Giacomo Oberto

 

RIFLESSIONI SULLA RIFORMA

IN MATERIA DI

AFFIDAMENTO CONDIVISO

(TRACCIA IPERTESTUALE

DI UNA RELAZIONE)

 

Sommario:

 

ILA LEGGE SULL’AFFIDAMENTO CONDIVISO E LA NEGOZIALITÀ TRA CONIUGI IN CRISI

1. Introduzione. Le norme di riferimento nella prospettiva della legge sull’affidamento condiviso.

2. Accordi tra coniugi e contratti della crisi coniugale.

3. La causa dei contratti della crisi coniugale.

4. Causa, cause e motivi dei contratti della crisi coniugale.

5. Accordi tra coniugi e procedure della crisi coniugale: i rapporti con la separazione consensuale (e il problema della revoca del consenso prestato).

6. Contratti tra coniugi e procedure della crisi coniugale: i rapporti con il divorzio su domanda congiunta (e il problema della revoca del consenso prestato).

7. Contratti tra coniugi e procedure della crisi coniugale: gli accordi a latere.

8. Conclusioni sul tema dei rapporti tra la legge sull’affidamento condiviso e la negozialità tra coniugi in crisi.

 

II – BIGENITORIALITA’ E AFFIDAMENTO CONDIVISO

9. Il diritto del minore di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori.

10. I rapporti con i nonni e gli altri parenti. Ricadute sul piano processuale.

11. L’affidamento alternato e quello a terze persone.

12. I poteri del giudice nell’affidamento condiviso.

13. Affidamento esclusivo ad uno solo dei genitori.

14. Esercizio della potestà in capo ad entrambi i genitori.

 

III – IL MANTENIMENTO DEI FIGLI

15. Il mantenimento dei figli minorenni.

16. Il mantenimento dei figli maggiorenni.

17. Prestazioni una tantum e trasferimenti mobiliari o immobiliari in favore della prole.

 

IV – GLI ACCORDI DI CARATTERE NON PATRIMONIALE

18. Gli accordi di carattere non patrimoniale relativi ai figli: generalità.

19. Gli accordi sull’educazione dei figli.

 

V – IL PROBLEMA DELLA CASA FAMILIARE

20. L’assegnazione della casa familiare tra accordi delle parti e decisione del giudice.

21. L’opponibilità dell’assegnazione della casa familiare, prima della legge sull’affidamento condiviso.

22. L’opponibilità dell’assegnazione della casa familiare, dopo la legge sull’affidamento condiviso.

 

VI – POTERI DEL GIUDICE, ASCOLTO DEL MINORE E MEDIAZIONE FAMILIARE

23. Poteri del giudice in materia di prova.

24. I poteri del giudice in materia di determinazione del contributo al mantenimento del minore.

25. L’ascolto del minore.

26. La mediazione familiare.

 

VII – MODIFICABILITA’ E RECLAMABILITA’ DEI PROVVEDIMENTI

27. Il principio di modificabilità di tutte le decisioni attinenti alla prole.

28. La reclamabilità dei provvedimenti presidenziali.

 

VIII – L’ART. 709-TER C.P.C.

29. Gli interventi ex art. 709-ter c.p.c.: generalità; la competenza.

30. Gli interventi ex art. 709-ter c.p.c.: i provvedimenti di tipo sanzionatorio.

 

IX – ACCORDI TRA CONVIVENTI E DIRITTI DEL MINORE NATURALE,

ALLA LUCE DELLA RIFORMA SULL’AFFIDAMENTO CONDIVISO

31. Contratti di convivenza e modelli europei.

32. La disciplina pattizia dei rapporti con la prole ed il relativo fondamento nel diritto italiano. Gli elementi ricavabili dalla riforma sull’affidamento condiviso

33. Accordi sulla prole naturale, titolo esecutivo e «omologazione».

34. Ulteriori istituti a tutela dei diritti patrimoniali della prole nella famiglia di fatto: clausole penali, trasferimenti mobiliari ed immobiliari, trust, vincolo di destinazione ex art. 2645-ter c.c.

 

X – L’AFFIDAMENTO IN SEDE CONTENZIOSA DEI FIGLI NATURALI

35. Le procedure in materia di affidamento dei figli naturali.

36. La potestà sui figli naturali e l’art. 317-bis c.c.

 

 

I

LA LEGGE SULL’AFFIDAMENTO CONDIVISO

E LA NEGOZIALITÀ TRA CONIUGI IN CRISI

 

1. Introduzione. Le norme di riferimento nella prospettiva della legge sull’affidamento condiviso.

 

Le disposizioni della legge – l. 8 febbraio 2006, n. 54, «Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli» – che ha introdotto l’affidamento c.d. condiviso contengono, a dispetto di talune tra le prime opinioni espresse al riguardo, una chiara esaltazione dell’autonomia negoziale dei coniugi-genitori.

Le norme di riferimento sono qui rappresentate dalle disposizioni del nuovo art. 155, comma secondo, c.c. (estensibile, ovviamente, anche alla materia divorzile, ma anche a quella dei rapporti tra genitori non coniugati, come disposto dall’art. 4, l. 8 febbraio 2006, n. 54, cit.), che impone al giudice di «Prende(re) atto, se non contrari all’interesse dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori», o al nuovo comma quarto dell’art. 155 cit., a mente del quale ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito «salvo accordi diversi, liberamente sottoscritti dalle parti».

Da notare subito che l’obbligo di «prendere atto» di siffatte intese, ex art. 155, c. 2 (estensibile al divorzio, ai sensi dell’art. 4, c. 2, l. 8 febbraio 2006, n. 54, nonché ai rapporti con i figli naturali) ha sostituito l’obbligo del giudice di «tener conto» dell’accordo dei coniugi sull’affidamento dei figli e sul contributo per il loro mantenimento (art. 6, c. 9, l.div.).

Va rilevato che quest’ultima disposizione viene addirittura a porsi (per quanto attiene alla derogabilità del criterio di proporzionalità) in evidente contrasto con quanto stabilito dall’art. 148 c.c., norma sino ad oggi ritenuta inderogabile, venendo altresì a porre (quanto a tale limitato aspetto) forse anche un problema di conformità all’art. 30 Cost. L’accordo delle parti può pure derogare ai parametri di adeguamento agli indici ISTAT dell’assegno per la prole (cfr. art. 155, c. 5), mentre l’art. 4, c. 2, della citata l. 8 febbraio 2006, n. 54, estendendo le disposizioni in oggetto ai «procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati», concede – come si vedrà a suo tempo – analoga autonomia negoziale alla famiglia di fatto.

 

 

2. Accordi tra coniugi e contratti della crisi coniugale.

 

Qui sarà d’uopo ricordare, per prima cosa, che la riferibilità del canone della libertà contrattuale alla materia delle intese tra coniugi in occasione (o anche solo in vista) della separazione e dello scioglimento del matrimonio rinviene i propri precedenti storici in una solida tradizione risalente al diritto romano e mantenuta ferma nel corso dei secoli, pur con gli inevitabili adattamenti dovuti all’introduzione del principio dell’indissolubilità del vincolo matrimoniale (cfr., anche per gli ulteriori rinvii dottrinali e giurisprudenziali, Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, Milano, 1999, p. 28 ss.; Id., Gli accordi sulle conseguenze patrimoniali della crisi coniugale e dello scioglimento del matrimonio nella prospettiva storica, in Foro it., 1999, I, c. 1306 ss.; Id., I precedenti storici del principio di libertà contrattuale nelle convenzioni matrimoniali, in Dir. fam., 2003, p. 535 ss.; in particolare, sulla natura contrattuale dell’accordo di separazione consensuale, per ciò che attiene alle intese d’ordine economico, cfr. Id., La natura dell’accordo di separazione consensuale e le regole contrattuali ad esso applicabili (I), in Fam. dir., 1999, 601 ss.; Id., La natura dell’accordo di separazione consensuale e le regole contrattuali ad esso applicabili (II), cit., 86 ss.).

 

Una volta attuatosi, come si è avuto modo di vedere in altra sede, il passaggio dalla concezione istituzionale alla concezione costituzionale della famiglia, tale principio rappresenta un dato accettato da buona parte della dottrina e della giurisprudenza (ad eccezione di alcune, pur rilevanti, «sacche di resistenza» relative alla materia della disponibilità dei diritti relativi agli «assegni» di separazione e divorzio, nonché agli accordi preventivi). Ciò a cominciare, quanto meno, dallo scritto in cui A.C. Jemolo, valutando un accordo diretto alla predeterminazione delle conseguenze dell’annullamento del matrimonio, non esitava ad individuare proprio nel principio della autonomia contrattuale (art. 1322 c.c.) il fondamento di una siffatta pattuizione, rilevando come in questo caso sia «palese l’interesse tipico del regolamento di rapporti, se pure non si abbia una disposizione esplicita del codice che preveda tale regolamento, essendo quasi impensabile che al termine della convivenza non ci siano ragioni di dare ed avere, pretese reciproche». Si è pure avuto modo di ricordare come nella dottrina più recente, il richiamo alle regole in tema di autonomia contrattuale si sia andato via via infittendo, specie sull’onda dell’autorevole constatazione (Rescigno) per cui, anche nel campo dei rapporti patrimoniali tra i coniugi (in crisi), ove tra le parti si convenga l’attribuzione di diritti e l’assunzione di obblighi di natura patrimoniale, non parrebbe contraddire alla definizione dell’art. 1321 c.c. la qualificazione di contratto. Lo stesso può dirsi per la giurisprudenza, particolarmente per quella di legittimità, che non esita a richiamare ed applicare le regole contrattuali alla materia in esame.

 

Di fronte a tale evoluzione chi scrive ha ritenuto di poter individuare una categoria autonoma di contratti (tipici: per le ragioni che saranno in seguito illustrate), definiti come contratti della crisi coniugale, vale a dire quei contratti stipulati dai coniugi per regolare i reciproci rapporti giuridici patrimoniali sorti nel corso della loro relazione esistenziale, quando al regolamento di tali rapporti i coniugi stessi intendono condizionare la definizione consensuale della crisi coniugale o di una fase di quest’ultima (separazione di fatto, separazione legale, divorzio).

 

 

3. La causa dei contratti della crisi coniugale.

 

Strettamente legati a tali considerazioni sono i rilievi che si possono svolgere in merito all’individuazione del supporto causale delle attribuzioni in oggetto e, più in generale, dei contratti della crisi coniugale. In questa sede sarà sufficiente ricordare che fondamentale al riguardo è il rilievo secondo cui l’equiparazione dell’autonomia concessa ai coniugi a quella generalmente riconosciuta ai privati non può certo portare ad attribuire ai primi maggiore libertà di determinazione di quanta l’ordinamento ne riconosca in generale a tutti i privati nei loro reciproci rapporti. Se è vero quindi che alla causa, quale elemento essenziale del contratto in generale, spetta il compito di «giustificare di fronte all’ordinamento i movimenti dei beni da un individuo all’altro», è proprio alla presenza di tale requisito che, anche nella materia in esame, deve ritenersi condizionata la validità di qualsiasi attribuzione patrimoniale, reale od obbligatoria, in sede di crisi coniugale, così come del resto di qualsiasi tipo di intesa, anche attenente a profili non patrimoniali (con particolare riguardo alla posizione della prole).

 

Poste queste premesse, occorre constatare che risulta assai più agevole definire «in negativo», che non «in positivo», il supporto causale delle attribuzioni qui in discussione e, più in generale, di quelli che lo scrivente ha in altra sede definito «contratti della crisi coniugale». Invero, se vi è un punto che sembra trovare concordi la giurisprudenza – tanto di legittimità che di merito – e la dottrina, questo è costituito dalla corale negazione (quanto meno in linea tendenziale) del carattere liberale delle attribuzioni effettuate ex uno latere in occasione di separazione o divorzio, in quanto configuranti atti in cui non sono ravvisabili non solo l’animus donandi, ma neppure il titolo gratuito.

 

Per ciò che attiene alla giurisprudenza, va detto che, nei casi più risalenti, la materia del contendere era sovente determinata dal desiderio di un coniuge di recuperare l’attribuzione effettuata (o dal rifiuto di darvi esecuzione), allegando la nullità della medesima per violazione della norma che vietava le donazioni tra coniugi (art. 781 c.c.). Nelle decisioni più recenti, venuta meno tale ragione d’impugnazione, l’argomento della nullità è presentato invece – allorquando si tratta di meri impegni a trasferire diritti – sotto il profilo della nullità della promessa di donazione, facendo dunque valere quella tesi dottrinale, cara ai giudici di legittimità, secondo cui la coazione all’adempimento contrasterebbe con la spontaneità che deve caratterizzare la liberalità ex art. 769 c.c. Nelle ipotesi di donazione definitiva, poi, si lamenta per lo più il mancato rispetto della forma solenne prescritta dagli artt. 782 c.c. e 48, l.notar.

 

 

4. Causa, cause e motivi dei contratti della crisi coniugale.

 

L’esclusione, in linea di massima, di ogni intento di liberalità in capo alle parti di un contratto della crisi coniugale potrebbe indurre a ricercare, sul versante opposto, la giustificazione causale delle attribuzioni in oggetto nella necessità di adempiere all’obbligo legale di mantenimento previsto dagli artt. 155, 156 c.c. e 5, c. 6, l.div. Peraltro la tesi della causa solutionis va incontro ad alcuni rilievi di cui non è certo agevole sbarazzarsi.

 

In primo luogo, infatti, appare difficilmente contestabile quanto osservato in dottrina sul fatto che, in pratica, assai raramente, nei contratti di cui qui si discute, le parti fanno espresso richiamo alla causa praeterita (o causa esterna) – intesa, appunto, nel senso del (preesistente) obbligo legale di mantenimento – delle attribuzioni effettuate o previste, cosa che invece appare necessaria al fine di evitare la nullità di un negozio che, altrimenti, risulta privo di ogni giustificazione. Ma, anche a volere ammettere che le parti menzionino sempre expressis verbis il proprio intento di adempiere, con le prestazioni previste, alle obbligazioni ex artt. 156 o 5 l.div., resta il fatto che l’affermata funzione solutoria non esisterebbe, con conseguente nullità dell’attribuzione compiuta, qualora quest’ultima fosse attuata in favore del coniuge cui tali diritti non dovessero competere. Al tradens sarebbe dunque concesso, nei limiti della prescrizione dell’azione di ripetizione dell’indebito, riottenere il bene trasferito dimostrando che l’accipiens non versava nelle condizioni descritte dalle norme citate, salva restando la prova (veramente… diabolica) da parte di quest’ultimo dell’esistenza di un’altra idonea causa. E’ chiaro, poi, che, a prescindere dal richiamo operato alla precedente obbligazione, tale vincolo dovrebbe comunque imprescindibilmente esistere e, come tale, esso dovrebbe essere sempre stato previamente determinato nel suo preciso ammontare, vuoi da una decisione giudiziale, vuoi da un’intesa delle parti. E proprio questo elemento è quello che, il più delle volte, fa difetto nel caso di specie.

 

Un altro argomento, strettamente legato a quello della disponibilità dei diritti in questione, concerne la transazione, negozio cui si è istintivamente portati a pensare, laddove si ponga mente al fatto che le particolari circostanze in cui matura solitamente la decisione di addivenire ad un contratto della crisi coniugale inducono a ritenere la presenza di una res litigiosa, piuttosto che di una res dubia. Il richiamo alla transazione, per il vero, appare più ricorrente ed insistente in giurisprudenza che non in dottrina. In realtà, l’obiezione fondamentale, per effetto della quale occorre concludere che, almeno di regola, i negozi traslativi e, più in generale, i contratti della crisi coniugale si sottraggono alla causa transattiva, deriva dall’impossibilità (quanto meno in linea di massima) di riscontrare, negli accordi in oggetto, la presenza di concessioni reciproche. Ciò si verifica, in maniera più che evidente, in tutti gli accordi nei quali si prevede l’unilaterale trasferimento di diritti su uno o più beni mobili o immobili; la stessa osservazione vale però anche con riguardo a tutte quelle pattuizioni che si limitano a stabilire l’erogazione d’un assegno da una parte all’altra, senza che la struttura stessa del negozio manifesti (come si è messo in evidenza poco sopra) la presenza di un contrasto attuale su contrapposti interessi delle parti e che sia risolto con la tecnica dell’aliquid datum e dell’aliquid retentum.

 

Una volta scartate le ipotesi prospettate, potrebbe immaginarsi – aderendo a stimoli provenienti da autorevole e ormai risalente dottrina (Jemolo), nonché da una parte della giurisprudenza – di puntare sulla tesi del contratto atipico (art. 1322 c.c.).

 

Ma, se si tiene conto del carattere di negoziazione globale che la coppia in crisi attribuisce al momento della «liquidazione» del rapporto coniugale, di fronte alla necessità di valutare gli infiniti e complessi rapporti di dare-avere che la convivenza protratta per anni genera, v’è da chiedersi se, in luogo di una miriade di possibili accordi innominati, non sia possibile tentare di intraprendere un’opera ricostruttiva che faccia perno sull’individuazione di una vera e propria causa tipica del negozio patrimoniale della crisi coniugale, di un vero e proprio contratto, cioè, di definizione della crisi coniugale o, più esattamente, dei suoi aspetti patrimoniali. Tale negozio dovrebbe abbracciare ogni forma di costituzione e di trasferimento di diritti patrimoniali compiuti, con o senza controprestazione, in occasione della crisi coniugale, ancorché non necessariamente in seno ad una separazione consensuale, ben potendo intervenire, oltre che nei casi di separazione legale, annullamento, scioglimento e cessazione degli effetti civili del matrimonio, anche in relazione ad una separazione di fatto, oppure ancora in vista di una possibile crisi coniugale, addirittura prima della celebrazione delle nozze.

 

L’ipotesi sembra avvalorata dalla stessa terminologia impiegata dal legislatore, laddove esso si riferisce alle «condizioni della separazione consensuale» (art. 711 c.p.c.), e alle «condizioni inerenti alla prole e ai rapporti economici» in sede di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio (art. 4, comma sedicesimo, l.div.). Ora, una lettura coordinata delle predette disposizioni, alla luce di quella giurisprudenza ormai costante del S. C. a mente della quale ciascun coniuge ha il diritto di condizionare il proprio assenso alla separazione a un soddisfacente assetto dei rapporti patrimoniali, consente di attribuire a quel complemento di specificazione («della separazione») valore non più solo soggettivo, bensì anche oggettivo. In altri termini, «condizioni della separazione» non sono soltanto quelle «regole di condotta» destinate a scandire il ritmo delle reciproche relazioni per il periodo successivo alla separazione o al divorzio, bensì anche tutte quelle pattuizioni alla cui conclusione i coniugi intendono comunque ancorare la loro disponibilità per una definizione consensuale della crisi coniugale; e tra queste ultime non può non rientrare l’assetto, il più possibile definitivo, dei propri rapporti economici, con la liquidazione di tutte le «pendenze» ancora eventualmente in atto).

 

Ad avviso di chi scrive, dunque, dal momento che l’intento principe delle parti è quello di sistemare definitivamente e in considerazione della crisi coniugale le «pendenze» che un più o meno lungo periodo di vita comune ha determinato, sembra più appropriato parlare di una causa tipica di definizione della crisi coniugale o, se si vuole essere più corretti, ancorché meno efficaci sotto il profilo espressivo, di una causa tipica di definizione degli aspetti economici della crisi coniugale. Ad un siffatto negozio tipico – tipico, appunto, in quanto previsto e disciplinato da apposite disposizioni (i già citati artt. 711 c.p.c. e 4, c. 16, l.div.) – potrebbe attribuirsi anche il nome di contratto tipico della crisi coniugale o di contratto postmatrimoniale. Di tale contratto i negozi traslativi di cui qui discorriamo costituiscono una peculiare tipologia.

 

Avuto riguardo, dunque, al profilo causale e secondo quanto già chiarito in altra sede i contratti della crisi coniugale – e, per ciò che attiene al tema specifico della presente ricerca, i negozi traslativi di diritti tra coniugi in crisi – sono quelli che si caratterizzano per la presenza vuoi della causa tipica di definizione della crisi coniugale (contratto tipico della crisi coniugale, o contratto postmatrimoniale), vuoi per la semplice presenza, accanto ad una causa tipica diversa (donazione, negozio solutorio, transazione, convenzione matrimoniale, divisione), di un motivo «postmatrimoniale», rappresentato dal fatto che quel particolare contratto viene stipulato in contemplazione della crisi coniugale, avuto riguardo all’intenzione delle parti di considerare la relativa pattuizione alla stregua di una delle «condizioni» della separazione o del divorzio, cioè di un elemento la cui presenza viene dai coniugi ritenuta essenziale al fine di acconsentire ad una definizione non contenziosa della crisi coniugale.

 

L’impostazione, proposta alcuni anni or sono per la prima volta dallo scrivente, sembra essere stata recepita da una sentenza del 2004 della Corte di legittimità, la quale ha stabilito che «Gli accordi di separazione personale fra i coniugi, contenenti attribuzioni patrimoniali da parte dell’uno nei confronti dell’altro e concernenti beni mobili o immobili, non risultano collegati necessariamente alla presenza di uno specifico corrispettivo o di uno specifico riferimento ai tratti propri della “donazione”, e tanto più per quanto può interessare ai fini di una eventuale loro assoggettabilità all’actio revocatoria di cui all’art. 2901 c.c. rispondono, di norma, ad un più specifico e più proprio originario spirito di sistemazione dei rapporti in occasione dell’evento di “separazione consensuale” (il fenomeno acquista ancora maggiore tipicità normativa nella distinta sede del divorzio congiunto), il quale, sfuggendo in quanto tale da un lato alle connotazioni classiche dell’atto di “donazione” vero e proprio (tipicamente estraneo, di per sè, ad un contesto quello della separazione personale caratterizzato proprio dalla dissoluzione delle ragioni dell’affettività), e dall’altro a quello di un atto di vendita (attesa oltretutto l’assenza di un prezzo corrisposto), svela, di norma, una sua “tipicità” propria la quale poi, volta a volta, può, ai fini della più particolare e differenziata disciplina di cui all’art. 2901 c.c., colorarsi dei tratti dell’obiettiva onerosità piuttosto che di quelli della “gratuità”, in ragione dell’eventuale ricorrenza o meno nel concreto, dei connotati di una sistemazione “solutorio-compensativa” più ampia e complessiva, di tutta quell’ampia serie di possibili rapporti (anche del tutto frammentari) aventi significati (o eventualmente solo riflessi) patrimoniali maturati nel corso della (spesso anche lunga) quotidiana convivenza matrimoniale» (cfr. Cass., 23 marzo 2004, n. 5741, in Arch. civ., 2004, p. 1026).

 

Ciò premesso potrà schematicamente passarsi all’illustrazione di alcuni tra i principali profili che attengono alla configurabilità di intese ascrivibili al genus dei contratti della crisi coniugale.

 

 

5. Accordi tra coniugi e procedure della crisi coniugale: i rapporti con la separazione consensuale (e il problema della revoca del consenso prestato).

 

Il primo degli ostacoli che si para di fronte a chi intenda esaminare il progredire della negozialità nel campo dei rapporti tra coniugi in crisi è rappresentato dalla presenza di svariati interventi di tipo giurisdizionale, quali le procedure di separazione legale, di scioglimento e di cessazione degli effetti civili, o, ancora, di annullamento del matrimonio: procedure, queste, con le quali l’attività negoziale delle parti viene variamente ad «interagire». Si tratta dunque di vedere se e in che misura questo intreccio di attività negoziale e attività giurisdizionale determini compressioni di sorta in ordine al libero dispiegarsi dell’autonomia dei soggetti e se la previsione di svariate forme di «intromissione» dell’autorità giudiziaria sia in qualche modo d’ostacolo alla configurabilità di contratti della crisi coniugale. I punti da affrontare al riguardo concernono l’individuazione della natura dell’accordo di separazione consensuale, nonché dell’intesa che si pone alla base del divorzio su domanda congiunta.

 

Cominciando dal primo dei due profili va ricordato che, come dimostrato in altra sede, l’omologazione degli accordi di separazione nacque storicamente dalla necessità di conservare alla Chiesa, prima, e allo Stato, poi, il controllo sulle ragioni che inducevano la coppia a disgregarsi, allo scopo di scongiurare l’eventualità che un evento così eversivo dell’ordine delle famiglie e della sacralità dell’istituto matrimoniale avvenisse per il puro capriccio dei coniugi: si trattava, dunque, di quelle stesse ragioni che per secoli avevano ostato al riconoscimento di una separazione per mutuo consenso. Peraltro, non vi è dubbio che, dopo la riforma del 1975, che è venuta a limitare ulteriormente i poteri di intervento del giudice in sede di omologa (cfr. art. 158 c.c., rimasto invariato pur dopo la riforma sull’affidamento condiviso), a quest’ultimo non possa più ritenersi consentito svolgere alcuna forma di controllo e di valutazione di merito sulle ragioni della crisi coniugale, come del resto ulteriormente confermato dal fatto che, in sede di udienza ex art. 711 c.p.c., al presidente non è consentito pronunciare alcun tipo di provvedimento temporaneo o urgente in attesa dell’omologazione (e neppure nel caso di rifiuto di quest’ultima).

 

Diversa questione è invece quella che concerne l’individuazione dei limiti nei quali all’autorità giudiziaria è permesso intervenire sulle condizioni pattuite dai coniugi, problema su cui si deve oggi concludere nel senso che il controllo in questione deve avere ad oggetto la non contrarietà delle intese dei coniugi a norme imperative, all’ordine pubblico e al buon costume, tramite, dunque, un esame che non investe il profilo dell’opportunità delle scelte operate dai coniugi, né la tutela di particolari interessi degli stessi, al di là di quello generale alla non violazione di disposizioni o di principi di carattere imperativo.

