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                         REPUBBLICA ITALIANA
                     IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
                     CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
                          SEZIONE I CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:
   Dott.    Aldo              VESSIA                      Presidente
    "       Angelo            GRIECO                      Consigliere
    "       Vincenzo          FERRO                            "
    "       Francesco         FELICETTI                   Rel. "
    "       Luigi             MACIOCE                          "
ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
sul ricorso proposto da:
ANCONA MARIA TERESA, elettivamente  domiciliata  in  ROMA  VIA  FABIO
MASSIMO 88, presso l'avvocato CARLO GUALTIERI, che la  rappresenta  e
difende giusta delega in calce al ricorso;
                                                           Ricorrente
                                contro
ALBERANI ALDO ANTONY;
                                                             Intimato
avverso la  sentenza  n.  2122/93  della  Corte  d'Appello  di  ROMA,
depositata il 12/07/93;
udita la relazione della causa  svolta  nella  pubblica  udienza  del
09/10/96 dal Relatore Consigliere Dott. Francesco FELICETTI;
udito  per  il  ricorrente,  l'Avvocato  Gualtieri,  che  ha  chiesto
l'accoglimento del ricorso;
udito il P.M. in persona del  Sostituto  Procuratore  Generale  Dott.
Alessandro CARNEVALI che ha concluso per il rigetto del ricorso.
                      SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Maria Teresa Ancona, con citazione 7 marzo 1990, conveniva
dinanzi al Tribunale di Roma il marito Aldo Antony Alberani,
esponendo di avere contratto con lui matrimonio in Canada,
trasferendosi poi entrambi in Italia, dove in data 17 novembre 1982,
con atto notaio Rizzo, avevano acquistato un immobile, in localita'
Tor Carbone, via Viggiano n. 80, intestandolo al solo Alberani.
Chiedeva che il Tribunale, accertata la comunione dei beni tra i
coniugi, alla data dell'acquisto, dichiarasse ex art. 177 cod. civ.
la comproprieta' dell'immobile tra lei e il marito.
L'Alberani si costituiva deducendo che tra i coniugi era
intervenuta, nel 1985, separazione consensuale e che, fra le
condizioni convenute, era stato stabilito che il su detto immobile
restasse di sua esclusiva proprieta'.
Chiedeva il rigetto della domanda e la condanna dell'attrice ex
art. 96 c.p.c., avendo essa trascritto La domanda.
Il Tribunale, con sentenza n. 4710 del 1991, rigettava entrambe le
domande. Riteneva, in particolare, che il regime patrimoniale fra i
coniugi fosse regolato dalla legge dell'Ontario ex art. 19 delle
preleggi e che tale legge non prevedeva un regime di comunione tra i
coniugi dei beni acquistati durante il matrimonio.
L'Ancona proponeva appello, deducendo che erroneamente il
Tribunale non le aveva riconosciuto la comproprieta' dell'immobile in
questione, previo accertamento della comunione legale tra i coniugi
ai sensi della legislazione canadese ed in applicazione dell'art. 177
cod. civ. italiano.
L'Alberani chiedeva il rigetto del gravame, eccependo tra l'altro
la novita' della domanda di accertamento di un diritto sull'immobile
in base alla legge dell'Ontario, che riteneva proposta con l'appello.
Con impugnazione incidentale lamentava il mancato accoglimento della
domanda ex art. 96 c.p.c.
La Corte di Appello di Roma, con sentenza 12 luglio 1993,
rigettava entrambi i gravami.
In particolare, quanto all'appello dell'Ancona, ritenute
inammissibili le domande diverse dall'accertamento della comunione
legale dei beni e della comproprieta' dell'immobile, giudicava
assorbente il rilievo che la domanda basata sulla pretesa comunione
dei beni tra i coniugi risultava priva di fondamento in conseguenza
di quanto da essi stabilito in sede di separazione consensuale, dove
era stata pattuita l'attribuzione al marito del diritto di proprieta'
sull'intero immobile in questione.
