella famiglia: ciò, verosimilmente, in omaggio ad una lettura della norma codicistica invalsa in giurisprudenza [97], ma extratestuale e non accolta pacificamente in dottrina [98]. Quanto agli effetti,

si parla di partecipazione agli utili commisurata al lavoro prestato, omettendo il riconoscimento del diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia, e soprattutto il diritto sui beni acquistati e sugli incrementi dell’azienda, nonché il diritto di partecipare all’assunzione delle decisioni gestionali indicate all’art. 230-bis c.c. [99].

Qui, ad avviso di una parte della dottrina, si configura una inspiegabile limitazione di tutela fra persone considerate tutte «familiari», limitazione di dubbia costituzionalità [100]. Ed in effetti, l’irrazionalità della disparità di trattamento emergerebbe con ancor più chiara evidenza laddove il convivente dovesse prestare la sua collaborazione nel contesto di un’impresa familiare del partner cui partecipassero anche altri parenti (si pensi ad es. ai figli) di quest’ultimo.

        Pure l’inciso iniziale dell’art. 230-bis c.c., riferito alla non configurabilità di un diverso rapporto, viene sostituito dalla più imprecisa formulazione del comma secondo, che esclude il diritto di partecipazione (agli utili?) qualora tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato, lasciando nell’indeterminatezza l’ipotesi che tra i compagni di vita esista, ad esempio, un rapporto di associazione in partecipazione o di lavoro autonomo [101].

        In conclusione, l’unico pregio (o, per lo meno, uno dei pochi) della riforma in questione è costituito dal fatto che, dopo la sua introduzione, non potranno più sussistere dubbi di sorta sulla fine della presunzione di gratuità delle prestazioni lavorative rese dal convivente.

        Gioverà ancora osservare, per concludere, che la progettata riforma appare muta anche sul già ricordato ulteriore profilo, in grado, almeno in astratto, di apprestare una qualche forma di rimunerazione delle attività lavorative svolte da un convivente a vantaggio dell’altro, cioè a dire sull’applicabilità del rimedio dell’arricchimento ingiustificato. Per le ragioni sopra addotte, infatti, neppure l’estensione della disciplina dell’impresa familiare consente un recupero di tutte utilità eventualmente erogate mediante un facere; per non parlare, poi, delle prestazioni di dare.

        Ma questa, ovviamente, è un’altra storia [102].

 

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[1] Cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, Milano, 1991, p. 105 ss.; Id., Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, Padova, 2003, p. 1 ss.; Id., I diritti dei conviventi. Realtà e prospettive tra Italia ed Europa, Padova, 2012, p. 41 ss.

[2] Jemolo, «Convivere come coniugi», in Riv. dir. civ., 1965, II, p. 407.

[3] Sul punto cfr. Oberto, Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, cit., p. 1 ss.

[4] Cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 117 ss.; Id., I diritti dei conviventi. Realtà e prospettive tra Italia ed Europa, cit., p. 45 ss.

[5] Non è possibile, per ovvie ragioni, in questa sede ripercorrere, neppure brevemente, i punti salienti della questione. Basti rinviare (anche per i necessari richiami dottrinali e giurisprudenziali) a Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 117 ss.; Id., I diritti dei conviventi. Realtà e prospettive tra Italia ed Europa, cit., p. 45 ss. (con particolare riferimento alle p. 51 per una disamina critica delle più recenti decisioni giurisprudenziali in merito). Dopo tale ultima opera la Corte di legittimità ha ancora ribadito la sua più recente giurisprudenza, concedendo l’azione di arricchimento in favore del partner che aveva versato (rigorosamente, more italico, «in nero») una consistente parte del prezzo d’acquisto dell’appartamento comprato dalla convivente e a quest’ultima intestato (cfr. Cass., 22 settembre 2015, n. 18632), laddove la questione avrebbe dovuto piuttosto essere affrontata e decisa nell’ottica, semmai, dell’azione di ripetizione dell’indebito (su questo punto specifico, che non può essere approfondito in tale sede, cfr. Oberto, I diritti dei conviventi. Realtà e prospettive tra Italia ed Europa, cit., p. 72 ss.), posto che nella specie l’arricchimento dipendeva da un dare e non da un facere. Con riguardo, invece, all’ammissibilità del rimedio ex art. 2041 c.c. proprio per tale ultimo tipo di prestazioni potrà aggiungersi che in dottrina si è di recente obiettato che «la mancanza di effetti ulteriori rispetto alla irripetibilità di quanto spontaneamente prestato, ai sensi dell’art. 2034 c.c., mai potrebbe far ipotizzare un’obbligazione di restituzione o di adempimento di obbligazioni naturali reciproche da parte del partner beneficiario, quasi che il mancato adempimento della supposta reciproca obbligazione naturale desse luogo ad una obbligazione civile di restituzione da parte dell’accipiens senza causa» (così, testualmente, Venuti, I rapporti patrimoniali tra i conviventi, in Aa. Vv., Le relazioni affettive non matrimoniali, a cura di Romeo, Torino, 2014, p. 336, nota 145. Ora, tale critica non sembra cogliere nel segno, per la fondamentale ragione che la concessione del rimedio dell’actio de in rem verso è il portato dell’art. 2041 c.c. e non certo dell’art. 2034 c.c. La regola generale secondo cui qualunque arricchimento conseguito senza giusta causa va restituito torna qui a trovare applicazione perché, nel caso di mancato adempimento dell’obbligazione naturale tra conviventi, non si configura quello «scambio imposto», che altrimenti avrebbe luogo. Come in altra sede ampiamente illustrato (Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 127 ss.), non è certo l’obbligazione naturale che costringe il partner «forte» a rimunerare i servizi ricevuti, ma l’affidamento dell’impoverito (conosciuto o conoscibile dalla controparte) nell’obiettiva onerosità del rapporto a ripristinare il principio scolpito nell’art. 2041 c.c. E’ noto (o, per lo meno, dovrebbe esserlo) che, nel campo giuridico, a parità di effetti (nella specie: la presenza di una forma, ancorché impropria, di «para-sinallgmaticità» tra arricchimento e adempimento di un’obbligazione naturale), non corrisponde sempre necessariamente una parità di cause (e cioè nella specie la presenza di un rapporto quasi-negoziale tra le obbligazioni naturali tra conviventi)!

[6] Cfr. Oberto, Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, cit., passim, spec. p. 19 ss.

[7] In questo senso cfr. Salaris, Sulla famiglia c.d. «di fatto» e sui «rapporti di fatto» configurabili nell’impresa familiare, in Riv. dir. agr., 1976, I, p. 347 s.; favorevoli all’estensione analogica dell’art. 230-bis c.c. sono anche C.M. Bianca, Regimi patrimoniali della famiglia e attività d’impresa, in Dir. fam. pers., 1976, p. 1246; Jannarelli, Lavoro nella famiglia, lavoro nella impresa familiare e famiglia di fatto, in Aa. Vv., La famiglia di fatto, Atti del convegno di Pontremoli, 27-30 maggio 1976, Montereggio, s.d., ma 1977, p. 185 s. e in Dir. fam. pers., 1976, p. 1837 ss.; Busnelli, Sui criteri di determinazione della disciplina normativa della famiglia di fatto, in Aa. Vv., La famiglia di fatto, Atti del convegno di Pontremoli, cit., p. 139 ss.; D’Ercole, voce Famiglia di fatto, in Dizionari del diritto privato, a cura di Natalino Irti, 1, Milano, 1980, p. 371; Prosperi, La famiglia non fondata sul matrimonio, Napoli, 1980, p. 284 ss.; Militerni, Impresa familiare: rassegna di giurisprudenza, in Riv. notar., 1982, III, p. 674 s.; Gazzoni, Dal concubinato alla famiglia di fatto, Milano, 1983, p. 138; Busnelli e Santilli, Il problema della famiglia di fatto, in Aa. Vv., Una legislazione per la famiglia di fatto?, Atti del Convegno di Roma, 3 dicembre 1987, Napoli, 1988, p. 119 s.; Di Francia, Il rapporto di impresa familiare, Padova, 1991, p. 284; Liuzzo, Alcuni aspetti civilistici della convivenza «more uxorio» alla luce dei più recenti orientamenti dottrinali e giurisprudenziali, in Dir. fam. pers., 1991, p. 804 ss.; Balestra, Sulla rilevanza della convivenza more uxorio nell’ambito dell’impresa familiare, Nota a Cass., 2 maggio 1994, n. 4204, in Giur. it., 1995, I, 1, c. 845 ss.; Id., L’impresa familiare, Milano, 1996, p. 202; Id., Attività d’impresa e rapporti familiari, in Trattato teorico-pratico di diritto privato, diretto da Alpa e S. Patti, Padova, 2009, p. 208 ss.; Id., L’impresa familiare, in Trattato di diritto di famiglia, diretto da Zatti, III, Regime patrimoniale della famiglia, a cura di Anelli e Sesta, Milano, 2012, p. 811 ss., spec. p. 861 ss.; Panuccio, Il lavoro nella famiglia, in Dir. lav., 1999, p. 586 ss.; Gragnoli, Fidanzamento, matrimonio e subordinazione, in Fam. pers. succ., 2011, II, p. 92 ss.; Menghini, Il lavoro familiare nella giurisprudenza: questioni chiuse ed ancora aperte, in Lavoro nella giur., 2015, p. 221 ss.

Per alcune rassegne delle opinioni e delle pronunce in vario senso sull’argomento cfr. anche Bile, La famiglia di fatto nella giurisprudenza della Corte di cassazione, in Riv. dir. civ., 1996, II, p. 645 s.; Segreto, La famiglia di fatto nella giurisprudenza della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione, in Dir. fam. pers., 1998, p. 1681 ss.; Bernardini De Pace, Convivenza e famiglia di fatto. Ricognizione del tema nella dottrina e nella giurisprudenza, in Aa. Vv., I contratti di convivenza, a cura di Moscati e Zoppini, Torino, 2002, p. 312 ss.; Asprea, La famiglia di fatto in Italia e in Europa, Milano, 2003, p. 235 ss.; Palmeri, Regime patrimoniale della famiglia, II, Art. 230 bis, in Commentario del codice civile Scialoja-Branca, diretto da Galgano, Bologna, 2004, p. 66 ss.; Nunin, Convivenza more uxorio e inapplicabilità dell’art. 230 bis c.c., in Lav. giur., 2006, IV, p. 327; Prosperi, Impresa familiare. Art. 230 bis, in Il codice civile. Commentario fondato e già diretto da Schlesinger, continuato da Busnelli, Milano, 2006, p. 145 ss.; Di Rosa, Dell’impresa familiare. Art. 230 bis, in Aa. Vv., Commentario del codice civile, diretto da E. Gabrielli, Della famiglia. Artt. 177-342 ter, II, a cura di Balestra, Torino, 2010, p. 361 ss., 381 ss.; G. Quadri, Impresa familiare e prestazioni di lavoro, Napoli, 2012, p. 42 ss.; Bresciani, Il lavoro prestato a favore del convivente more uxorio, Nota a App. Bologna, 21 gennaio 2014, in Fam. e dir., 2014, p. 996 ss.