 

Per ciò che attiene poi ai rapporti tra accordo dei coniugi in sede di separazione consensuale e provvedimento giudiziale di omologazione potrà succintamente ricordarsi che, delle tre teorie che si contendono il campo, quella preferibile, seguita dalla dottrina maggioritaria, vede nell’accordo la causa (e non già un mero presupposto) della separazione consensuale, assegnando all’omologazione il ruolo di mera condizione legale d’efficacia dell’intesa.

 

La conclusione appare avvalorata – oltre che dal rilievo per cui l’art. 158 c.c. fonda l’istituto in discorso sul «solo consenso» dei coniugi – dal fatto che il preminente ruolo del consenso è sottolineato anche da altre chiarissime indicazioni normative, come quella che per anni ha imposto al giudice di «tenere conto», anche in sede di separazione giudiziale, degli eventuali accordi dei coniugi (cfr. l’abrogato art. 155, comma settimo) e che ora pretende che lo stesso giudice «prenda atto» di siffatte intese (v. art. 155, comma secondo, c.c., estensibile al divorzio ai sensi dell’art. 4, c. 2, l. 8 febbraio 2006, n. 54), nonchè dall’espressione letterale dell’art. 711 c.p.c., il quale dispone che la separazione consensuale «acquista efficacia» con l’omologazione del tribu­nale.

 

Strettamente connesso con il tema dell’individuazione della natura dell’accordo di separazione e dei rapporti di quest’ultimo con l’atto di omologa appare il noto quesito circa l’ammissibilità di una revoca unilaterale del consenso prestato alla separazione e alle relative condizioni prima che intervenga l’omologazione da parte del tribunale. Il problema riceve una soluzione parzialmente diversa a seconda che si tratti di

·       revoca operata anteriormente all’udienza presidenziale ovvero

·       successivamente a quest’ultima.

Ancora una volta, le considerazioni storiche possono aiutare ad inquadrare la questione nei suoi corretti termini.

 

Non vi è dubbio infatti che, se ci si colloca in un sistema nel quale il procedimento d’omologazione è principalmente considerato come un giudizio volto a verificare la sussistenza di «validi motivi» per la separazione, si tende conseguentemente a mortificare il ruolo del consenso spostando l’attenzione sul momento giurisdizionale: quest’ultimo viene a costituire il fulcro dell’istituto in esame, con conseguente irrilevanza della concorde manifestazione di volontà espressa nella fase presidenziale; manifestazione di volontà che potrà pertanto liberamente essere posta nel nulla da parte di ciascuno dei coniugi. Non deve dunque stupire che proprio questa sia stata la via storicamente seguita dalla giurisprudenza, a cominciare dal secolo XIX, sino a culminare in una nota decisione del 1936 della Cassazione. Andrà subito aggiunto che, all’epoca, le conclusioni di cui sopra erano agevolate dal diverso tenore letterale dell’art. 158 c.c. 1865 rispetto a quello del corrispondente articolo del c.c. 1942: il codice abrogato, infatti, stabiliva che la separazione per il solo consenso dei coniugi non potesse aver luogo senza l’omologazione, avallando così la tesi che il provvedimento d’omologa, lungi dal rappresentare una mera condizione d’efficacia dell’accordo, costituisse l’elemento fondamentale della separazione consensuale, con la conseguenza che il consenso già formalizzato dinanzi al presidente, rappresentando un mero presupposto, sarebbe anche potuto venire tranquillamente meno prima della pronuncia del tribunale.

 

Sul tema la Cassazione è tornata assai di rado e solo indirettamente, mentre la giurisprudenza di merito è rimasta in prevalenza ancorata alla soluzione del 1936. L’influsso su questa soluzione della teoria che vede nell’omologazione il fulcro della separazione consensuale è più che evidente, essendo assai frequenti nella cennata giurisprudenza i richiami più o meno espliciti alla tesi che attribuisce all’intervento giurisdizionale valore costitutivo, degradando l’accordo delle parti a mero presupposto di quest’ultimo.

 

La tesi dell’irrevocabilità unilaterale del consenso espresso in sede presidenziale, ancor prima che sia intervenuto il provvedimento d’omologa, è affermata dalla dottrina prevalente, oltre che più recente, ed in particolare da quella che configura l’omologazione come una mera condicio iuris della separazione o comunque come un’attività di controllo in senso stretto. Per quanto attiene alla giurisprudenza, va però aggiunto che, in tempi recenti, la Cassazione ha affermato che l’omologazione non costituisce elemento costitutivo della fattispecie della separazione consensuale (Cass., 20 novembre 2003, n. 7607, v. spec. pag. 6 del documento .pdf). Ne consegue che non dovrà ritenersi ammissibile una revoca del consenso dei coniugi, una volta che questi siano comparsi davanti al presidente del tribunale. Il tribunale non potrà dunque fare altro che procedere alla omologazione dell’intesa a suo tempo raggiunta e confermata in sede presidenziale.

 

Si è già accennato al fatto che dalla revoca del consenso alla separazione e alle relative condizioni concordate, operata successivamente all’udienza presidenziale, occorre tenere distinta la revoca intervenuta in una fase precedente rispetto a quest’ultima. Al riguardo, di estremo interesse appare quella ricostruzione dottrinale che, ai fini della soluzione del quesito circa la revocabilità o meno del consenso prestato alla separazione consensuale o al divorzio su domanda congiunta, provvede a distinguere in funzione sia del momento in cui la revoca interviene, che dell’oggetto della revoca stessa.

 

Circa il momento, si è detto che occorre, appunto, distinguere tra revoca intervenuta prima e revoca intervenuta dopo l’udienza presidenziale. Mentre in quest’ultima ipotesi, come si è visto, il tribunale deve procedere ugualmente all’omologazione dell’accordo, nel primo caso la revoca ha effetto in quanto la contraria volontà, manifestata da taluno dei co­niugi successivamente al ricorso introduttivo, comporta il venir meno di un presupposto essenziale del particolare potere del giudice; e quindi ciò che é oggetto di revoca o di rinunzia, non é il consenso negoziale, bensì l’investitura del giudice a provve­dere. Segue da ciò, ad esempio, che é necessario accertare in concreto se la contraria volontà ha forma adeguata per costitui­re una rinuncia alla domanda giudiziale.

 

Rimanendo in tema di revoca del consenso (manifestato nel ricorso) intervenuta prima dell’udienza presidenziale, va però subito aggiunto che quanto sopra illustrato concerne soltanto l’ipotesi di revoca della domanda giudiziale di separazione consensuale. A diverse conclusioni conduce invece l’ipotesi della revoca della volontà concernente il solo accordo determinativo dei rapporti patrimoniali conseguenti alla separazione. Tale accordo, invero, in quanto avente natura contrattuale, deve ritenersi vincolante.

 

Lo stesso è a dirsi per le condizioni attinenti alla prole, atteso che il concetto di vincolatività (art. 1372 c.c.) trova applicazione con riguardo ai negozi giuridici familiari, anche se non caratterizzati dalla patrimonialità. Ovviamente il tutto a condizione che non vi sia violazione del canone fondamentale dell’interesse del minore.

 

 

6. Contratti tra coniugi e procedure della crisi coniugale: i rapporti con il divorzio su domanda congiunta (e il problema della revoca del consenso prestato).

 

Le conclusioni di cui sopra sono altresì riferibili al tema dei rapporti tra autonomia dei coniugi e procedure di divorzio. In questa sede si potrà cominciare osservando come, anche a prescindere dall’introduzione nel nostro ordinamento del divorzio su domanda congiunta, già a partire dal campo del procedimento di divorzio ordinario contenzioso, l’autono­mia privata trovi svariate forme di manifestazione, riconosciute dal sistema: dall’assenza di poteri di intervento di tipo officioso in relazione a tutti i profili patrimoniali inerenti ai rapporti tra i divorziandi, all’obbligo del giudice di «tener conto» dell’accordo dei coniugi sull’affidamento dei figli e sul contributo per il loro mantenimento (art. 6, comma nono, l.div., oggi sostituito dall’obbligo di «prendere atto» di siffatte intese, ex art. 155, comma secondo, c.c., ai sensi dell’art. 4, cpv., l. 8 febbraio 2006, n. 54), alla disponibilità del diritto all’assegno in favore del coniuge divorziato, alla liquidabilità una tantum del predetto assegno.

 

Relativamente, poi, al divorzio su domanda congiunta, andrà rilevato come una parte non trascurabile della dottrina appaia senz’altro propendere per l’affermazione della natura negoziale dell’accordo posto a base della richiesta congiunta di divorzio, rilevandone il parallelismo e la connotazione causale identici all’accordo concluso tra coniugi separati. D’altro canto, svariati sono gli elementi che inducono a concludere in questo senso: basti pensare alla necessità di un’istanza congiunta e della compiuta indicazione in essa delle relative condizioni, all’assenza di una fase istruttoria, o di una valutazione sulla persistenza del matrimonio, o, ancora, del tentativo di conciliazione. In assenza di prole minorenne, poi, va tenuto conto del fatto che il tribunale si deve limitare a verificare l’esistenza dei presupposti di legge. Inoltre, anche in presenza di figli, l’àmbito discrezionale della sentenza di divorzio é estremamente ridotto: solo se le condizioni relative alla prole minorenne appaiono in contrasto con l’interesse di quest’ultima il tribunale può rimettere la causa al giudice istruttore ai sensi del comma ottavo.

 

Da ciò si desume che il tribunale non può emettere, in questa procedura, una sentenza se non in maniera conforme alle conclusioni delle parti. In presenza dei presupposti di legge, dunque, il giudice non può rifiutare il divorzio. In assenza dei presupposti la domanda è respinta; in presenza di una diversa valutazione sull’interesse dei figli minorenni la procedura consensuale cede il passo all’ordinaria procedura contenziosa. In definitiva, non sembra azzardato ritenere che, in forza della dimostrata natura negoziale della dichiarazione di volontà posta a base del procedimento di divorzio su domanda congiunta, alle relative condizioni di carattere patrimoniale vada riconosciuto carattere contrattuale: si potrà dunque parlare al riguardo di veri e propri contratti di divorzio.

 

Sembra dunque evidente che ci si trovi qui di fronte ad un’attività del tribunale sostanzialmente vincolata, avente ad oggetto l’accertamento di un «diritto soggettivo potestativo di divorzio», sussistente in presenza delle condizioni di legge, ancorché esprimentesi nella forma della sentenza. Si può quindi concludere sul punto manifestando piena adesione – almeno per quanto attiene alle «condizioni» patrimoniali del divorzio – a quell’indirizzo dottrinale che riconduce gli effetti della pronuncia all’accordo delle parti, anziché alla determinazione del giudice. Se ciò è vero, va pertanto ribadito che, nel divorzio su domanda congiunta, gli effetti d’ordine patrimoniale derivano direttamente dal contratto di divorzio concluso dai coniugi, rispetto al quale la pronuncia del tribunale assume il mero carattere di omologa emessa all’esito di un procedimento di controllo sul rispetto delle norme inderogabili del vigente ordinamento.

 

Quanto sopra si riflette sul problema della revoca del consenso eventualmente prestato alla presentazione di domanda congiunta di divorzio. Sotto il profilo processuale è necessario rilevare, innanzi tutto, che la presenza di un consenso congiunto sembra costituire una vera e propria condizione di procedibilità del particolare rito disciplinato dall’art. 4, comma sedicesimo, l.div, con la conseguenza che, di fronte alla revoca del consenso prestato alla presentazione di un ricorso congiunto, quest’ultimo va dichiarato improcedibile, nel caso uno dei coniugi manifesti, dinanzi al tribunale in camera di consiglio, il proprio dissenso sull’accordo preventivamente raggiunto.

 

Non è questo, peraltro, l’avviso di una sentenza di legittimità (Cass., 8 luglio 1998, n. 6664, in Giust. civ., 1999, p. 819), la quale ha stabilito che «Nell’ipotesi in cui due coniugi di cittadinanza straniera rivolgano al giudice italiano domanda congiunta di scioglimento del matrimonio celebrato in Italia e, successivamente, uno dei due, facendo presente di essere anche cittadino italiano, ‛revochi’ il consenso al divorzio (nella specie, lamentando la mancanza del presupposto della separazione legale almeno da un triennio), il giudice non può dichiarare l’improcedibilità della domanda congiunta, ma deve esaminarla, individuando la legge nazionale applicabile, per la verifica dei presupposti della pronuncia dello scioglimento del rapporto matrimoniale, e recependo, in caso di esito positivo della verifica, gli eventuali accordi patrimoniali indicati nella domanda congiunta».

 

Ma che ne è delle intese d’ordine patrimoniale consacrate nell’accordo posto a base della domanda congiunta, successivamente revocata? Al riguardo la citata pronunzia di legittimità, così come una successiva decisione di merito (Trib. Potenza, 23 luglio 1999, in Dir. fam., 1999, p. 1264), hanno chiaramente dichiarato irretrattabili le intese patrimoniali in oggetto, facendo anche in un caso espresso richiamo all’art. 1372 c.c.

 

In proposito sarà il caso di menzionare un elemento sul quale non si è forse fino ad ora sufficientemente riflettuto. Ci si intende riferire al percorso evolutivo che ha condotto la Cassazione a riconoscere piena rilevanza alle intese (anche se non omologate) modificative degli accordi di separazione omologati (o «imposti» in sede di separazione contenziosa). Ora, alla luce della considerazione secondo cui le condizioni della separazione possono in ogni momento essere liberamente riviste dalla concorde volontà delle parti, a prescindere da qualsiasi forma di controllo da parte dell’autorità giudiziaria, v’è da chiedersi se l’accordo sulle condizioni del divorzio, ancorchè legato ad una procedura che per il venir meno del consenso di una delle parti dinanzi al collegio appare, sotto il profilo del rito, improcedibile, non possa valere quale intesa diretta a modificare le condizioni della separazione in atto; ciò tanto più che siffatto stato di separazione, proprio per effetto dell’improcedibilità del processo di divorzio, è destinato a protrarsi inter partes. E’ peraltro indiscutibile che, essendo in tale campo la volontà delle parti sovrana, ogni diversa determinazione dovrebbe essere fatta salva, come nel caso in cui gli accordi fossero espressamente, o comunque chiaramente condizionati alla pronuncia del tribunale od alla permanenza della volontà dei contraenti.

 

 

7. Contratti tra coniugi e procedure della crisi coniugale: gli accordi a latere.

 

Venendo ora ad accennare alle intese di separazione non consacrate nel verbale sottoposto all’omologazione del tribunale, pur in presenza di una «parallela» procedura di separazione, andranno distinte le seguenti situazioni:

·       (a) contratti diretti a modificare le condizioni omologate di una separazione consensuale (ovvero imposte dal giudice, nell’àmbito di una separazione giudiziale);

·       (b) contratti diretti a integrare le condizioni di una separazione legale consensuale;

·       (c) contratti diretti a disciplinare in tutto o in parte le condizioni di una separazione legale in cui vengano simulatamente pattuite condizioni diverse.

Mentre i contratti sub a) sono necessariamente successivi e quelli sub c) usualmente coevi alla separazione legale, i contratti sub b) possono a loro volta essere:

·       (b’) precedenti alla separazione legale: quando cioè le parti si limitano a preparare il terreno per una imminente separazione, iniziando a risolvere alcuni dei problemi che in tale sede si porranno (per esempio regolando questioni relative alle proprietà comuni, operando trasferimenti immobiliari, ecc.);

·       (b’’) coevi alla separazione legale: si tratta per lo più di determinazioni relative all’ammontare dell’assegno, ma anche di negozi di carattere transattivo che, per esempio, per ragioni di carattere fiscale, le parti ritengono di non dover pubblicizzare;

·       (b’’’) successivi alla separazione legale: si tratta, per lo più, vuoi della definizione di questioni di dettaglio non definite dal verbale presidenziale, vuoi invece della risoluzione di problemi sorti in fase di esecuzione degli accordi di separazione.

 

E’ chiaro che la distinzione, in concreto, tra tutte queste situazioni, può solo basarsi su di un’attenta indagine degli elementi di fatto che caratterizzano ogni singolo caso, alla luce dei criteri ermeneutici che presiedono all’interpretazione del contratto (e, per analogia, dei negozi giuridici familiari, per quanto attiene agli aspetti non patrimoniali) ex artt. 1362 ss. c.c.

 

Una situazione di notevole incertezza si venne a creare a partire dalla metà degli anni Ottanta dello scorso secolo, allorquando la Cassazione sembrò cedere alla suggestione della prevalenza di interessi pub­blici nel settore familiare, così segnando – ad avviso di chi scrive – un evidente ritorno su posizioni in dottrina ormai da tempo superate. Nel 1984, infatti, la Corte negò validità ad un accordo tra i coniugi separandi, relativo ad un maggior contributo economico per le spese della governante dei figli minori, antecedente al ver­bale di omologazione ed in questo non trasfuso, sul presupposto che l’accordo di separazione consensuale acquisterebbe efficacia giuridica soltanto se ed in quanto accompagnato dal provvedimento di omologazione: cfr. Cass., 5 gennaio 1984, n. 14, in Dir. fam., 1984, p. 473. Peraltro, a soli sei mesi di distanza, la stessa corte affermò invece la validità di un contratto preliminare con cui uno dei coniugi, in vista di una futura separazione consensuale, prometteva di trasferire all’altro la proprietà di un bene immobile, anche se tale sistemazione dei rapporti patrimoniali avveniva al di fuori di qualsiasi controllo da parte del giudice dell’omologa (Cass., 5 luglio 1984, n. 3940).

 

L’indirizzo in senso restrittivo ricevette conferma – peraltro in relazione alla peculiare questione degli accordi concernenti la prole minorenne – l’anno seguente, in una decisione con cui la Cassazione ebbe modo di ribadire il principio secondo il quale «successivamente alla omologazione della separazione consensuale, gli accordi con cui i coniugi modifichino, anche se migliorandole, le condizioni relative al mantenimento del nucleo familiare, includente i figli minori, sono inefficaci se non vengono omologati dal tribunale» (Cass., 13 febbraio 1985, n. 1208, in Giust. civ., 1985, I, p. 1654).

 

L’indirizzo testé illustrato è stato però successivamente abbandonato nell’àmbito di un revirement di più ampio respiro intrapreso dalla Cassazione con due pronunce dei primi anni Novanta, in cui si è affermata la piena autonomia privata dei coniugi in ordine ai patti successivi alla separazione. Con riguardo, invece, a quelli coevi o precedenti alla separazione consensuale omolo­gata, la libertà negoziale dei coniugi incon­tra, secondo il Supremo Collegio, un limite nel principio di «non interferenza» con quanto stabilito nell’accordo omologa­to, a meno che gli accordi non omologati si trovino «in posizione di conclamata e incontestabile maggior rispondenza rispetto all’interesse tutelato, come per l’assegno di mantenimento concordato in misura superiore a quella sottoposta ad omologazione»: cfr. Cass., 24 febbraio 1993, n. 2270, in Corr. giur., 1993, p. 820; Cass., 22 gennaio 1994, n. 657, in Dir. fam., 1994, p. 868 (si noti che le motivazioni delle due decisioni – redatte dal medesimo estensore – sono pressoché identiche).

 

In seguito, la stessa Corte (cfr. Cass., 28 luglio 1997, n. 7029) ha ribadito che «in tema di separazione consensuale, le modificazioni pattuite dai coniugi antecedentemente o contemporaneamente all’accordo omologato sono operanti soltanto se si collocano in posizione di non interferenza rispetto a quest’ultimo o in posizione di maggior rispondenza rispetto all’interesse tutelato» e il medesimo rationale si pone alla base di tre decisioni successive (cfr. Cass., 11 giugno 1998, n. 5829; Cass., 20 ottobre 2005, n. 20290; v. inoltre Cass., 30 agosto 2004, n. 17434).

 

Può dunque dirsi assodato che, per quanto attiene ai patti successivi, la Corte riconosce effetto al pieno dispiegarsi della negozialità dei coniugi, in forza del principio sancito dall’art. 1322 c.c., ritenuto senza riserve applicabile al caso di specie, addirittura anche per quanto concerne le pattuizioni concernenti la prole minorenne. Conclusione, quest’ultima, che conferma l’espansione dell’operatività della sfera dell’autonomia privata anche nel settore di quei negozi del diritto di famiglia non caratterizzati dalla patrimonialità.

 

 

8. Conclusioni sul tema dei rapporti tra la legge sull’affidamento condiviso e la negozialità tra coniugi in crisi.

 

Le conclusioni che debbono trarsi sul tema dei rapporti tra la legge sull’affidamento condiviso e la negozialità tra coniugi in crisi vanno dunque nel senso che l’autonomia dei genitori, lungi dall’essere compressa, ne risulta aumentata, avuto riguardo alle più volte richiamate disposizioni del nuovo art. 155, comma secondo, c.c. (estensibile, ovviamente, anche alla materia divorzile, come disposto dall’art. 4, l. 8 febbraio 2006, n. 54), che impone al giudice di «Prende(re) atto, se non contrari all’interesse dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori», o al nuovo comma quarto dell’art. cit., a mente del quale ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito «salvo accordi diversi, liberamente sottoscritti dalle parti».

Ne consegue che, come del resto già affermato da altri Autori, il giudice dovrà prendere proprie determinazioni sull’affidamento, sulla collocazione del minore e sul mantenimento dello stesso, nonché sulla casa familiare, solo ed esclusivamente in assenza di accordi (che non si pongano, ovviamente, in contrasto con l’interesse del minore).

 

Quanto sopra risulta del resto confermato dal fatto che il legislatore non ha toccato l’art. 158 c.c. E pertanto non condivisibili appaiono quegli indirizzi, assunti da alcuni tribunali, secondo cui un’intesa di separazione consensuale che non preveda l’affido congiunto andrebbe senz’altro ritenuta come non omologabile. Siffatta conclusione può invero accettarsi solo laddove appaia che l’accordo di affidamento ad uno solo dei coniugi si ponga in evidente contrasto, nel caso concreto, con l’interesse del minore.

 

 

II

BIGENITORIALITA’ E AFFIDAMENTO CONDIVISO

 

9. Il diritto del minore di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori.

 

Posto che l’accordo tra i genitori, purchè conforme all’interesse del minore, è, come si è detto, la regola fondamentale e la principale chiave di lettura di questa riforma, vanno ora affrontate le questioni che si pongono nell’ipotesi in cui l’accordo tra i genitori non si venga a formare.

Sul punto va subito rilevata la fondamentale novità costituita dalla regola dell’affidamento congiunto, ora ribattezzato condiviso, secondo l’italico costume che si illude di risolvere i problemi mutando nome alle cose. La regola testé enunciata vuole l’affidamento condiviso, nei termini che verranno chiariti, quale modalità prioritaria di affidamento dei figli, come chiaramente emerge dal combinato disposto degli artt. 155, secondo comma, c.c. e 155-bis, primo comma, c.c.

 

La riforma ha, ovviamente, suscitato consensi e dissensi: preoccupazioni nel movimento femminile, entusiasmo nei movimenti dei padri, critiche in una parte dell’avvocatura e scetticismo nella magistratura. Una varietà di punti di vista che lascia presagire che le indicazioni del legislatore non avranno vita facile. La comunità scientifica nel suo insieme ha espresso, invece, un certo consenso verso gli obiettivi della legge, che consistono nell’indicazione di una necessaria corresponsabilizzazione dei genitori nei compiti e nelle funzioni educative anche dopo la scissione e la separazione della coppia coniugale. La condivisione delle responsabilità non avviene spesso neanche quando i genitori vivono insieme.

 

Per questo si è affermato in dottrina (Dosi) che la legge ha un contenuto promozionale, che sembra andare oltre i compiti del legislatore. E’proprio questa, però, la sfida che la società civile deve raccogliere. La famiglia e le relazioni familiari si confermano il luogo primario in cui l’educazione dei figli deve essere vissuta in modo condiviso dai padri e dalle madri.

 

Come si è appena illustrato, la legge (nuovo testo dell’art. 155, comma primo, c.c.) ribadisce in primo luogo che il figlio minore ha diritto a mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori anche dopo la loro separazione. Si tratta della riaffermazione del principio già da tempo introdotto nel nostro ordinamento con la legge 27 maggio 1991, n. 176 di ratifica ed esecuzione della Convenzione internazionale di New York del 20 novembre 1989 sui diritti dei minori che all’art. 9, comma 3 prevede il diritto alla bigenitorialità, nonché, del resto, dall’art. 6, comma primo, l.div.

 

 

10. I rapporti con i nonni e gli altri parenti. Ricadute sul piano processuale.

 

La riforma ribadisce e amplia ora il contenuto di questo diritto, a mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori, estendendolo alla conservazione da parte del minore di rapporti significativi anche con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale (art. 155, primo comma, c.c.: sembra qui fare nuovamente capolino la c.d. «grande famiglia»).

 

Con si fanno emergere figure che nella vita quotidiana sono molto importanti ma che la prassi giudiziaria della separazione ha sempre negletto se non ignorato del tutto; ciò, quanto meno, a differenza di quanto avviene nei tribunali per i minorenni, dove sono abbastanza frequenti procedimenti in cui si reclama il diritto dei minori al rapporto con i nonni.  Sono d’accordo con chi ha affermato (Dosi) che certamente né i nonni, né i parenti assumono in virtù della nuova legge la qualità di litisconsorti nel processo di separazione.