Avverso tale sentenza l'Ancona ricorre in cassazione formulando
tre motivi. L'intimato non ha controdedotto.
                       MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo si deduce la violazione e falsa
applicazione degli artt. 1362 e 1363 cod. civ., sostenendosi che la
Corte di Appello erroneamente ha escluso l'immobile in contestazione
dalla comunione legale per essere intervenuta la rinunzia alla meta'
della proprieta' su di esso da parte della ricorrente, in sede di
separazione consensuale, attraverso la pattuizione che "detta unita'
immobiliare si attribuisce e resta in unica ed esclusiva proprieta'
al marito .... nulla dovendo quest'ultimo alla moglie, ad alcun
titolo, conguaglio o altro".
Secondo la ricorrente detta pattuizione non poteva ritenersi come
implicante una rinunzia in quanto, se fatta a titolo gratuito, era
nulla per difetto di forma, se a titolo oneroso, "per difetto di
unilateralita'".
Non sarebbe inoltre ammissibile la rinunzia ad un bene della
comunione legale. La pattuizione, invece, doveva essere interpretata
- tenuto conto che l'Alberani si era per parte sua impegnato a
corrispondere alla moglie, vita natural durante, un assegno di lire
un milione - in relazione a tale clausola dell'atto ed a quella che
prevedeva un successivo negozio di trasferimento dell'immobile,
dovendosi pertanto ritenere che la pattuizione anzi detta non
implicasse una rinunzia, bensi' la creazione di un vincolo
obbligatorio, correlato all'obbligo di mantenimento a carico del
marito e in favore della moglie.
Con il secondo motivo si deduce che la quota della comunione
legale tra i coniugi e' indisponibile sino al suo scioglimento, come
risulterebbe dalla ratio dell'istituto, nonche' dalle disposizioni
degli artt. 189, comma secondo, cod. civ. e 192, comma primo.
L'art. 189, secondo comma, prevede infatti che i creditori
particolari di ciascun coniuge possono soddisfarsi, in via
sussidiaria, sui beni della comunione e fino al valore corrispondente
a meta' della quota, mentre non possono espropriare la quota. L'art.
192, primo comma, prevede che ciascun coniuge deve rimborsare alla
comunione le somme prelevate per fini diversi dall'adempimento delle
obbligazioni su di essa gravanti.
Con il terzo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione
degli artt. 2699, 2657, 2643, n. 14 e 2908 cod. civ. per avere
erroneamente la Corte di Appello ritenuto la natura di scrittura
privata autenticata o di atto pubblico del verbale di separazione
consensuale. Secondo la ricorrente detto atto sarebbe una semplice
scrittura privata, non essendo l'autorita' giudiziaria in materia di
volontaria giurisdizione munita del potere di conferirgli valore di
atto pubblico, versandosi fuori dall'ipotesi prevista dall'art. 2908
cod. civ., che si riferisce all'attivita' giurisdizionale e non
consentendone la trascrizione ne' l'art. 2643, ne' l'art. 2657. Detto
atto, inoltre, sarebbe assoggettato, in sede di registrazione, a
tassa fissa e non a tassa proporzionale.
2. Il ricorso e' infondato.
Ragioni di ordine logico impongono il previo esame del terzo
motivo, investendo esso la questione preliminare dell'idoneita' del
verbale di separazione consensuale, in relazione alla sua natura
giuridica ed al contenuto consentito dalla legge, di essere mezzo
idoneo di trasferimento o rinuncia di diritti reali immobiliari.
Va considerato in proposito che la separazione consensuale e' un
negozio di diritto familiare, espressamente previsto dagli artt. 150
e 158 cod. civ. e disciplinato nei suoi aspetti formali dall'art. 711
c.p.c., il quale ne prevede la documentazione nel verbale di udienza
e ne subordina l'efficacia all'omologazione, attribuita alla
competenza del tribunale.
Come questa Corte ha gia' rilevato (Cass. 25 settembre 1978, n.
