Giacomo Oberto

LA COMUNIONE LEGALE DI FONTE NEGOZIALE:

RIFLESSIONI CIRCA I RAPPORTI TRA LEGGE E CONTRATTO

NEL MOMENTO GENETICO

DEL REGIME PATRIMONIALE TRA CONIUGI

 

Sommario: 1. L’instaurazione del regime di comunione tra coniugi e l’antica teoria della convenzione implicita. – 2. L’instaurazione del regime di comunione tra coniugi e la moderna tesi dell’effetto legale. – 3. L’opzione per il regime legale tra soggetti già coniugati e la convenzione sottoposta a termine iniziale o a condizione sospensiva. – 4. Sulla possibilità che il regime legale prenda vita tra coniugi in regime di separazione dei beni per effetto di un comportamento concludente.

 

1. Il titolo di questo articolo ha il sapore d’un ossimoro: la comunione «legale» si chiama così proprio perché non trova la sua fonte in un negozio giuridico, ma nella stessa legge, quale effetto «legale», cioè normale, del matrimonio [1], laddove l’idea dell’origine negoziale di un regime comunistico viene esclusivamente collegata alla comunione convenzionale (artt. 210 s. c.c.). Eppure basta porre mente al caso in cui due coniugi in regime di separazione intendano – avvalendosi della facoltà loro concessa dagli artt. 159 e 162 c.c. – instaurare il regime ex artt. 177 ss. c.c., per comprendere come anche il regime legale possa nascere per effetto di negozio (oltre tutto formale).

Non appena, poi, si rifletta un po’ più a fondo sulle concrete circostanze che possono caratterizzare il venire in essere della comunione legale, ci si rende conto che quest’ultima viene, a ben vedere, a confrontarsi con il principio di autonomia privata non solo ogni volta in cui in cui i coniugi in comunione, per rispondere a questa o a quella esigenza pratica, mostrino di voler, per così dire, «uscire dal seminato», appoggiandosi ai principi della negozialità per (tentare, quanto meno di) spezzare vincoli, lacci e lacciuoli (apparentemente, o realmente) imposti dagli artt. 177 ss. c.c. La comunione, infatti, si vede costretta a fare i conti con la libertà contrattuale già a partire dal suo stesso momento genetico. Si è avuto modo in altra sede di ricordare [2] quale ruolo la regola scolpita nell’art. 159 c.c. dispieghi su di una lettura del sistema della comunione in termini di un complesso di norme derogabili, ove non espressamente disposto in senso contrario dalla legge. In base all’opzione di politica legislativa volta a consentire ai coniugi di derogare in tutto o in parte al regime legale viene dunque consentito all’autonomia privata di valutare e sfruttare profili di convenienza economica legati a ragioni, per esempio, d’ordine fiscale [3], ovvero a «timori» legati alle conseguenze di un’eventuale crisi coniugale [4].

Non solo. Anche la «semplice» scelta consapevolmente operata per il regime legale (senza pensare ad ipotesi di comunione convenzionale dei beni, con conferimento di cespiti che sarebbero altrimenti personali ex art. 179, lett. a), c.c.) potrà caricarsi di una valenza, per così dire, para-successoria. Si pensi al caso in cui esista uno squilibrio – magari vistoso, come con non di rado accade – tra i redditi e le residue aspettative di vita dell’uno e, rispettivamente, dell’altro coniuge (di solito, i primi in relazione di proporzionalità inversa rispetto alle seconde…). L’instaurazione del regime legale in una situazione del genere farà sì che gli acquisti compiuti, manente communione, dal coniuge più anziano con redditi e/o proventi destinati alla comunione de residuo, mentre, da un lato, saranno sottratti ad ogni possibilità di confluire nel patrimonio personale dell’acquirente, per impossibilità di applicarvi il meccanismo di surrogazione ex art. 179, lett. f), c.c. [5], dall’altro, non saranno mai qualificabili alla stregua di donazioni indirette [6], con conseguente impossibilità per altri legittimari [7] di richiedere dopo la morte del coniuge acquirente, nei confronti del superstite, la collazione e/o la riduzione dell’effetto coacquisitivo ex art. 177, lett. a), c.c. 