 

Taluni pareri dottrinali (cfr. ad es. Dosi, Tommaseo) ed alcune decisioni riconoscono peraltro già ai nonni e ai parenti un interesse da esercitare mediante l’intervento nel processo di separazione (art. 105 c.p.c.). E’ il caso della della decisione del tribunale di Firenze (Trib. Firenze, 22 aprile 2006, in Fam. dir., 2006, p. 291), secondo cui: «Nei giudizi in cui si fa luogo all’affidamento di minori gli ascendenti sono legittimati all’intervento adesivo per sostenere le ragioni del genitore che intenda attuare il diritto del figlio a conservare con gli stessi significativi rapporti».

 

É noto che la giurisprudenza non ha saputo finora dare una sicura qualificazione a questa speciale configurazione dell’interesse familiare di cui anche gli ascendenti sono portatori. Mentre vi è concordia nel negare che tale interesse abbia la struttura di un vero e proprio diritto soggettivo (così, da ultimo, Trib. min. Messina, 19 marzo 2001, in Dir. fam., 2001, p. 152), si ammette che l’interesse degli ascendenti in linea retta trova il proprio fondamento in quelle stesse ragioni di solidarietà familiare che danno rilevanza giuridica, sotto diversi profili, alla famiglia allargata e che consentono, in particolare, di annoverare anche i nonni fra i soggetti legittimati a dare impulso ai procedimenti limitativi o ablativi della potestà parentale. Così, è stato, ad esempio, deciso che i nonni sono legittimati a intervenire nei procedimenti promossi a’sensi degli artt. 330 ss. c.c. allo scopo di sollecitare il controllo giudiziario sulle modalità d’esercizio della potestà da parte dei genitori (App. Napoli, 27 febbraio 2004, in Giur. nap., 2004, p. 285).

 

Sotto questo profilo la Suprema Corte non ha mancato di rilevare come la conservazione dei rapporti interfamiliari sia, per i nonni, affidata allo strumento del c.d. diritto di visita, che non può essere arbitrariamente compresso dal genitore affidatario, poiché trova il proprio fondamento in quei diritti della famiglia a cui fa riferimento l’art. 29 Cost. (Cass., 25 settembre 1998, n. 9606, in Giust. civ., 1998, p. 3069). Un interesse quindi giuridicamente protetto, ma protetto solo in via riflessa, insomma una situazione inattiva simile, quanto a struttura, all’interesse legittimo la cui tutela giurisdizionale si specifica nella impugnazione degli atti o dei provvedimenti lesivi.

 

Tuttavia, la legge non dà indicazione alcuna sugli strumenti giurisdizionali che possano dare tutela a siffatti interessi, lacuna che la giurisprudenza, in passato, non ha saputo colmare. Così, la giurisprudenza della Cassazione ha esattamente negato agli ascendenti la legittimazione ad intervenire nei giudizi di separazione per ottenere il regolamento giudiziale del loro diritto di visita e ciò nel quadro di un generalizzato disfavore per gli interventi di terzi nei giudizi di separazione o di divorzio (Cass., 17 gennaio 1996, n. 364, in Fam. dir., 1996, p. 227, con nota di Venchiarutti, Diritto di visita del genitore non affidatario e nonni e ivi ampi richiami sulla conforme giurisprudenza). Ora, la citata pronunzia del tribunale di Firenze ammette un intervento fondato sull’interesse giuridicamente rilevante di mantenere significativi rapporti con i nipoti e ciò, come ribadisce la sentenza predetta, per «sostenere le ragioni fatte valere da una delle parti per l’attuazione del corrispondente e convergente diritto del minore»

 

Ma questa non mi sembra la via da percorrere, ove solo si ponga mente al fatto che sono i diritti e gli interessi del minore e solo di quest’ultimo, che possono venire in considerazione. Ammettere l’intervento anche solo adesivo del nonno vuole dire dare ingresso all’interesse di costui, che non necessariamente corrisponde a quello del minore. Certamente il presidente e il giudice avvalendosi dei loro poteri potranno, se ritenuto opportuno o necessario, provocare l’audizione dei nonni o degli altri parenti (il suggerimento è di Dosi). Proprio quest’ultimo mi sembra l’approccio corretto, posto che altrimenti si rischia di porre, ancora una volta, al centro, non già l’interesse del minore, ma quello egocentrico, «proprietario» e (sovente) revanchista di una o dell’altra delle due «bande familiari» che troppo spesso vengono a scontrarsi su tale quanto mai improprio campo di battaglia.

 

 

11. L’affidamento alternato e quello a terze persone.

 

Una modalità di affidamento che scompare dal lessico giuridico della separazione e del divorzio è quello alternato, anche se, a mio avviso, per le ragioni ampiamente illustrate in tema di negozialità tra coniugi, questi ultimi potranno invece prevederlo, sempre a condizione che ciò non sia ritenuto dal giudice in contrasto con gli interessi della prole. 

 

La scomparsa, nel nuovo testo, del previgente sesto comma dell’art. 155 c.c. («In ogni caso il giudice può per gravi motivi ordinare che la prole sia collocata presso una terza persona o, nella impossibilità, in un istituto di educazione») non impedisce di certo al giudice – chiamato comunque ad adottare i provvedimenti relativi alla prole con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa (art. 155, comma secondo, prima parte, c.c.) – di disporre il collocamento dei figli minori presso terze persone, per esempio i nonni o altri parenti nell’eventualità che nessimo dei genitori sia in grado di occuparsi adeguatamente dei figli. Come stabilito in precedenza dalla giurisprudenza di legittimità, si tratta del resto di un affidamento che il giudice può disporre utilizzando quei larghi poteri che la legge gli attribuisce in contemplazione dell’esclusivo e superiore interesse del minore (vedi a tale proposito Cass., 7 febbraio 1995, n. 1401, in Giur. it., 1996, I, 1, c. 538 ss., con nota di Gabrielli).

 

Ugualmente la norma di cui all’art. 6 della legge sul divorzio («In caso di temporanea impossibilità di affidare il minore ad uno dei genitori, il tribunale procede all’affidamento familiare») – per il resto, da considerare abrogato – pur se non risulta utilizzata nella prassi, indica una eventualità certamente da considerare possibile sia in sede divorzile che in scde di separazione.

 

Il principio generale resta che l’affidamento a terze persone o ai servizi sociali è, in genere, una misura di limitazione della potestà adottabile dal giudice minorile in base alla competenza generale di cui agli articoli 330 e 333 c.c., ma il provvedimento può essere una misura temporanea anche di competenza del giudice ordinario in sede di separazione o divorzio tutte le volte in cui il giudice lo ritenga opportuno in sede di regolamentazione dell’esercizio della potestà e non come misura di limitazione della potestà.

 

L’affidamento a terze persone o l’affidamento familiare disposto in sede di separazione o divorzio non limita, perciò, la potestà dei genitori seppure sugli affidatari si trasferiscano – mantenendosi quelle dei genitori – obbligazioni di mantenimento e di cura. Solo quando l’affidamento a terzi è, disposto autoritativamente dal tribunale per i minorenni con provvedimento ablativo o limitativo della titolarità della potestà (art. 330 o 333 c.c.), anche la potestà viene trasferita agli affidatari (art. 5, legge 4 maggio 1983, n. 184 come modificato dallart. 5 della legge 28 marzo 2001, n. 149).

 

 

12. I poteri del giudice nell’affidamento condiviso.

 

Come si è detto sopra, la riforma introduce una vera e propria inversione del sistema precedente, fondato sulla previsione in via prioritaria dell’affidamento esclusivo ad un genitore soltanto e sulla previsione in via eccezionale di altre modalità di affidamento.

 

Venendo all’analisi del testo dell’art. 155 c.c., si è rilevato in dottrina (Dosi) che il giudice deve compiere tre distinte attività. La legge prevede, infatti, che il giudice «valuta prioritariamente la possibilità che i figli minori restino affidati ad entrambi i genitori oppure [si noti la disgiuntiva] stabilisce a quale di essi i figli sono affidati, [si noti la virgola] determina i tempi e le modalità della loro presenza presso ciascun genitore, fissando altresì la misura e il modo con cui ciascuno di essi deve contribuire al mantenimento, alla cura, all’istruzione e all’educazione dei figli».

 

I predicati verbali fondamentali sono tre: «valuta..., determina… , fissando altresì...».

 

Quindi al giudice sono attribuiti tre poteri:

·       il potere di «valutare» se l’affidamento ad entrambi i genitori, ovvero se, in alternativa, vada disposto l’affidamento a uno solo di essi;

·       il potere di «determinare» il collocamento del minore e

·       il potere di «fissare» le modalità di contribuzione.

 

La disgiuntiva «oppure» sembra riferirsi alla semplice alternativa tra l’affidamento ad entrambi e l’affidamento ad uno solo dei genitori (senza essere introduttiva di tutta la frase successiva fino al punto finale), mentre la virgola al termine della frase successiva lascia intendere che viene indicata un’altra attribuzione oltre a quella della verifica tra i due tipi di affidamento. Quindi il dato testuale fa ritenere che al giudice è attribuito il potere di determinare le modalità di permanenza dei figli presso l’uno o l’altro e di fissare il contributo di mantenimento anche quando abbia ritenuto che la modalità migliore di affidamento possa essere quella dell’affidamento ad entrambi i genitori.

 

Il tutto, naturalmente, a condizione che l’intera frase sia collegata a quanto si afferma subito dopo («Prende atto, se non contrari agli interessi dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori»), con la conseguenza che – come più volte chiarito – il giudice solo in difetto di accordi convincenti tra le parti, potrà dare proprie indicazioni sull’affidamento, sulla determinazione della collocazione del minore e sul mantenimento.

 

 

13. Affidamento esclusivo ad uno solo dei genitori.

 

Il legislatore ha espressamente previsto (art. 155-bis c.c.) nella riforma, come sopra detto, che il giudice, fermo l’esercizio della potestà in capo ad entrambi (con la valvola di sicurezza della possibilità di indicare spazi separati di gestione delle responsabilità quotidiane), possa sempre disporre l’affidamento dei figli ad uno solo dei genitori.

Ciò può avvenire in due diverse circostanze.

·       Innanzitutto quando il giudice stesso si rende conto che l’affidamento condiviso contrasta con l’interesse del figlio; in tal caso con decreto motivato – in sede presidenziale o successivamente – può disporre l’affidamento del figlio ad uno di essi.

·       2) In secondo luogo quando sia uno dei genitori a richiederlo, evidenziandone i motivi.

 

Per quanto attiene, in particolare, al contrasto con l’interesse del minore, la norma pone, però, a carico del genitore richiedente le conseguenze di una manifesta infondatezza della domanda attribuendo al comportamento consapevolmente temerario del genitore conseguenze anche sul terreno della responsabilità aggravata ai sensi dell’art. 96 c.p.c.

 

Il vero problema posto da questa disposizione consiste nel valutare se la medesima consenta di valutare come contrario all’interesse del minore un affidamento condiviso sulla base non solo di difficoltà che obiettivamente impediscano la «gestione» del rapporto (es.: uno dei genitori è costretto a recarsi per lunghi periodi in località remote), ma anche se, in generale, il «clima» più o meno pesante dei rapporti inter coniuges sia tale da far ragionevolmente prevedere che un affidamento condiviso sarebbe addirittura nocivo per l’educazione ed una sana crescita del minore. Quest’ultima sembra la soluzione più ragionevole, ogni qualvolta il giudice sia in grado, sulla base del materiale probatorio in suo possesso, di emettere un siffatto giudizio prognostico. In senso contrario v. però App. Trento, 15 giugno 2006; Trib. Ascoli Piceno, 13 marzo 2006. Nel senso che l’attività di autotrasportatore del padre sia tale da impedire l’affidamento condiviso v. Trib. Catania, 5 giugno 2006.

 

 

14. Esercizio della potestà in capo ad entrambi i genitori.

 

E’ noto che prima della riforma si soleva distinguere tra titolarità ed esercizio della potestà, nel senso che, mentre la titolarità permaneva in capo ad entrambi i genitori, pur dopo la separazione o il divorzio, l’esercizio veniva ad essere di pertinenza del solo coniuge affidatario.

 

Il principio dell’affidamento ad entrambi i genitori, cioè una delle modalità con cui si attua la condivisione, appunto, delle responsabilità nell’educazione dei figli si accompagna nella riforma ad un (apparente) rovesciamento di tale regola. Secondo la riforma, invero, la potestà continua ad essere esercitata da entrambi i genitori anche dopo la separazione, e questo anche quando il giudice o le parti dovessero scegliere l’alternativa dell’affidamento esclusivo dei figli ad uno solo dei genitori e, s’intende nell’ambito dei confini eventualmente indicati dal giudice.

 

L’esercizio pieno della potestà da parte di ciascuno dei genitori (nuovo testo art. 155, comma terzo, prima parte, c.c.) costituisce, secondo la dottrina, l’altra grande novità della riforma, uno dei pilastri del nuovo sistema. Così, non è mancato chi (cfr. ad es. Dosi) ha osservato che ci troveremmo di fronte ad una rivoluzione copernicana se si considera che l’esercizio della potestà è stato per oltre sessant’anni nel nostro codice smembrato tra il genitore affidatario (che ne aveva la pienezza) e il genitore non affidatario (che aveva solo poteri di controllo).

 

Un’attenta considerazione della disposizione in esame deve però condurre a conclusioni almeno parzialmente diverse, poiché, se è vero che ora «La potestà genitoriale è esercitata da entrambi i genitori», è pure vero che la disposizione s’affretta ad aggiungere che «Le decisioni di maggiore interesse per i figli relative all’istruzione, all’educazione e alla salute sono assunte di comune accordo tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli». A conti fatti, non vi è poi una grande differenza rispetto alla disposizione previgente, secondo cui «le decisioni di maggiore interesse per i figli sono adottate da entrambi i coniugi».

 

L’unica chiarezza che la novella ha apportato è quella attinente al profilo esterno, nel senso che ora non potranno più esservi dubbi sul fatto che gli atti di straordinaria amministrazione non solo vanno decisi di comune accordo, ma andranno pure compiuti assieme, mediante manifestazione di volontà esternata da entrambi.

 

E’ vero peraltro che la differenza rispetto al sistema previgente appare notevole per ciò che attiene alle decisioni su questioni di ordinaria amministrazione, che pure andranno prese congiuntamente. Peraltro, limitatamente a siffatto tipo di decisioni, il giudice può stabilire che i genitori esercitino la potestà separatamente: ciò, è da ritenersi, in relazione ai diversi periodi di collocamento presso l’uno o l’altro dei genitori (nuovo testo dell’art. 155, comma terzo, seconda parte, c.c.).

 

Considerato che le decisioni di maggiore interesse devono essere sempre necessariamente concordate tra i genitori (perché sono connesse alla titolarità della potestà), la riforma prevede che il giudicesia in caso di affidamento dei figli ad entrambi che in caso di affidamento ad uno solo dei genitori – può decidere di limitare l’esercizio della potestà di uno di essi indicando che le decisioni diverse da quelle di maggiore interesse (così va interpretata la locuzione «questioni di ordinaria amministrazione») vengano assunte solo da un genitore o che i genitori le assumano comunque separatamente. Il che, per esempio, sarà inevitabile quando i genitori abitino in città diverse o vi sia una alta conflittualità. In questo caso all’esercizio pieno della potestà da parte di entrambi i genitori si sostituisce un esercizio della potestà definito dal giudice.

 

Non sembra invece possibile che, diversamente rispetto a quanto previsto dalla normativa previgente, il giudice possa conferire l’esercizio della potestà anche per gli affari di straordinaria amministrazione ad uno solo dei coniugi. Questo risultato potrà peraltro essere raggiunto dall’intesa delle parti, posto che l’esercizio concreto della potestà può essere liberamente disciplinato dai coniugi, come sembrava del resto desumibile dall’inciso «salvo che sia diversamente stabilito», di cui al terzo comma dell’abrogato art. 155 c.c. (riferibile in quella sede al giudice, e, nella crisi «consensualizzata», alle parti), e come è ora confermato dalla più volte richiamata disposizione che obbliga il giudice a «prendere atto» degli accordi dei coniugi» (cfr. il nuovo art. 155, comma secondo, così come introdotto dalla l. 8 febbraio 2006, n. 54), beninteso a condizione che il regolamento prefissato non vada a detrimento della prole e che il coniuge non affidatario non rinunzi al diritto-dovere di vigilare sull’esercizio della potestà attuato dall’altro.

 

Nel senso, invece, che «In materia di esercizio della potestà genitoriale, da una interpretazione sistematica delle disposizioni della legge n. 54/2006 (confortata dal tenore dei lavori preparatori, nei quali l’affidamento esclusivo viene relegato ad ipotesi residuale, dando per presupposta la perdita dell’esercizio della potestà), nonché dal richiamo al principio di non contraddizione, si evince che la locuzione di cui all’art. 155, comma 3, c.c. (“la potestà genitoriale è esercitata da entrambi i genitori”) è da intendersi riferita solo all’affidamento condiviso, fermo restando che il genitore non affidatario conserva la titolarità della potestà, con quel che ne consegue come nel regime ante riforma» (massima affidamentocondiviso.it) cfr. Trib. Catania, 1 giugno 2006.

 

Così, per esempio, in particolari situazioni (si pensi al trasferimento all’estero per un certo periodo del genitore non «collocatario», o non affidatario, in caso di affidamento non condiviso), si potrebbe rivelare nell’interesse del minore l’accordo tendente a conferire (magari anche solo per un periodo predeterminato) all’affidatario il potere di adottare da solo tutte le decisioni concernenti il minore medesimo, ivi comprese quelle di maggiore interesse.

 

 

III

IL MANTENIMENTO DEI FIGLI

 

 

15. Il mantenimento dei figli minorenni.

 

La riforma, facendo applicazione dei principi in materia di condivisione delle responsabilità educative, ha previsto che, salvo accordi diversi liberamente sottoscritti «ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito» (nuovo testo art. 155, comma quarto, c.c.), previsione che il giudice è chiamato ad attuare dando indicazioni sulla misura e sulle modalità di contribuzione e stabilendo anche, ove necessario, un assegno perequativo.

 

Il legislatore fornisce alcune indicazioni per realizzare il principio di proporzionalità, peraltro già presente nel codice civile (art. 148 c.c.). Si tratta di parametri attraverso i quali determinare l’assegno. Nella prassi l’indicazione dell’ammontare del contributo di mantenimento non è legata a parametri precisi e costituisce spesso la risultante di approssimazioni e punti di vista del giudice e delle parti. La legge prevede ora parametri chiari, così elencati:

        1) le attuali esigenze del figlio;

        2) il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori;

        3) i tempi di permanenza presso ciascun genitore;

        4) le risorse economiche di entrambi i genitori;

        5) la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore.

 

Per un’applicazione di tali criteri v. Trib. Catania, 24 aprile 2006.

 

Con il che l’accudimento dei figli – che la prassi giudiziaria ha finora ignorato circoscrivendo l’ammontare dell’assegno alle sole esigenze del figlio – entra a pieno titolo tra le mansioni da retribuire. Non si deve confondere il criterio di proporzionalità con l’attribuzione degli obblighi di mantenimento per capitoli separati, come alcune originarie proposte di legge avevano voluto prevedere.

 

L’attribuzione per capitoli separati degli obblighi di mantenimento non è prevista nella legge. Il che non significa che se i genitori lo desiderano non possa essere attuata. Lo speciale procedimento monitorio di cui all’art. 148 c.c. resterà di competenza del tribunale ordinario (così Dosi) e potrà essere azionato, così come potrà essere azionato una causa ordinaria di mantenimento, soltanto ove in sede minorile non fosse stato già adottato un provvedimento di natura economica insieme ai provvedimenti in materia di affidamento e di potestà.

 

Per ciò che attiene agli accordi sulla determinazione dell’assegno va affermata – a differenza che nei rapporti tra coniugi – la nullità di ogni rinunzia, atteso che ogni forma di rinunzia pare per definizione contraria all’interesse del minore.

 

Ed è proprio questa la considerazione che impone per la rinunzia un trattamento differenziato rispetto a quello dei normali atti di carattere dispositivo, primo tra i quali quello avente ad oggetto la determinazione del quantum della prestazione dovuta. Mentre in quest’ultima fattispecie, invero, la violazione del criterio dell’interesse del minore è puramente eventuale (e comunque va vagliata caso per caso), nell’ipotesi di rinunzia tout court la violazione dell’interesse del minore è certa, ad eccezione della situazione, peraltro assolutamente straordinaria, in cui l’obbligato si trovi veramente nell’impossibilità di contribuire in alcun modo al mantenimento, all’istruzione ed all’educazione della prole.

 

La legge prevede poi un adeguamento automatico dell’assegno. Al riguardo non sembra possibile escludere, neppure sulla base dell’accordo tra le parti, tale adeguamento. Il principio di cui un tempo all’art. 6, comma undicesimo, l.div. e ora all’art. 155, comma quinto, c.c. (estensibile al divorzio ex art. 4, c. 2, l. 8 febbraio 2006, n. 54) pareva invero non solo analogicamente estensibile alla materia della separazione (ma la questione è stata risolta dalle norme testé citate), bensì anche munito del carattere dell’inderogabilità, posto che pure in questo caso un’esclusione a priori della possibilità di adeguare l’assegno al reale valore della somma inizialmente pattuita appare in contrasto con l’interesse del minore a vedersi mantenuto quanto meno costante, in termini reali, il contributo del genitore non affidatario.

 

Anche la giurisprudenza formatasi sotto il vigore della disciplina previgente appare orientata in questo senso, negando – in caso di soluzione contenziosa della crisi coniugale, ma con argomentazioni che paiono estensibili pure alla definizione consensuale – la possibilità di escludere la rivalutabilità dell’assegno per la prole, pure in caso di palese iniquità, a differenza di quanto stabilito invece con riferimento all’assegno di divorzio in favore di uno degli ex coniugi dall’art. 5, comma ottavo, l.div. (cfr. App. Brescia, 20 gennaio 1990, in Giust. civ., 1990, I, p. 824).

 

Un’altra previsione ritenuta dai giudici inammissibile è quella concernente una rivalutazione dell’assegno in misura inferiore rispetto a quella assicurata dall’ «aggancio» agli indici ISTAT (cfr. Cass., 3 novembre 1994, n. 9047, in Giust. civ., 1995, I, p. 743; in Dir. fam., 1995, p. 135), anche se sul punto il nuovo tenore letterale dell’art. 155, comma quinto, c.c. («L’assegno è automaticamente adeguato agli indici ISTAT in difetto di altro parametro indicato dalle parti o dal giudice») sembrerebbe indurre a conclusioni differenti.

 

Anche la materia della decorrenza dell’assegno per la prole sembra, ancor più di quella concernente la determinazione delle scadenze e dell’adeguamento automatico, sottratta ad ogni forma di autonomia dei privati. Proprio in considerazione del principio secondo cui l’obbligo di mantenimento è direttamente connesso al rapporto di filiazione e non a quello matrimoniale, non vi è dubbio che esso vada soddisfatto dal momento della nascita a quello del raggiungimento dell’indipendenza economica (sul tema dell’autosufficienza economica cfr. ex multis Cass., 29 dicembre 1990, n. 12212, in Giust. civ., 1991, I, p. 3033; Cass., 3 luglio 1991, n. 7295) e che tale principio possegga il carattere della più assoluta inderogabilità.

 

 

16. Il mantenimento dei figli maggiorenni.

 

Un aspetto della riforma che è stato già oggetto di qualche osservazione critica nei primi dibattiti è quello concernente i figli maggiorenni nella parte in cui la legge prevede (art. 155-quinquies c.c.) che il contributo di mantenimento possa (ma non debba) essere loro versato direttamente dal genitore che è onerato dell’obbligo.

 

La prassi e la giurisprudenza già ammettono che l’assegno sia dovuto oltre la minore età e fino all’autosufficienza economica e che il figlio maggiorenne possa pretenderlo iure proprio – agendo in un giudizio ordinario – anche al posto del genitore che lo abbia ottenuto nel giudizio di separazione o divorzio e che sopporta le spese del mantenimento.

 

In tali casi il genitore che versa all’altro il contributo di mantenimento disposto in sede di separazione e che viene condannato al pagamento diretto in favore del figlio deve necessariamente richiedere al tribunale di eliminare la previsione del suo debito di mantenimento nei confronti dell’altro genitore. Altrimenti sarebbe gravato da due previsioni di condanna. Ebbene la legge ora consente al giudice di disporre, nello stesso giudizio di separazione (è questa la novità) che l’assegno venga versato direttamente al figlio maggiorenne.

 

Poiché il figlio, sia pure maggiorenne, non è parte nel processo di separazione è evidente che sarà il genitore gravato dall’obbligo di pagamento di un assegno che dovrà chiedere al giudice il pagamento diretto. Il giudice potrà procedere all’audizione del figlio e deliberare anche in corso di causa trattandosi di una modifica dei provvedimenti vigenti.

 

Secondo la dottrina (cfr. Dosi) le conseguenze di questa previsione – che, come avviene anche per l’assegnazione della casa familiare, mette i figli maggiorenni in una difficile posizione di ago della bilancia nel contenzioso tra i genitori – forse sono state sottovalutate dal momento che se il figlio maggiorenne vive con l’altro genitore, quest’ultimo si troverà costretto a dover richiedere al figlio una contribuzione per le spese sopportate nella coabitazione comune.

 

Sul punto potrà richiamarsi Trib. Bologna, 22 maggio 2006 (cfr. Sentenza 22 maggio 2006), che ha disposto il versamento dell’assegno periodico di mantenimento direttamente nelle mani delle figlie maggiorenni.