4277), detto accordo ha un contenuto essenziale - il consenso
reciproco a vivere separati - ed un contenuto eventuale, costituito
dalle pattuizioni necessarie ed opportune, in relazione
all'instaurazione di un regime di vita separata, a seconda della
situazione familiare (affidamento dei figli; assegni di mantenimento;
statuizioni economiche connesse). La sua efficacia e' subordinata
all'omologazione, regolando essa situazioni che possono trascendere
gli interessi disponibili delle parti, cosi' da rendere necessaria la
verifica da parte del Tribunale della sua conformita' alle norme che
tutelano interessi familiari indisponibili.
Questa Corte ha gia' avuto modo di affermare la validita' di
clausole, inserite nell'accordo di separazione, che riconoscano ad
uno o ad entrambi i coniugi la proprieta' esclusiva di singoli beni
mobili od immobili (Cass. II novembre 1992, n. 12110), ovvero ne
operino il trasferimento in favore di uno di essi al fine di
assicurarne il mantenimento (Cass. 27 ottobre 1972, n. 3299) o,
ancora, impegnino uno dei coniugi a compierlo (Cass. 21 dicembre
1987, n. 9500).
Rientra, infatti, pertinentemente nel contenuto eventuale
dell'accordo di separazione ogni statuizione finalizzata a regolare
l'assetto economico dei rapporti tra i coniugi in conseguenza della
separazione, comprese quelle attinenti al godimento ed alla
proprieta' dei beni, il cui nuovo assetto sia ritenuto dai coniugi
stessi necessario in relazione all'accordo di separazione e che il
Tribunale - con l'omologazione - non abbia considerato in contrasto
con interessi familiari prevalenti rispetto a quelli disponibili di
ciascuno di essi.
Detto accordo, in quanto inserito nel verbale di udienza, redatto
da un ausiliario del giudice a norma dell'art. 126 c.p.c. e diretto a
far fede di cio' che in esso e' attestato, deve ritenersi assuma la
forma di atto pubblico ai sensi e per gli effetti di cui all'art.
2699 cod. civ. costituendo, in quanto tale - dopo l'omologazione che
lo rende efficace - titolo per la trascrizione, a norma dell'art.
2657 cod. civ., ove implichi il trasferimento di diritti reali
immobiliari. Trasferimento che, in quanto si riconnetta alla
convenzione diretta a regolare il regime di separazione, facendone
parte, ne segue validamente la forma, senza che possa distinguersi
fra trasferimenti onerosi e gratuiti, non assumendo tale distinzione
rilievo, in quella sede, sotto il profilo formale, essendo l'atto
disciplinato, in via esclusiva, dalla normativa speciale dell'art.
126 c.p.c.
Secondo il ricorrente, argomenti contrari alle affermazioni che
precedono dovrebbero trarsi dalla circostanza che il verbale di
separazione viene registrato a tassa fissa e non proporzionale,
evidenziandosi in tal modo che esso, secondo l'intento legislativo,
non puo' contenere clausole a contenuto traslativo della proprieta'.
Deve peraltro osservarsi - senza con cio' nulla statuirsi sugli
aspetti tributari dell'atto in questione, che non formano oggetto del
presente giudizio - da un lato che il legislatore ben potrebbe
dettare, ai fini dell'imposta di registro, una normativa di favore
per i trasferimenti di proprieta' effettuati in relazione e nel
contesto - di atti di separazione consensuale; d'altro lato che, se
e' vero che l'art. 8, lett. f) del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131
prevede la registrazione a tassa fissa degli atti di separazione
consensuale, cio' non esclude che tale disposizione debba essere
coordinata con il disposto dell'art. 21 dello stesso d.P.R., il quale
regola la tassazione di atti a contenuto plurimo.
Da quanto precede deriva l'infondatezza del motivo.
3. Anche il secondo motivo - il cui esame e' a sua volta
preliminare rispetto a quello del primo che per alcuni versi ne
presuppone risolta la problematica - e' infondato.
Con esso si contesta che la quota della comunione legale tra i
coniugi sia disponibile prima dello scioglimento della comunione.