Non vi è poi dubbio che dell’autonomia contrattuale i coniugi fanno uso allorquando, anche senza optare per il regime di separazione, decidono di allontanarsi (di poco o di molto, non rileva) dallo schema offerto dagli artt. 177 ss. c.c.

Il problema è invece quello di comprendere se, nell’ipotesi in cui i nubenti non operino alcuna scelta, la genesi del regime legale vada in qualche modo comunque ricondotta ad un negozio giuridico, concluso in forma tacita.

La questione del rapporto tra effetto ex lege e volontà dei coniugi nella instaurazione del regime legale si pone da sempre, sin dai più remoti albori dell’istituto.

Si è avuto modo dire, approfondendo in altra sede i profili storici del regime legale, che fu il Molineo ad avanzare per primo l’idea, due secoli dopo ancora accanitamente difesa da Pothier, secondo la quale (nei territori, ovviamente, di droit coutumier) la comunione si costituiva «ex tacito & praesumpto contractu a consuetudine locali introducto», o, se si preferisce, per via di una convenzione «virtuelle et implicite» [8]. A ben vedere, come si è cercato di dimostrare altrove, questa tesi aveva più che altro il sapore d’un astuto espediente volto – mercé l’affermazione del carattere di statut personnel, e non già di statut réel, del regime legale – a consentire ai soggetti coniugati senza contratto di matrimonio sotto il vigore di una coutume che prevedeva come regime legale la comunione, di far ricadere nel patrimonio comune anche gli immobili situati in regioni in cui essa non era praticata, o addirittura nel ressort del parlamento di Rouen, la cui coutume addirittura vietava il regime comunitario. L’idea era quindi null’altro che l’espressione di un favor communionis, o, se si preferisce, di un favor per il diritto della capitale (inteso, dunque, nei fatti, già da prima del Bourjon, come paradigma del droit commun de la France) rispetto a quello delle province.

Essa era però così radicata da influenzare anche il profilo della successione delle leggi nel tempo. Ed in effetti [9] la scelta di ritenere il regime legale (di comunione o separazione che fosse) come il frutto di un atto negoziale tornò molto utile allorquando – posta la distinzione tra situazioni giuridiche legali, soggette all’azione immediata della nuova legge, e situazioni giuridiche contrattuali, che continuavano ad essere disciplinate dalla legge sotto il cui imperio sono sorte [10] – si ritenne, di fronte alla mancanza di specifiche disposizioni transitorie sul punto nel Code Napoléon [11], che non solo le convenzioni matrimoniali già stipulate, in quanto contratti, avrebbero continuato a mantenere efficacia in conformità alle disposizioni previgenti, ma che anche «le régime légal doit être également immuable, et qu’il doit conserver son empire pour tous les mariages qui se sont conclus sans contrat sous son empire» [12].

Sta comunque di fatto che il richiamo all’idea di un contratto implicito rappresentò a lungo una costante del pensiero giuridico transalpino, probabilmente anche alla luce del fatto che l’art. 1400 code civil, rimasto invariato ad oggi, continua a porre espressamente sullo stesso piano «La communauté, qui s’établit à défaut de contrat» e quella che s’instaura «par la simple déclaration qu’on se marie sous le régime de la communauté». Per questo, ad esempio, ancora il Laurent insisteva sull’idea per cui la «communauté légale est, en réalité, une communauté conventionnelle, en ce sens qu’elle résulte d’un contrat soit exprès, soit tacite» [13]. Va però aggiunto che la dottrina successiva, a partire dai primi decenni del XX secolo, lasciato alle speciali regole internazionalprivatistiche il tema della determinazione del diritto applicabile ai regimi patrimoniali, sembra avere definitivamente abbandonato l’idea del contratto tacito, preferendo ravvisare nell’operatività del regime legale null’altro che «un effet légal du mariage» [14].