[8] In quella di merito, per la tesi dell’applicabilità dell’art. 230-bis c.c. al convivente more uxorio, cfr. Trib. Milano, 24 giugno 1978, riportata da Fusaro, Il regime patrimoniale della famiglia, Padova, 1990, p. 669 ss.; Trib. Ivrea, 30 settembre 1981, in Riv. dir. agr., 1983, II, p. 464, con nota di Salaris; in Giur. agr. it., 1984, II, p. 105, 401, con nota di Amoroso; Trib. Torino, 24 novembre 1990, in Giur. it., 1991, I, 2, c. 574, con nota di Oberto; in Giur. it., 1992, I, c. 427, con nota di Calvo (in quest’occasione l’accoglimento, da parte del tribunale, della tesi dell’applicabilità delle norme in tema di impresa familiare alla famiglia di fatto ha determinato una declaratoria di incompetenza per materia).

[9] Cass., 2 maggio 1994, n. 4204, in Giur. it., 1995, I, 1, c. 844, con nota di Balestra; in Nuova giur. civ. comm., 1995, I, p. 278 ss., con nota di Bernardini; in Fam. e dir., 1994, p. 514, con nota di L. Giorgianni.

[10] Cfr. per tutti, Palmeri, Del regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 75, ove si sostiene che «la giurisprudenza di legittimità si colloca in posizione di retroguardia».

[11] Ha ritenuto manifestamente infondata la (prospettata) questione di legittimità costituzionale dell’art. 230-bis c.c. nella parte in cui tale disposizione non include tra i soggetti tutelati il convivente more uxorio, Cass., 2 maggio 1994, n. 4204, cit.; cfr. inoltre Cass., 29 novembre 2004, n. 22405, in Rep. Foro it., 2004, voce Famiglia (regime patrimoniale), n. 77, c. 1182.

[12] Cfr. Cass., 29 novembre 2004, n. 22405, cit.

[13] E’ il caso, ad esempio, di Cass., 10 dicembre 1994, n. 10927, non massimata (ma edita in Informaz. prev., 1994, p. 1502), la quale, dopo aver negato la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra conviventi, ha espressamente dichiarato che nella fattispecie si sarebbe potuta «ravvisare piuttosto una ipotesi di comunione tacita familiare, come delineata dall’art. 230-bis c.c., trattandosi di istituto nel quale, in carenza di prove contrarie, più correttamente è possibile inquadrare un rapporto lavorativo che si svolga nell’ambito di una convivenza more uxorio»; l’affermazione, come detto nel testo, ha però, nel caso di specie, più il sapore dell’obiter dictum che della ratio decidendi.

[14] Cfr. Cass., 15 marzo 2006, n. 5632, in Fam., pers. succ., 2006, p. 995, con nota di Stoppioni.

[15] Ragusa Maggiore, Famiglia di fatto e impresa familiare, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1982, p. 38 ss., il quale rileva tra l’altro che la ratio dell’art. 230-bis c.c. è quella di escludere che la normale collaborazione tra familiari possa interpretarsi come una società atipica tra parenti, ciò che evidenzierebbe l’eccezionalità dell’istituto dell’impresa familiare. Cfr. inoltre, sempre in senso negativo sulla proposta estensione analogica dell’art. 203-bis c.c., Ghezzi, Ordinamento della famiglia, impresa familiare e prestazione di lavoro, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1976, II, p. 1390, nota 66; Andrini, Brevi note sulla soggettività giuridica dell’impresa familiare, in Giur. comm., 1977, I, p. 142; Colussi, voce Impresa familiare, in Noviss. dig. it., App., IV, Torino, 1983, p. 70; Id., Impresa e famiglia, Padova, 1985, p. 83; A. e M. Finocchiaro, Diritto di famiglia, I, Milano, 1984, p. 1312; Protettì, L’impresa familiare tra conviventi more uxorio, in Società, 1985, p. 475; Calò, La giurisprudenza come scienza inesatta (in tema di prestazioni lavorative in seno alla famiglia di fatto), Nota a Cass., 17 febbraio 1988, n. 1701, in Foro it., 1988, I, c. 2306 ss.; Id., Profili di interesse notarile della famiglia di fatto, nel volume Studi e materiali edito a cura del Consiglio Nazionale del Notariato - Commissione Studi, 2 (1986-1988), Milano, 1990, p. 84 ss.; Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 79 ss.; Id., Impresa familiare e ingiustificato arricchimento fra conviventi more uxorio, cit., c. 575; Id., Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, cit., p. 14 ss.; Id., I diritti dei conviventi. Realtà e prospettive tra Italia ed Europa, cit., p. 41 ss.; Bernardini, La convivenza fuori del matrimonio tra contratto e relazione sentimentale, Padova, 1992, p. 65; Id., Rapporto di lavoro, o di collaborazione «parasubordinata», e tutela del convivente more uxorio (c.d. familiare di fatto), Nota a Cass., 2 maggio 1994, n. 4204, in Nuova giur. civ. comm., 1995, I, p. 283; secondo F. Corsi, Accordi patrimoniali tra conviventi, in Aa. Vv., La famiglia di fatto e i rapporti patrimoniali tra conviventi, Atti del XXXIII Congresso Nazionale del Notariato, tenutosi a Napoli il 29 settembre 1993, Roma, 1993, p. 133, non è possibile l’estensione analogica della norma al convivente, in quanto la legge non fa riferimento ad una data nozione della famiglia, ma a specifici rapporti familiari.

In giurisprudenza si esprimono per la tassatività dell’elencazione di cui all’art. 230-bis, terzo comma, c.c., Cass., 18 ottobre 1976, n. 3585, in Giur. it., 1977, I, c. 1949; Cass., 24 marzo 1977, n. 1161, in Giust. civ., 1977, I, p. 1190, con nota di Mazzocca; Trib. Roma, 10 luglio 1980, in Dir. fall., 1980, II, p. 611, con nota di Farenga; Cass., 2 maggio 1994, n. 4204, cit.; Trib. Milano, 10 gennaio 1985, in Società, 1985, p. 507.

[16] Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 80; Id., Impresa familiare e ingiustificato arricchimento fra conviventi more uxorio, loc. cit.; Id., Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, cit., p. 14 ss., in senso conforme anche Spagnoli, Note in tema di impresa familiare, lavoro gratuito ed azione di arricchimento senza causa, in Dir. fam. pers., 2002, p. 681 s.; per altri riferimenti cfr. altresì Asprea, La famiglia di fatto in Italia e in Europa, cit., p. 233 ss.; Id., La famiglia di fatto, Milano, 2009, p. 267 ss. Alla tesi dell’inestensibilità analogica dell’art. 230-bis c.c. alla famiglia di fatto aderisce da ultimo anche Gabriele, Lavoro e famiglia non coniugale, in Aa. Vv., Le relazioni affettive non matrimoniali, a cura di Romeo, cit., p. 439 ss., la quale insiste sul carattere eccezionale dell’art. cit., rimarcando, tra l’altro, che «La disposizione (…) rappresenta un unicum dell’ordinamento che non conosce istituti assimilabili, sia sotto il profilo oggettivo, sia sotto quello soggettivo; e che non si combina con altre previsioni per formare un corpus autonomo di disciplina» (p. 442).

[17] In questo senso v. invece Jannarelli, Lavoro nella famiglia, lavoro nella impresa familiare e famiglia di fatto, cit., p. 1842 ss.

[18] In Foro it., 1988, I, c. 2515, con nota di Piombo; in Nuove leggi civ. comm., 1988, p. 518, con commento di Giove; in Dir. fam. pers., 1988, p. 1559, con nota di Scalisi.

[19] E’ da notare come anche la successiva evoluzione della giurisprudenza della Consulta abbia posto in evidenza la singolarità della decisione testé citata. L’analisi delle relative pronunce sul tema, invero (sul punto cfr. per tutti Oberto, Famiglia e rapporti patrimoniali. Questioni d’attualità, Milano 2002, p. 1067 ss.) mostra come la Corte costituzionale abbia sempre negato l’idoneità della famiglia fondata sul matrimonio a costituire valido tertium comparationis rispetto alla famiglia di fatto, limitandosi, con sporadici interventi, ad estendere (o ad invitare i giudici ad estendere, come è accaduto con la pronunzia interpretativa di rigetto relativa all’art. 155 c.c.: cfr. Corte cost., 13 maggio 1998, n. 166), disposizioni dettate a tutela della prole (cfr. anche E. Quadri, Problemi giuridici attuali della famiglia di fatto, in Fam. e dir., 1999, p. 504 ss.). Sui rapporti tra gli artt. 2, 3 e 29 Cost. e la famiglia di fatto si fa rinvio per tutti a Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 53 ss.

[20] Esprime perplessità in ordine all’estensibilità de iure condito della normativa sull’impresa familiare all’unione di fatto anche Mazzocca, La famiglia di fatto. Realtà attuale e prospettive, Roma, 1989, p. 121 ss.

[21] In questo senso cfr. invece Cass., 2 maggio 1994, n. 4204, cit., su cui v. le osservazioni critiche di Balestra, Sulla rilevanza della convivenza more uxorio nell’ambito dell’impresa familiare, cit., c. 847.

[22] Cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 47 ss.

[23] V. infra, § 7.