 

Potrà poi anche citarsi App. Trento, 6 luglio 2006, secondo cui: «In tema di mantenimento dei figli maggiorenni non economicamente indipendenti, la modestia dei redditi percepiti da uno dei genitori non può giustificare l’esclusione dell’onere economico di questi di concorrere nel mantenimento della prole, stante l’obbligo per ciascun genitore di procurarsi, con la ricerca di un lavoro adeguato, fonti economiche idonee a garantire l’assolvimento del predetto onere» (massima affidamentocondiviso.it).

 

Non sembra peraltro escluso che la disposizione dell’art. art. 155-quinquies c.c. consenta di riconoscere (in questo senso v. ad es. Tommaseo) al figlio stesso la legittimazione ad agire e ad intervenire nel processo di separazione o di divorzio dei genitori. In tal caso dovrebbe dunque trattarsi di intervento c.d. principale, facendo egli valere un diritto proprio nei confronti di entrambi i genitori. Così, Trib. Messina, 5 maggio 2006, ha ammesso l’intervento volontario del figlio maggiorenne.

 

L’ultima previsione contenuta nell’art. art. 155-quinquies c.c. indica una giusta parificazione dei figli maggiorenni portatori di handicap ai figli minori per ciò che concerne i loro diritti. La giurisprudenza, per esempio in tema di assegnazione della casa familiare, aveva già ammesso questa parificazione (cfr. Cass., 19 dicembre 2001, n. 16027).

 

La previsione normativa appare pienamente coerente con il complesso di misure di protezione previste dalla legislazione nazionale dirette a garantire ai soggetti portatori di handicap una vita di relazione il più possibile adeguata alla loro personalità e alle loro esigenze come

·         la legge 9 gennaio 1989, n. 13 per favorire il superamento e l’eliminazione delle barriere architettoniche;

·         la legge quadro 5 febbraio 1992, n. 104 per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate;

·         la legge quadro 8 novembre 2000, n. 328 per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali che all’art. 1 pone tra le proprie finalità quella di promuovere interventi per garantire la qualità della vita e di prevenire, eliminare o ridurre le condizioni di disabilità, di hisogno e di disagio individuale e specificamente riconosce ed afferma all’art. 16 «il ruolo peculiare delle famiglie nella formazione e nella cura della persona, nella promozione del benessere e nel perseguimento della coesione sociale»;

·         la legislazione diretta al sostegno abitativo da parte dei Comuni delle famiglie con portatori di handicap grave e la sospensione degli sfratti per le medesime famiglie ove sussistano determinate condizioni previste nell’art. 80 commi 20‑22 della legge finanziaria del 2001 (legge 23 dicembre 2000, n. 388);

·         il D. Lgs 26 marzo 2001, n. 151 contenente il testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, il quale riserva una forte tutela ai genitori di figli anche maggiorenni con handicap grave dettando all’art. 42 una specifica disciplina in tema di riposi e permessi;

·         la legislazione che consente l’adozione in casi particolari dei minori portatori di handicap orfani di genitori (art. 44 lett. c della legge 4 maggio 1983, n. 184 come modificata dalla legge 28 marzo 2001, n. 149).

 

 

17. Prestazioni una tantum e trasferimenti mobiliari o immobiliari in favore della prole.

 

Pur di fronte al persistente silenzio della legge, devono ritenersi ammissibili prestazioni una tantum e trasferimenti mobiliari o immobiliari in favore della prole. Sul punto è noto che la giurisprudenza di legittimità, superate alcune iniziali perplessità dei giudici di merito sulla liquidabilità con una prestazione una tantum delle attribuzioni in favore dei figli minorenni, stabilì, con un celebre leading case risalente al 1987, che l’impegno del marito – nel quadro di un accordo di separazione consensuale – di donare alla figlia un immobile quale contributo al mantenimento della stessa è configurabile alla stregua di un contratto (preliminare) a favore di terzi. Venne così deciso che «Allorché taluno, in sede di separazione coniugale consensuale, assume l’obbligo di provvedere al mantenimento di una figlia minore, impegnandosi a tal fine a trasferirle un determinato bene immobile, pone in essere con il coniuge un contratto preliminare a favore di terzo. Quando poi in esecuzione di detto obbligo, dichiara per iscritto di trasferire alla figlia tale bene, avvia il processo formativo di un negozio che, privo della connotazione dell’atto di liberalità, esula dalla donazione ma configura una proposta di contratto unilaterale, gratuito e atipico, che, a norma dell’art. 1333 c.c., in mancanza del rifiuto del destinatario entro il termine adeguato alla natura dell’affare, e stabilito dagli usi, determina la conclusione del contratto stesso e, quindi, l’irrevocabilità della proposta» (Cass., 21 dicembre 1987, n. 9500).

 

In tempi più recenti, la Suprema Corte (cfr. Cass., 17 giugno 2004, n. 11342) ha stabilito che è di per sè valida la clausola dell’accordo di separazione che contenga l’impegno di uno dei coniugi, al fine di concorrere al mantenimento del figlio minore, di trasferire, in suo favore, la piena proprietà di un bene immobile, «trattandosi di pattuizione che dà vita ad un contratto atipico, distinto dalle convenzioni matrimoniali e dalle donazioni, volto a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico, ai sensi dell’art. 1322 cod. civ.».

 

La medesima decisione ha altresì fissato il principio secondo cui la pattuizione, intervenuta in sede di separazione consensuale, contenente l’impegno di uno dei coniugi, al fine di concorrere al mantenimento del figlio minore, di trasferire, in favore di quest’ultimo, la piena proprietà di un bene immobile, non è soggetta nè alla risoluzione per inadempimento, a norma dell’art. 1453 cod. civ., nè all’eccezione d’inadempimento, ai sensi dell’art. 1460 cod. civ., «non essendo ravvisabile, in un siffatto accordo solutorio sul mantenimento della prole, quel rapporto di sinallagmaticità tra prestazioni che è fondamento dell’una e dell’altra, atteso che il mantenimento della prole costituisce obbligo ineludibile di ciascun genitore, imposto dal legislatore e non derivante, con vincolo di corrispettività, dall’accordo di separazione tra i coniugi, tale accordo potendo, al più, regolare le concrete modalità di adempimento di quell’obbligo». Nella specie il padre, che aveva assunto tale impegno di trasferimento, convenuto in giudizio per l’esecuzione specifica ai sensi dell’art. 2932 cod. civ., aveva chiesto la risoluzione della pattuizione deducendo l’inadempimento della madre all’obbligazione, da costei assunta nel medesimo accordo di separazione tra coniugi, di consentire che la figlia vedesse e frequentasse esso genitore.

 

L’anno successivo la stessa Corte ha riconosciuto che l’obbligo di mantenimento nei confronti della prole può essere adempiuto con l’attribuzione definitiva di beni, o con l’impegno ad effettuare detta attribuzione, piuttosto che attraverso una prestazione patrimoniale periodica, sulla base di accordi costituenti espressione di autonomia contrattuale, con i quali vengono, peraltro, regolate solo le concrete modalità di adempimento di una prestazione comunque dovuta. Da tali premesse si è derivata la conseguenza secondo cui la pattuizione conclusa in sede di separazione personale dei coniugi non esime il giudice chiamato a pronunciare nel giudizio di divorzio dal verificare se essa abbia avuto ad oggetto la sola pretesa azionata nella causa di separazione, ovvero se sia stata conclusa a tacitazione di ogni pretesa successiva, e, in tale seconda ipotesi, dall’accertare se, nella sua concreta attuazione, essa abbia lasciato anche solo in parte inadempiuto l’obbligo di mantenimento nei confronti della prole, in caso affermativo emettendo i provvedimenti idonei ad assicurare detto mantenimento (cfr. Cass., 2 febbraio 2005, n. 2088).

 

Secondo Cass., 30 maggio 2005, n. 11458, poi, «Nella ipotesi di trasferimento di immobili in adempimento di obbligazioni assunte in sede di separazione personale dei coniugi, l’art. 19 della legge 6 marzo 1987, n. 74 (norma speciale rispetto a quella di cui all’art. 26 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131), alla luce delle sentenze della Corte costituzionale 10 maggio 1999, n. 154 e 15 aprile 1992, n. 176, deve essere interpretato nel senso che l’esenzione “dall’imposta di bollo, di registro e da ogni altra tassa” di “tutti gli atti, i documenti ed i provvedimenti relativi al procedimento di scioglimento del matrimonio o di cessazione degli effetti civili del matrimonio” si estende “a tutti gli atti, i documenti ed i provvedimenti relativi al procedimento di separazione personale dei coniugi”, in modo da garantire l’adempimento delle obbligazioni che i coniugi separati hanno assunto per conferire un nuovo assetto ai loro interessi economici, anche con atti i cui effetti siano favorevoli ai figli». La Cassazione ha così ritenuto applicabile, in una fattispecie riguardante il trasferimento gratuito da parte del padre separato alle figlie della propria quota di proprietà della casa di abitazione, in ottemperanza ad un’obbligazione assunta in sede di separazione consensuale, non la normativa generale sugli atti di trasferimento di beni immobili tra coniugi o tra parenti in linea retta, ma la normativa speciale sugli atti esecutivi di atti di separazione personale tra coniugi. 

 

Di diverso avviso (ma sul solo risvolto fiscale) risulta invece una successiva risoluzione dell’Agenzia delle Entrate, che ha escluso dal beneficio di cui all’art. 19 cit. la cessione di una quota di un immobile al figlio della coppia all’interno di un procedimento di divorzio, perché tale cessione «non sembra trovare causa giuridica nella sistemazione dei rapporti patrimoniali fra i coniugi al momento dello scioglimento del matrimonio, bensì in un intento di liberalità nei confronti di un soggetto terzo (nella fattispecie uno dei figli), circostanza che non appare strettamente e funzionalmente collegata con lo scioglimento del matrimonio e che, peraltro, avrebbe potuto essere realizzata in qualunque momento»: cfr. la Risoluzione 151/E del 19.10.2005 dell’Agenzia delle Entrate, il cui testo è disponibile all’indirizzo web seguente:

http://www.professionisti24.ilsole24ore.com/AreaProfessionisti/Diritto/agenzia_delle_entrate%20154_05.htm?cmd=art&codid=20.0.1556497669.

 

Alla conclusione diametralmente opposta deve invece condurre il rilievo per cui il contenuto eventuale degli accordi di separazione e divorzio può essere costituito non solo da contratti caratterizzati dalla causa postmatrimoniale tipica, ma anche – come nel caso di specie – da un semplice «motivo postmatrimoniale». E’ pertanto incontestabile che anche siffatti tipi di negozi vadano qualificati alla stregua di «atti relativi ai procedimenti» di separazione o di divorzio.

 

 

IV

GLI ACCORDI DI CARATTERE NON PATRIMONIALE

 

18. Gli accordi di carattere non patrimoniale relativi ai figli: generalità.

 

Venendo al tema degli accordi di carattere non patrimoniale andrà subito ribadito il carattere di negozio familiare tipico degli stessi. Tipico, perché previsto e disciplinato da ben precise disposizioni di legge, quali gli artt. 711 c.p.c. e 4, comma sedicesimo,  l.div., mentre la validità dell’intesa sarà legata al rispetto, come già anticipato, del canone dell’esclusivo interesse della prole.

 

A conferma di questa regola potrà citarsi il precedente di legittimità che ha riconosciuto la liceità dell’accordo dei coniugi in ordine all’affidamento del figlio minore a parenti, «il quale deve ritenersi con­sentito ove non ricorrano fatti e comportamenti che evidenziano una inosservanza dei doveri inerenti alla potestà dei genitori, od un abuso dei relativi poteri, o comunque una situazione pregiudizievole per il figlio medesimo» (Cass., 1 febbraio 1983, n. 858, in Dir. fam., 1983, p. 484).

 

Per quanto attiene all’individuazione dell’oggetto degli accordi in discussione, è evidente che essi concerneranno, essenzialmente, l’affidamento,

·         vuoi nella forma «ordinaria», condivisa, ad entrambi i coniugi,

·         vuoi in quella esclusiva ad uno di essi,

·         vuoi in quella alternata,

·         vuoi, pure, ad un terzo.

 

Proprio su questi temi va registrato un precedente di legittimità contenente un significativo riconoscimento dell’autonomia dei coniugi anche in questo settore; la Cassazione ha infatti stabilito che «la man­cata emanazione da parte del giudice della separazione dei provvedimenti inerenti alla prole (...) non integra vizio di omessa pronuncia qualora le parti non abbiano prospettato alcuna questione al riguardo, importando ciò un’implicita devoluzione della materia all’accordo dei coniugi, sul presupposto della non contrarietà della relati­va sistemazione agli interessi morali e materiali dei figli» (cfr. Cass., 31 ottobre 1978, n. 4969).

 

Altro tema tipico di questa materia sarà quello della definizione, più o meno minuziosa,

·         per l’affidamento condiviso dei periodi di collocazione del minore presso l’uno o l’altro;

·         per l’affidamento esclusivo delle modalità di visita da parte del genitore non affidatario.

 

I coniugi potranno inoltre definire alcuni aspetti ulteriori, quali, per esempio, i rapporti (o... i non rapporti) con altri soggetti più o meno gravitanti nelle rispettive sfere parentali (si pensi ai nonni) o affettive.

 

 

19. Gli accordi sull’educazione dei figli.

 

Una questione molto discussa in passato, ancorché con riguardo ai coniugi non separati, concerneva la validità di eventuali intese sul tipo di educazione da impartire alla prole, essendo d’uso, nel caso di matrimonio tra persone di religione diversa, l’accordo tra le rispettive famiglie nel senso di individuare in base a criteri predeterminati la religione in cui i figli avrebbero dovuto essere cresciuti (di solito si trattava di quella della madre; oppure si conveniva di educare i figli nella religione del padre e le figlie in quella della madre). La soluzione allora costantemente affermata, circa la nullità di queste intese, per il fatto di porsi in contrasto con la regola che rimetteva in via esclusiva al marito-padre-padrone il potere di assumere in via esclusiva tale tipo di decisioni, non è sicuramente più sostenibile.

 

Il problema si pone del resto oggi in relazione a qualsiasi tipo di determinazione attinente all’educazione della prole, dalla decisione di fare frequentare un determinato istituto piuttosto che un altro a quella di inviare il figlio ad un soggiorno, magari di lunga durata, all’estero, e così via. Al riguardo non potrà che confermarsi l’inesistenza di «canoni» di validità predeterminati, al di là della regola generale dell’interesse, nel caso concreto, dei minori in questione, con conseguente validità di ogni tipo di accordo al riguardo che in concreto non appaia lesivo di siffatto interesse.

 

Una certa eco ha suscitato una decisione di merito (Trib. Prato, 25 ottobre 1996, in Dir. fam., 1997, p. 1013), che ha negato la possibilità di recepire in sentenza l’accordo dei coniugi contenente l’obbligo per l’affidatario «di astenersi dall’indottrinare i figli nel credo del gruppo dei Testimoni di Geova».

 

L’errore che inficia la pronuncia nasce – ad avviso dello scrivente – dal fatto di fondarsi sul falso presupposto secondo cui gli accordi di separazione personale dovrebbero contenere esclusivamente «obbligazioni», cioè a dire rapporti giuridici caratterizzati dalla patrimonialità, ciò che condurrebbe irrimediabilmente all’immediata conclusione dell’invalidità di ogni intesa sullo stesso affidamento e sul diritto di visita. La vivace reazione della dottrina comprova la crescente sensibilità circa la necessità di riconoscere che le parti hanno diritto a stabilire, nell’esercizio della propria autonomia, le condizioni della separazione, ed ad ottenere effetti giuridici conformi a queste determinazioni.

 

Del resto, come esattamente osservato dalla stessa dottrina, non è affatto vero che le norme del diritto di famiglia manchino di sanzione; è vero, invece, che la sanzione si atteggia nei modi peculiari del diritto di famiglia, che sono diversi da quelli propri del diritto patrimoniale delle obbligazioni. Così si è ricordato che, secondo una decisione della Cassazione (Cass., 7 dicembre 1994, n. 10512, in Dir. fam., 1995, p. 138) «I compor­tamenti successivi [alla separazione legale] potranno eventualmente rilevare ai fini del mutamento delle condizioni della separazione, così come saranno valutabili in sede penale e potranno eventualmente fondare la richiesta di inibitoria dell’uso del cognome, ai sensi dell’art. 156 bis c.c. Quanto all’ipotesi del grave pregiudizio per la prole, che certamente può emergere anche durante la separazione dei genitori, esclusa la sua utilizzabilità ai fini del mutamento del titolo, soccorrono gli specifici strumenti di tutela previsti dagli artt. 155, ult. co., 330 e 333 c.c.».

 

Pienamente ammissibili, in conclusione, risultano gli accordi sul tipo di educazione da impartire alla prole, con particolare riferimento all’educazione religiosa, accordi, che – oltre a rientrare sicuramente tra le «condizioni della separazione e del divorzio» ex artt. 711 c.p.c. e 4, comma sedicesimo, l.div. – appaiono consigliabili anche per evidenti ragioni d’opportunità.

 

Per questo motivo appare condivisibile l’omologazione concessa da un giudice di merito ad un accordo di separazione consensuale che, nel caso di un figlio affidato alla madre convivente con un uomo di fede islamica, aveva stabilito che «i genitori si obbligano ad impartire al figlio l’educazione nella religione cattolica con divieto assoluto di istruirlo o metterlo in contatto con persone o esperienze attinenti ad altre religioni. La violazione di questo impegno comporterà mutamento dell’affidamento di fatto» (cfr. Trib. Rimini, 9 giugno 1998, riportato in Iannaccone, Libertà religiosa del minore e accordi di separazione, in Dir. eccl., 1999, I, p. 768 ss.). Inutile dire, peraltro, che la previsione di mutamento dell’affidamento non potrebbe ritenersi vincolante per il giudice, nel caso in cui tale avvicendamento, per le più varie ragioni, dovesse concretamente ritenersi non conforme all’interesse del minore.

 

Il riconoscimento della natura di negozio familiare all’accordo relativo ai figli, in tutti gli aspetti in cui il medesimo può manifestarsi, consente anche di estendere ad esso – come già si è accennato – la disciplina in materia contrattuale. Di grande utilità in proposito, di fronte alla comprovata maggior sensibilità di tanti genitori (e dei rispettivi legali) ai profili pecuniari rispetto a quelli affettivi, potrebbe manifestarsi l’inserimento di una o più clausole penali a garanzia dell’adempimento di uno o più degli obblighi assunti in materia di affidamento e di diritto di visita. Per esempio, potrebbero prevedersi vere e proprie penalità di mora per ogni giorno di ingiustificato ritardo nella «consegna» o nella «riconsegna» (per usare i brutti termini in voga nell’ambiente) del minore. Non vengono in questo caso in considerazioni preoccupazioni attinenti alla necessità di garantire il rispetto di diritti inderogabili della persona, quale quello della libertà in merito a decisioni di carattere strettamente personale, facendo, anzi, «premio» su ogni altra considerazione la necessità di salvaguardare in primo luogo l’interesse della prole.

 

Nulla sembra dunque ostare ad un’applicazione delle disposizioni in tema di clausola penale contenute nella disciplina del contratto in generale (artt. 1382 ss.). Sia quindi consentito rinnovare in questa sede l’invito ai pratici a provare ad inserire siffatto genere di clausole negli accordi diretti a disciplinare le conseguenze della crisi coniugale con riguardo alla prole minorenne. L’operazione potrebbe, quanto meno, assumere il valore d’un ballon d’essai per saggiare le reazioni al riguardo della giurisprudenza, mentre è sicuro che le statistiche registrerebbero un assai più diffuso rispetto delle intese raggiunte e, forse, anche una diminuzione dei procedimenti esecutivi in un campo così delicato.

 

Il suggerimento in esame, già presentato dall’autore di questo studio (cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale, II, cit., p. 1112), è stato criticato da chi (Amadio, Letture sull’autonomia privata, Padova, 2005, p. 178 s.) ha rimproverato allo scrivente di voler «eludere l’ostacolo» della vincolatività delle intese non patrimoniali inter coniuges, cercando invece di «liquidare il problema degli effetti dell’accordo a contenuto non patrimoniale (e della sua violazione), ricollegandovi sanzioni di natura economica». L’equivoco di una siffatta analisi riflette l’abitudine (tipica di una parte della dottrina) di procedere evidenziando esclusivamente parti del tutto circoscritte (e magari marginali) di opere ben più complesse, per poterne poi predicare l’insufficienza. Ora, non risponde in alcun modo a verità che chi scrive abbia mai inteso far derivare la vincolatività dell’impegno dei coniugi su profili non patrimoniali dall’introduzione di clausole penali. Come evidenziato dall’analisi – significativamente trascurata dal citato Autore – del profilo causale delle pattuizioni qui in discorso (cfr. per tutti Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., 625 ss., 709 ss.; Id., Prestazioni «una tantum» e trasferimenti tra coniugi in occasione di separazione e divorzio, Milano, 2000, p. 91 ss.), la vincolatività delle intese non patrimoniali in oggetto (non qualificabili alla stregua di contratti, alla luce del disposto dell’art. 1321 c.c.) deriva dal semplice fatto che è il legislatore, con l’espressa ed inequivocabile attribuzione di rilevanza alle «condizioni della separazione consensuale» (art. 711 c.p.c.), e alle «condizioni inerenti alla prole e ai rapporti economici» in sede di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio (art. 4, comma sedicesimo, l.div.), a fornire carattere vincolante ai comportamenti cui le parti intendono astringersi, a prescindere, dunque, dalla patrimonialità o non patrimonialità degli stessi (l’argomento è ampiamente sviluppato, nel caso il citato Autore volesse completare la propria indagine, oltre che nelle pagine appena citate, in Oberto, I contratti della crisi coniugale, II, cit., p. 1165 ss.; Id., Del «Galateo postmatrimoniale»: ovvero gli accordi sui comportamenti e sul cognome maritale tra separati e divorziati, in Riv. notar., 1999, p. 337). Il richiamo, dunque, alla clausola penale – contrariamente a quanto ritenuto dalla surriferita opinione – lungi dall’essere compiuto nel tentativo (superfluo) di dotare di giuridica vincolatività intese che tale carattere vincolante già di per se stesse posseggono per effetto delle citate norme (non prese in considerazione dall’Autore dello scritto cui qui si replica), deriva dalla semplice applicazione di principi da tempo enunciati in dottrina e giurisprudenza (per i rinvii all’una e all’altra si rinvia il paziente lettore ai citati passi dello scrivente: si pensi, tanto per citare qualche esempio, alle opinioni di Santoro-Passarelli, Gangi e Bianca, riportate nelle citate opere dello scrivente, oppure alla decisione di legittimità che nel 1983 ritenne applicabili ad un negozio eminentemente personale, quale l’accordo di riconciliazione tra coniugi separati, i principi in tema di formazione del consenso contenuti agli artt. 1326-1328 c.c.: cfr. Cass., 29 aprile 1983, n. 2948). Ci si intende, cioè, riferire alla regola secondo cui le norme in tema di parte generale del contratto, proprio perché costituenti l’«ossatura» del negozio giuridico in generale nel nostro sistema, sono applicabili anche ai negozi giuridici familiari (ivi compresi quelli a contenuto non patrimoniale), ove non esistano (come nel caso in esame) principi speciali in deroga. Ma ciò, evidentemente (e nonostante gli indiscutibili risvolti pratici), non aggiunge di per sé sul piano giuridico una sola oncia di vincolatività al rapporto in discussione e con il tema della vincolatività de iure ha assai poco a che vedere. Et de hoc satis.

 

 

V

IL PROBLEMA DELLA CASA FAMILIARE

 

20. L’assegnazione della casa familiare tra accordi delle parti e decisione del giudice.

 

Sono note le vicende che, a partire dal 1975, hanno caratterizzato la soluzione legislativa del problema dell’attribuzione della casa familiare nella crisi coniugale. Ciò che appare interessante notare in questa sede è che persino nel periodo in cui la legge non disponeva al riguardo, nessuno mai dubitò della validità di un’assegnazione negoziale in sede di separazione consensuale: in caso di incertezza sulla reale portata dell’intesa si reputava infatti sufficiente il richiamo ai normali canoni dell’ermeneutica contrattuale per appurare a quale istituto normativo le parti avessero voluto riferirsi e dunque per risolvere problemi quali l’individuazione della natura del diritto, la sua opponibilità nei confronti dei terzi, la durata, ecc.

 

Nel 1975 la riforma del diritto di famiglia venne ad introdurre un nuovo diritto di abitazione (art. 155, comma quarto, c.c., ora art. 155-quater), che si differenzia dagli altri per il fatto di essere espressamente dettato per la separazione personale (giudiziale). Questo è il motivo per cui, nonostante la particolarità della sua fonte – di carattere giudiziale – la situazione in esame ha finito con il diventare il referente privilegiato tanto nella prassi che nell’esegesi degli accordi di separazione.

 

Il problema appare però oggi quello di vedere se e in che misura gli scomposti e disorganici interventi legislativi (conditi dalle inevitabili declaratorie di incostituzionalità) che hanno caratterizzato la materia dell’assegnazione giudiziale vengano ad influenzare anche l’assegnazione convenzionale. Si pensi, tanto per fare un esempio, alla sentenza 27 luglio 1989, n. 454 della Corte costituzionale: la pronuncia in questione, invero, ha dichiarato illegittimo, per violazione degli artt. 3, 29 e 31 Cost., l’ora abrogato art. 155, comma quarto, c.c., del codice civile, nella parte in cui non prevedeva l’opponibilità al terzo acquirente del provvedimento giudiziale di assegnazione della abita­zione nella casa familiare al coniuge affidatario della prole mediante trascrizione. L’interprete si trova così di fronte ad un regime di opponibilità del diritto di abitazione che sembra, almeno a prima vista, riferibile ai soli casi di sua costituzione iussu iudicis.