L’idea di cui si è sin qui trattato non era peraltro confinata al di là delle Alpi.

Sempre in un’ottica storica si potrà citare in proposito il pensiero del siciliano Mario Giurba, il quale, discutendo nel XVI secolo del caso in cui la futura moglie «se verbis jactaverit divitem, cum non esset, uti diviti nubat viro, cui secundum Messanae usum, exinde nupsit», concedeva al marito il diritto di adire l’autorità giudiziaria per impugnare per dolo e conseguentemente far dichiarare non operante il regime di comunione – che secondo le consuetudini siciliane s’instaurava per legge [15] – pur rimanendo il vincolo (personale) matrimoniale «inseparabile» [16]. Analoga possibilità era prevista per la moglie, nel caso in cui fosse stato il marito a millantarsi ricco «ut divitem, quam ambiebat uxorem secundum Messanae morem duceret, & natis filiis opulentae illius dotis esse particeps» [17], così come nel caso in cui la moglie fosse stata ingannata mercé la collusione d’un terzo [18]. Ora, la previsione di rimedi contrattuali per questa costituzione «viziata» del regime legale manifesta nel modo più evidente che, secondo questa concezione, la comunione nasceva in forza di un contratto implicito. Ad analoghe conclusioni, sulle stesse questioni, perveniva l’antica dottrina tedesca, che, nei territori in cui la Gütergemeinschaft si costituiva per legge, consentiva purtuttavia al coniuge deceptus (l’esempio portato era quello dell’uomo ingannato da una cameriera che si fosse spacciata per donna possidente) di ottenere la restitutio in integrum ex capite doli mali e dunque, in buona sostanza, l’instaurazione iussu iudicis di un regime di separazione dei beni [19].

 

2. La questione cui qui si accenna non risulta affrontata dalla civilistica contemporanea nel nostro Paese [20]. Peraltro, ampliando per un attimo la visuale, scopriamo che neppure all’odierna mentalità giuridica italiana appare poi così del tutto estranea la possibilità di riconoscere l’esistenza di un atto di autonomia laddove si ricolleghino ex lege determinati effetti all’assenza di una dichiarazione negoziale: basti pensare in proposito all’atteggiamento giurisprudenziale nei confronti del rinnovo ope legis, per mancata comunicazione di disdetta in un termine fissato dalla legge, di determinati contratti di cui sia parte una Pubblica Amministrazione. Qui, invero, la circostanza che la rinnovazione del rapporto di durata sia di fonte legale non impedisce alla Cassazione di ritenere che questa stessa rinnovazione sia improduttiva d’effetti, per «incompatibilità con le regole dettate in tema di forma per gli atti stipulati dagli enti pubblici» [21]. Prova, questa, evidente, del fatto che gli effetti della rinnovazione non vengono collegati ad un silenzio ritenuto dalla legge giuridicamente rilevante, ma ad un vero e proprio contratto di rinnovazione, considerato come implicitamente concluso per fatti concludenti e pertanto nullo per violazione delle regole in tema di forma dei contratti della P.A.

Simili modo, la Cassazione richiede che, per gli immobili sottoposti a pignoramento, l’efficacia della rinnovazione tacita della locazione in corso sia sottoposta all’autorizzazione del giudice dell’esecuzione, trattandosi di «nuovo negozio giuridico bilaterale» [22].

La dottrina ha posto in luce altri casi in cui si tende a ridurre il c.d. «silenzio circostanziato» ad una vera e propria dichiarazione tacita, consentendo l’impugnativa del silenzio stesso per qualsiasi vizio della capacità o del volere [23]. Inoltre, e sempre ad esempio, alcune decisioni di legittimità legano la vincolatività del progetto di divisione non contestato all’ «accordo di carattere negoziale concluso dalle parti» tacitamente per effetto della mancata contestazione del progetto predisposto dal giudice, ex art. 789, terzo comma, c.p.c., affermando la possibilità per le parti stesse di far valere eventuali vizi del consenso «come nelle normali ipotesi d’impugnativa di un negozio, in sede ordinaria di cognizione» [24].