[24] Cfr. ad es. Cass., 11 luglio 1957, n. 2772; Cass., 2 agosto 1962, n. 2311, in Giur. it., 1962, I, 1, c. 1318: «Le prestazioni di lavoro rese tra persone conviventi, legate da rapporti di parentela o di coniugio, si presumono gratuite e fatte benevolentiae vel affectionis causa, cosicché, di regola, è da escludersi, in tali casi, un rapporto di lavoro. Tuttavia tale principio non è affatto assoluto e la sua corrispondenza alla realtà deve essere accertata caso per caso in relazione alle singole fattispecie, con la conseguenza che l’accertamento giudiziale del rapporto di lavoro deve essere sorretto da adeguata e rigorosa motivazione»; Cass., 4 settembre 1963, n. 2428: «Esula la fattispecie tipica del rapporto di lavoro subordinato, e non può trovare applicazione il combinato disposto degli artt. 36 Cost. e 2099 cod. civ., qualora una determinata attività, ancorché oggettivamente configurabile quale prestazione di lavoro subordinato, sia esplicata a titolo gratuito, affectionis vel benevolentiae causa, o in vista di vantaggi che il lavoratore può trarre o spera di trarre indirettamente attraverso l’attività stessa, ma, fuori dei casi in cui la gratuità può senz’altro presumersi in funzione del rapporto di parentela, di affinità o di convivenza che intercorre tra i soggetti del rapporto, si deve escludere la gratuità della prestazione lavorativa che non risulti da esplicita pattuizione»; Cass., 12 giugno 1964, n. 1471: «Le prestazioni di attività e di lavoro compiute dai familiari nella azienda del capo famiglia cessano dal presumersi fatte benevolentiae vel affectionis causa, ossia gratuitamente, ogni qualvolta esse presentino i caratteri della continuità, della regolarità e della intensità e risulti specificamente, dalla manifestata o tacita volontà delle parti e dalle circostanze di fatto, che si sia inteso retribuire il lavoro. Quella della gratuita delle prestazioni di lavoro rese tra persone conviventi, legate da rapporto di parentela o di coniugio, è una presunzione juris tantum, ossia un principio non assoluto, la cui corrispondenza alla realtà, caso per caso in relazione alle singole fattispecie, deve essere accertata dal giudice di merito, il convincimento del quale, ove sia sorretto da congrua motivazione, si sottrae al sindacato della Corte di Cassazione»; Cass., 14 aprile 1965, n. 680, in Giur. it., 1965, I, 1, c. 1325: «Il rapporto di lavoro, così come configurato dagli artt. 2094 e segg cod. civ., è caratterizzato non solo dagli elementi della continuità, della collaborazione nell’impresa altrui e della subordinazione, ma anche dall’estremo dell’onerosità, il quale ricorre allorché le parti hanno inteso assumere obbligazioni reciproche per modo che, sussistendo tra le prestazioni del lavoratore e l’obbligo della controparte di corrispondergli una retribuzione un nesso sinallagmatico e funzionale ciascuna delle due prestazioni si profila quale causa dell’altra. Pertanto esula la fattispecie del rapporto di lavoro, e non può trovare applicazione neppure il disposto degli artt. 36 Cost. e 2099 cod. civ., qualora una determinata attività, ancorché oggettivamente configurabile quale prestazione di lavoro subordinato, sia esplicata a titolo gratuito, affectionis vel benevolentiae causa, o anche in vista dei vantaggi che il lavoratore può da essa trarre o spera di trarre»; Cass., 25 maggio 1965, n. 1032, in Riv. dir. lav., 1966, II, p. 422: «Affinché un’attività lavorativa possa essere considerata quale estrinsecazione di un rapporto di lavoro, così come configurate dagli artt. 2094 e segg. cod. civ., non basta che essa si coordini con un incarico conferito da un soggetto ad un altro, implichi una collaborazione e sia esplicata in regime di subordinazione, ma occorre altresì che il rapporto sia caratterizzato dall’estremo dell’onerosità. E, questo elemento ricorre allorché le parti abbiano inteso assumere obbligazioni reciproche, per modo che, sussistendo, tra le prestazioni del lavoratore e l’obbligo della controparte di corrispondere una retribuzione, un nesso sinallagmatico e funzionale, ciascuna delle due prestazioni si profili quale causa giuridica dell’altra. Lo stabilire se, in concreto, ricorra o meno questo nesso costituisce una quaestio facti, da risolversi, secondo i normali criteri di interpretazione dei negozi giuridici, con riferimento alla effettiva intenzione delle parti, essendo giuridicamente possibile, ed in pratica non abnorme né infrequente, che una attività, oggettivamente configurabile quale prestazione di lavoro subordinato, sia esplicata a titolo gratuito, affectionis vel benevolentiae causa, o in vista dei vantaggi che da essa il lavoratore può indirettamente trarre o spera di trarre»; Cass., 29 settembre 1965, n. 2063, in Riv. dir. lav., 1967, II, p. 124: «Il rapporto di lavoro, così come configurato dagli artt. 2094 e seguenti cod. civ., e caratterizzato non solo dagli elementi della continuità, della collaborazione nell’impresa altrui e della subordinazione, ma anche dall’estremo dell’onerosità, il quale ricorre allorché le parti hanno inteso assumere obbligazioni reciproche per modo che sussistendo tra le prestazioni del lavoratore e l’obbligo della controparte di corrispondergli una retribuzione, un nesso sinallagmatico e funzionale, ciascuna delle due prestazioni si profila come causa dell’altra; esula, quindi, la fattispecie tipica del rapporto di lavoro subordinato qualora una determinata attività, ancorché oggettivamente configurabile quale prestazione di lavoro subordinato, sia esplicata a titolo gratuito, affectionis vel benevolentiae causa, o in vista di vantaggi che il lavoratore può o spera di trarre indirettamente attraverso l’attività stessa»; Cass., 8 luglio 1966, n. 1799, in Riv. dir. lav., 1968, II, p. 142: «Le prestazioni di lavoro rese tra persone conviventi, legate da rapporti di parentela, si presumono gratuite e fatte benevolentiae vel affectionis causa, cosicché, di regola, è da escludersi, in tali casi, un rapporto di lavoro. Tuttavia, tale principio non ha carattere assoluto e la sua corrispondenza alla realtà dev’essere accertata caso per caso, in relazione alle singole fattispecie, con rigorosa motivazione. Non può ravvisarsi un rapporto di lavoro ove una determinata attività, se pure oggettivamente configurabile quale prestazione di lavoro, non sia espletata con spirito di subordinazione (come può avvenire tra parenti conviventi) e non in vista di adeguata retribuzione, ma soltanto in omaggio a principi di ordine morale o in considerazione dei vantaggi che si traggono o si spera di trarre dalla collaborazione»; Cass., 20 luglio 1967, n. 1871, in Giur. it., 1969, I, 1, c. 200: «Le prestazioni di lavoro rese tra persone conviventi, legate da rapporti di parentela o di coniugio, si presumono iuris tantum gratuite e fatte benevolentiae vel affectionis causa, cosicché, di regola, è da escludersi, in tali casi, un rapporto di lavoro, salvo l’accertamento, caso per caso, della corrispondenza alla realtà di detto principio. Esula la fattispecie del rapporto di lavoro, qualora una determinata attività, ancorché oggettivamente configurabile come prestazione di lavoro subordinato, sia esplicata, come spesso avviene tra persone conviventi, legate da rapporti di parentela o di coniugio, non dietro pagamento di una retribuzione vera e propria, ma in vista di vantaggi che il lavoratore può da essa trarre o spera di trarre»; Cass., 9 gennaio 1968, n. 49, in Riv. dir. lav., 1969, II, p. 208: «Anche nell’ambito della comunità familiare possono costituirsi rapporti di lavoro subordinato, ma la relativa dimostrazione deve essere tale da vincere la presunzione di gratuità delle prestazioni di lavoro rese a familiari conviventi essendo queste normalmente effettuate affectionis vel benevolentiae causa»; Cass., 22 gennaio 1968, n. 151, in Riv. dir. lav., 1969, II, p. 208: «Le prestazioni di lavoro rese tra persone conviventi, legate da rapporti di parentela, si presumono gratuite e fatte benevolentiae vel affectionis causa, cosicché, di regola, è da escludersi, in tali casi, un rapporto di lavoro. Tuttavia, tale principio non ha carattere assoluto e la sua corrispondenza alla realtà dev’essere accertata caso per caso, in relazione alle singole fattispecie, con rigorosa motivazione. Non può ravvisarsi un rapporto di lavoro ove una determinata attività, se pure oggettivamente configurabile quale prestazione di lavoro, non sia espletata con spirito di subordinazione – come può avvenire tra parenti conviventi – e non in vista di adeguata retribuzione, ma soltanto in omaggio a principi di ordine morale o in considerazione dei vantaggi che si traggono o si spera di trarre dalla collaborazione (Fattispecie in tema di riconoscimento del diritto all’assicurazione obbligatoria)»; Cass., 3 aprile 1968, n. 1027, in Giur. it., 1968, I, 1, c. 517: «Nel caso di prestazioni di lavoro rese tra persone conviventi legate da vincoli di parentela o di coniugio, specialmente quando esse non hanno riferimento all’esercizio di un’impresa e si esauriscono in una convivenza con gli aspetti propri di vita comune familiare, per ritenersi superata la presunzione che siano prestate affectionis vel benevolentiae causa, non è sufficiente la circostanza della corresponsione di un compenso in natura o in danaro (rappresentando tale corresponsione piuttosto il risultato naturale del rapporto di convivenza, quale manifestazione di solidarietà affettiva e di mutua assistenza, anziché l’adempimento di un obbligo scaturente da un rapporto giuridicamente vincolante), ma è necessario accertare se le persone, tra cui si assume sussistere il rapporto di lavoro, abbiano inteso reciprocamente obbligarsi, per modo che, sussistendo tra le prestazioni dell’una e dell’altra un nesso sinallagmatico e funzionale, ciascuna delle due prestazioni si profili come causa dell’altra. Rilevante, in proposito, è l’indagine sul comportamento delle parti e sulle cause che hanno dato luogo alla convivenza»; Cass., 19 settembre 1968, n. 2949: «Nel caso di prestazione di lavoro tra persone conviventi, legate da vincoli di parentela, specialmente quando tali prestazioni non hanno riferimento all’esercizio di un’impresa e si esauriscono in una convivenza con gli aspetti propri di vita in comune familiare, per ritenere superata la presunzione che dette prestazioni siano rese affectionis vel benevolentiae causa occorre accertare, in modo preciso e rigoroso, se gli interessati avessero inteso assumere obbligazioni reciproche, talché, esistendo fra le prestazioni stesse un nesso sinallagmatico e funzionale, ciascuna si profili come causa dell’altra»; Cass., 18 maggio 1971, n. 1475, in Giur. it., 1972, I, 1, c. 1116: «Anche in base alla legge 2 aprile 1958, n 339, sulla tutela del lavoro domestico, questo dev’essere pur sempre caratterizzato, come qualsiasi altro rapporto di lavoro subordinato, dalla onerosità. Tale requisito non sussiste, quando non vi sia retribuzione nel senso tecnico giuridico. Spetta al giudice di merito stabilire, con apprezzamento insindacabile in sede di legittimità, se i rapporti tra persone legate tra loro da vincoli di sangue ed appartenenti ad una medesima convivenza familiare siano o non caratterizzati dalla causa benevolentiae et affectionis ed escludere o non che la cosiddetta ‘retribuzione in natura’ (vitto ed alloggio) abbia natura sinallagmatica»; Cass., 12 luglio 1972, n. 2344: «Nel caso di prestazione di lavoro tra persone conviventi, legate da vincolo di parentela, per ritenere superata la presunzione che dette prestazioni siano rese affectionis vel benevolentiae causa occorre accertare, in modo preciso e rigoroso, se gli interessati abbiano inteso assumere obbligazioni reciproche, talché, esistendo fra le prestazioni stesse un nesso sinallagmatico e funzionale, ciascuna si profili come causa dell’altra»; Cass., 11 marzo 1974, n. 650: «Nel caso di prestazione di lavoro tra persone conviventi, legate da vincolo di parentela, per ritenere superata la presunzione che dette prestazioni siano rese affectionis vel benevolentiae causa, occorre accertare, in modo preciso e rigoroso, se gli interessati abbiano inteso assumere obbligazioni reciproche».