 

Peraltro la stessa giurisprudenza costituzionale di questi ultimi anni è costellata di decisioni con le quali la Corte ha inteso porre sullo stesso piano separazione giudiziale e separazione consensuale, anche nei loro riflessi verso i terzi: si pensi, per esempio, all’estensione (operata da Corte cost., 31 maggio 1983, n. 144 e da Corte cost., 19 gennaio 1987, n. 5) alla separazione consensuale dei provvedimenti previsti dall’art. 156, comma quinto, c.c., con i quali il giudice può anche ordinare «ai terzi, tenuti a corrispondere, anche periodicamente somme di danaro all’obbligato, che una parte di esse venga versata direttamente agli aventi diritto», oppure alla possibilità (concessa da Corte cost., 18 febbraio 1988, n. 186) di iscrivere ipoteca giudiziale sulla base del decreto di omologazione.

 

Tutto ciò consente forse di concludere che l’intera, tormentata vicenda del provvedimento giudiziale di assegnazione della casa coniugale e della relativa opponibilità può essere qui utilmente richiamata, almeno ogni qualvolta l’interprete si trovi di fronte ad una clausola del verbale di separazione consensuale, la quale si limiti ad operare puramente e semplicemente un’assegnazione della casa familiare, e dunque a recepire convenzionalmente quel diritto che, in sede contenziosa, il giudice può creare ex art. 155-quater (un tempo: 155, quarto comma) c.c. (per un precedente giurisprudenziale in tal senso cfr. Cass., 5 luglio 1988, n. 4420, in Dir. fam., 1988, p. 1650).

 

Si noti, per incidens, che la questione qui in esame non è stata normativamente risolta neppure dalla legge sull’affidamento condiviso (cfr. art. 155-quater c.c., introdotto dalla l. 8 febbraio 2006, n. 54), che, se, da un lato, ha avuto il pregio di unificare il trattamento della questione per la separazione ed il divorzio (così come per la rottura della famiglia di fatto), dall’altro ha continuato a non occuparsi dell’assegnazione in sede convenzionale.

 

Quanto detto non esclude, naturalmente, che le parti, esplicitamente o implicitamente, si riferiscano ad un diverso istituto codicistico, quale il comodato, la locazione, il diritto reale di abitazione, l’usufrutto, ecc.: in questo caso spetterà all’interprete raccogliere tutti gli indizi che facciano supporre l’esistenza di una determinata volontà negoziale.

 

D’altro canto, c’è però anche da chiedersi se, sulla base della scarna regolamentazione normativa dell’assegnazione giudiziale, non siano per caso ricavabili principi d’ordine pubblico che in qualche modo inibiscano il pieno dispiegarsi della libertà contrattuale. Così, per esempio, la giurisprudenza di legittimità che vieta l’emanazione di un provvedimento di assegnazione della casa familiare in assenza di affidamento della prole, ancorché elaborata in tema di separazione giudiziale, potrebbe porre in dubbio la validità di quegli accordi che, in ipotesi, attribuissero il diritto di abitazione al genitore non affidatario.

 

Peraltro, approfondendo in apposita sede tale specifica questione, lo scrivente ha ritenuto di dovere escludere tale conseguenza, dimostrando come l’indirizzo giurisprudenziale che nega al giudice il potere di procedere all’assegnazione della casa coniugale in assenza di prole minorenne non possa dispiegare effetti negativi sull’eventualità che le parti di comune accordo pervengano a tale risultato, ovvero addirittura procedano all’assegnazione al genitore non affidatario dei figli, purché in tal modo l’assegnatario della casa non venga a sottrarsi al dovere di contribuire al mantenimento della prole e sempre, ovviamente, che nel caso concreto la clausola non debba comunque ritenersi in contrasto con l’interesse dei figli minori.

 

Una conferma al riguardo sembra venire da una pronunzia della Corte Suprema, con cui è stata ritenuta ammissibile la modifica ex art. 710 s. c.p.c. – sulla base di circostanze di fatto sopravvenute – dell’originaria attribuzione in sede consensuale dell’abitazione della casa coniugale al genitore non affidatario, così dando implicitamente per scontata la sua legittimità (Cass., 6 luglio 1978, n. 3344).

 

Per ciò che attiene ai criteri di assegnazione della casa familiare, dopo l’introduzione della riforma, si può rinviare alle prime decisioni di merito già rese. Così, Trib. Bari, 11 luglio 2006, ha stabilito che «In tema di assegnazione della casa familiare, l’attribuzione del godimento esclusivo della stessa spetterà al genitore con cui il minore trascorrerà la maggior parte del proprio tempo, essendo conforme all’interesse dei figli che questi continuino a vivere nel loro consueto habitat domestico per il tempo in cui rimarranno con il predetto genitore» (massima affidamentocondiviso.it)

 

21. L’opponibilità dell’assegnazione della casa familiare, prima della legge sull’affidamento condiviso.

 

Per ciò che attiene, poi, più specificatamente al tema dell’opponibilità dell’assegnazione consensuale della casa familiare al terzo avente causa dal proprietario della medesima, va aggiunto che la soluzione dell’estensibilità a questa delle regole elaborate con riguardo alla assegnazione di fonte giudiziale ha ricevuto l’avallo della Cassazione, la quale ha stabilito che «A seguito della declaratoria di parziale illegittimità costituzionale dell’art. 155, comma sesto, c.c., nella parte in cui non prevede la trascrizione del provvedimento giudiziale di assegnazione dell’abitazione nella casa familiare al coniuge affidatario della prole ai fini dell’opponibilità ai terzi (sentenza n. 454 del 27 luglio 1989 della Corte costituzionale) anche l’assegnazione della casa coniugale disposta in favore dell’altro coniuge in occasione della separazione, sia giudiziale che consensuale, è opponibile al terzo acquirente quando il relativo titolo sia stato trascritto prima del suo atto d’acquisto» (Cass., 27 maggio 1995, n. 5902, in Foro it., 1996, I, c. 184).

 

Il problema comune alla questione dell’opponibilità (nei confronti del nuovo acquirente) dell’attribuzione tanto convenzionale, che giudiziale, del diritto d’abitazione risiedeva, come noto, prima della l. 8 febbraio 2006, n. 54, nell’interpretazione della formulazione dell’art. 6, comma sesto, l.div., secondo cui «L’assegnazione, in quanto trascritta, è opponibile al terzo acquirente ai sensi dell’art. 1599 del codice civile», laddove, proprio ai sensi dell’art. 1599 c.c., il rapporto di conduzione è sempre opponibile entro il novennio, a prescindere da ogni formalità pubblicitaria, purché risultante da contratto avente data certa.

 

Ora, il diritto di abitazione di cui qui si parla si fonda su di un titolo – ordinanza presidenziale, verbale d’udienza o sentenza – avente per definizione data certa. Ne segue che l’applicazione dell’art. 1599 alla materia in esame avrebbe dovuto determinare un’automatica opponibilità del diritto di abitazione entro il novennio, senza la necessità di alcuna formalità pubblicitaria. Esisteva pertanto un’antinomia interna all’art. 6, c. 6, l.div. tra l’espressa indicazione della trascrizione quale condizione per l’opponibilità, da un lato, e il riferimento all’art. 1599, dall’altro, visto che tale seconda norma non impone la trascrizione se non per l’opponibilità oltre il novennio.

 

La lettera dell’art. 6 cit. sembrava dunque fondarsi su di un’errata (o forse sarebbe più corretto dire: su di una... omessa) lettura dell’art. 1599, il cui risultato portava ai seguenti due precetti contraddicentisi l’un l’altro:

·       l’assegnatario deve sempre trascrivere il titolo contenente l’assegnazione, se vuole opporlo anche per un solo giorno;

·       l’assegnatario può opporre il proprio titolo entro il novennio senza rispettare alcuna formalità (la trascrizione serve per l’opponibilità oltre il novennio).

 

La questione è stata ampiamente dibattuta altrove. In questa sede potrà solo aggiungersi che la soluzione fornita al riguardo dalla più recente giurisprudenza di legittimità – assestatasi, come noto, sulla regola che richiedeva la trascrizione solo per l’opponibilità oltre il novennio, laddove per l’opponibilità entro il novennio era ritenuto sufficiente che l’assegnazione risultasse da atto avente data certa, secondo quanto disposto dall’art. 1599 (cfr. Cass., Sez. un., 26 lgulio 2002, n. 11096; Cass., 2 aprile .2003, n. 5067) – venne (inconsapevolmente) rimessa in discussione nel 2005 da un non sufficientemente ponderato intervento della Corte costituzionale (Corte cost., 21 ottobre 2005, n. 394).

 

Quest’ultima, pronunziando in tema di trascrivibilità dell’assegnazione in caso di rottura della convivenza more uxorio, stabilì infatti – completamente trascurando il problema dato dal rinvio dell’art. 6 l.div. all’art. 1599 c.c., l’interpretazione prevalente e più recente della giurisprudenza di legittimità appena citata, nonché quanto affermato dalla stessa Corte costituzionale in un suo precedente provvedimento (cfr. Corte cost., 23 gennaio 1990, n. 20) – che «il provvedimento di assegnazione deve poter essere trascritto poiché, in caso contrario, l’atto non sarebbe opponibile ai terzi e potrebbe essere vanificato il vincolo di destinazione impresso alla casa familiare». In tal modo, avuto altresì riguardo al tenore di tutta la motivazione della sentenza appena citata, la Consulta forniva l’impressione di ritenere che, nel sistema dell’opponibilità (anche per un solo giorno) del diritto di abitazione della casa familiare (di fonte, ovviamente, sia giudiziale che consensuale), l’unico elemento rilevante fosse dato dalla trascrizione.

 

 

22. L’opponibilità dell’assegnazione della casa familiare, dopo la legge sull’affidamento condiviso.

 

Ma la telenovela della casa familiare non finisce con il 2005.

 

Con il nuovo testo dell’art. 155-quater c.c., introdotto dalla l. 8 febbraio 2006, n. 54, il legislatore pasticcione stabilisce che il provvedimento di assegnazione e quello di revoca sono trascrivibili e opponibili a terzi ai sensi dell’art. 2643 c.c.

 

Con un tratto di penna viene così rovesciata la tesi delle Sezioni Unite ed inviata al macero tutta la giurisprudenza di cui si è dato atto sopra (relativamente, lo si ripete, non solo alla separazione, ma anche al divorzio, all’annullamento del matrimonio e alla rottura della convivenza more uxorio), mentre rimangono drammaticamente aperti i problemi della trascrivibilità della domanda giudiziale e della pubblicità dell’assegnazione convenzionale.

 

Su quest’ultimo punto andrà in particolare ribadito che l’art. 155-quater c.c. parla solo di trascrizione del «provvedimento», laddove ciò che attribuisce il diritto nel caso di separazione consensuale è l’accordo omologato e non certo il decreto d’omologazione.

 

Si noti che, contrariamente rispetto a quanto pure sostenuto da alcuni Autori (cfr. Paladini), la disciplina in tema di opponibilità dell’assegnazione di cui al citato art. 6 l.div. deve ritenersi oggi abrogata, attesa l’evidente incompatibilità, tanto per la separazione che per il divorzio (atteso il rinvio operato dal citato art. 4 della legge di riforma). In proposito si è infatti rilevato (cfr. Paladini) che l’art. 1599 c.c. sarebbe speciale rispetto all’art. 2643 c.c., poiché esso non regola il conflitto tra il conduttore e qualunque altro titolare di un diritto incompatibile, ma si limita a stabilire le condizioni affinchè la locazione sia opponibile al terzo acquirente della cosa locata. Ne deriverebbe una sopravvivenza dell’applicabilità dell’art. 1599 c.c. in tutti i casi di conflitto con terzi acquirenti.

 

Di contro si è rilevato (Quadri) che la disposizione dell’art. 155-quater, primo comma, c.c. è da ritenere globalmente abrogativa della disciplina previgente in materia, ai sensi dell’art. 15 prel., per avere la nuova legge, con riguardo alla sorte della casa familiare in dipendenza della crisi della famiglia, sicuramente inteso regolare «l’intera materia già regolata dalla legge anteriore».

 

A ben vedere, a parte la correttezza di tale ultima affermazione, va detto che l’abrogazione del richiamo all’art. 1599 c.c. ben può dedursi dalla semplice constatazione dell’incompatibilità (cfr. art. 15 prel.) tra il vecchio ed il nuovo sistema, perché l’art. 2643 c.c., con il richiamo ai «contratti che trasferiscono la proprietà di beni immobili» evidentemente si riferisce anche a quei negozi (di alienazione, in relazione ai quali si pone l’ «acquirente»; si pensi alla vendita, ma non solo: alla permuta, o al conferimento in società, o in fondo patrimoniale con trasferimento della proprietà, o, nei limiti in cui lo si ritenga ammissibile, in trust) cui l’art. 1599 c.c. fa riferimento.

 

Si noti poi che, già secondo una sentenza del 2004 (cfr. Cass., 14 ottobre 2004, n. 20292) la Cassazione sembrava ritenere che la regola che governava l’opponibilità dell’assegnazione (non già al terzo acquirente, ma) al creditore procedente in executivis contro l’altro coniuge proprietario fosse data dal solo art. 2914, n. 1, c.c., nel senso che, quindi, l’unico elemento rilevante ai fini dell’opponibilità di un’assegnazione convenzionale in sede di separazione consensuale fosse dato dalla trascrizione del decreto di omologazione; formalità che, per rendere l’assegnazione opponibile al creditore, sarebbe dovuta intervenire in data anteriore alla trascrizione del pignoramento. Anche se la Corte non affrontava espressamente l’argomento, va detto che, in effetti, l’interpretazione letterale dell’art. 6, comma sesto, l.div., espressamente riferito alla (sola) opponibilità «al terzo acquirente», sembrava far propendere per la correttezza di tale soluzione (con la sola precisazione, più volte richiamata dallo scrivente, che il vero titolo da trascrivere sarebbe stato il verbale contenente l’accordo e non già il decreto di omologa). In ogni caso, anche questo profilo sembra oggi assorbito dal nuovo testo dell’art. 155-quater, che è venuto ad abrogare, per effetto del disposto dell’art. 4, comma secondo, l. 8 febbraio 2006, n. 54,  l’art. 6, c. 6, l.div., con la conseguenza che può dirsi sicuro che la trascrizione (anteriore al pignoramento) è oggi l’unica formalità in grado di consentire al coniuge assegnatario di opporre il suo diritto ai creditori pignoranti dell’altro coniuge.

 

Venendo ad accennare ora brevemente al tema dei rapporti con il locatore, potrà ricordarsi come il termine normativo di riferimento sia costituito dall’art. 6, l. 392/1978.

 

E’ noto come, nella nota sentenza 7 aprile 1988, n. 404, la Consulta abbia espressamente esteso il terzo comma dell’art. 6, l. 392/1978 alla separazione di fatto tra coniugi «se tra i due si sia così convenuto». Al riguardo, la Cassazione ha già avuto modo di stabilire che «A seguito della sentenza n. 404 del 1988 con cui la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del terzo comma dell’art. 6 della legge 27 luglio 1978 n. 392 anche il coniuge separato soltanto di fatto ha diritto di succedere nel contratto di locazione al coniuge che ne sia conduttore, se tra i detti coniugi si sia così convenuto» (cfr. Cass., 1 giugno 1991, n. 6163).

 

Una pronunzia di merito (Pret. Siracusa, 23 febbraio 1988, in Giur. mer., 1989, p. 564) ha negato che l’intesa sulla casa familiare, intervenuta in sede di separazione consensuale, ma non inserita nel verbale omologato, sia opponibile al locatore. Nessuna contestazione muove il suddetto provvedimento alla validità dell’accordo inter partes sotto il profilo del difetto di omologazione; esso si limita invece ad affrontare la questione dell’opponibilità della pattuizione al locatore, pervenendo alla soluzione negativa.

 

Ora, questo ostacolo frapposto al pieno dispiegarsi degli effetti della volontà negoziale in materia familiare non sembra giustificato alla luce della normativa vigente. Innanzi tutto l’art. 6, comma terzo, l. 392/1978 si limita a presupporre una «convenzione» in proposito, senza ulteriori specificazioni. Secondariamente, secondo l’opinione condivisa dallo scrivente, dall’art. 158 c.c. non può certo desumersi una causa di nullità degli accordi non omologati per il solo fatto che questi non sono stati sottoposti al vaglio del tribunale. In ogni caso, l’interpretazione proposta dalla decisione in oggetto non sembra più in alcun modo accettabile dopo che la già citata sentenza Corte cost., 7 aprile 1988, n. 404 ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 6, comma terzo, cit., «nella parte in cui non prevede la successione nella locazione relativa alla casa coniugale nell’ipotesi di separazione di fatto, se tra il conduttore ed il suo coniuge si sia così convenuto». Invero, non sembra in alcun modo giustificabile un trattamento differenziato dell’accordo non omologato sull’abitazione intervenuto tra coniugi separati consensualmente e l’accordo inserito nelle pattuizioni (nessuna delle quali omologata!) tra coniugi separati di fatto.

 

La tesi or ora illustrata riceve conforto anche dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, secondo cui «La prova dell’accordo che, ai sensi dell’art. 6, ult. cpv., della legge sull’equo canone, comporta la successione del coniuge separato consensualmente (o di fatto) nel rapporto locativo della casa coniugale, può anche essere fornita per facta concludentia (implicanti l’inequivoco riconoscimento, da parte del coniuge originario conduttore, del trasferimento all’altro del diritto di fruire dell’abitazione), quale la permanenza nell’alloggio, dopo la separazione, del coniuge che non ne era originario locatario, purché tale permanenza non sia successivamente venuta meno al momento in cui venga fatto valere il diritto al subingresso, rivelandosi il frutto di un precario accordo destinato ad esaurire la sua efficacia nei rapporti interni ed inidoneo, quindi, a riflettersi nel rapporto con il locatore al quale l’accordo non sia stato reso noto» (cfr. Cass., 14 febbraio 1992, n. 1831, in Arc. loc. cond., 1992, p. 541).

 

La riforma prevede la cessazione dell’efficacia dell’assegnazione «nel caso che l’assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa familiare o conviva more uxorio o contragga nuovo matrimonio».

 

Come osservato in dottrina (Quadri) non può non essere considerato del tutto scontato che l’assegnazione perda qualsiasi ragionevole significato – e sia conseguentemente senz’altro revocabile – nel caso in cui l’assegnatario «non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa familiare». Qui a far venire meno il presupposto stesso dell’assegnazione non è tanto un comportamento dell’assegnatario, quanto la carenza stessa (già iniziale o sopravvenuta), sul piano del tutto oggettivo, di quella funzione della casa quale habitat per i figli, la cui conservazione si è visto costituire il solo possibile fondamento della relativa assegnazione al coniuge (anche se non titolare, o titolare esclusivo, del diritto legittimante la disponibilità del bene).

 

Ed è proprio in considerazione di ciò, che del tutto inopportuna si presenta, allora, la previsione delle altre due circostanze contemplate quali cause di estinzione del diritto al godimento della casa familiare attribuito al coniuge. Si allude, ovviamente, alle ipotesi in cui quest’ultimo «conviva more uxorio o contragga nuovo matrimonio». In effetti, la convivenza more uxorio instaurata dal coniuge assegnatario o il suo matrimonio non valgono di per se stessi a privare l’assegnazione del suo fondamento, rappresentato dalla esigenza di conservazione, da parte dei figli, dell’habitat domestico.

 

Simili circostanze, concernenti i rapporti personali dell’assegnatario, dovrebbero essere considerate deducibili, quindi, esclusivamente al fine (e nel quadro) di una eventuale nuova valutazione, in vista della revoca dell’assegnazione, degli interessi dei figli, alla luce, appunto, della situazione venutasi conseguentemente a creare. Una immediata ed incondizionata incidenza sull’assegnazione della casa familiare di circostanze sopravvenute come quelle ora espressamente contemplate dal legislatore sembra, allora, rendere, più che inopportuna (per la previsione di un meccanismo scopertamente sanzionatorio nei confronti dell’assegnatario, destinato a riverberarsi immediatamente sulla posizione della prole), addirittura costituzionalmente illegittima la disposizione, in quanto tale da presentarsi irragionevolmente in contrasto con l’esigenza di tutela dell’interesse dei figli posta istituzionalmente a fondamento dell’assegnazione (interesse considerato, pare nuovamente da ribadire, «preminente» rispetto ad ogni altro, tanto da avere, in precedenza, consentito l’assegnazione della casa familiare anche nel caso di cessazione della convivenza.

 

 

VI

POTERI DEL GIUDICE, ASCOLTO DEL MINORE

E MEDIAZIONE FAMILIARE

 

 

23. Poteri del giudice in materia di prova.

 

L’art. 155-sexies c.c. (Poteri del giudice e ascolto del minore) stabilisce, al primo comma, prima parte, che «Prima dell’emanazione, anche in via provvisoria, dei provvedimenti di cui all’articolo 155, il giudice può assumere, ad istanza di parte o d’ufficio, mezzi di prova». Il richiamo anche alla «via provvisoria» costituisce un evidente riferimento alla fase presidenziale, oltre che, ovviamente, a quella contenziosa.

 

Si legittima così la prassi, seguita ormai in molti tribunali, di disporre anche in sede presidenziale per esempio una c.t.u. psicologica, ovvero indagini a mezzo servizi sociali, ove necessaria al fine di stabilire modalità di affidamento adeguate.

 

Poiché costituiscono provvedimenti concernenti i figli anche quelli di natura economica in ordine al loro mantenimento, si conferma anche la tesi che autorizza il giudice in sede presidenziale a richiedere accertamenti sui redditi degli obbligati se la documentazione depositata dalle parti con il ricorso e con le memorie difensive non consente una decisione in proposito.

 

Secondo la dottrina (Dosi) i difensori delle parti naturalmente – se pure il contraddittorio (come previsto dalle nuove norme processuali) non si è ancora compiutamente realizzato – potranno contraddire anche con propri consulenti di parte. Non si tratta, tuttavia, di una vera e propria anticipazione della prova (una sorta di incidente probatorio civile) dal momento che in sede contenziosa le parti avranno tempo fino all’udienza di prima comparizione e trattazione (e con i termini ivi previsti) per articolare tutte le loro richieste. Si tratta semplicemente di un potere correlato all’adozione di provvedimenti urgenti che esaurisce le sue conseguenze con l’adozione dei medesimi provvedimenti.

 

 

24. I poteri del giudice in materia di determinazione del contributo al mantenimento del minore.

 

In difetto di un accordo tra le parti circa l’eventuale determinazione di un contributo al mantenimento della prole, di cui già si è detto, il giudice dovrà, dapprima ipotizzare l’entità del diritto al mantenimento del figlio o dei figli, considerando i redditi dei genitori.

 

Egli dovrà valutare quindi le loro potenzialità economiche complessive, come emergono dai redditi di lavoro subordinato o autonomo e da ogni altra forma di reddito o utilità ivi compresi i cespiti patrimoniali produttivi o improduttivi di reddito, il valore dei beni mobili o delle partecipazioni societarie nonché gli altri proventi (sul tema v. da ultimo Cass., 4 aprile 2002, n. 4800).

 

Il giudice dovrà quindi procedere alla distribuzione di tale ammontare tra i due genitori in misura proporzionale ai redditi di ciascuno, tenendo presenti i tempi di permanenza dei figli presso ciascun genitore e remunerando specificamente il lavoro di cura, cioè, prevedendo una maggiorazione a favore del genitore che si prende cura quotidiana del figlio.

 

L’art. 5, comma nono, della legge sul divorzio attribuisce al «tribunale» il potere discrezionale, di effettuare indagini anche attraverso la polizia tributaria, in deroga al principio dell’onere della prova. La riforma (art. 155, ult. cpv., c.c.) – prendendo atto della prassi sviluppatasi in tal senso – attribuisce tale potere genericamente al «giudice» e, quindi, anche in sede presidenziale, non ostandovi la natura sommaria di questa fase, potendo sempre le parti nel contraddittorio introdurre formalmente lutte le loro richieste istruttorie.

 

Molto appropriata – ma già presente nella legge sul divorzio e viva nella prassi anche della separazione – è dunque la previsione contenuta nel sesto comma dell’art. 155, secondo cui il giudice, ove le informazioni di carattere economico fornite dai genitori non risultino sufficientemente documentate, possa disporre accertamenti tramite la polizia tributaria sui redditi e, ove vi sia contestazione sull’appartenenza o meno di beni di valore ai coniugi, sui beni oggetto della contestazione, anche se intestati a soggetti diversi.

 

Sembra quindi muovere i primi, timidi, passi la tendenza ad una certa «insofferenza» legislativa verso forme di sottrazione del proprio patrimonio alle pretese che si collochino nell’ambito del contenzioso familiare.

 

Il richiamo al concetto di «intestazione», invero, potrebbe forse indurre a rivedere (ma il discorso presupporrebbe ben altro approfondimento) posizioni tradizionalmente basate sul concetto giuridico di «appartenenza», al là dunque del fatto che i trasferimenti operati verso i terzi abbiano ad oggetto (asserite) situazioni di interposizione fittizia, o addirittura anche reale. Proprio su quest’ultimo punto cfr. Trib. Catania, 18 maggio 2006.