Il problema è dato però dal fatto che, in tutte le ipotesi solitamente individuate in relazione alla materia della conclusione del contratto ed al tema della rilevanza a tali fini del silenzio circostanziato, ci si trova di fronte alla necessità di comprendere se dal comportamento dei soggetti sia desumibile la nascita di un rapporto giuridico, in possibile alternativa rispetto all’assenza di un qualsiasi rapporto. Nel campo dei regimi patrimoniali della famiglia, invece, proprio sulla base del presupposto dell’esistenza di un matrimonio tra le parti, la nascita di un rapporto (cioè di un regime patrimoniale, qualunque esso sia) è conseguenza ineludibile di tale premessa. L’alternativa non si pone, dunque, tra esistenza o inesistenza di un rapporto tra le parti, ma tra un rapporto (regime legale) o un altro (regime convenzionale).

Ciò aiuta a comprendere perché nell’instaurazione del regime legale quale conseguenza della mancata scelta (al momento della celebrazione delle nozze) di un regime diverso non possano riconoscersi gli estremi di un negozio giuridico concluso tacitamente. La riprova sta nel fatto che se la mancata scelta di un regime alternativo fosse effetto di una concorde determinazione delle parti raggiunta in presenza di un vizio del consenso o di simulazione [25] l’invalidità del negozio non comporterebbe altro se non… l’applicazione del regime invalidamente costituito, non potendo darsi un matrimonio senza regime patrimoniale: regime che, per definizione, non potrebbe essere altro se non quello legale, in difetto di convenzioni in deroga. Ciò, si badi, addirittura nel caso in cui lo stesso negozio matrimoniale dovesse intendersi affetto da invalidità, posto che la relativa declaratoria determinerebbe (ex art. 191 c.c.) lo scioglimento della comunione, così supposta ex lege come esistente ed operativa sino al momento della decisione giudiziale [26].

Quanto sopra rafforza l’idea per cui l’instaurazione del regime legale è effetto, per l’appunto, e sotto tutti i profili, ex lege, come del resto si è in altra sede dimostrato trattando della natura non negoziale del coacquisto automatico ex art. 177, lett. a), c.c. [27] ed appare ulteriormente confermato dal carattere «suppletivo» del regime legale, destinato ad entrare in vigore nel caso di stipula di convenzioni in deroga, che risultino invalide per un qualsiasi motivo [28]. In questo caso, quindi, è la volontà della legge che «fa premio» su quella delle parti, «imponendo» a soggetti che abbiano celebrato un matrimonio non inesistente, in assenza di convenzioni in deroga (o in presenza di convenzioni in deroga invalide), il regime legale.

Anche per queste ragioni, dunque [29], non sembra possibile ritenere applicabile al caso in esame la disposizione transitoria di cui all’art. 2, l. 10 aprile 1981, n. 142, secondo cui l’autorizzazione giudiziale per la stipula di convenzioni matrimoniali «è prevista soltanto per il mutamento, dopo la celebrazione del matrimonio, di convenzioni matrimoniali stipulate per atto pubblico prima dell’entrata in vigore della presente legge». Ne deriva che, per le coppie formatesi dopo l’entrata in vigore della riforma del 1975 e prima della entrata in vigore della citata novella del 1981, le quali non abbiano espresso all’atto della celebrazione delle nozze l’opzione per alcun regime, non solo non sussiste alcuna convenzione matrimoniale «per atto pubblico» da modificare, ma non sussiste, prima ancora, alcuna convenzione tout court.