[25] Cass., 29 marzo 1968, n. 962, in Prev. soc., 1968, p. 588: «Il rapporto di lavoro, così come configurato dagli artt. 2094 e seguenti cod. civ., è caratterizzato dagli elementi della continuità, della collaborazione nell’impresa altrui e dalla subordinazione all’imprenditore, nonché dall’estremo dell’onerosità. Non ricorre un tale rapporto qualora una determinata attività, ancorché oggettivamente configurabile quale prestazione di lavoro subordinato, non sia espletata con spirito di subordinazione né in vista di adeguata retribuzione, bensì affectionis vel benevolentiae causa o in omaggio a principi di ordine morale o in vista di vantaggi che si traggano o si speri di trarre indirettamente attraverso l’attività stessa. Perché sia vinta la presunzione di gratuità da cui è di regola assistito il rapporto di lavoro domestico nell’ambito di una comunità familiare – e quello tra sorella e fratello sacerdote in particolare –, l’onere della prova deve essere indirizzato non alla mera ricerca atomistica di determinati elementi di fatto (compatibili con la fattispecie giuridica in oggetto, ma di portata non univoca, quali prestazione di servizio, subordinazione, salario), bensì alla loro confluenza – come prestazioni costituenti l’oggetto di obbligazioni corrispettive alle quali le parti siano tenute secondo una disciplina negoziale – nello schema tipico di cui agli art. 2094 e seguenti cod. civ.»; Cass., 10 novembre 1971, n. 3203: «Nel caso di prestazioni di lavoro domestico, rese a persone conviventi, tra le quali intercorra uno stretto vincolo di parentela, occorre, affinché possa configurarsi un rapporto di lavoro subordinato, che i soggetti del rapporto abbiano inteso obbligarsi reciprocamente, in guisa che, sussistendo tra le prestazioni dell’uno e dell’altro un nesso sinallagmatico, ciascuna delle due prestazioni si profili come causa dell’altra. Pertanto deve escludersi che sussista un rapporto di lavoro subordinato qualora una determinata attività, ancorché oggettivamente configurabile quale prestazione di lavoro subordinato, risulti essere stata espletata affectionis vel benevolentiae causa, e cioè senza vincolo di subordinazione, né in vista di retribuzione. Il principio trova applicazione anche quando si tratti di prestazioni rese in favore del fratello sacerdote, nella sede della casa parrocchiale, le quali, rimangono pur sempre circoscritte alle esigenze di una convivenza avente tutti gli aspetti propri della comunità familiare; e non hanno influenza a tali effetti la corresponsione del vitto ed eventualmente di ulteriori utilità anche in danaro, costituendo tutto ciò, in difetto di prova idonea a dimostrare la esistenza di un nesso sinallagmatico tra le contrapposte prestazioni, la naturale manifestazione di sentimenti di affetto e di reciproca gratitudine, inerenti ai vincoli di solidarietà e di mutua assistenza che normalmente caratterizzano, sul piano etico, la convivenza tra persone legate da stretti vincoli di parentela».

[26] Sul punto cfr. Cass., 29 novembre 2010, n. 24130, che ha confermato la decisione di merito la quale aveva accolto la domanda di una donna che aveva convenuto in giudizio una congregazione religiosa, nella qualità di erede universale di un sacerdote, «esponendo di avere ininterrottamente lavorato alle dipendenze di quest’ultimo (suo zio) quale addetta al governo di casa e alla pulizia dell’abitazione», per oltre trent’anni, «senza ricevere alcun compenso e che lo zio sacerdote aveva promesso di compensarla con un lascito testamentario di valore corrispondente, ma, a causa del decesso, non aveva provveduto ad attuare questa volontà». La congregazione infatti era stata riconosciuta come erede universale in seguito ad un giudizio di impugnazione testamentaria, intentato, con esito negativo, dalla stessa ricorrente e da altri parenti. La ricorrente chiedeva quindi la condanna della congregazione al pagamento di quanto dovuto a titolo di retribuzioni arretrate, con interessi e rivalutazione, nonché al risarcimento sia del danno già subito, sia di quello che si sarebbe verificato in futuro, a causa dell’omessa contribuzione assicurativa e previdenziale. In primo grado le domande della nipote del sacerdote venivano accolte, mentre la Corte d’appello di Lecce, riformando parzialmente la sentenza, confermava che tra lo zio e la nipote era effettivamente intercorso un rapporto di lavoro subordinato e che tale rapporto non aveva avuto carattere gratuito, rideterminando però, riducendola, la somma riconosciuta a titolo di danno da omissione contributiva. Avverso la sentenza di appello la congregazione proponeva allora ricorso per cassazione, basato su quattro motivi, ed in particolare con il primo motivo venivano dedotti la violazione dell’art. 2697 c.c. , nonché il vizio di motivazione, deducendosi che nel corso del giudizio di merito non erano emerse risultanze istruttorie sufficienti né per accertare che vi fosse stato un reale impegno da parte del sacerdote di retribuire l’opera prestata dalla nipote, né per superare la «presunzione di gratuità delle prestazioni lavorative di collaborazione familiare e di assistenza rese in favore di parenti o affini». La Cassazione ha respinto però il ricorso, stabilendo che sentenza d’appello aveva «motivato ampiamente, in maniera adeguata, puntuale e convincente sulle ragioni per le quali l’attività della signora (…) doveva essere retribuita, riportandosi alle deposizioni che avevano confermato l’esistenza di un impegno in questo senso da parte dello zio sacerdote ormai invalido». In linea di diritto, nella motivazione viene poi ricordato «che il d.P.R. 31 dicembre 1971, n. 1404 [rectius: 1403], art. 1, presuppone, anche in presenza di vincoli di parentela tra le parti, l’esistenza di un rapporto di lavoro domestico quando prestazioni di carattere domestico siano effettuate in favore di sacerdoti del culto cattolico».

[27] Cfr. ad es. Cass., 4 gennaio 1995, n. 70: «Il soggetto che, ai fini del compimento del numero minimo di giornate lavorative annue necessario per l’iscrizione negli elenchi dei lavoratori agricoli, deduca di avere svolto attività lavorativa retribuita alle dipendenze di persona con esso in rapporto di affinità deve fornire una prova idonea (secondo una valutazione riservata al giudice del merito ma censurabile in sede di legittimità per vizi di motivazione) a vincere la presunzione di gratuità delle prestazioni lavorative eseguite, solitamente affectionis causa, in favore di persone cui si è legati da vincoli di parentela o di affinità o di coniugio o di convivenza more uxorio»; Cass., 17 agosto 2000, n. 10923: «Per le prestazioni lavorative di collaborazione familiare e di assistenza offerte in favore di parenti o affini anche in difetto della convivenza non viene meno la presunzione di gratuità che trova la sua fonte nella circostanza che le suddette prestazioni vengono normalmente rese affectionis vel benevolentiae causa; pertanto, in caso di contestazione, la parte che faccia valere diritti derivanti da simili rapporti ha l’obbligo di dimostrarne, con prova precisa e rigorosa, tutti gli elementi costitutivi e, in particolare, i requisiti indefettibili della subordinazione e della onerosità. (Nella specie la sentenza impugnata – confermata dalla S.C. – aveva escluso la sussistenza del rapporto di lavoro subordinato ancorché l’interessata avesse prestato la propria attività di collaborazione e assistenza mossa dalla speranza di trarre dalla sua condotta futuri vantaggi di carattere successorio)».

[28] Cfr. ad es. Cass., 23 febbraio1989, n. 1009, in Foro it., 1989, I, c. 1482.

[29] Cfr. Cass., 19 maggio1986, n. 3287, in Dir. prat. lav., 1986, 2295; Cass., 14 dicembre 1994, n. 10664, ivi, 1995, 1060; Cass., 2 agosto 2000, n. 17992.

[30] Cass., 8 aprile 2011, n. 8070; v. anche Trib. Patti 20 luglio 2010, n. 168, citata da Menghini, Il lavoro familiare nella giurisprudenza: questioni chiuse ed ancora aperte, cit., p. 221 ss., nota 13.

[31] Menghini, Il lavoro familiare nella giurisprudenza: questioni chiuse ed ancora aperte, cit., p. 221 ss.

[32] V. infra, nel § seguente.

[33] Cfr. Cass., Sez. Un., 12 giugno 1972, n. 1841, in Foro it., 1973, I, c. 133: «L’onerosità costituisce la norma dei rapporti di lavoro. Purtuttavia possono aversi rapporti gratuiti, non solo affectionis vel benevolentiae causa, ma anche nel caso in cui le relazioni si svolgono ad esclusivo vantaggio e per la sola utilità del prestatore, diretta od indiretta, e per le quali si debbano escludere gli elementi propri del rapporto di lavoro subordinato (nella specie, prestazione di attività di tecnico presso un laboratorio provinciale di igiene e profilassi, senza obblighi di orario e senza subordinazione e collaborazione, al fine di ottenere una futura sistemazione e di conseguire una preparazione tecnica per partecipare a concorsi). L’obbligo del pagamento della retribuzione a carico del presunto datore di lavoro in siffatte situazioni deve escludersi soprattutto perché, non sussistendo utilità e vantaggio a suo favore, ma ad esclusivo favore del lavoratore, viene meno il nesso sinallagmatico-funzionale proprio del rapporto oneroso ossia la corrispettività. L’accertamento del carattere gratuito od oneroso del rapporto spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità, se congruamente motivato»; cfr. inoltre Cass., 29 marzo 1973, n. 873, in Foro it., 1973, I, c. 3116: «Tenuto conto della variabilità della prestazione lavorativa in relazione alla natura delle mansioni e alle esigenze dell’impresa, non valgono ad escludere di per sé l’elemento della collaborazione e l’inquadrabilità del rapporto in quello di lavoro subordinato né la discontinuità o saltuarietà della prestazione stessa, ove persista nel tempo l’obbligo giuridico di compierla a richiesta e di tenersi a disposizione quale dipendente, né il sistema di remunerazione pattuito con riguardo al numero delle prestazioni forfettariamente individuato anziché con riferimento all’unità di tempo. Quanto all’elemento dell’onerosità, invece, deve escludersene la sussistenza qualora l’attività oggettivamente configurabile quale prestazione di lavoro subordinato non sia espletata con spirito di subordinazione né in vista di adeguata retribuzione, bensì affectionis vel benevolentiae causa, in omaggio a principi di ordine morale od in vista di vantaggi che si traggono o si spera di trarre indirettamente attraverso l’attività stessa».

[34] Cfr. Cass., 20 febbraio 1990, n. 1236: «Soltanto in presenza di un rapporto di lavoro subordinato può invocarsi il principio della presunzione di onerosità del rapporto stesso e dell’onere di provare la gratuità della prestazione anche, eventualmente, effettuata affectionis val benevolentiae causa. (Nella specie, la S.C. ha escluso l’operatività di detta presunzione relativamente ad un rapporto con i giudici del merito, con motivazione immune da vizi logici o giuridici, avevano negato essere di lavoro subordinato in quanto instaurato fra un pilota di autovetture da corsa ed una società sportiva, prevedendosi, nelle apposite pattuizioni, che questa fornisse al primo determinati servizi, al fine di permettergli la partecipazione a gare automobilistiche, dietro corrispettivo al quale l’interessato provvedeva stornando alla società le somme versategli da terzi a fini pubblicitari)».