 

 

25. L’ascolto del minore.

 

Ai sensi dell’art. 155-sexies, primo comma, seconda parte, c.c.: «Il giudice dispone, inoltre, l’audizione del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento». Sarà interessante notare che la legge 80/2005, in vigore dal 1 marzo 2006, curiosamente prevede l’ascolto del minore in caso di divorzio (cfr. l’art. 4, comma ottavo, l.div.), ma non lo regolamenta in caso di separazione. Dal 16 marzo 2006 è però entrata in vigore anche la legge n. 54/2006, con il nuovo articolo 155-sexies c.c., che prevede, come appena detto, l’ascolto del minore, stabilendo che: «Prima dell’emanazione, anche in via provvisoria, dei provvedimenti di cui all’articolo 155, il giudice può assumere, ad istanza di parte o d’ufficio, mezzi di prova. Il giudice dispone, inoltre, l’audizione del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento». Come noto, in forza dell’articolo 4 della medesima legge, tale disposizione è applicabile ai procedimenti di divorzio, nonché ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati.

 

La Convenzione internazionale di New York del 20 novembre 1989 sui diritti dei minori, ratificata dall’Italia con la legge 27 maggio 1991, n. 176, prevede all’art.12 che il minore ha diritto di esprimere la sua opinione e di essere ascoltato nelle procedure che lo riguardano. Anche la Convenzione di Strasburgo sull’esercizio dei diritti del minore del 25 gennaio 1996, ratificata dall’Italia con la legge 10 marzo 2003, n. 77, prevede l’audizione del minore che abbia sufficiente discernimento nelle procedure che lo riguardano (per alcune osservazioni si veda il mio Breve prontuario per le cause che presentano elementi di estraneità (questioni processuali), par. 19).

 

La giurisprudenza ha più volte fatto applicazione di queste norme per richiamare l’esigenza che il diritto del minore ad essere ascoltato abbia applicazione effettiva. La legge sull’adozione prevede espressamente (tanto in relazione all’affidamento familiare, che all’adozione) che nel corso delle procedure di adozione il minore debba essere ascoltato obbligatoriamente dal giudice minorile quando ha superato i 12 anni e possa essere sempre ascoltato anche quando di età inferiore: cfr. artt. 4 e 12. Anche il giudice ordinario spesso già procede all’audizione del minore nelle procedure di separazione e divorzio sia pure al di fuori di indicazioni procedurali sul punto.

 

L’audizione forma oggetto di un obbligo («Il giudice dispone...») anche se non è escluso che la norma possa essere interpretata nella prassi nel senso che il giudice ha l’obbligo di disporre l’audizione del minore ma non ha l’obbligo egli stesso di ascoltarlo, potendo farlo ascoltare da terzi (per esempio da un consulente o da operatori dei servizi sociali). Difficilmente la prassi dell’audizione indiretta sarà sostituita nel prossimo futuro nelle cause di separazione e di divorzio da una opzione massiccia dei giudici verso forme di audizione diretta dei minori nelle aule di giustizia, per lo meno finché il legislatore non avrà chiarito le modalità con le quali procedere nel corso di una causa all’audizione del minore.

 

Sarà, quindi, soprattutto la prassi ad indicare le modalità e i contenuti dell’audizione. Di certo l’ascolto del minore – anche considerando le necessarie differenziazioni determinate da età diverse – non è necessariamente nel processo civile un’audizione mirata (come in sede penale) ma soprattutto l’opportunità per il giudice di dare al minore voce nel procedimento per consentirgli di esprimere la propria opinione.

 

I genitori sono assistiti dai propri difensori, anche nell’intera fase presidenziale (così impone il nuovo testo degli articoli 707, comma terzo, c.p.c. e 4, comma settimo, della legge sul divorzio). Il minore non è, invece, parte nel procedimento – a differenza di quanto avviene nei procedimenti sulla potestà (Corte cost. 30 gennaio 2002, n. 1) – e, secondo una lontana ma condivisibile considerazione della Corte costituzionale (Corte cost. 14 luglio 1986, n. 185) è del tutto legittimo che non abbia un curatore speciale o un proprio difensore.

 

D’altro lato è opportuno che nel processo di separazione siano i genitori ad occuparsi dei loro figli. Si pone, perciò, il problema se i genitori (e i loro difensori) devono essere ammessi all’audizione del minore o se il giudice debba procedere a tale adempimento senza la loro presenza. L’assenza dei genitori (e dei loro difensori) se, da un lato, potrebbe preoccupare il minore che si può sentire disorientato dalla loro mancata presenza all’audizione, dall’altro potrebbe rendere più spontanee le sue dichiarazioni. Il tema non potrà, comunque, essere eluso e, secondo quanto proposto in dottrina (cfr. Dosi), nei prossimi mesi l’avvocatura e la magistratura dovranno impegnarsi per definire anche in sede civile, come in sede penale, un protocollo di audizione che sia adeguato rispetto ai fini che l’ascolto del minore si propone e rispettoso delle esigenze e dei diritti di tutti i protagonisti del processo civile.

 

Illustrato quanto sopra in linea generale vediamo nel dettaglio (secondo quanto suggerito in dottrina da Facchini) quali norme, prima dell’introduzione di quella in commento, prevedevano l’ascolto del minore nelle procedure familiari.

 

·       L’art. 145, comma primo comma, c.c., nel titolo relativo ai diritti e doveri che nascono dal matrimonio recita: «In caso di disaccordo (sull’indirizzo della vita familiare e residenza della famiglia) ciascuno dei coniugi può chiedere, senza formalità, l’intervento del giudice il quale, sentite le opinioni espresse dai coniugi e, per quanto opportuno, dai figli conviventi che abbiano compiuto il sedicesimo anno, tenta di raggiungere una soluzione concordata». Questa disposizione riconosce dunque al minore il diritto di esprimere la propria opinione in generale sulle questioni familiari che non lo riguardino direttamente al compimento dei sedici anni.

 

·       Parzialmente diverso è il disposto dell’art. 316, comma quinto, c.c. relativamente all’esercizio della potestà genitoriale, il quale dispone  che: «Il giudice (Tribunale per i Minorenni) sentiti i genitori ed il figlio, se maggiore degli anni quattordici, suggerisce le determinazioni che ritiene più utili nell’interesse del figlio e dell’unità familiare. Se il contrasto permane il giudice attribuisce il potere di decisione a quello dei genitori che nel singolo caso, ritiene il più idoneo a curare l’interesse del figlio». Si direbbe quindi che, quando i contrasti familiari riguardano direttamente il figlio, questi abbia la capacità di esprimere la propria opinione già a 14 anni.

 

·       L’età sale ancora a 16 anni nel caso previsto dall’art. 348, comma terzo, c.c. che dispone che in merito alla scelta del tutore il giudice deve sentire il minore «che abbia raggiunto l’età di anni sedici», mentre l’art. 371 c.c., trattando dei provvedimenti circa l’educazione e l’amministrazione del minore, dispone che: «Compiuto l’inventario, il giudice tutelare, su proposta del tutore e sentito il protutore delibera: sul luogo dove il minore deve essere allevato e sul suo avviamento agli studi o all’esercizio di un’arte, mestiere o professione, sentito lo stesso minore se ha compiuto gli anni dieci e richiesto, quando è opportuno l’avviso dei parenti prossimi». Si deve dedurre quindi che, sin dal compimento dei dieci anni, il minore è in grado di esprimere quantomeno i propri desideri  relativamente a dove (e da chi) vuole essere allevato ed al tipo di studi che vuole compiere.

 

·       Vi è poi, nelle norme dedicate alla filiazione, il caso delicato previsto dall’art. 250 c.c. (richiesta al tribunale del consenso al riconoscimento del figlio naturale negato dal genitore che per primo ha riconosciuto il minore). La fattispecie richiamata prevede al secondo comma che: «Il riconoscimento del figlio che ha compiuto i sedici anni non produce effetto senza il suo assenso». Il quarto comma dell’articolo citato regola poi il caso – il più delicato di quelli sin qui esaminati – in cui è previsto che prima della decisione il Tribunale debba procedere all’ascolto del minore in contraddittorio con il genitore che si oppone al riconoscimento. In quest’ipotesi si badi che non è prevista alcuna età minima per il minore che è chiamato ad esprimere il proprio parere sul secondo riconoscimento. Si noterà che questa è la situazione più simile, sotto il profilo psicologico, a quella del minore che si trovi a dover esprimere il proprio parere sulla sua collocazione principale o sul diritto di visita al genitore non collocatario, in caso di separazione e divorzio.

 

·       Venendo alle leggi speciali ed iniziando dalla riforma del divorzio di cui alla legge n. 74 del 1987, non va dimenticato che, tale disciplina, è stato modificato l’art. 4 della legge n. 898 del 1970, introducendo al comma ottavo la seguente previsione: «Se il coniuge convenuto  non compare o se la conciliazione non riesce, il presidente, sentiti, qualora lo ritenga strettamente necessario anche in considerazione della loro età, i figli minori, dà, anche d’ufficio, con ordinanza i provvedimenti temporanei e urgenti che reputa opportuni nell’interesse dei coniugi e della prole, nomina il giudice istruttore e fissa l’udienza di comparizione delle parti dinanzi a questo. L’ordinanza del presidente può essere revocata o modificata dal giudice istruttore a norma dell’art. 177 del Codice di procedura civile. Si applica l’art. 189 delle disposizioni di attuazione del Codice di procedura civile».

 

o     E’ anche necessario ricordare che, in forza dell’art. 23, l. n. 74 del 1987, «Fino all’entrata in vigore del nuovo testo del Codice di procedura civile, ai giudizi di separazione personale dei coniugi si applicano, in quanto compatibili, le regole di cui all’art. 4 della legge 1 dicembre 1970, n. 898, come sostituito dall’art. 8 della presente legge. I giudizi di separazione personale e di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio pendenti, in ogni stato e grado, alla data di entrata in vigore della presente legge saranno definiti secondo le disposizioni processuali anteriormente vigenti. L’impugnazione delle sentenze di separazione personale e di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio pubblicate prima dell’entrata in vigore della presente legge resta regolata dalla legge anteriore».

 

·       In materia di adozione, la legge 28 marzo 2001, n. 149, contenente modifiche alla legge 4 maggio 1983 n. 184 sull’adozione, già entrata in vigore per ciò che attiene alle parti di diritto sostanziale, e in attesa – da ben cinque anni – di un provvedimento legislativo integrativo relativo alla difesa d’ufficio, che ne consenta l’operatività per la parte processuale, introduce un concetto nuovo e assolutamente rivoluzionario, rispetto alla precedente normativa interna, circa la posizione del minore nei procedimenti di adottabilità, nonché in quelli  camerali contenziosi avanti al Tribunale per i Minorenni relativi alla ablazione, limitazione o regolamentazione della potestà, sancendone la posizione di parte processuale.

 

o     Vediamo dunque nel dettaglio le disposizioni della legge, partendo da quanto previsto per l’affidamento familiare, che, a norma dell’art. 4, comma primo, l. n. 184/83, come modificata dalla legge n. 149 del 2001, «è disposto dal servizio sociale locale, previo consenso manifestato dai genitori o dal genitore esercente la potestà, ovvero dal tutore, sentito il minore che ha compiuto gli anni 12 e anche il minore di età inferiore in considerazione della sua capacità di discernimento». E’ in questa norma che si fissa per la prima volta il principio, che poi troveremo ripetuto allo stesso modo nelle riforme  in commento, secondo il quale il minore può – deve – essere sentito, in ordine al suo affidamento eterofamiliare, se ha compiuto i dodici anni e anche prima, ove si accerti la sua capacità di discernimento.

 

o     La previsione dell’ascolto dopo i dodici anni – o anche prima a seconda della capacità di discernimento del minore – si ritrova quindi anche nei seguenti articoli: art. 10, comma quinto, che prevede la conferma, modifica o revoca, entro trenta giorni dall’emissione, dei provvedimenti urgenti emessi dal tribunale, previa audizione del minore, art. 15 comma secondo, che dispone l’ascolto del minore prima della dichiarazione di adottabilità; art. 22, comma sesto che in materia di affidamento preadottivo richiede, prima della sua pronuncia a favore della coppia degli adottanti, di sentire il minore che abbia compiuto i dodici anni o anche più giovane ove la sua capacità di discernimento lo consenta e di acquisire il consenso del minore ultra quattordicenne; art. 23, che dispone identicamente in caso di revoca dell’affidamento preadottivo; art. 25 che dispone in merito alla adozione a conclusione dell’anno di affido preadottivo ed infine all’art. 45, comma secondo, che tratta della adozione in casi particolari e prevede che «se l’adottando ha compiuto gli anni 12 deve essere personalmente sentito; se ha un’età inferiore, deve essere sentito, in considerazione della sua capacità di discernimento».

 

o     La rivoluzione copernicana è però sancita dall’art. 8, comma quarto, l. n. 184/83 come modificata dalla l. n. 149/01, la quale statuisce che «il procedimento di adottabilità deve svolgersi fin dall’inizio con l’assistenza legale del minore e dei genitori o degli altri parenti di cui al comma 2 dell’articolo 10» e dall’art. 336, ultimo comma, c.c. come modificato dall’art. 37, l. n. 149/01: relativamente alla potestà dei genitori  che sancisce che: «Per i provvedimenti di cui ai commi precedenti i genitori e il minore sono assistiti dal difensore, anche a spese dello stato nei casi previsti dalla legge». E’ opportuno sottolineare che, nel giugno 2006 è stato approvato il decreto c.d. «milleproroghe», che prevede il rinvio al 30 giugno 2007 dell’entrata in vigore della parte processuale della legge.

 

·         Venendo ora alle convenzioni internazionali potrà iniziarsi con la già ricordata Convenzione internazionale di New York del 20 novembre 1989 sui diritti dei minori (ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 27 maggio 1991 n. 176), che stabilisce all’articolo 12: «Gli Stati parti garantiscono al fanciullo capace di discernimento il diritto di esprimere liberamente la sua opinione su ogni questione che lo interessa, le opinioni del fanciullo essendo debitamente prese in considerazione tenendo conto della sua età e del suo grado di maturità. A tale fine, si darà in particolare al fanciullo la possibilità di essere ascoltato in ogni procedura giudiziaria e amministrativa che lo concerne, sia direttamente, sia tramite un rappresentante o un organo appropriato».

 

·         Da una interpretazione letterale, sembrerebbe che l’art. 12 abbia introdotto una previsione generalizzata dell’ascolto. Ma per lungo tempo dottrina e giurisprudenza si sono divise sul punto, sostenendo due diverse tesi:

§       l’articolo 12 è norma programmatica e, quindi, subordinata all’esistenza nell’ordinamento interno di ogni Stato che ha ratificato la Convenzione di organi e procedure indispensabili per una corretta applicazione. Spetta pertanto alla valutazione discrezionale del Giudice la scelta di disporre o meno l’ascolto del minore. Si è così affermato che l’art. 12 Sembra esprimere una mera tendenza o una linea direttiva o una guida, concretando una disposizione precettiva, assoluta, cogente, completa od autosufficiente (o self executing), avente per destinatari non i cittadini ma gli Stati Parti, obbligati ad attuare e in concreto, con disposizioni minute e particolareggiate, le linee direttive e le norme programmatiche astratte e generali della Convenzione».

§       l’articolo 12 è precetto d’applicazione immediata, poiché gli Stati che hanno recepito nel loro ordinamento detta Convenzione si sono impegnati a rispettare il diritto del «fanciullo capace di discernimento» di esprimere la propria opinione nei procedimenti che lo riguardano, attraverso il suo ascolto diretto o tramite un rappresentante, o organo appropriato. L’articolo 12 integra la disciplina del codice o delle leggi speciali in materia. Ne consegue che l’ascolto del minore capace di discernimento è diventato obbligatorio, oltre che nei casi espressamente indicati dal nostro ordinamento, ogni volta che il Tribunale Ordinario, il Tribunale per i Minorenni e Giudice Tutelare debbano assumere provvedimenti che incidano sulla sfera personale o sul patrimonio del minore.

 

·         Anche la Convenzione di Strasburgo sull’esercizio dei diritti del minore del 25 gennaio 1996, ratificata dall’Italia con legge 20 marzo 2003, n. 77, prevede, all’articolo 3 un vero e proprio ascolto informato e agli articoli 4 e 9 il diritto del minore di avere un suo rappresentante, qualora vi sia conflitto di interessi con i genitori, nei procedimenti che lo riguardano. Si deve però rilevare che la citata legge di attuazione ha reso la convenzione applicabile a giudizi perlopiù residuali, escludendo dal suo ambito di applicazione invece la separazione, il divorzio, le procedure in materia di potestà  e l’adozione, contrariamente a quanto avvenuto negli altri paesi.

 

·         Occorrerà poi tenere presente che con la sentenza interpretativa di rigetto n. 1/2002 la Corte Costituzionale, pur dichiarando inammissibile e infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 336, comma secondo, c.c., sollevata dalle Corti d’Appello di Torino e di Genova, con riferimento agli artt. 3, 31 e 111 Cost., nella parte in cui non prevedono  che, nei procedimenti ablativi o modificativi della potestà genitoriale, siano sentiti il minore ultradodicenne e, se opportuno, anche quello di età  inferiore, ha operato un’apertura interpretativa di enorme rilievo.

 

o       La Corte ha, infatti, affermato che «Per quanto specificamente concerne il contraddittorio come diritto di partecipare allo svolgersi del procedimento, ed in particolare a quella specifica attività istruttoria che è l’audizione ad opera del giudice, il rimettente – pur richiamandosi alla Convenzione sui diritti del fanciullo resa esecutiva con legge n. 176/91, e quindi dotata di efficacia imperativa nell’ordinamento interno – non considera che l’art. 9 comma 2 di essa (ai sensi del quale tutte le parti interessate devono avere la possibilità di partecipare alle deliberazioni e far conoscere le proprie opinioni) pone una disciplina complementare rispetto alla previsione della norma impugnata (che prevede solo l’audizione del genitore contro cui il provvedimento è richiesto), onde dal coordinamento tra le due norme deriva, allo stato dell’evoluzione legislativa, che nel procedimento in esame devono essere sentiti entrambi i genitori». Continua la Corte affermando che l’art. 12 della citata Convenzione sui diritti del fanciullo, «è idoneo ad integrare la disciplina dell’art. 336, comma 2, c.c., nel senso di configurare il minore come “parte” del procedimento, con la necessità del contraddittorio nei suoi confronti, se del caso previa nomina di un curatore speciale ai sensi dell’art. 78 c.p.c.».

 

o       Quindi la Corte Costituzionale ritiene che la disciplina convenzionale sia tout court applicabile al diritto interno, senza necessità di un provvedimento attuativo, e risolve così la diatriba di cui si è dato conto sopra. Ovviamente, poiché la pronuncia è interpretativa di rigetto e pertanto non vincolante, il suo disposto è rimasto ad oggi pressoché inattuato anche in mancanza di una disciplina specifica per la difesa d’ufficio in materia minorile civile.

 

·         Molto importante, in quest’ottica, è il regolamento comunitario n. 2201 del 27 novembre 2003 relativo alla competenza, al riconoscimento, all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, che abroga il regolamento n. 1347 del 2000 (su cui v. il mio Breve prontuario per le cause che presentano elementi di estraneità (questioni processuali), par. 18).

 

o       Tale fondamentale normativa, all’art. 23, lettera b), prevede che «Le decisioni relative alla responsabilità genitoriale non sono riconosciute nei casi seguenti b) (…) se, salvo i casi di urgenza, la decisione è stata resa senza che il minore abbia avuto la possibilità di essere ascoltato, in violazione dei principi fondamentali di procedura dello stato membro richiesto».

 

o       Questo è sicuramente l’elemento dirimente nel dibattito, perché in mancanza di ascolto o di una motivazione stringente ed inoppugnabile che escluda la necessità dell’ascolto, la sentenza non sarà eseguibile nei paesi membri dell’Unione Europea. Il problema, si badi, non riguarda solo le coppie miste, perché può ben accadere che uno dei coniugi, seppure cittadino italiano già maritato/a ad italiano decida, successivamente alla separazione di trasferirsi definitivamente o temporaneamente all’estero magari portando con sé i figli e ben può accadere che il provvedimento del giudice italiano debba essere messo in esecuzione nel paese comunitario, cosa impossibile se il provvedimento non faccia cenno in alcun modo al tema dell’ascolto.

 

o       Sarà quindi utile suggerire (cfr. Facchini) ai legali di formalizzare in ogni caso nelle conclusioni la richiesta di ascolto del minore  anche ai sensi dell’articolo 23, regolamento CE  2201 del 2003, sollecitando poi il giudice, che non ritenesse di dover, per le più svariate ragioni, procedere effettivamente all’ascolto, a motivare ampiamente il suo diniego, ad esempio affermando che la volontà del minore si ricava aliunde, in modo da rendere la sentenza eseguibile.

 

 

26. La mediazione familiare.


Ai sensi dell’art. 155-sexies, secondo comma, c.c.: «Qualora ne ravvisi l’opportunità, il giudice, sentite le parti e ottenuto il loro consenso, può rinviare l’adozione dei provvedimenti di cui all’articolo 155 per consentire che i coniugi, avvalendosi di esperti, tentino una mediazione per raggiungere un accordo, con particolare riferimento alla tutela dell’interesse morale e materiale dei figli».

 

La riforma viene così ad introdurre nel codice civile un secondo riferimento esplicito alla mediazione familiare (il primo è contenuto all’art. 342-ter c.c.) e consacra una prassi recepita da molti tribunali (cfr. ad es. Trib. Bari, 21 novembre 2000, in Fam. dir., 2001, p. 72).

 

Resta il fatto che i servizi di mediazione familiare, cui fa richiamo anche l’art. 4, l. 28 agosto 1997, n. 285, benchè largamente diffusi sia privatamente, che a livello dei servizi territoriali pubblici, non hanno ancora una loro disciplina normativa.

 

La questione si iscrive nel ben più vasto tema dei «modi alternativi di soluzione delle controversie» (o, secondo la dizione inglese, Alternative Dispute Resolutions – A.D.R.), ampiamente discussa anche a livello sovranazionale. Sul punto si può far rinvio a quanto illustrato dallo scrivente nel già ricordato Breve prontuario per le cause che presentano elementi di estraneità (questioni processuali), par. 22.

 

 

 

VII

MODIFICABILITA’ E RECLAMABILITA’ DEI PROVVEDIMENTI

 

 

27. Il principio di modificabilità di tutte le decisioni attinenti alla prole.

 

Ai sensi dell’art. 155-ter c.c., «I genitori hanno diritto di chiedere in ogni tempo la revisione delle disposizioni concernenti l’affidamento dei figli, l’attribuzione dell’esercizio della potestà su di essi e delle eventuali disposizioni relative alla misura e alla modalità del contributo».

 

Già nel testo del previgente art. 155 c.c. era previsto il principio di modificabilità di tutte le decisioni in materia di rapporti tra genitori e figli. Si tratta di un principio generale che trova applicazione processuale nelle norme che consentono in corso di causa di richiedere sempre al giudice che procede la modifica dei provvedimenti (art. 709, comma terzo, c.p.c. e art. 4, comma 8, seconda parte, della legge sul divorzio) e, dopo il giudicato, nelle procedure di revisione di cui all’art. 710 c.p.c. e all’art 9, comma primo, della legge sul divorzio,

 

La competenza territoriale, per i procedimenti di modifica e di revisione introdotti dopo il giudicato, appartiene al tribunale del luogo ove è residente il minore (art. 709-ter c.p.c. come modificato dall’art. 2 della legge 54/2006), dal momento che si tende a mantenere la competenza nel luogo (love sono radicate le abitudini di vita del minore e dove sono ubicati gli eventuali servizi territoriali che possono essere di ausilio nel procedimento.

 

Questa disposizione sulla competenza non comporta particolari problemi – benché possa apparire problematica – in quanto chi intende promuovere nei confronti del coniuge trasferitosi altrove un giudizio di revisione sia dell’assegno di separazione sia dell’affidamento del figlio minore potrà instaurare un unico giudizio e utilizzare il foro del convenuto se il figlio risiede con il coniuge convenuto o il forum solutionis, cioè, quello del ricorrente, se il figlio minore risiede con lui.

 

Il convenuto, invece, può sempre formulare in via riconvenzionale la sua domanda che, ai sensi dell’art. 36 c.p.c. rimane di competenza del giudice adito dal ricorrente.

 

 

28. La reclamabilità dei provvedimenti presidenziali.

 

Ai sensi dell’art. 708, ult. cpv., c.c., come riformato dall’art. 2 della legge sull’affidamento condiviso, «Contro i provvedimenti di cui al comma precedente si può proporre reclamo con ricorso alla Corte d’Appello che si pronuncia in camera di consiglio. Il reclamo deve essere proposto nel termine perentorio di dieci giorni dalla notificazione del provvedimento».

 

A distanza di pochi mesi dalla riforma processuale entrata in vigore il l° marzo 2006 viene introdotta tale nuova disposizione, destinata a suscitare gravi problemi di coordinamento con il sistema di impugnazioni vigente.

 

Innanzi tutto non viene chiarito, invero, a chi spetti la notificazione. Secondo taluno, considerato che si tratta di reclami in corso di causa, sarebbe logico ritenere che la notifica debba avvenire a cura della cancelleria ai sensi degli articoli 137 e 170 c.p.c. e non a cura di parte ex art. 285 c.p.c., riferibile al termine breve per l’impugnazione delle sentenze e nemmeno ai sensi dell’art. 739 c.p.c., che si riferisce all’impugnazione dei provvedimenti camerali. In entrambi casi, si rimarca, si tratta di provvedimenti che definiscono un procedimento. Avuto peraltro riguardo alla tassatività delle ipotesi in cui la cancelleria è tenuta ad operare notificazioni, non potrà che aderirsi alla tesi di chi afferma che la notifica deve avvenire a cura di parte.