 

3. Carattere negoziale e di convenzione matrimoniale a tutti gli effetti andrà invece riconosciuto all’intesa con cui i coniugi, già sottoposti a regime diverso da quello ex artt. 177 ss. c.c., decidessero di optare per quest’ultimo. E’ evidente che, a rigore, un regime legale non potrebbe costituirsi che ex lege. Peraltro, proprio in omaggio alla libertà negoziale che caratterizza il regime patrimoniale della famiglia, avuto altresì riguardo al principio di libera mutabilità delle convenzioni e dei regimi, deve potersi consentire a chi avesse optato in origine per un regime diverso, di «tornare alla regola» per mezzo di apposita convenzione, distinta da quella che dà normalmente vita al sistema descritto dagli artt. 210 s. c.c. Mentre in quest’ultimo caso, infatti, l’accordo tende (secondo le parole dell’art. cit.) a «modificare il regime della comunione legale dei beni», la convenzione qui in discorso è volta a sottoporre la coppia, puramente e semplicemente, al regime legale, come se i coniugi celebrassero le nozze in quel momento (ovviamente, senza opzione per un regime diverso).

L’unica particolarità da sottolineare al riguardo è che, nel caso di successivi ed alternati passaggi dal regime legale, a quello convenzionale e, ancora, a quello legale, i coniugi potrebbero decidere (in tal caso operando con la convenzione ex art. 210 c.c.) di riestendere quest’ultimo anche a quei beni che, già oggetto di un precedente regime legale inter partes, erano poi transitati in comunione ordinaria.

Potrà aggiungersi che un accordo del genere di quello qui descritto potrebbe anche essere previsto sotto condizione sospensiva o a termine. Il tema è stato affrontato altrove, per cui non rimane che fare rinvio alla relativa trattazione in cui, evidenziando argomenti anche di carattere storico, si è affermato che, sulla scorta del principio di libertà contrattuale, valevole per le convenzioni matrimoniali, le parti sono libere di determinare cause di cessazione del regime diverse da quelle stabilite dalla legge [30].

Naturalmente, anche in relazione al profilo (opposto rispetto a quello appena visto) dell’inizio di operatività del regime, occorrerà tenere conto dei principi inderogabili. Primo tra tutti quello secondo il quale i regimi matrimoniali possono avere effetto solo si nuptiae sequantur, per effetto del quale l’efficacia della convenzione prenuziale è naturalmente subordinata alla celebrazione delle nozze, che ne viene così a costituire una condicio iuris [31], sebbene ad essa non possa applicarsi il disposto dell’art. 1359 c.c., allorquando uno dei nubendi, senza giusto motivo, rifiuti di ottemperare alla promessa di matrimonio, per il riconoscimento che si deve alla libertà matrimoniale [32]. Da quanto sopra deriva che non avrebbe valore un termine o una condizione iniziali fissate in modo tale da rendere il regime di comunione operativo da un momento nel quale le parti non sono ancora coniugate.

Pure sul tema dell’ammissibilità, in linea di massima, della sottoponibilità della convenzione istitutiva del regime legale a termine e a condizione esiste una tradizione storica che sembra deporre in senso positivo, come si è avuto modo di dire in altra sede [33]. Riprova ne è il fatto che, pur prevedendo in Francia l’art. 1395 del Code l’obbligo di stipula delle convenzioni «avant la célébration du mariage», le quali «ne peuvent prendre effet qu’au jour de cette célébration», si ammette pacificamente la validità di clausole che, come ad esempio, quella definita come «alsaziana», consentono ai coniugi di prevedere, in caso di divorzio, la ripresa degli apporti di ciascuno [34].

Ma la miglior prova del fatto che le possibili perplessità sulla possibilità di legare l’efficacia di un regime patrimoniale ad un termine o ad una condizione erano unicamente dipendenti dall’antica (e ormai praticamente ovunque abbandonata) regola dell’immutabilità delle convenzioni matrimoniali risiede nell’evoluzione che ha subito la dottrina spagnola sul punto. Così, mentre prima della riforma del 1975 si tendeva a negare ogni possibilità di esplicazione all’autonomia negoziale, successivamente a questa si ritiene comunemente «que los novios o cónyuges puedan someter sus stipulaciones capitulares a condición o término» [35], evidenziandosi così che, ad esempio, il collegamento del régimen de comunidad al nacimento de hijos risponde anche ad alcune antiche consuetudini iberiche, nonché di altri Paesi, compresa l’Italia [36]. Pure in Germania vale la regola per cui «Das eheliche Güterrecht wird (…), vom Grundsatz der Vertragsfreihet beherrscht», con la conseguenza che, valendo per la conclusione dei contratti matrimoniali le regole generali vigenti per ogni tipo di contratto, «können die Parteien unter einer Bedingung oder Zeibestimmung kontrahieren, etwa für den Fall der Geburt eines Kindes Gütergemeinschaft verabreden» [37].  