[35] Cfr. Cass., 20 febbraio 2006, n. 3602, in D&L, 2006, p. 666: «Ogni attività oggettivamente configurabile come prestazione di lavoro subordinato si presume effettuata a titolo oneroso, ma può essere ricondotta ad un rapporto diverso istituito affectionis vel benevolentiae causa, caratterizzato dalla gratuità della prestazione; a tal fine non rileva il grado maggiore o minore di subordinazione, cooperazione o inserimento del prestatore di lavoro, ma la sussistenza o meno della finalità ideale o religiosa rispetto a quella lucrativa, che deve essere rigorosamente provata, fermo restando che la valutazione al riguardo compiuta dal giudice del merito è incensurabile in sede di legittimità se immune da errori di diritto e da vizi logici. Pertanto, quando un seminarista di un Istituto Biblico accetta di pagare la retta in tutto o in parte mediante il proprio lavoro, il rapporto di natura religiosa esistente tra i soggetti non è sufficiente a dimostrare la natura affectionis vel benevolentiae causa del rapporto, ma il convenuto deve dare la prova rigorosa che tutto il lavoro prestato dal seminarista, eccedente o meno la necessità del “piano retta”, sia stato prestato per motivazioni religiose e non in adempimento dell’obbligazione civilistica di pagare il vitto e l’alloggio».

[36] Cfr. Cass., 3 luglio 2012, n. 11089.

[37] V. Cass., 20 gennaio 1955, n. 136, in Foro it., 1956, I, c. 225; Cass., 10 giugno 1961, n. 1359, ivi, 1961, I, c. 324; Cass., 31 gennaio 1967, n. 276, in Giust. civ., 1967, I, p. 1320; in Foro it., 1967, I, c. 491; Cass., 18 ottobre 1976, n. 3585, in Giur. it., 1977, I, 1, c. 1949; Cass., 24 marzo 1977, n. 1161, cit.; Cass., 16 dicembre 1977, n. 5496, in Rep. Foro it., 1977, voce Lavoro (rapporto di), n. 297; Cass., 27 febbraio 1978, n. 1024, in Rep. Foro it., 1978, voce Lavoro (rapporto di), n. 329; Cass., 7 giugno 1978, n. 2856, in Rep. Foro it., 1978, voce Lavoro (rapporto di), n. 326; Cass., 11 aprile 1979, n. 2124; Cass., 12 marzo 1981, n. 1415; Cass., 3 dicembre 1984, n. 6311; Cass., 8 marzo 1985, n. 1896; Cass., 23 novembre 1985, n. 5848; Cass., 22 novembre 1989, n. 5006, in Riv. dir. lav., 1990, II, p. 572.

In dottrina cfr. nello stesso senso Ghezzi, La prestazione di lavoro nella comunità familiare, Milano, 1960, p. 199 (che riconduce il lavoro del convivente more uxorio nel campo delle prestazioni di cortesia); distingue invece un «impegno saltuario, il ‘dare una mano’ in qualche momento particolare del lavoro del convivente», che costituirebbe una mera prestazione di cortesia, dall’impegno costante e continuativo, che costituirebbe lavoro subordinato, V. Franceschelli, La famiglia di fatto da deviant phenomenon a istituzione sociale. (A proposito di un recente Convegno), in Dir. fam. pers., 1980, p. 1285. Per la configurabilità di un rapporto di lavoro oneroso nell’ambito dei rapporti familiari (già prima dell’entrata in vigore dell’art. 230-bis c.c.) cfr. Mazziotti Di Celso, In tema di prestazione di lavoro tra familiari e tra conviventi more uxorio, nota a Cass., 31 gennaio 1967, n. 276, in Riv. giur. lavoro, 1967, II, p. 467. Sul tema v. poi anche Paleologo, Gratuità o onerosità del lavoro della convivente more uxorio?, in Riv. giur. lav., III, 1977, p. 1058 ss.; Vacca, Le prestazioni di lavoro nella convivenza more uxorio, in Temi romana, 1983, p. 238 ss.

[38] Per i richiami cfr. Gabriele, op. cit., p. 426 ss.

[39] Gazzoni, Dal concubinato alla famiglia di fatto, cit., p. 135 s. Nel senso dell’ammissibilità dell’esistenza di un rapporto di lavoro tra uomo e donna conviventi more uxorio quando sia positivamente accertata l’esistenza dell’animus contrahendi v. App. Milano, 20 ottobre 1953, in Foro it., 1954, I, c. 638.

[40] Cfr. Gazzoni, Dal concubinato alla famiglia di fatto, cit. p. 136 s.; V. Franceschelli, La famiglia di fatto, cit., p. 1285 ss.; Busnelli, Sui criteri di determinazione della disciplina normativa, cit., p. 139; Bianca, Diritto civile, II, Milano, 1981, p. 26; Ragusa Maggiore, Famiglia di fatto e impresa familiare, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1982, p. 35; Santilli, Note critiche in tema di famiglia di fatto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1980, p. 805; Prosperi, La famiglia non fondata sul matrimonio, cit., p. 281 ss.; Colussi, voce Impresa familiare, cit., p. 61; Calò, La giurisprudenza come scienza inesatta (in tema di prestazioni lavorative in seno alla famiglia di fatto), cit., c. 2306 ss.; D’Angeli, La famiglia di fatto, Milano, 1989, p. 441 ss. Contra Mazzocca, La famiglia di fatto. Realtà attuale e prospettive, cit., p. 131 s., secondo cui «nell’attuale stadio sociale (...) anche tra concubini si suole formare una comunanza di vita e di interessi, che giustifica la prestazione gratuita del lavoro». Sul tema cfr. inoltre Vacca, Le prestazioni di lavoro nella convivenza «more uxorio», in Temi romana, 1983, p. 238 ss.; Fontana, Lavoro tra conviventi «more uxorio»: cambia l’orientamento della giurisprudenza?, Nota a Pret. Sampierdarena, 26 ottobre 1987, Trib. Genova, 13 aprile 1988, Cass., 29 maggio 1991, n. 6083, in Dir. lav., 1991, II, p. 373 ss.; Masucci, Subordinazione e gratuità: quale tutela per il convivente di fatto nell’impresa familiare?, Nota a Cass., 2 maggio 1994, n. 4204, in Giur. it., 1995, I, 1, c. 2113 ss.; Spagnoli, Il lavoro prestato da un familiare alla luce della normativa vigente, in Dir. giur. agr. e dell’amb., 1999, p. 560 ss.; cfr. inoltre la telegrafica rassegna di Asprea, La famiglia di fatto in Italia e in Europa, cit., p. 232 ss.

Per la giurisprudenza di legittimità che, anche dopo l’introduzione dell’art. 230-bis c.c., continua a presumere gratuito il lavoro svolto da un convivente a beneficio dell’altro v. Cass., 16 giugno 1978, n. 3012, in Foro it., 1978, I, c. 2137, in Foro pad., 1979, I, c. 103, con nota di Bessone e ivi, 1979, I, c. 381, con nota di Vigotti; Cass., 17 luglio 1979, n. 4221, ivi, 1979, I, c. 2315; Cass., 17 agosto 1983, n. 5373, in Rep. Foro it., 1983, voce Lavoro (rapporto), n. 500 s.; Cass., 13 dicembre 1986, n. 7486, ivi, 1986, voce cit., n. 669; Cass., 17 febbraio 1988, n. 1701, cit.; Cass., 14 giugno 1990, n. 5803; Cass., 29 maggio 1991, n. 6083, in Dir. lav., 1991, II, p. 373. Cass., 23 febbraio 1989, n. 1009, in Foro it., 1989, I, c. 1482, ha negato la gratuità delle prestazioni lavorative effettuate da un cugino in assenza di convivenza e di comunanza di vita o di interessi con il beneficiario delle stesse (si trattava, nella specie, della gestione di una pizzeria-panificio). In motivazione la Suprema Corte, pur dichiarando in astratto ancora applicabile la presunzione di gratuità in relazione al lavoro eseguito nell’ambito della comunità familiare, ha condizionato l’operatività del principio alla sussistenza di uno stretto rapporto di parentela o di affinità e all’esistenza di una convivenza o comunanza di vita o di interessi tra le parti. In motivazione si ammette però che l’introduzione dell’art. 230-bis c.c. ha «quantomeno limitato la presunzione di gratuità del lavoro familiare».

Per la giurisprudenza di merito cfr. Trib. Roma, 30 ottobre 1991, in Dir. fam. pers., 1992, p. 698: «Le somme spese da un convivente more uxorio, attraverso l’impresa edile di cui sia titolare, per ristrutturare la casa, di proprietà esclusiva del partner, nella quale la coppia abbia abitato, non sono ripetibili, considerata la presunzione di gratuità delle prestazioni lavorative rese tra partners concubinarii, presunzione che può essere vinta solo dalla rigorosa prova dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato ed oneroso, tra le parti, o dall’accordo per una ripetizione delle somme impiegate per i lavori effettuati». Per un rassegna delle opinioni e delle pronunce sull’argomento cfr. anche Segreto, op. cit., p. 1678 ss.

[41] Cfr. per tutti Menghini, Il lavoro familiare nella giurisprudenza: questioni chiuse ed ancora aperte, cit., p. 221 ss. V. inoltre Id., Lavoro familiare e nell’impresa familiare, in Diritto del Lavoro, Commentario diretto da Carinci, Il rapporto di lavoro: costituzione e svolgimento, a cura di Cester, Torino, 1998, p. 72; Nunin, Lavoro familiare e nell’impresa familiare, in Diritto del Lavoro, Commentario diretto da Carinci, Il rapporto di lavoro: costituzione e svolgimento, a cura di Cester, II, Torino, 2007, p. 125 ss. In precedenza, tra i lavoristi, G. Cottrau, Il lavoro familiare, Milano, 1984, p. 14 ss.

[42] Cfr. Cass., 17 febbraio 1988, n. 1701, cit.

[43] Cfr. ad es. Cass., 29 gennaio 1993, n. 1097: «Il soggetto che, ai fini del compimento del numero minimo di giornate lavorative annue necessario per l’iscrizione negli elenchi dei lavoratori agricoli, deduca di avere svolto attività lavorativa retribuita alle dipendenze di persona con esso in rapporto di affinità deve fornire una prova idonea (secondo una valutazione riservata al giudice del merito ma censurabile in sede di legittimità per vizi di motivazione) a vincere la presunzione di gratuità delle prestazioni lavorative eseguite, solitamente affectionis causa, in favore di persone cui si è legati da vincoli di parentela o di affinità o di coniugio o di convivenza more uxorio». Negli stessi identici termini v. anche Cass., 4 gennaio 1995, n. 70.