 

Poiché il terzo comma dell’art. 708 c.p.c. – cui fa riferimento la disposizione appena citata – prescrive che «i provvedimenti temporanei ed urgenti assunti dal presidente con l’ordinanza di cui al terzo comma dell’articolo 708 possono essere revocati o modificati dal giudice istruttore», si potrehbe ipotizzare che la reclamabilità riguardi sia i provvedimenti presidenziali che quelli del giudice istruttore. Tuttavia la norma sulla reclamabilità ha natura eccezionale – rispetto al principio generale che i provvedimenti espressamente dichiarati revocabili e modificabili non sono impugnabili – e del tutto plausibilmente si riferisce perciò ai soli provvedimenti presidenziali.

 

Non sono perciò reclamabili i provvedimenti del giudice istruttore, perché sempre modificabili e revocabili in corso di causa in base a quanto dispone l’art. 177 c.p.c. Come rilevato in dottrina (cfr. Dosi), una contraria interpretazione, comunque, che considerasse reclamabili anche i provvedimenti del giudice istruttore sarebbe eccessivamente estensiva e darebbe spazio ad un contenzioso che le corti d’appello non potrebbero affrontare. In senso contrario v. però Trib. Trani, 18 aprile 2006, che ha ammesso il reclamo cautelare.

 

Deve poi contestarsi l’idea secondo cui tra reclamabilità e modificabilità dei provvedimenti vi sarebbe una possibile sovrapposizione. Proprio l’introduzione del reclamo, invece, deve indurre all’applicazione dei principi generali di tale materia, che trovano sanzione nella norma di cui all’art. 669-decies c.p.c., in combinato disposto con l’art. 669-terdecies, terzo comma, c.p.c., in materia cautelare, da cui si evince che il rimedio del reclamo non può servire a far valere la sopravvenienza (se non nel caso di circostanze sopravvenute alla proposizione del giudizio di reclamo stesso).

 

La revoca (così come la modifica) andrà così ammessa nei soli casi in cui si facciano valere circostanze sopravvenute (ovvero preesistenti, ma di cui si alleghi e dimostri che la parte non era a conoscenza), consegnando invece al reclamo la funzione di una revisio prioris instantiae, sulla base dei soli fatti dedotti in fase presidenziale.

 

Secondo la dottrina (cfr. Dosi) reclamo introduce un subprocedimento davanti alla Corte d’appello ma, non essendovi una norma apposita, non comporta la sospensione del processo con la conseguenza che la causa può procedere per la trattazione.

 

 

 

VIII

L’ART. 709-TER C.P.C.

 

29. Gli interventi ex art. 709-ter c.p.c.: generalità; la competenza.

 

La riforma sull’affidamento condiviso ha, come noto, introdotto l’art. 709-ter c.p.c., il quale dispone quanto segue.

 

«Art. 709-ter. – (Soluzione delle controversie e provvedimenti in caso di inadempienze o violazioni). Per la soluzione delle controversie insorte tra i genitori in ordine all’esercizio della potestà genitoriale o delle modalità dell’affidamento è competente il giudice del procedimento in corso. Per i procedimenti di cui all’articolo 710 è competente il tribunale del luogo di residenza del minore.

    A seguito del ricorso, il giudice convoca le parti e adotta i provvedimenti opportuni. In caso di gravi inadempienze o di atti che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità dell’affidamento, può modificare i provvedimenti in vigore e può, anche congiuntamente:

        1) ammonire il genitore inadempiente;

        2) disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti del minore;

        3) disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti dell’altro;

        4) condannare il genitore inadempiente al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria, da un minimo di 75 euro a un massimo di 5.000 euro a favore della Cassa delle ammende.

    I provvedimenti assunti dal giudice del procedimento sono impugnabili nei modi ordinari».

 

Per uno tra i primi esempi di provvedimento di ammonimento cfr. Trib. Catania, 11 luglio 2006.

 

Per quanto attiene alla competenza, la riforma prevede

·         che la soluzione delle controversie tra i genitori «in ordine all’esercizio della potestà genitoriale o delle modalità dell’affidamento» è demandata al «giudice del procedimento in corso», su ricorso di uno dei genitori.

·         Se la controversia insorge, invece, dopo il giudicato, il genitore interessato potrà azionare le consuete procedure di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio (rispettivamente art. 710 c.p.c. e art. 9, comma primo, legge sul divorzio) e la competenza sarà del tribunale.

 

Nel caso il giudice del procedimento in corso sia la corte d’appello o la Corte Suprema di Cassazione, se la lettera della norma induce a ritenere che anche di fronte a tali uffici si potranno discutere le questioni in oggetto, rimane il fatto che nel primo caso si perderà un grado di giudizio, mentre nel secondo non è addirittura ammessa alcuna impugnazione. Stupefacente è poi che la Cassazione si debba occupare di questioni prettamente di merito, quali quelle sopra descritte.


Per quanto attiene poi all’organo, in ogni caso, competente per siffatto tipo di provvedimenti ritengo che il riferimento al giudice del procedimento in corso, contrariamente a quanto statuito dal Tribunale di Modena, con suo provvedimento in data 7 aprile 2006 (in D&G, 14 aprile 2006, con commento di Bulgarelli), non può che far pensare al collegio e non certo all’istruttore.


Quindi la riforma sembra attribuire anche dopo il giudicato al tribunale la funzione di risoluzione delle controversie; non più solo delle modifiche e delle revisioni. In caso di ricorso al giudice del merito nel corso della causa, si apre un subprocedimento, nel quale il giudice risolverà il contrasto adottando le misure opportune potendo anche – come prevede la riforma espressamente – modificare i provvedimenti in vigore.

 

In linea con le indicazioni che da anni i giuristi e la prassi vanno proponendo in ordine alle problematiche relative all’attuazione dei provvedimenti e nella direzione già a suo tempo indicata dalla legge sul divorzio (art. 6, comma decimo: all’attuazione dei provvedimenti relativi all’affidamento della prole «provvede il giudice del merito»), la riforma prevede che la soluzione delle controversie tra i genitori in ordine all’esercizio della potestà, sono risolte dal «giudice del procedimento in corso» su ricorso di uno dei genitori.

 

Si aprirà, perciò, come detto, un subprocedimento – interno alla causa di separazione, di divorzio o di affidamento dei figli naturali – nel quale il giudice risolverà il contrasto adottando le misure opportune e potendo, naturalmente, se richiesto, anche modificare i provvedimenti in vigore. Il procedimento, quanto a modalità di gestione o a mezzi di prova utilizzabili, non ha regole processuali diverse da quelle che disciplinano qualsiasi subprocedimento conseguente ad una richiesta rivolta al giudice istruttore di modificare un precedente provvedimento (art. 177 c.p.c.).

 

Salvo prassi orientate in modo diverso dovrebbe venir meno, quindi, la competenza del giudice tutelare. La tradizionale funzione risolutiva delle controversie attribuita al giudice tutelare passa al giudice del merito o al tribunale ex art. 710 c.c. dopo il giudicato. La decisione del giudice istruttore modificativa dell’assetto vigente e la decisione del tribunale nel processo di revisione potranno essere reclamate davanti alla Corte d’appello.

 

Il giudice tutelare, tuttavia, in base all’art. 337 c.c. – tuttora vigente – conserva però la propria competenza di vigilanza sulle condizioni che il tribunale abbia stabilito per l’esercizio della potestà. Se, quindi, la controversia insorge dopo il giudicato di separazione o di divorzio il genitore interessato potrà sempre rivolgersi al giudice tutelare per la soluzione della controversia salvo a dover ricorrere al tribunale ex art. 710 c.p.c. o 9 legge divorzio ove intendesse modificare i provvedimenti e non solo risolvere una controversia.

 

Il giudice – in corso di causa o in sede di modifica (ma non il giudice tutelare) – non si limiterà, però, alla sola soluzione della controversia portata alla sua attenzione. Qualora egli riscontri gravi inadempienze o atti che arrecano pregiudizio al minore potrà anche adottare provvedimenti di tipo sanzionatorio.

 

 

30. Gli interventi ex art. 709-ter c.p.c.: i provvedimenti di tipo sanzionatorio.

 

Il giudice non si limiterà, però, alla sola soluzione della controversia portata alla sua attenzione. Qualora egli riscontri gravi inadempienze o atti che arrecano pregiudizio al minore potrà anche adottare provvedimenti di tipo sanzionatorio.

 

La riforma introduce con l’art. 709-ter c.p.c. un vero e proprio rebus processuale. Secondo taluni si tratterebbe di una vistosa eccezione – verosimilmente destinata a creare più di un problema – alla regola secondo cui i provvedimenti di condanna sono adottati dal giudice all’esito di un giudizio ordinario e nel contraddittorio tra le parti. Il procedimento prevederebbe solo la fase decisoria con l’ammonizione del genitore inadempiente o con la possibile condanna al risarcimento dei danni in favore dell’altro genitore o del minore ovvero di una sanzione che può giungere fino a 5000 euro a favore della Cassa delle ammende.

 

A dire il vero la previsione del risarcimento dei danni era anche contenuta, per il caso in cui il trasferimento di residenza di un genitore ostacolasse i diritti dell’altro genitore, nell’ultimo comma dell’art. 6 della legge sul divorzio, ma non aveva mai trovato applicazione.

 

Ora, a mio avviso, non vi è dubbio che un’interpretazione del genere di quella testé esposta esporrebbe la riforma ad un’immediata declaratoria di incostituzionalità per violazione dell’art. 24 Cost. Come rilevato da autorevole dottrina, invero, il precetto costituzionale impone che per la tutela dei diritti soggettivi la decisione intervenga a cognizione piena e sulla base di un provvedimento idoneo al giudicato.

 

Deve quindi affermarsi che il giudice cui fa richiamo la norma in oggetto non può essere se non il tribunale e non certo il giudice istruttore e che la decisione che lo stesso emetterà dovrà comunque avere natura e forma di sentenza, da emettersi al termine di un giudizio a cognizione piena. Nella specie si tratterà di una sentenza parziale emessa congiuntamente (come richiesto dallart. 709-ter cit.) all’eventuale ordinanza di modifica dei provvedimenti in vigore, ma comunque da essa distinta e (sempre come richiesto dall’art. cit.) impugnabile nei modi ordinari, cioè appunto, come una sentenza (inutile aggiungere che le medesime conclusioni andrebbero predicate anche se il provvedimento avesse una veste formale diversa, atteso il noto principio, costantemente seguito dalla giurisprudenza di legittimità, della prevalenza della sostanza sulla forma).

 

Un ulteriore problema attiene al carattere esclusivo della procedura delineata (si fa per dire) dalla norma in oggetto, ovvero alla sua possibile alternatività rispetto ad un’azione risarcitoria proposta in via autonoma con rito ordinario: la lettera dell’art. 709-ter c.p.c. sembrerebbe (ma il condizionale è d’obbligo) imporre per l’azione risarcitoria il ricorso al procedimento speciale solo allorquando la pretesa sia strettamente legata a (e dipendente da) una controversia sull’esercizio della potestà genitoriale o delle modalità di affidamento, insorta nel corso di una procedura, attualmente ancora pendente, di separazione, divorzio (o di modifica delle relative condizioni), di annullamento del matrimonio, o, ancora, tra genitori naturali ex art. 317-bis c.c. Negli altri casi dovrebbero invece valere, a contrariis, le regole di competenza ordinarie.

 

Per quanto attiene ai rimedi, avrei più di un dubbio sulla applicabilità (cfr. ad es. Bulgarelli), suggerita da taluno, del reclamo al collegio ex art. 178 c.p.c. Invero, dopo la riforma del 1990 che ha abolito il reclamo al collegio su ordinanze sui mezzi istruttori, rimane l’unica ipotesi dell’ordinanza che dichiara l’estinzione del processo (art. 178 cpv. c.p.c.). La fattispecie di cui al primo comma dell’art. 178 c.p.c., invece, attiene alla fase della decisione della causa e non autorizza (a mio avviso) ad immaginare la possibilità di proporre al collegio le questioni risolte dal G.I. sotto forma di impugnazione prima che il thema decidendum nel suo complesso sia rimesso, per l’appunto, al Collegio per la decisione.

 

A mio modo di vedere sicuramente il provvedimento emesso dal G.I. sarà invece revocabile ex art. 177 c.p.c., ma, se si parte dal presupposto che le decisioni, quanto meno quelle irroganti sanzioni, vanno emesse in forma di sentenza, l’impugnazione «ordinaria» non potrà essere costituita se non dall’appello.

 

 

 

IX

ACCORDI TRA CONVIVENTI

E DIRITTI DEL MINORE NATURALE,

ALLA LUCE DELLA RIFORMA

SULL’AFFIDAMENTO CONDIVISO

 

 

31. Contratti di convivenza e modelli europei.

 

La regolamentazione per via di convenzione delle convivenze more uxorio non rappresenta, contrariamente a quello che si può ritenere, una novità di questi ultimi anni: le ricerche storiche mostrano la presenza di contratti tra conviventi risalenti addirittura al Medioevo; d’altro canto lo stesso atteggiamento tenuto per lunghi anni dai Parlamenti francesi durante l’Ancien Régime nei confronti delle donazioni alle concubine, viste come donazioni remuneratorie e quindi in qualche modo salvate dalla taccia di contrarietà all’ordine pubblico che secondo alcuni le inficiava, la dice lunga su una sensibilità che nel corso dei secoli è andata via via maturando nei confronti di queste relazioni (cfr. per tutti Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, Milano, 1999, p. 1 ss., 151 ss.; Id., Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, Padova, 2003, p. 1 ss.).

Se ci avviciniamo ai giorni, nostri constatiamo che la questione a livello europeo ha cominciato ad essere approfonditamente discussa già alcune decine d’anni fa. Già tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta del secolo scorso i notai tedeschi, così come quelli olandesi e belgi, curavano pubblicazioni ed organizzavano convegni diretti all’approfondimento dei temi legati ai contratti di convivenza e ai rapporti patrimoniali nella famiglia di fatto. Nel 1985 l’Unione Internazionale dei Magistrati, in un convegno tenuto ad Oslo (e che segnò l’inizio della collaborazione dello scrivente con questo organismo), emise una conclusione (cfr. il sito: www.iaj-uim.org) con cui si invitavano le persone conviventi more uxorio a regolamentare in maniera pattizia i loro rapporti patrimoniali. Risale al 1988 una raccomandazione del Consiglio d’Europa (la numero 3 di quell’anno) diretta a far sì che le legislazioni dei vari Stati non considerino nulli i contratti (così come le disposizioni testamentarie) conclusi nell’ambito della famiglia di fatto, sol perché stipulati tra persone conviventi more uxorio (cfr. la Recommendation N° R(88)3 of the Committee of Ministers to Member States on the validity of contracts between persons living together as un unmarried couple and their testamentary dispositions, adottata dal Comitato dei Ministri il 7 marzo 1988, disponibile al sito web seguente:

http://www.coe.int/t/e/legal_affairs/legal_co-operation/family_law_and_children%27s_rights/documents/Rec_88_3.pdf).  E’ evidente come il principio di fondo che ispirava questa raccomandazione fosse quello di invitare i legislatori degli Stati membri a tenere conto del fatto che questi negozi di per sé stessi non si possono considerare come in contrasto con il buon costume.

Come tutti sanno, a livello legislativo si fa un gran discutere oggi di legislazioni sul modello del PA.C.S. francese o del partenariato registrato dei sistemi dell’Europa centro-settentrionale, anche se, sul punto, la precedenza cronologica spetta ad alcuni Paesi extraeuropei, in particolare ad alcuni Stati dell’Australia e del Canada. In effetti, il primo Stato a disciplinare positivamente il fenomeno fu, in Canada, l’Ontario nel 1978 e, in Australia, il Nuovo Galles del Sud nel 1984. La storia di questa legislazione australiana è quanto mai interessante, perché già oltre venti anni fa, quel legislatore non solo autorizzò espressamente la conclusione di contratti di convivenza, ma previde anche espressamente che simili intese potessero occuparsi anche delle clausole relative ad un’eventuale rottura dell’unione, stabilendo preventivamente le conseguenze di carattere patrimoniale conseguenti ad una possibile crisi del rapporto. Questa disciplina ha generato in Australia un movimento d’opinione che ha portato a livello legislativo a far sì che lo stesso principio venisse esteso con una riforma del 2000 alle persone coniugate, cui è stata espressamente concessa la possibilità di stipulare, già all’atto della celebrazione delle nozze, delle intese in contemplation of divorce, proprio sulla base del presupposto che sembrava ingiusto che una simile previsione fosse stabilita con riguardo alle convivenze more uxorio e nulla fosse invece previsto relativamente alla situazione delle persone coniugate.

Se si tiene poi conto di quella «stagione della negozialità» che interessa ormai da alcuni anni a questa parte la famiglia italiana ed europea, si deve constatare che è proprio la via negoziale, la via contrattuale, quella scelta per disciplinare le relazioni tra conviventi more uxorio. L’argomento potrebbe essere sviscerato molto a lungo. Basterà dire che, fondamentalmente, due sono i modelli che troviamo in Europa: da una parte quello dei Paesi neolatini, di cui il PA.C.S. rappresenta l’esempio più eclatante e poi quello dell’Europa centro-settentrionale, in cui spicca la eingetragene Lebenspartnerschaft tedesca. Nel primo caso si tratta di una disciplina rivolta ad unioni tra persone di sesso diverso, così come del medesimo sesso; nel secondo ci troviamo invece di fronte ad una regolamentazione esclusivamente diretta a convivenze omosessuali. Ma quello che interessa è il diverso atteggiamento di fondo che, perlomeno ad una prima lettura, colpisce il giurista: nell’Europa neolatina, infatti, abbiamo come prius il contratto (o il patto: in un primo tempo si parlava in Francia di contrat d’union sociale o di contrat d’union civileC.U.S. o C.U.C., poi si è passati dal «contratto» al «patto», perché si volevano evidenziare anche i profili di carattere non strettamente patrimoniale). Nel modello mitteleuropeo-nordico emerge invece con maggior prepotenza, rispetto al contratto, il profilo della celebrazione o, quanto meno, di un surrogato di celebrazione, che tiene luogo del matrimonio (un ulteriore passo è poi stato compiuto da quei Paesi che, come si sa, si sono spinti ad estendere tout-court la possibilità di stringere il vincolo coniugale anche alle coppie omosessuali).

Si noti poi, per incidens, che, nelle legislazioni delle regioni autonome spagnole che sono intervenute sull’argomento, il profilo contrattuale si estende ad abbracciare anche il momento dell’eventuale scioglimento dell’unione, prevedendosi espressamente che in questi contratti le parti debbano pure occuparsi di che cosa succederà nel caso il rapporto di convivenza dovesse dissolversi.

Se passiamo dal piano comparatistico a quello sopranazionale europeo, possiamo prendere in considerazione il regolamento 2201 del 2003, recentemente entrato in vigore, che ha sostituito il precedente regolamento 1347 del 2000 sulla competenza, riconoscimento, esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e di responsabilità parentale. Questo regolamento ha tra l’altro stabilito, all’articolo 46, che il riconoscimento e l’esecuzione transnazionali non riguardino soltanto i provvedimenti giurisdizionali, ma anche gli atti autentici ricevuti ed esecutivi in uno stato membro, così come «gli accordi» tra le parti. Ora, questo inciso sugli «accordi», che non era presente nel precedente regolamento, acquista un significato particolare, se poniamo mente al campo di applicazione di questo nuovo strumento che, a differenza di quello abrogato, si estende anche alla materia della responsabilità parentale relativa alla prole naturale, e quindi anche dei figli delle convivenze more uxorio.

Si noti poi che la Commissione Europea ha attualmente allo studio un possibile regolamento sui rapporti patrimoniali tra persone coniugate e tra conviventi more uxorio. Al riguardo è già stato pubblicato uno studio, commissionato ad un consorzio di università, seguito da un green paper, ciò che nell’esperienza dell’attività della Commissione Europea prelude poi all’emanazione di una proposta di regolamento (il «libro verde» è disponibile, in francese, al sito seguente: http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=CELEX:52006DC0400:FR:HTML). I dati che emergono da questi lavori sono quanto mai significativi, perché si estendono anche ai profili di diritto internazionale privato, ivi compresi quelli che derivano dalla coesistenza di ordinamenti in Europa che conoscono e di altri che non conoscono discipline legali organiche dei rapporti patrimoniali tra soggetti del medesimo sesso. E sarà interessante notare che la raccomandazione dello studio è quella di limitare al massimo il rinvio dei singoli ordinamenti ai principi dell’ordine pubblico internazionale.

 

 

32. La disciplina pattizia dei rapporti con la prole ed il relativo fondamento nel diritto italiano. Gli elementi ricavabili dalla riforma sull’affidamento condiviso.

 

Veniamo ora a trattare molto brevemente anche delle questioni «di casa nostra». E’ noto che in Italia non esiste una disciplina organica della famiglia di fatto, ma esistono varie norme sparse nei campi più disparati. Peraltro, chi scrive, sin da quando ha iniziato ad occuparsi della materia, ha sempre sostenuto l’ammissibilità di simili negozi sulla base del principio di libertà contrattuale, come del resto ritenuto dalla stessa Corte di cassazione nel 1993 (cfr. Cass., 8 giugno 1993, n. 6381). Ma qui il problema sta nel fatto che l’ubi consistam di queste intese, da rinvenirsi nell’art. 1322 c.c., presuppone, per l’appunto, la natura contrattuale delle medesime. La natura contrattuale dell’accordo presuppone però a sua volta, ex art. 1321 c.c., il carattere patrimoniale della prestazione.

Se è concesso un paragone con un altro campo di indagine, quello dei contratti della crisi coniugale, occorre osservare che le due situazioni a confronto appaiono molto diverse. Nei contratti della crisi coniugale abbiamo dei riferimenti normativi precisi: l’art. 711 c.p.c. e l’art. 4, sedicesimo comma, della legge sul divorzio parlano di «condizioni» della separazione e di «condizioni» del divorzio, con un termine molto ampio (quello, appunto, di «condizioni»), nel quale possiamo far rientrare profili non solo di carattere patrimoniale, ma anche di natura personale, ivi compresi i rapporti relativi alla prole. Sul versante delle intese tra conviventi more uxorio, invece, siamo inchiodati al concetto di patrimonialità della prestazione. Per questo un intervento legislativo sarebbe auspicabile, anche se – come si vedrà tra breve – più di un semplice spunto è ricavabile, già de iure condito, dalla riforma del 2006 sull’affidamento condiviso.

Con ogni probabilità, quando si tratta di rapporti con la prole naturale, è necessario distinguere due profili: quello, che potremmo chiamare «genetico», attinente alla costituzione del rapporto parentale, da quello «funzionale», relativo alla gestione del rapporto medesimo.

Per comprendere quanto sopra si potrà citare un esempio piuttosto clamoroso. Nel 1986 la Corte Suprema Federale tedesca (per i riferimenti cfr. Oberto, I contratti di convivenza tra autonomia privata e modelli legislativi, in Contratto e impresa/Europa, 2004, p. 47 s.) pronunziò una decisione estremamente interessante in materia di azione di responsabilità da inadempimento contrattuale proposta da un uomo che aveva convissuto per alcuni anni con una donna, con l’accordo di non procreare; in particolare, la donna si era impegnata a fare uso di strumenti contraccettivi. Evidentemente qualcosa andò storto, posto che nacque un figlio e quindi (forse anche per questa ragione!) l’unione si ruppe. La donna citò l’ex convivente, che venne condannato al pagamento del mantenimento del figlio minore.

A questo punto l’uomo convenne in giudizio la donna, chiedendo che questa venisse condannata a rimborsagli quanto alla stessa pagato per il mantenimento del minore, a titolo di risarcimento del danno per violazione dell’obbligo contrattualmente assunto di non procreare. I giudici dei vari gradi del giudizio rigettarono la richiesta, affermando che tale accordo era contrario ai principi fondamentali di quello che noi in Italia chiameremmo «ordine pubblico» e che i tedeschi esprimono con l’ampia figura dei gute Sitten (buoni costumi), attesa la violazione del principio di libertà personale nella sfera più intima. Potrà essere interessante aggiungere che, svariati anni dopo, il Tribunale di Milano, con una sentenza del 19 novembre 2001, ha affermato lo stesso principio, in un caso esattamente identico, che si differenzia dal primo solo per la maggiore fantasia dell’avvocato italiano, che non solo aveva proposto l’azione di responsabilità ex contractu, ma aveva anche, in subordine, presentato una domanda di responsabilità aquiliana per violazione del principio del neminem laedere, sotto il profilo del (preteso) diritto soggettivo assoluto ad avere rapporti sessuali con una donna, senza quelle… fastidiose conseguenze rappresentate dalla nascita di figli non desiderati (cfr. Trib. Milano, 19 novembre 2001, in Nuovo dir., 2002, II, p. 621).

Tutto questo per dire che bisogna tenere distinto il profilo «genetico», dell’instaurazione del legame di filiazione, da quello della gestione del rapporto genitoriale con la prole minorenne. Qui, in effetti, il discorso cambia, perché viene in gioco un elemento diverso, costituito, in primo luogo, dall’art. 317-bis c.c. Norma, questa, di tutt’altro che agevole lettura, ma che con un po’ di fantasia e con tanta buona volontà possiamo intendere come una disposizione che autorizza l’interprete a riconoscere la validità di una forma di accordo di separazione consensuale tra persone conviventi more uxorio. Sul punto potrà citarsi un importante obiter dictum della Corte di cassazione, in una sentenza di ormai diversi anni fa (cfr. Cass., 25 maggio 1993, n. 5847), secondo cui l’intervento del tribunale per i minorenni previsto dall’articolo 317-bis avrebbe carattere «meramente eventuale e successivo».