Anche in Italia la dottrina ammette la possibilità di apporre alle convenzioni matrimoniali condizioni sospensive e termini iniziali, anche in considerazione della regola generale, adottata dalla riforma del 1975, della mutabilità delle convenzioni medesime [38], nonché, se la convenzione contiene una liberalità, la previsione di un modo [39], avuto altresì riguardo alla natura contrattuale delle convezioni matrimoniali [40]. Sembra però evidente la necessità di accertare, caso per caso, che la prefissione di un termine o di una condizione non venga a porsi in contrasto con principi inderogabili: così non sarebbe possibile, come si è appena visto, la previsione di un termine iniziale o di una condizione sospensiva tali da rendere una convenzione prenuziale efficace prima della celebrazione del matrimonio [41].

A quanto appena detto non ostano le osservazioni sopra svolte sul carattere non negoziale dell’instaurazione del regime legale (tra soggetti non ancora vincolati da matrimonio), perché, nel momento in cui le parti decidono di sottoporre l’instaurazione del regime ex artt. 177 ss. c.c. a condizione o a termine esse danno vita ad un regime di fonte convenzionale, per cui le regole in oggetto troveranno applicazione non più per volontà di legge sul presupposto dell’assenza di una determinazione convenzionale, ma, tutto al contrario, proprio per effetto di una determinazione convenzionale in deroga, laddove la deroga rispetto alla previsione legislativa è costituita proprio dalla decisione di non far coincidere l’esordio del regime con il momento iniziale del rapporto coniugale.

I rapporti con i terzi saranno determinati sulla base delle norme in tema di pubblicità. La comunione, qui sorta non già ex lege, ma per effetto di convenzione delle parti, sarà opponibile all’esterno sulla base della effettuazione della pubblicità della convenzione sull’atto di matrimonio o, se si segue la tesi dello scrivente, in alternativa, mercé trascrizione sui registri immobiliari [42].

 

       4. Un’ulteriore questione, legata alla possibilità che il regime legale prenda vita non ex lege, ma per effetto della volontà delle parti, è quella dell’eventuale rilievo di un comportamento concludente tenuto da coniugi che, pur avendo optato per la separazione dei beni, attuino poi, di fatto, un regime di tipo comunitario, con la confusione dei rispettivi patrimoni e la gestione congiunta degli stessi. All’interrogativo, posto tempo addietro da un illustre comparatista [43], va senz’altro data risposta negativa.

Non è contestabile, certo, che qualche dubbio potesse porsi al riguardo anteriormente all’entrata in vigore della Riforma del 1975, in considerazione, da un lato, del fatto che il sistema di separazione in allora vigente come legale non presupponeva, per definizione, la previa espressione di alcuna convenzione matrimoniale in contrasto con il comportamento attuoso poi tenuto dai coniugi, e, dall’altro, dell’esistenza di un dato positivo rappresentato dalla disciplina della comunione tacita familiare, la quale, sebbene tramite un semplice un rinvio agli usi e con letterale circoscrizione al caso dell’ «esercizio dell’agricoltura», attribuiva comunque rilievo ad una comunione realizzata dai coniugi rebus ipsis et factis, complice anche una giurisprudenza incline ad ampliare il contenuto del «vecchio» art. 2140 c.c. [44]. In aggiunta a ciò si sarebbe potuto anche considerare il dato tratto dalla comparazione con quei sistemi stranieri di comunione che, posti di fronte ad un’Italia «separatista», dovendo far applicazione del regime in allora vigente nel nostro Paese alle coppie di emigranti italiani, non avevano esitato a rivalutare in chiave comunitaria l’istituto della (in allora vigente, ma oggidì non più disponibile) società civile, così equitativamente pervenendo (in favore, soprattutto, del coniuge superstite) a risultati assai vicini a quelli cui avrebbe dato luogo l’esistenza di un regime legale comunistico, ad instar di quello proprio dell’ordinamento del Paese in cui quegli italiani avevano, magari per lunghi anni, vissuto e lavorato [45]. 