[44] Pret. Roma, 17 settembre 1986, in Arch. civ., 1987, p. 527: «La presunzione di gratuità che assiste le attività lavorative svolte all’interno della comunità familiare deve essere affermata anche in relazione alla convivenza di fatto solo quando sia stata accertata tra le parti l’avvenuta instaurazione di una stabile e duratura comunione di vita, economica e spirituale, analoga a quella propria del rapporto coniugale, e non pure quando tra i conviventi sia intercorso un semplice rapporto affettivo e sessuale». Cfr. inoltre Pret. Forlì, 23 novembre 1985, in Foro pad., 1987, c. 95, con nota di Vincenzi: «Si presumono gratuite le prestazioni di lavoro di persona convivente more uxorio soltanto se il rapporto sia caratterizzato da una comunione spirituale ed economica equivalente a quella del rapporto coniugale (affectio maritalis) e non da connotazioni semplicemente affettive e sessuali»; Pret. Sampierdarena, 26 ottobre 1987, in Dir. Lav., 1991, II, p. 373, con nota di Fontana: «Al fine di stabilire se le prestazioni lavorative svolte nell’ambito di una convivenza more uxorio diano luogo ad un rapporto di lavoro subordinato oppure siano riconducibili ad una diversa causa che escluda il diritto alla retribuzione, si deve, a seguito del ridimensionamento della presunzione di gratuità delle prestazioni rese anche nell’ambito della famiglia legittima operato dall’entrata in vigore dell’art. 230-bis c. c., escludere il rapporto di lavoro subordinato solo in presenza della dimostrazione rigorosa di una comunanza di vita e interessi tra i conviventi che non si esaurisca in un rapporto meramente spirituale, affettivo e sessuale, ma, analogamente al rapporto coniugale, dia luogo anche alla partecipazione effettiva ed equa della convivente alle risorse della famiglia di fatto».

[45] Pret. Minturno, 28 aprile 1982, in Or. giur. pontina lav., 1982, p. 100: «E’ configurabile la presunzione di gratuità della prestazione solo quando si sia raggiunta la prova che tra le parti sia stata instaurata una stabile e duratura comunione di vita, materiale e spirituale, assimilabile, pur in mancanza di un legame legale, all’unione matrimoniale. Deve ritenersi pertanto sussistente un rapporto di lavoro subordinato, sebbene di particolare tenuità, nel rapporto tra il proprietario di un albergo e una signorina la cui convivenza, sebbene improntata a estrema confidenza e familiarità, essendo limitata al periodo della stagione termale (di massima compresa tra maggio e ottobre), non era riconducibile, al fine di escludere il rapporto di lavoro per la presunzione di gratuità, ad una vera e propria unione more uxorio. (Nella specie la lavoratrice dopo aver prestato vera e propria attività lavorativa alle dipendenze dell’albergo termale, si era limitata a far compagnia al vecchio datore, accudendolo in modeste incombenze, fruendo, peraltro, di ogni libertà di movimento, non essendo vincolata da orari ed assentandosi spesso e per non brevi periodi. Non potendosi prendere a base le tariffe del ccnl per le prestatrici di lavoro domestico che presuppongono ben altre e più gravose prestazioni, il giudicante ha determinato in via equitativa la retribuzione dovuta alla ricorrente)».

[46] Cfr. Trib. Milano, 16 marzo 2001, in Or. giur. lav., 2001, p. 67: «Ove la presunzione di gratuità delle prestazioni lavorative fra persone legate da vincoli di parentela o affinità debba essere esclusa per l’accertato difetto della convivenza degli interessati, non opera ipso iure una presunzione di contrario contenuto, indicativo cioè dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato; pertanto, in caso di contestazione, la parte che faccia valere diritti derivanti da tale rapporto ha comunque l’obbligo di dimostrarne, con prova precisa e rigorosa, tutti gli elementi costitutivi e, in particolare, i requisiti indefettibili della onerosità e della subordinazione». In senso diametralmente opposto Trib. Firenze, 18 giugno 1986, in Toscana lavoro giur., 1987, p. 228, secondo cui «Lo speciale regime dell’impresa familiare previsto dall’art. 230-bis c.c. si applica alle ipotesi tassativamente previste dalla norma, e cioè al coniuge, ai parenti entro il terzo grado ed agli affini entro il secondo; non si estende al convivente more uxorio; dalla stessa norma si deduce che ogni prestazione lavorativa svolta a favore di altri si presume a titolo oneroso; compete quindi alla parte che se ne è avvantaggiata di dimostrare il contrario (nella specie, il tribunale ha ritenuto la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato della ricorrente con la società, gestore di un ristorante, di cui era socio il convivente)».

[47] Cfr. Cass., 26 gennaio 2009, n. 1833, in Lav. prev. oggi, 2009, p. 1209, con nota di Piccinini, secondo cui «Ogni attività oggettivamente configurabile come prestazione di lavoro subordinato si presume effettuata a titolo oneroso, ma può essere ricondotta ad un rapporto diverso, istituito affectionis vel benevolentiae causa, caratterizzato dalla gratuità della prestazione, ove risulti dimostrata la sussistenza della finalità di solidarietà in luogo di quella lucrativa, fermo restando che la valutazione al riguardo compiuta dal giudice del merito è incensurabile in sede di legittimità, se immune da errori di diritto e da vizi logici. (Nella specie, relativa ad una relazione sentimentale tra datore di lavoro ed una dipendente, la S. C. ha confermato la sentenza impugnata che, sulla base delle specifiche circostanze di fatto emerse dall’istruttoria espletata, aveva ritenuto l’esistenza del vincolo di subordinazione, atteso che la convivenza era stata sovente interrotta e non vi era alcuna condivisione del tenore di vita in relazione ai cospicui redditi dell’attività commerciale, avendo beneficiato l’interessata solo di alcune elargizioni, quali l’uso gratuito di un appartamento, il pagamento di qualche debito e il prelevamento gratuito di merce – abiti – dal negozio)». V. inoltre Cass., 15 marzo 2006, n. 5632, cit., secondo cui «L’attività lavorativa e di assistenza svolta all’interno di un contesto familiare in favore del convivente more uxorio trova di regola la sua causa nei vincoli di fatto di solidarietà ed affettività esistenti, alternativi rispetto ai vincoli tipici di un rapporto a prestazioni corrispettive, qual è il rapporto di lavoro subordinato; ciò non esclude che talvolta le prestazioni svolte possano trovare titolo in un rapporto di lavoro subordinato, del quale il convivente superstite deve fornire prova rigorosa, e la cui configurabilità costituisce valutazione in fatto, come tale demandata al giudice di merito e non sindacabile in cassazione ove adeguatamente motivata. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto esente da vizi la sentenza di merito che aveva rigettato la domanda della ricorrente volta ad ottenere dagli eredi il trattamento economico a titolo di lavoro domestico non corrispostole dal defunto convivente, sulla base delle risultanze probatorie escludenti il vincolo di subordinazione ed attestanti, tra l’altro, che tra i due esisteva una relazione sentimentale, sfociata dopo anni di frequentazione a distanza in una prolungata convivenza, e che l’attrice veniva presentata abitualmente come compagna del convivente e trascorreva abitualmente le vacanze in località di villeggiatura con il defunto convivente)». Cfr. poi anche Cass., 22 novembre 2010, n. 23624, secondo cui «In tema di rapporto di lavoro domestico in situazione di convivenza, l’esistenza di un contratto a prestazioni corrispettive deve essere escluso solo in presenza della dimostrazione di una comunanza di vita e di interessi tra i conviventi (famiglia di fatto), che non si esaurisca in un rapporto meramente affettivo o sessuale, ma dia luogo anche alla partecipazione, effettiva ed equa, del convivente alla vita e alle risorse della famiglia di fatto in modo che l’esistenza del vincolo di solidarietà porti ad escludere la configurabilità di un rapporto a titolo oneroso. (Nella specie, la S.C., in applicazione dell’anzidetto principio, ha ritenuto che, pur in presenza di un vincolo affettivo – attestato dalla partecipazione alle attività familiari da piccoli doni, arredo delle stanze, aiuto prestato da altri familiari – non potesse escludersi l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, con obbligo di curare e assistere i figli del datore di lavoro e di provvedere alle faccende domestiche, non assumendo alcun rilievo, ai fini della qualificazione del rapporto, l’originario intento altruistico di accogliere in casa la lavoratrice perché bisognosa di aiuto)». Ancora, potrà citarsi Cass., 16 giugno 2015, n. 12433, secondo cui «Ogni attività oggettivamente configurabile come prestazione di lavoro dipendente può essere ricondotta ad un rapporto diverso, istituito in virtù di un legame affettivo e di familiarità tra due persone caratterizzato dalla gratuità della prestazione lavorativa. Nondimeno tale presunzione può essere superata fornendo la prova dell’esistenza del vincolo di subordinazione mediante il riferimento alla qualità e quantità delle prestazioni svolte ed alla presenza di direttive, controlli ed indicazioni da parte del datore di lavoro. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato di tipo domestico, intercorso per circa vent’anni tra due donne legate da vincolo affettivo, con svolgimento di plurime mansioni di pulizia ed accudimento delle faccende di casa da parte di una di esse sotto la direzione dell’altra e dietro promessa di un compenso mai effettivamente corrisposto)».

[48] Cfr. Cass., 29 settembre 2015, n. 19304.

[49] Cfr. Cass., 24 marzo 1977, n. 1161, cit.

[50] Cfr. Cass., 19 marzo 1980, n. 1810, in Rep. Giust. civ., 1980, voce Lavoro (rapporto di), n. 65.

[51] Cass., 14 giugno 1990, n. 5803.

[52] Cass., 10 dicembre 1994, n. 10927, cit.

[53] Così Cass., 26 gennaio 2009, n. 1833, cit.

[54] Così Cass., 16 giugno 2015, n. 12433, cit.

[55] Pret. Napoli, 3 marzo 1979, in Dir. e giur., 1979, p. 590 ss.: «Osserva però il giudicante che il cosiddetto lavoro familiare è escluso, in linea di principio, dall’ambito di applicazione della normativa sul lavoro subordinato non già perché reso affectionis vel benevolentiae causa, bensì perché prestato nell’adempimento di un preciso obbligo giuridico. Infatti gli obblighi di contribuzione fra i coniugi e di mantenimento dei figli sono stabiliti in relazione non solo alle rispettive sostanze ma anche alla loro capacità di lavoro casalingo (artt. 143 e 148 c.c. nel testo riformato). Tali norme presuppongono nei destinatari una qualità giuridica – lo stato di coniuge – fonte di poteri e doveri giuridici, strettamente inerenti alla stessa, onde non possono trovare applicazione per soggetti privi di tale qualità. La convivenza non attribuisce né lo stato di coniuge né uno stato analogo. In conseguenza non sussistono tra le persone conviventi more uxorio gli obblighi di fedeltà, assistenza morale e materiale, collaborazione nell’interesse della famiglia di fatto, coabitazione, contribuzione di cui ai citati artt. 143 e 148 c.c. In conclusione la disciplina del cosiddetto lavoro familiare non può legittimamente estendersi alle prestazioni lavorative rese da persona convivente che, se non è sottoposta a detti obblighi, non gode neppure, per contro, dei diritti personali e patrimoniali del coniuge. (…) Esclusa, quindi l’intenzione delle parti di obbligarsi ad un lavoro e ad un compenso cioè la esistenza di un negozio costitutivo del rapporto di lavoro, va sottolineato che la ricorrente ha reso comunque con continuità prestazioni lavorative di natura domestica con l’impiego totale delle sue energie lavorative, ciò è indubbio se si tiene conto che il (…) aveva sei figli in tenera età (dai due agli 11 anni) e la sua abitazione non era piccola. Per contro il convenuto ha tratto un indubbio e considerevole vantaggio dal gravoso lavoro dello donna del quale non avrebbe potuto fare a meno perché la sua attività di autotrasportatore lo teneva per lo più lontano da casa. L’attività della (…) è oggettivamente configurabile quale prestazione di fatto di lavoro subordinato domestico sussistendo i requisiti della continuità e della prestazione dell’opera per il funzionamento della vita familiare. Il requisito della subordinazione nel lavoro domestico si fonda con la finalizzazione dell’attività al buon andamento della comunità familiare, infatti in nessuna norma, generale o speciale, che disciplina questo tipo di lavoro è espressamente previsto il requisito della subordinazione. Esso assume rilevanza solo nell’impresa, organizzata secondo il potere gerarchico dell’imprenditore, mentre nel lavoro domestico, non inerente ad impresa produttiva, assume invece una mera rilevanza formale, in senso negativo, non essendo configurabile questo tipo di lavoro come autonomo. Accertata la prestazione lavorativa in favore di altro soggetto può ritenersi il diritto del prestatore alla retribuzione del suo lavoro? La risposta non può essere che positiva alla stregua dell’art. 36 della Cost. che sancisce il diritto primario alla retribuzione del lavoro».