E in effetti, se andiamo a leggere questa norma, constatiamo come essa parta innanzi tutto dal presupposto che due persone convivano: in questo caso vi è un esplicito rinvio all’art. 316 c.c., che contiene, per l’appunto, il principio dell’accordo: la base normativa di siffatta intesa negoziale possiamo dunque trovarla pacificamente riconosciuta. Nel caso, invece, di disaccordo, o comunque nel caso in cui l’accordo sia in contrasto con l’interesse del minore, interviene il giudice. E’ vero quindi che l’intervento giudiziale è visto soltanto come dispiegantesi in una fase successiva, posto che la disposizione non prevede, almeno espressamente, un procedimento di omologa delle condizioni della separazione della rottura della convivenza more uxorio, come è invece stabilito dall’art. 158 c.c. per le famiglie fondate sul matrimonio.

Ripeto, però, che, con un po’ di buona volontà, questo riconoscimento della validità e dell’efficacia delle intese inter partes è desumibile dall’art. 317-bis, atteso che da questa disposizione può evincersi che è rimessa in prima battuta alla volontà delle parti la regolamentazione dei profili attinenti alla gestione della potestà sui figli minori, personali o patrimoniali che siano. E’ peraltro chiaro che, se questa intesa dovesse rivelarsi, in ipotesi, contraria agli interessi del minore e ai principi inderogabili scolpiti negli artt. 147 e 148 c.c., il tribunale per i minorenni ben potrebbe e dovrebbe intervenire, assumendo i provvedimenti necessari, senza essere in alcun modo vincolato dagli accordi presi dai genitori.

Questi risultati ricevono conferma dalle disposizioni della normativa in tema di affidamento condiviso, estensibili anche alla famiglia di fatto, per effetto dell’art. 4, comma 2°, l. 8 febbraio 2006, n. 54. In forza di queste norme, invero, il giudice è obbligato a «Prende(re) atto, se non contrari all’interesse dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori» (cfr. art. 155, comma 2°, c.c.). D’altro canto, i conviventi possono liberamente sottoscrivere accordi in merito al mantenimento dei figli (come stabilito dall’art. 155, comma 4°, c.c.), eventualmente anche in deroga al criterio di proporzionalità scolpito nell’art. 148 c.c. (e sempre che – il problema si pone del resto in termini identici con riguardo alla crisi coniugale – tale facoltà di deroga non venga un giorno colpita da declaratoria di incostituzionalità,  nel caso si dovesse ritenere il citato criterio di proporzionalità munito di garanzia costituzionale, ex art. 30 Cost.).

 

 

33. Accordi sulla prole naturale, titolo esecutivo e «omologazione».

 

Il riconoscimento della tendenziale ammissibilità degli accordi dei genitori naturali, conviventi o non conviventi more uxorio, sulla regolamentazione di tutti gli aspetti della potestà genitoriale, sia nella situazione di eventuale convivenza, sia in quella di un’eventuale separazione, forma precipuo oggetto di una ricca giurisprudenza di merito, la quale si è trovata a fare i conti con il seguente problema concreto: come si può, una volta constatata la presenza di un accordo tra i genitori, «inchiodare» le parti alle loro responsabilità, ed ottenere uno strumento che ci garantisca dal rischio che una di esse cambi successivamente idea?

A ben vedere, sfrondando il dibattito di tutti gli orpelli, il quesito fondamentale è questo: se abbiamo una coppia che si separa e la coppia è coniugata si arriva a un documento (il verbale di separazione consensuale) munito di forza esecutiva; nel caso invece della famiglia di fatto si arriva, a tutto concedere, a un documento che – ancorché vincolante per le parti – non può essere posto alla base di un’azione esecutiva. Ciò, ovviamente, a meno che il tribunale non intenda in qualche modo recepire l’accordo in un suo provvedimento o emanare una decisione che assuma i caratteri di una sorta di decreto di «omologazione» analogo a quelli che il tribunale ordinario emana ai sensi dell’art. 158 c.c.

La questione pone, ad avviso dello scrivente, un problema di legittimità costituzionale. La Consulta, lo sappiamo, si è già occupata della materia, respingendo le questioni che le erano state proposte. Peraltro, se andiamo a leggere le due sentenze del 1996 e del 1997 (cfr. Corte cost., 5 febbraio 1996, n. 23, in Giust. civ., 1996, I, p. 917; in Foro it., 1997, I, c. 61, con nota di Cipriani; in Dir. fam., 1996, I, p. 1327, con nota di Bordonaro; Corte cost., 30 dicembre 1997, n. 451, in Giust. civ., 1997, I, p. 913; in Dir. fam., 1998, I, p. 484, con nota di Morani; in Foro it., 1998, I, c. 1377, con nota di Cosentino), dobbiamo constatare che, in realtà,  la questione non era stata presentata sotto questo angolo visuale.

Ciò che si era chiesto alla Corte costituzionale era di decidere se rispondesse a criteri di razionalità il fatto che i figli legittimi sono, per così dire, «gestiti» dal tribunale ordinario, mentre quelli naturali lo sono (ma solo limitatamente ai profili personali) dal tribunale per i minorenni. E qui la Consulta ha avuto buon gioco a dire che si tratta di un problema di discrezionalità del legislatore, il quale può sbizzarrirsi ad individuare varie forme di competenza, attribuendole ora ad un giudice piuttosto che ad un altro. A ciò s’aggiunga che, nel caso dell’assegno per il minore naturale e dei relativi rapporti patrimoniali, l’azione è vista come azione tra genitori e non involge direttamente la posizione, come soggetto processuale, del minore: non deve dunque destare «scandalo» il fatto che ad occuparsene sia il tribunale ordinario, mentre per i profili personali è competente il tribunale per i minorenni.

La questione potrebbe invece essere (ri)proposta sotto questo altro angolo visuale: un medesimo tipo di accordo, caratterizzato dalla vincolatività scaturente dall’art. 1372 c.c. (e poco importa se la norma sia espressamente dettata solo per i rapporti patrimoniali, atteso che il principio è sicuramente estensibile anche ai negozi familiari non patrimoniali: sul punto sarà appena il caso di rinviare alle chiarissime pagine di Santoro-Passarelli o di Jemolo; il tema è approfondito in Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, Milano, 1999, p. 110 ss., 206 s.), può essere garantito dalla presenza di un titolo esecutivo (il verbale ex art. 158 c.c.) se concerne la prole legittima, laddove ciò non accade se quello stesso tipo d’intesa riguarda invece la prole naturale.

Ovviamente si potrà obiettare che esistono dei rimedi, miranti a determinare la creazione di un titolo esecutivo: l’accordo sulla prole naturale può (almeno per ciò che concerne i profili patrimoniali) essere fatto valere in sede di procedimento contenzioso ordinario, ovvero essere posto alla base di una richiesta per decreto ingiuntivo. Taluno ha posto anche in luce che l’intesa potrebbe essere recepita da un atto notarile (o, secondo quanto disposto dalla l. 80/2005, essere racchiusa in una scrittura privata autenticata), così acquistando efficacia di titolo esecutivo ex art. 474 c.p.c., per le obbligazioni aventi ad oggetto pagamento di somme di denaro. Ma tutti quelli appena indicati sono espedienti costosi, che presuppongono una parte ben assistita ed avvisata, e che comunque marcano una ingiustificata disparità di trattamento, fondata sul solo fatto di appartenere alla categoria dei figli legittimi, piuttosto che a quella dei figli naturali.

La soluzione pratica potrebbe essere reperita sfruttando addirittura alcune indicazioni date dalla stessa Corte costituzionale che, per almeno due volte, ha respinto domande dirette ad ottenere l’estensione – per via di pronunzie di accoglimento – ai figli naturali di rimedi concessi a tutela di quelli legittimi, affermando poi, in buona sostanza (cioè per via di decisioni interpretative di rigetto), l’applicabilità ai primi di norme dettate per i secondi. Mi riferisco alla sentenza n. 166 del 1998 (cfr. Corte cost., 13 maggio 1998, n. 166, in Guida dir., 1998, n. 21, p. 40, con nota di A. Finocchiaro; in Nuova giur. civ. comm., 1998, I, p. 678, con nota di Ferrando), sull’art. 155 c.c., e alla n. 99 del 1997, in materia di sequestro ex art. 156 c.c. (cfr. Corte cost., 18 aprile 1997, n. 99, in Guida dir., 1997, n. 16, p. 24, con nota di M. Finocchiaro; in Dir. fam. pers., 1997, I, p. 837; in Giust. civ., 1997, I, p. 2072).

Una volta tracciata la via dell’«interpretazione adeguatrice» degli artt. 155 c.c. (ora art. 155-quater c.c., direttamente applicabile, tra l’altro, alla famiglia di fatto ex art. 4, comma 2°, l. 8 febbraio 2006, n. 54), relativamente al diritto di abitazione nella casa familiare, e 156 c.c., sullo strumento del sequestro, non si vede perché non si potrebbe ipotizzare una ripetizione del medesimo ragionamento anche per la procedura di cui all’art. 158 c.c., riconoscendone la riferibilità anche alla «separazione» della famiglia di fatto ed in tal modo avallando una prassi che nei tribunali ha già preso piede: cfr. ad es. Trib. Palermo, 18 febbraio 1987, in Dir. fam. pers., 1987, p. 760; Trib. Monza, 22 giugno 1990, in Foro pad., 1991, c. 531 (si noti che il richiamo ai «coniugi», di cui alla massima riportata sulla rivista citata, è frutto di errore: dalla motivazione si desume, infatti, che trattavasi di convivenza more uxorio); Trib. Min. Reggio Calabria, 17 ottobre 1994, in Dir. fam. pers., 1995, p. 611, con nota di Gigliotti; App. Milano, 4 dicembre 1995, in Fam. dir., 1996, p. 247, con nota di Moretti; Trib. Min. L’Aquila, 31 gennaio 1994, in Dir. fam. pers., 1995, p. 1039 ss.

A tutto ciò s’aggiunga, infine, che la riforma sull’affidamento condiviso ha introdotto il già mentovato dovere del giudice (anche nel caso di procedure relative alla famiglia di fatto) di «prendere(re) atto, se non contrari all’interesse dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori» (cfr. art. 155, comma 2°, c.c.). Questa disposizione viene così a munire di ulteriore, difficilmente discutibile, fondamento l’operazione ermeneutica che si è qui tentato di proporre ed argomentare.

 

 

34. Ulteriori istituti a tutela dei diritti patrimoniali della prole nella famiglia di fatto: clausole penali, trasferimenti mobiliari ed immobiliari, trust, vincolo di destinazione ex art. 2645-ter c.c.

 

Ci si potrà ora soffermare, pur se brevemente, su alcuni istituti a tutela dei diritti patrimoniali della prole nella famiglia (tanto legittima che) di fatto.

Innanzi tutto vorrei ancora una volta ribadire la raccomandazione sull’opportunità di inserire, negli accordi (oltre che di separazione e di divorzio, anche) di regolamentazione della crisi dell’unione di fatto, di clausole penali per l’inadempimento di prestazioni sia patrimoniali, che personali. Se è vero come è vero che le disposizioni codicistiche in tema di contratto in generale costituiscono  l’ossatura del negozio giuridico generale e sono dunque (come affermato da Santoro-Passarelli) applicabili anche al negozio giuridico familiare, laddove non vi siano norme in deroga, vi è da chiedersi perché non si potrebbe valorizzare il «vecchio» istituto della clausola penale, stabilendo che per ogni giorno di ritardo nel pagamento dell’assegno, o per ogni giorno di ritardo nella «riconsegna» del minore, legittimo o naturale che sia, sia dovuta una certa somma di denaro. Non sembrano necessari commenti per illustrare l’efficacia deterrente che potrebbe assumere un tale accorgimento (la proposta è stata formulata per la prima volta in Oberto, I contratti della crisi coniugale, II, cit., p. 1112 ss.; per la risposta ad una critica dottrinale al riguardo cfr. Oberto, La responsabilità contrattuale nei rapporti familiari, Milano, 2006, nella collana Quaderni Familia, diretta da S. Patti, cap. III, § 2, nota 18).

In secondo luogo sarà opportuno ricordare che l’opinione assolutamente prevalente in dottrina e (ormai anche) in giurisprudenza ritiene validi quei contratti della crisi coniugale che contengono trasferimenti immobiliari o mobiliari in favore della prole (l’argomento è sviluppato in Oberto, I trasferimenti mobiliari e immobiliari in occasione di separazione e divorzio, in Fam. dir., 1995, p. 155 ss.; Id., I contratti della crisi coniugale, II, Milano, 1999, p. 1211 ss.; Id., Prestazioni «una tantum» e trasferimenti tra coniugi in occasione di separazione e divorzio, Milano, 2000, p. 3 ss.; Id., I trasferimenti patrimoniali in occasione della separazione e del divorzio, in Familia, 2006, p. 181 ss.). Non si vede quindi per quale ragione non si potrebbe pensare anche di estenderli ad accordi nell’ambito della famiglia di fatto. Questi negozi dovrebbero ritenersi validi pure a favore dei figli, posto che giurisprudenza e dottrina in tema di rapporti con la prole legittima sono favorevoli a trasferimenti di questo tipo, quanto meno sin da una sentenza della Cassazione del 1987 (cfr. Cass., 21 dicembre 1987, n. 9500, in Giust. civ., 1988, I, p. 1237), che ha fatto scuola. Pur in assenza di precedenti specifici, non sembra sussistano ragioni che ostino all’ipotizzabilità (e alla convenienza) di simili accordi anche relativamente alla prole naturale.

Di ostacoli, invece, ve ne sono molti, per ciò che attiene all’impiego del trust, a partire dal fatto che la convenzione de L’Aja del 1985 sul tema è una convenzione di diritto internazionale privato e non una convenzione di diritto materiale uniforme (sul tema cfr. per tutti Oberto, Trust e autonomia negoziale nella famiglia, in Fam. dir., 2004, p. 201 ss., 310 ss.; Id., Il trust familiare, disponibile al seguente indirizzo web:

http://utenti.lycos.it/giacomo305604/milano11giugno2005trust/relazionemilano.htm).  Le relative norme, dunque, presuppongono la presenza di un conflitto di ordinamenti e quindi la presenza di elementi di estraneità che non possono risolversi nel solo fatto che le parti abbiano deciso di rinviare ad una norma straniera (e dunque nel mero capriccio delle parti stesse).

Con tutti i dubbi relativi all’ammissibilità della costituzione di un trust «interno» tra cittadini italiani, residenti in Italia e su beni qui situati, rimane il fatto che l’istituto offre uno strumento molto flessibile; sicuramente più flessibile ed utile del fondo patrimoniale: istituto, questo, inapplicabile, come noto, alla famiglia di fatto, anche se, come ho cercato di dimostrare in altre sedi, risultati sostanzialmente analoghi (tutela del convivente debole e della prole) ben possono essere ottenuti tramite la stipula di contratti di convivenza (cfr. Oberto, I contratti di convivenza tra autonomia privata e modelli legislativi, cit., p. 17 ss.). E se il problema pratico da risolvere è solo quello di fornire idonea garanzia per l’adempimento di determinate obbligazioni, non si vede per quale ragione un contratto di convivenza (così come un contratto della crisi coniugale), non possa far ricorso ad uno strumento «sperimentato» con successo per secoli, quale l’ipoteca volontaria.

All’ «armamentario legislativo» sopra ricordato viene ora ad aggiungersi l’art. 2645-ter c.c., introdotto dall’art. 39-novies della l. 23 febbraio 2006, n. 51, di conversione con modifiche del d.l. 30 dicembre 2005, n. 273 («Recante definizione e proroga di termini, nonché conseguenti disposizioni urgenti. Proroga di termini relativi all’esercizio di deleghe legislative»). La norma è volta a consentire «atti di destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela». A prescindere dalle gravi questioni generali di inquadramento dell’istituto e dai suoi collegamenti con il trust (su cui si fa rinvio per tutti a Oberto, Atti di destinazione (art. 2645-ter c.c.) e trust: analogie e differenze, in corso di stampa), non vi è dubbio che il medesimo appaia applicabile anche alla famiglia di fatto, in relazione alla quale potrebbe consentire alle parti di dar vita a qualcosa di analogo al fondo patrimoniale (cfr. Oberto, Famiglia di fatto e convivenze: tutela dei soggetti interessati e regolamentazione dei rapporti patrimoniali in vista della successione, in Fam. dir., 2006, in corso di stampa: cfr. in particolare §§ 7 ss.).

Uno o più beni immobili o mobili registrati potrebbero così essere vincolati da uno o da entrambi i conviventi (o da terzi: si pensi ai genitori) allo scopo di contribuire al soddisfacimento dei bisogni del nucleo familiare, vuoi per ciò che attiene all’uso dei beni stessi (si pensi alla casa d’abitazione), vuoi per il reddito che eventualmente da essi potrebbe derivare (si pensi ai canoni di locazione), un po’ come può avvenire per la famiglia legittima ex artt. 167 ss. c.c.

A ben vedere, anzi, il vincolo ai sensi dell’art. 2645-ter c.c. appare assai più «forte» di quello da fondo patrimoniale, per via dell’opponibilità nei confronti di tutti i creditori dei coniugi, anche a prescindere dalla ricorrenza delle condizioni descritte dall’art. 171 c.c. D’altro canto, per ciò che attiene agli eventuali atti dispositivi, il medesimo vincolo appare dotato di un più elevato grado di «duttilità», rispetto a quello ex artt. 167 ss. c.c., avuto riguardo alla non necessità di autorizzazione giudiziale per gli atti ex art. 169 c.c. in presenza di figli minorenni.

Sempre in relazione alla maggiore souplesse dell’istituto novellamente introdotto, potrà ipotizzarsi un accordo dotato di efficacia per un periodo superiore a quello della durata del ménage di fatto, magari proprio nell’interesse della prole (minorenne o maggiorenne ma non autosufficiente). Tenuto conto della regola (fissata dall’art. 2645-ter c.c.) secondo cui il vincolo di destinazione può estendersi per novanta anni o per tutta la vita della persona fisica beneficiaria, tale istituto potrebbe dunque garantire i diritti dei figli della famiglia di fatto, assicurandone l’avvenire, a prescindere dalle vicende dei rapporti tra i genitori.

 

 

 

X

L’AFFIDAMENTO IN SEDE CONTENZIOSA

DEI FIGLI NATURALI

 

 

35. Le procedure in materia di affidamento dei figli naturali.

 

Una volta tratteggiata la situazione degli accordi tra genitori naturali, occorrerà volgere l’attenzione alla situazione dell’affidamento nel caso di contrasto tra gli stessi. Si è già più volte ricordato che l’art. 4, comma 2, legge 54/2006 stabilisce che «Le disposizioni della presente legge si applicano anche in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, nonché ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati».

 

La riforma troverà applicazione anche nelle procedure camerali di regolamentazione dell’affidamento dei figli naturali previste nell’art. 317-bis c.c. Potrebbe discutersi se l’intenzione del legislatore sia stata quella di trasferire ai tribunali ordinari la competenza in materia di filiazione naturale o di mantenere, invece, l’attribuzione della competenza ai tribunali per i minorenni.

 

Secondo la tesi preferibile (cfr. Dosi), poiché non è stato modificato l’art. 38 delle disposizioni di attuazione del codice civile (dove si attribuiscono alla competenza del tribunale per i minorenni i procedimenti di cui all’art. 317-bis c.c.) deve ritenersi, salvo un ripensamento da parte dello stesso legislatore, che la competenza ad occuparsene rimarrà del tribunale per i minorenni con gli adattamenti necessari a rendere compatibili le previsioni delle nuove norme con il funzionamento della giustizia civile minorile.

 

Un altro dubbio concerne il fatto se in base alla previsione esplicita contenuta ora nell’art. 4, comma secondo, della legge di riforma il tribunale per i minorenni acquisisca anche la competenza ad adottare provvedimenti in materia economica.

 

Secondo la citata dottrina (Dosi) le attribuzioni in materia di affidamento costituiscono un complesso articolato ma omogeneo di poteri (affidamento, determinazione dei tempi di permanenza, determinazione delle, modalità del mantenimento) che non ha molto senso distribuire tra giudici diversi. Perciò la tesi più ragionevole sarebbe quella che al giudice minorile restino attribuiti anche i poteri in materia di provvedimenti economici.

 

Se si aderisse a questa tesi la conseguenza sarebbe che il decreto del tribunale per i minorenni che conclude il giudizio sull’affidamento contenente le disposizioni di natura economica, quando non più impugnabile (art. 741, comma primo), o quando sia stato reso provvisoriamente esecutivo (art. 741, comma secondo, c.p.c.), potrà essere munito della formula esecutiva e portato in esecuzione. Il fatto che il provvedimento conclusivo del procedimento sia costituito da un decreto anziché da una sentenza non é di ostacolo alla apposizione della formula esecutiva sui provvedimento. D’altro lato ai decreti di natura economica adottati in base all’art. 710 c.p.c. o 9 della legge sul divorzio anche essi provvedimenti di tipo camerale viene apposta, ugualmente, la formula esecutiva.

 

Ne deriverebbe, tuttavia, anche l’attribuzione di competenza al tribunale minorile relativamente non solo ai procedimenti monitori di cui all’art. 148 del codice civile ma anche ai procedimenti ordinari per richiedere il mantenimento. Bisogna convenire sul fatto che una prospettiva di questo tipo troverebbe un serio ostacolo processuale nei limiti di garanzia processuale che impone l’adozione del rito camerale, previsto quale rito elettivo nei tribunali per i minorenni.

 

Se la tesi della competenza del tribunale per i minorenni anche per le questioni economiche dovesse prevalere dovrà essere necessariamente attribuita ai tribunali per i minorenni non solo la competenza ad emettere provvedimenti di natura economica relativi al mantenimento ma anche ad emettere i provvedimenti in ordine all’assegnazione della casa familiare.

 

Se invece la tesi che dovesse prevalere sarà quella che le questioni economiche (e sulla casa familiare) rimarranno di competenza ai tribunali ordinari, continuerà la peregrinazione dei genitori e dei loro avvocati nei tribunali per i minorenni per le questioni relative all’affidamento e nei tribunali ordinari per le questioni economiche. E continuerà a rimanere incomprensibile come mai il giudice ordinario non possa occuparsi di problematiche identiche a quelle trattate nelle procedure di separazione e di divorzio che non attengono ai profili di compressione o limitazione o ablazione della potestà funzionalmente e storicamente attribuite ai tribunali per i minorenni (cfr. Dosi).

 

Per quanto attiene alle prime decisioni di merito, in senso contrastante, v. Trib. Min. Milano, 7 luglio 2006; Trib. Monza, 29 giugno 2006; Trib. Min. Catania, 6 giugno 2006; Trib. Milano, 28 giugno 2006;

 

36. La potestà sui figli naturali e l’art. 317-bis c.c.

 

Come è noto in base a quanto dispone l’art. 317‑bis c.c. «al genitore che ha riconosciuto il figlio naturale spetta la potestà su di lui» e «se il riconoscimento è, fatto da entrambi i genitori l’esercizio della potestà spetta congiuntamente ad entrambi qualora siano conviventi», esattamente come per la filiazione legittima prevede l’art. 316 c.c.

 

Se però i genitori non convivono, l’art. 317‑bis c.c. prevede che «l’esercizio della potestà spetta al genitore col quale il figlio convive». Quest’ultima disposizione, secondo la tesi preferibile (Dosi) è da considerare ancora in vigore.

 

Infatti la normativa sull’affidamento condiviso trova applicazione solo quando i genitori intendono portare all’attenzione del giudice una domanda concernente l’affidamento e l’esercizio della potestà o concordare tra loro le relative modalità. Se i genitori naturali non affrontano, in altre parole, il tema dell’affidamento del loro figlio, la potestà continuerà perciò ad essere attribuita unicamente al genitore con cui convive il figlio riconosciuto da entrambi. In tal caso l’altro genitore – come prevede l’ultimo comma dell’art. 317‑bis c.c. – manterrà il potere di vigilanza sull’istruzione, sull’educazione e sulle condizioni di vita del figlio minore.

 

La conclusione di cui sopra riceve anche conforto dalla considerazione che la descritta situazione manifesta l’esistenza di un accordo (espresso o tacito) tra le parti, accordo di cui occorre comunque «prendere atto», purchè il medesimo non sia contrario all’interesse del minore.

 

Si potrebbe obiettare che, a differenza di quanto avviene nel caso della coppia coniugale, per i genitori naturali non c’è, alcun obbligo di avviare una procedura di separazione e che la riforma considera la bigenitorialità un diritto del figlio, ma è da ritenere (cfr. Dosi) che il principio cui l’intera riforma si ispira è che il giudice non interviene nella famiglia unita, ma soltanto nella famiglia scissa su domanda dei genitori. Se manca, perciò, un’istanza rivolta al giudice, la riforma non sembra poter trovare applicazione. La conseguenza è che se i genitori naturali o uno di essi intendono dare attuazione ai principi della riforma lo devono richiedere espressamente.

 

Semmai ciò che desta veramente stupore è che il legislatore abbia equiparato alla situazione della crisi coniugale non solo e non tanto la crisi della coppia di fatto (su cui nulla quaestio), ma anche la situazione in cui tra i genitori non vi sia mai stata, neppure per un giorno, convivenza. La previsione dell’affidamento condiviso anche in relazione al figlio che sia il frutto di una relazione occasionale, o, al limite, di un rapporto violento, sembra davvero andare ben oltre il segno.

 

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