In proposito deve osservarsi che la comunione legale tra coniugi,
nell'assetto normativo vigente nel nostro ordinamento, e' un istituto
la cui caratteristica essenziale consiste nell'attribuzione ex lege
in proprieta' comune dei coniugi dei beni indicati nell'art. 177.
La fisionomia dell'istituto e' altresi' caratterizzata
dall'affidamento alla volonta' comune di entrambi i coniugi di
qualunque atto dispositivo dei beni facenti parte della comunione
(art. 180 cod. civ.), con la previsione solo in caso di contrasto di
un intervento autorizzatorio del giudice nell'interesse della
famiglia. Lo stesso compimento di atti di straordinaria
amministrazione da parte di un coniuge senza il consenso dell'altro,
non e' nullo o inefficace, ma solo annullabile (art. 184) entro un
termine breve, a richiesta del coniuge non consenziente, che anche
prima della scadenza di tale termine puo' convalidarlo.
Nessuna disposizione specifica tutela i creditori dagli atti
dispositivi dei beni della comunione al di fuori della norma generale
sulla revocatoria (art. 2901). Non in particolare - come sembra
affermare la ricorrente - gli artt. 189, secondo comma, e 192, primo
comma, cod. civ., il primo dei quali stabilisce unicamente un limite
(il valore della quota) alla garanzia sussidiaria offerta dai beni
della comunione ai creditori personali del coniuge per obbligazioni
anteriori al matrimonio; il secondo, l'obbligo di ciascun coniuge di
reintegrare la comunione delle somme prelevate dal patrimonio comune
per spese diverse da quelle indicate nell'art. 186, senza che da cio'
nulla possa dedursi, come invece vorrebbe la ricorrente, in ordine ad
una pretesa indisponibilita' della quota e dei diritti che ne fanno
parte.
Di notevole rilievo, ai fini della configurazione dell'istituto,
e' il sistema delle modificazioni convenzionali dei regimi
patrimoniali dei coniugi che, secondo la vigente normativa, possono
essere liberamente cambiati, passando dalla comunione legale alla
separazione dei beni, ovvero ad una comunione legale pattiziamente
modificata nei limiti consentiti dall'art. 210 cod. civ.
Per tali mutamenti e' richiesto unicamente l'atto pubblico, mentre
solo per l'opponibilita' ai terzi e' necessaria l'annotazione in
margine all'atto di matrimonio e, nei casi previsti dalla legge, la
trascrizione (artt. 162, terzo comma; 163, primo, terzo e quarto
comma; 2647).
Ne deriva che lo scioglimento della comunione legale e' rimessa
all'assoluta discrezionalita' dei coniugi, che possono liberamente
mutare tale regime patrimoniale, in modo da determinare la caduta dei
beni in comunione ordinaria, ovvero modificarne l'ampiezza sottraendo
ad essa alcune categorie di beni (art. 210 cod. civ.).
Al riguardo va rilevato che, da un lato l'ultimo comma dell'art.
191, dall'altro l'art. 2647, espressamente prevedono la possibilita'
di escludere beni dalla comunione legale esistente tra i coniugi,
anche sciogliendola limitatamente ad essa: il primo con riferimento
alle aziende gestite da entrambi i coniugi e costituite dopo il
matrimonio; il secondo prescrivendo (al primo comma) la trascrizione
delle convenzioni matrimoniali che ab origine escludano beni immobili
dalla comunione, nonche' (secondo comma) di quelle intervenute
successivamente ad escludere determinati beni immobili dalla
comunione (conforme a tale interpretazione della norma: Cass. 22
gennaio 1986, n. 397).