[56] Pret. Latina, 4 marzo 1982, in Or. giur. pontina lav., 1982, p. 102 «Le prestazioni lavorative rese da persona convivente more uxorio si presumono gratuite e non ricollegabili ad un rapporto di lavoro subordinato, dovendosi ritenere espletate sulla base di relazioni personali di affezione e di benevolenza e non in vista di una retribuzione; detta presunzione può essere vinta dalla dimostrazione, incombente sulla parte che sostiene l’esistenza di un rapporto di lavoro, dei requisiti della subordinazione e della onerosità delle rispettive prestazioni. Qualora tra le parti venga pattuita l’onerosità delle prestazioni, la presunzione di gratuità delle stesse resta superata dalla specifica prova in contrario».

[57] Pret. Latina, 29 aprile 1982, in Or. giur. pontina lav., 1982, p. 99 «Non è configurabile un rapporto di lavoro subordinato nel rapporto tra un medico dentista e la convivente more uxorio che abbia aiutato quest’ultimo nella conduzione dello studio sanitario. (Nella specie era emerso che non era mai esistito tra le parti nel rapporto di collaborazione lavorativa, un preciso vincolo d’orario, una subordinazione, una attribuzione di mansioni specifiche, una costante presenza sul posto di lavoro)».

[58] Pret. Roma, 17 settembre 1986, cit.; gli elementi riportati nel testo vengono così valutati dal Pretore: «Trattasi invero di indizi che, unitariamente considerati, permettono di affermare con sufficiente grado di certezza che sin dall’inizio le parti si sentirono legate da obblighi contrattuali (a che titolo, altrimenti, il pagamento della buonuscita?), che non v’era comunanza di interessi economici (donde l’indisponibilità persino delle somme necessarie a soddisfare le più elementari esigenze), che l’originaria caratterizzazione del rapporto non mutò nel corso degli anni (come da richiesta di regolarizzazione sotto il profilo previdenziale)». Nello stesso senso cfr. anche V. Franceschelli, I rapporti di fatto. Ricostruzione della fattispecie e teoria generale, Milano, 1984, p. 321 ss.

[59] Cfr. Trib. Genova, 13 aprile 1988, cit. (in motivazione): «Gli elementi da cui può risultare la con­trattualità del rapporto sono, in via esem­plificativa: il fatto che il lavoro sia prestato con le caratteristiche che di solito distinguo­no le prestazioni di lavoro in maniera subordinata (come la sottoscrizione [sic] alle direttive tecnico‑funzionali impartite per l’esecuzione e la disciplina del lavoro, il vincolo dell’orario ecc.); l’esistenza della tipica documentazione riguardante la persona del lavoratore subordinato (libretto di lavoro)».

[60] Così, per esempio, Trib. Genova, 13 aprile 1988, cit.

[61] Trib. Latina, 15 novembre 1982, in Giur. pontina lav., 1982, p. 98: «La possibilità di estensione alla convivenza more uxorio della presunzione di gratuità delle prestazioni lavorative, vigente nell’ambito della comunità familiare, postula una rigorosa dimostrazione di una convivenza spirituale ed economica analoga a quella inerente al rapporto familiare. Siffatta rigorosa dimostrazione si concretizza nel suggerimento di una più marcata severità nel vaglio del materiale probatorio, ma non nella esclusione aprioristica dell’utilizzabilità di singoli mezzi di prova tra quelli previsti e disciplinati dagli art. 2699 e seguenti cod. civ. Il giudice, quindi, anche nella materia di cui trattasi, può utilizzare oltre quella per testimoni, anche la prova per presunzioni di cui agli artt. 2727 e seg. cod. civ., che concorrono, ove il giudice correttamente ritenga di farvi ricorso, pur nel rispetto del principio dispositivo, all’adempimento dell’onere imposto dall’art. 2697 cod. civ. (Nella specie è stata esclusa l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato nel rapporto di convivenza more uxorio, durato 26 anni, tra l’appellante e il dante causa delle appellate, nell’abitazione della medesima appellante, durante il quale l’uomo non aveva versato nulla a titolo specifico di retribuzione o per l’assistenza o a titolo di compenso per l’ospitalità ricevuta, mentre provvedeva col proprio denaro alle spese del ménage)».

[62] Cfr. Oberto, Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, cit., p. 28 ss.

[63] Anche secondo Gabriele, op. cit., p. 446 ss., in una logica di tutela del lavoro prestato dal convivente, l’interprete dovrebbe tentare di rintracciare una soluzione nell’ambito della subordinazione, piuttosto che forzare il dato normativo attraverso la tecnica dell’analogia per applicare anche qui la disciplina tipica del diritto di famiglia.

[64] Cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 236 ss. Sull’argomento del contratto di lavoro di fatto cfr. inoltre per tutti Dell’Olio, Il lavoro subordinato, in Trattato di diritto privato, diretto da Rescigno, XV, 1, Torino, 1986, p. 232.

[65] Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, loc. ult. cit.; Oberto, Impresa familiare e ingiustificato arricchimento fra conviventi more uxorio, cit., p. 575. Approvano tali rilievi T. Auletta, Collaborazione del familiare nell’attività economica e forme di tutela, in Dir. lav., 1999, p. 269 ss.; Monteverde, La convivenza more uxorio, in Aa. Vv., Il diritto di famiglia, Trattato diretto da Bonilini e Cattaneo, I, Famiglia e matrimonio, 2, Torino, 2007, p. 960.

[66] Cfr. Gazzoni, op. loc. ult. citt. In quest’ottica si pone pure chiaramente Pret. Napoli, 3 marzo 1979, cit.

[67] Cfr. Gabriele, op. cit., p. 454.

[68] Cfr. Gragnoli, op. cit., p. 92.

[69] In questo senso v. anche Calò, op. loc. citt.; L. Giorgianni, Convivenza «more uxorio» e impresa familiare, nota a Cass., 2 maggio 1994, n. 4204, in Fam. e dir., 1994, p. 519; Gragnoli, op. cit., p. 87 ss. Anche all’estero la giurisprudenza è estremamente cauta nel riconoscere la sussistenza di un contratto di lavoro oneroso tra conviventi: v. per tutti Noir - Masnata, Les effets patrimoniaux du concubinage et leur influence sur le devoir d’entretien entre époux séparés, Genève, 1982, p. 44 ss. Nel senso che non è possibile presumere tra conviventi (così come tra i coniugi) l’esistenza di un rapporto di subordinazione, cfr. Derleder, Vermögenskonflikte zwischen Lebensgefährten bei Auflösung ihrer Gemeinschaft, in NJW, 1980, p. 548, n. 40 (si noti peraltro che in Germania, così come in tutto il resto dell’Europa continentale, le situazioni per le quali in Italia s’invocano rimedi giuslavoristici sono risolte alla luce delle norme in tema di società civile di fatto, per una disamina delle quali si fa rinvio a Oberto, Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, cit., p. 32 ss.).

[70] Sui criteri distintivi della prestazione del lavoratore subordinato e in particolare su quello della subordinazione v. per tutti Ghera, Diritto del lavoro, Bari, 1979, p. 30 ss. (il quale mette, tra l’altro, in luce come la definizione della subordinazione alla stregua dell’osservanza delle direttive impartite dal datore di lavoro sia ricavabile dall’art. 1, cpv., l. 18 dicembre 1973, n. 877, sul lavoro a domicilio: v. op. cit., p. 47); sull’argomento cfr. inoltre Dell’Olio, op. cit., p. 234 ss.; nel senso che solo la «rigorosa ricerca del vincolo della subordinazione sarebbe idonea a delineare la natura onerosa e non gratuita del rapporto» lavorativo prestato in ambito familiare cfr. Dalmasso, Subordinazione e rapporto di lavoro a titolo gratuito, in Giur. merito, 1994, p. 817; sui rapporti tra subordinazione e onerosità cfr. Spagnoli, Note in tema di impresa familiare, lavoro gratuito ed azione di arricchimento senza causa, cit., p. 676 ss. Per analoghe questioni con riguardo al diritto francese v. Aa. Vv., Couple et modernité, 84ème congrès des notaires de France, La Baule, 29 mai - 1er juin 1988, Malesherbes, 1988, p. 411.

[71] Così, ad es., App. Bologna, 21 gennaio 2014, in Fam. e dir., 2014, p. 994, con nota di Bresciani.

[72] Cass., 2 maggio 1994, n. 4204, cit.

[73] Bernardini, Rapporto di lavoro, o di collaborazione «parasubordinata», e tutela del convivente more uxorio (c.d. familiare di fatto), cit., p. 282.

[74] Bernardini, op. loc. ultt. citt.

[75] Ciò che il S.C. non ha mancato di rilevare, notando che «nel motivo in esame (appunto quello sul quantum) è stato dedotto il solo errore di diritto».

[76] Trib. Palermo, 3 settembre 1999, in Fam. e dir., 2000, p. 289; nella motivazione del provvedimento leggesi quanto segue: «Va (…) accolta la domanda di condanna del [convenuto] al pagamento di L. 182.070.000, ove si consideri che essendo incontroverso lo svolgimento dell’attività professionale espletata dalla [attrice] in favore del [convenuto] che si è ben guardato dal disconoscerla – cfr. libero interrogatorio fra le parti – appare evidente, in mancanza di elementi probatori che tali si possano considerare, il buon diritto dell’attrice in riconvenzionale al pagamento dei superiori importi. E’ risultato infatti sfornito di alcun riscontro probatorio l’asserito pagamento delle prestazioni sulla base dell’esame della dichiarazione dei redditi della [attrice] – pure allegato dal [convenuto] – non potendo trarsi dal detto documento rilevante ai soli fini fiscali, al di là delle non condivisibili argomentazioni sul punto espresse dal [convenuto], verun elemento sintomatico di un adempimento in contanti solo postulato dal [convenuto] e mai da questi dimostrato con i mezzi probatori che avrebbe potuto e dovuto sperimentare».

[77] Ferrando, Famiglia di fatto: gioielli e mobili antichi vanno restituiti alla fine della convivenza?, nota a Trib. Palermo, 3 settembre 1999, in Fam. e dir., 2000, p. 289 s.