L'art. 2617 prevede, peraltro, "convenzioni" che escludono beni
dalla comunione ed a tale termine gli artt. 159, 162, 163 e 164 cod.
civ. danno il significato di un negozio normativo volto ad
identificare o a stabilire in via preventiva la disciplina del regime
patrimoniale della famiglia. D'altro canto puo' sostenersi che
l'ipotesi prevista dall'art. 191, ultimo comma, e' eccezionale e
tassativa: cosicche' la possibilita' di sottrarre beni al regime di
comunione, al di fuori dell'ipotesi prevista dall'art. 191 e senza
modificare con apposita "convenzione" detto regime, non puo' dirsi
esplicitamente prevista.
Nel caso di specie, tuttavia, non occorre risolvere in via
generale, sulla base di una interpretazione sistematica della
normativa, il problema della possibilita', da parte dei coniugi, di
sottrarre un singolo bene - o anche l'intera quota di un coniuge -
alla comunione legale, prima del suo scioglimento, lasciandola
sussistere solo in relazione agli acquisti futuri. Infatti la
rinuncia alla proprieta' del bene in questione, da parte di un
coniuge e in favore dell'altro, nel caso in esame e' avvenuta con
l'atto di separazione consensuale e, se e' vero che la comunione
legale in tale ipotesi si scioglie (art. 191) solo con l'omologazione
(Cass. 7 marzo 1995, n. 2652; 17 novembre 1993, n. 12523; 29 gennaio
1990, n. 560) e con effetto ex nunc, e' anche vero che la rinuncia in
questione era destinata - in quanto facente parte dell'accordo di
separazione - ad operare proprio da tale momento; cosicche',
diventando efficace nel momento in cui - se la comunione era
esistente (perche' di cio' si controverteva) - lo scioglimento
diventava efficace, detta rinuncia non poteva avere sottratto il bene
che ne formava oggetto alla comunione, essendo questa, se esistente,
in quel momento contestualmente disciolta.
Ne deriva che il motivo in esame deve essere ritenuto non fondato,
non influendo nel caso di specie sulla validita' della rinuncia
l'indisponibilita' - con esso sostenuta - dei beni facenti parte
della comunione, prima del suo scioglimento.
4. Venendo, infine, all'esame del motivo restante, va rammentato
che la Corte di Appello ha fatto derivare il rigetto della domanda di
accertamento della comproprieta' dell'immobile in questione, previo
riconoscimento dell'esistenza della comunione legale tra i coniugi,
dall'accertata e assorbente rinuncia, in favore del marito, da parte
dell'odierna ricorrente, di ogni suo diritto su tale immobile.
La ricorrente, con il motivo, ha dedotto l'invalidita' della
rinuncia per difetto di forma, se gratuita, o di "unilateralita'", se
onerosa, nonche' la violazione degli artt. 1362 e 1363 cod. civ.,
dovendosi ritenere, a suo giudizio, che le parti avessero inteso
instaurare un rapporto obbligatorio che impegnava essa ricorrente a
trasferire la sua quota dell'immobile ed il marito a provvedere al
suo mantenimento.
Quanto all'invalidita' della rinuncia per difetto di forma, il
profilo e' gia' stato esaminato e respinto in sede di esame del terzo
motivo.
Quanto all'allegato difetto di "unilateralita'", trattasi di
censura incomprensibile per la sua genericita' e, come tale,
inammissibile.
Riguardo al profilo inerente all'interpretazione della clausola di
rinuncia, va ribadito che l'accertamento del contenuto del negozio e'
di competenza del giudice di merito, nel caso di specie incensurabile
sia sotto il profilo motivazionale, sia sotto quello della violazione
delle norme che presiedono all'interpretazione della volonta'
negoziale, avendo la Corte di Appello adeguatamente motivato il
proprio convincimento sul significato della clausola di rinuncia,
ricostruendo la volonta' delle parti cosi' come prescritto dagli
artt. 1362 e 1363 cod. civ., con valutazione di merito che non puo'
essere oggetto di riesame in questa sede.
Il ricorso deve essere pertanto rigettato.
Sussistono giusti motivi per compensare le spese di questo grado
del giudizio.
                               P.Q.M.
La Corte di Cassazione.
Rigetta il ricorso e compensa le spese.
Cosi' deciso in Roma il 9 ottobre 1996.
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