[78] In questo senso cfr. Invece Ferrando, Famiglia di fatto: gioielli e mobili antichi vanno restituiti alla fine della convivenza?, nota a Trib. Palermo, 3 settembre 1999, in Fam. e dir., 2000, p. 289 s.

[79] Cass., 10 luglio 1990, n. 7185; Cass., 16 gennaio 1999, n. 413.

[80] Cass., 10 luglio 1990, n. 7185, cit., Cass., 16 gennaio 1999, n. 413, cit.

[81] Nel senso che tale lavoro non è configurabile come lavoro d’impresa cfr. Panuccio, op. loc. ultt. citt. Sui rapporti tra lavoro domestico e attività d’impresa nell’ambito dell’impresa familiare v. anche Cass., Sez. Un., 4 gennaio 1995, n. 89; Cass., 3 marzo 1998, n. 11007.

[82] Così Gabriele, op. cit., p. 447.

[83] Così Venditti, Solidarietà e protezione nel lavoro familiare anche dopo le recenti riforme, in www.temilavoro.it, 2012, p. 16 s.; ma si rinvia anche alle osservazioni di Biagi, Impresa familiare e rito del lavoro, Nota a Pret. Modena, 9 giugno 1980, in Giur. comm., 1981, II, p. 86, secondo cui «nel lavoro familiare coesistono due rapporti, associativo e di lavoro subordinato (…)» e p. 87, dove afferma che «va accolto con favore un orientamento teso, al di là del nomen iuris del rapporto, ad assicurare una tutela adeguata a chi, a qualunque titolo, svolga un’attività lavorativa»; Olivelli, L’impresa familiare e la tutela previdenziale, Nota a Corte cost., 25 novembre 1987, n. 476, in Dir. lav., 1988, II, p. 91, secondo la quale l’orientamento giurisprudenziale che ha esteso al lavoro familiare la tutela ex art. 409, n. 3, c.p.c., ha riconosciuto «con ciò l’esistenza di una forma di subordinazione di fatto, un grave squilibrio socio-economico». In generale, per la tesi secondo cui la nozione di «subordinazione tecnico-funzionale» (distinta da quella di «subordinazione in senso stretto») non appartiene solo al lavoro subordinato ma anche ad altri rapporti come quello del socio di cooperativa di lavoro, del socio d’opera di una società lucrativa di persone o dell’associato in partecipazione con apporto di lavoro, cfr. Corte cost., 5 febbraio 1996, n. 30, in Mengoni, Il contratto di lavoro, a cura di Napoli, Milano, 2004, p. 149 ss.

[84] Cfr. Venditti, op. cit., p. 16; M. Barbera, Il lavoro nella famiglia, in Dir. lav. rel. ind., 1982, p. 468, secondo cui sarebbe arduo individuare una tipicità sociale della prestazione lavorativa resa nell’ambito di un’impresa familiare.

[85] Cfr. Gabriele, op. cit., p. 453.

[86] Sul tema cfr. per tutti G. Santoro-Passarelli, I rapporti di collaborazione organizzati dal committente e le collaborazioni continuative e coordinate ex art. 409, n. 3, c.p.c. (art. 2), in Aa. Vv., Commento al d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81: le tipologie contrattuali e lo jus variandi, a cura di Carinci, Modena, 2015, p. 9 ss., 14 ss., ad avviso del quale «si può affermare con un certo margine di sicurezza che i rapporti di collaborazione che sono esclusi dalla riconduzione al lavoro subordinato disposta dall’art. 2, comma 1 – cioè le collaborazioni coordinate e continuative non organizzate dal committente ovvero quelle organizzate dal committente ma rientranti nelle eccezioni del comma 2 –, continuano ad avere cittadinanza nel nostro ordinamento. In proposito si deve osservare che nessuna norma ne sancisce l’eliminazione o il divieto, con la conseguenza che, similmente a quanto avveniva prima della riforma del 2003 (…), i privati potranno utilizzare sia schemi contrattuali tipici sia schemi contrattuali atipici ai sensi dell’art. 1322, secondo comma, c.c. per dare vita a rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione d’opera continuativa e coordinata e che saranno, per tale ragione, soggetti al rito del lavoro ed alla normativa ad essi applicabile. Peraltro, il superamento della disciplina del lavoro a progetto comporta anche il venir meno del divieto, previsto da quella disciplina, di regolare forme di lavoro autonomo continuativo a tempo indeterminato al di fuori delle ipotesi già esistenti e regolate dal Codice civile (come ad esempio il contratto di agenzia), ovvero al di fuori delle poche eccezioni espresse e tassative previste dall’art. 61, comma 3, del d.lgs. n. 276/2003. Pertanto, a seguito delle nuove disposizioni l’ordinamento non solo non supera le collaborazioni coordinate e continuative, ma riconosce nuovamente all’autonomia privata individuale il potere di regolare, anche al di fuori delle ipotesi tipiche previste dal Codice civile e delle eccezioni espresse, forme di lavoro autonomo coordinato e continuativo (senza progetto e) a tempo indeterminato».

[87] Così Mengoni, La questione della subordinazione in due recenti trattazioni, in Mengoni, Il contratto di lavoro, cit., p. 51.

[88] Cfr. Gabriele, op. cit., p. 459.

[89] Per i richiami cfr. Gabriele, op. cit., p. 461.

[90] Cfr. sempre Gabriele, op. cit., p. 462 s.

[91] Cfr. Oberto, Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, cit., p. 26 s.

[92] Così ancora Gabriele, op. cit., p. 465 s., la quale rileva ulteriormente che «Il convivente di fatto, al contrario del religioso o del volontario, non condivide con il partner scopi di vita comune ispirata a un’idealità ben determinata, se non l’affectio. Anzi, il fine dell’attività produttiva del convivente imprenditore è proprio quello del profitto e del perseguimento di un utile. Nulla a che vedere, quindi, con l’idealità».

[93] Su cui v. infra, § 7.

[94] Per commenti al riguardo si fa rinvio a Oberto, I contratti di convivenza nei progetti di legge (ovvero sull’imprescindibilità di un raffronto tra contratti di convivenza e contratti prematrimoniali), in Fam. e dir., 2015, p. 165 ss.; T. Auletta, Modelli familiari, disciplina applicabile e prospettive di riforma, in Nuove leggi civ. comm., 2015, p. 615 ss.

[95] Cfr. Oberto, I contratti di convivenza nei progetti di legge (ovvero sull’imprescindibilità di un raffronto tra contratti di convivenza e contratti prematrimoniali), cit., p. 171.

[96] Cfr. Romeo e Venuti, Relazioni affettive non matrimoniali: riflessioni a margine del d.d.l. in materia di regolamentazione delle unioni civili e disciplina delle convivenze, in Nuove Leggi civ. comm., 2015, p. 971 ss. in partic. 1004 s.

[97] Così, ad es., Cass., Sez. Un., 4 gennaio 1995, n. 89, in Nuova giur. civ. comm., 1995, I, p. 1037 ss., con nota di Giugliano.

[98] In senso inclusivo sottolinea che il lavoro prestato nella famiglia «libera energie lavorative a favore dell’impresa e, perciò, concorre indirettamente al lavoro nell’impresa» ad es., Galgano, Trattato di diritto civile, II, Padova, 2010, p. 666; reputa che il lavoro domestico rilevi in sé ai fini dell’applicabilità dell’art. 230-bis c.c. sulla base della ratio protettiva della norma pure Balestra, L’impresa familiare, cit., p. 851 s. (e ivi nota 105, con ulteriori indicazioni bibliografiche). Per una posizione più sfumata v., invece, Palmeri, Regime patrimoniale della famiglia, II, Art. 230 bis, cit., p. 43 ss. In senso contrario, Di Rosa, Dell’impresa familiare. Art. 230 bis, cit., p. 376 ss. Sul punto v. anche Romeo e Venuti, op. loc. cit., nota 97.

[99] Tra gli interpreti per analoghi rilievi critici cfr. T. Auletta, Modelli familiari, disciplina applicabile e prospettive di riforma, cit., p. 627; Romeo e Venuti, op. cit., p. 1005.

[100] T. Auletta, op. loc. ultt. citt.

[101] Così, ancora, Romeo e Venuti, op. cit., p. 1005.

[102] Per alcuni rinvii ai necessari approfondimenti in tema di applicabilità del rimedio ex art. 2041 c.c. ai conviventi v. supra, § 1, in nota. Per un tentativo di superamento, in una prospettiva de iure condendo, della questione del rilievo dell’actio de in rem verso nella famiglia di fatto si potranno richiamare i due seguenti articoli di una proposta di legge elaborata ormai diversi anni or sono dallo scrivente:

      «Art. 3 - Attribuzioni patrimoniali in favore del convivente - 1. In assenza di apposita pattuizione, le attribuzioni patrimoniali effettuate fra i conviventi in ragione della prestazione di reciproca contribuzione, nonché di assistenza morale e materiale, compiute in qualunque forma in proporzione ai propri redditi, alle proprie sostanze e alle proprie capacità di lavoro professionale o casalingo, costituiscono adempimento di obbligazione naturale ai sensi dell’art. 2034 c.c.

 2. Salvo prova contraria, si presume che le attribuzioni patrimoniali eccedenti la misura di cui sopra costituiscano a tutti gli effetti donazioni, per la cui validità è richiesto il rispetto degli artt. 782 c.c. e 48, l. 16 febbraio 1913, n. 89 («Sull’ordinamento del notariato e degli archivi notarili»).

Art. 4 - Indennizzo per l’attività prestata - 1. In assenza di apposita pattuizione e ove non sia configurabile un diverso rapporto, il convivente ha diritto ad un indennizzo per l’attività prestata e per le prospettive di guadagno perdute al fine di prestare la propria contribuzione nell’ambito del rapporto di convivenza, qualora tale contribuzione non sia integralmente compensata dalle contribuzioni effettuate dal partner.

 2. In difetto di accordo la misura dell’indennizzo è fissata dal giudice ordinario secondo equità».

Si veda al riguardo la proposta «privata», redatta dallo scrivente il 28 febbraio 2000, nell’ambito dei lavori di una riunione di esperti convocata presso il Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri, inviata in pari data all’Ufficio Legislativo del suddetto Dipartimento e pubblicata nel proprio sito web il 10 giugno 2000 (cfr. Oberto, Proposta di legge sul tema: disposizioni in materia di accordi di convivenza, disponibile alla seguente pagina web: http://giacomooberto.com/convivenza/proposta.htm, anche in Oberto, Famiglia e rapporti patrimoniali. Questioni d’attualità, Milano, 2002, p. 1057 ss.). L’art. 3 della proposta dello scrivente era stato letteralmente ripreso dalla proposta presentata il 13 giugno 2001 di iniziativa dell’On. Belillo (n. 795/XIV/C) ed è stato quindi trasposto in altri progetti presentati nella XVI legislatura (sul tema v. anche Oberto, I contratti di convivenza tra autonomia privata e modelli legislativi, in Contratto e impresa/Europa, 2004, p. 87 ss.).