Ora, come pure rilevato in dottrina [46], la Riforma del diritto di famiglia del 1975 ha soppresso l’art. 2140 c.c., disciplinando gli apporti di lavoro nell’impresa familiare e stabilendo, all’art. 230-bis, sesto comma, c.c., che spetta agli usi il compito di disporre, in via residuale, delle comunioni tacite familiari sorte nell’esercizio dell’agricoltura. Dunque, a parte la funzione residuale del comma (all’interno, si badi, di una funzione residuale in linea generale assegnata all’impresa familiare dalla prima parte del primo comma dell’art. cit.), è difficile – di fronte all’insistenza del legislatore – continuare a vedere nel riferimento all’agricoltura una menzione involontaria e, come tale, aggirabile. Ma l’argomento più rilevante ha a che vedere con il carattere (dal 1975) pattizio del regime di separazione, posto che, a partire dalla più volte citata Riforma, il giudice provvede sulla domanda di un coniuge che a suo tempo aveva dichiarato con chiarezza di volere escludere il regime comunistico. Il fatto concludente cozza così contro la dichiarazione di volontà, a suo tempo espressa nelle forme richieste dalla legge (art. 162 c.c.).

A fronte di questi rilievi non sembra possibile obiettare che «il diritto romano, non derogato dalle norme di oggi, pratica la communio incidens che nasce dalla confusione» [47]. Se questa affermazione risponde sicuramente a verità, come attestato dalla solidissima tradizione del nostro diritto comune, incline a riconoscere la presenza di una societas omnium bonorum tra fratelli o comunque tra parenti conviventi, alle condizioni in altra sede illustrate [48], è altrettanto vero che né il diritto italiano, né quello comune da cui deriva il nostro ordinamento hanno mai attribuito rilievo a gestioni patrimoniali ed a comportamenti concludenti in contrasto con quanto scolpito nei pacta nuptialia.

Inoltre, se è sicuramente innegabile che l’unione materiale, come la gestione comune, crea irreversibili fenomeni di promiscuità, è altrettanto vero che la solennità delle convenzioni matrimoniali sembra esistere proprio per porre chiarezza in un settore nel quale la citata promiscuità appare, per definizione, oltre che per la natura delle cose e dei rapporti, sovente (per non dire sempre) inevitabile. Del resto, a ben vedere, proprio il fatto che il nostro legislatore, pur facendo salva la facoltà per i coniugi di liberamente mutare regime, sottoponga tali cambiamenti alle prescrizioni rigidamente formali degli artt. 162 e 163 c.c. depone per un chiaro intento volto ad impedire che i rapporti inter coniuges possano transitare da un regime all’altro sulla base del solo comportamento tenuto dalle parti. Ulteriore e definitiva prova di ciò è rinvenibile negli artt. 217, ult. cpv. e 218 c.c., da cui appare chiaramente desumibile che comportamenti di gestione promiscua dei patrimoni dei coniugi in regime di separazione non determinano in alcun modo la cessazione del regime stesso ed il passaggio a quello antagonista. 

Le conclusioni testé raggiunte ricevono conferma a livello giurisprudenziale da una vicenda conclusasi con una decisione di legittimità del 2009 [49]. Sebbene sul punto specifico la Suprema Corte si sia limitata ad osservare incidentalmente che le censure «attinenti alla dedotta instaurazione di un regime di comunione convenzionale in virtù di una intesa tacita tra i coniugi» non potevano ritenersi ammissibili, in quanto non dedotte in ricorso, ma (tardivamente) avanzate con la memoria illustrativa, va tenuto conto che la relativa decisione d’appello, sul punto passata in giudicato, aveva affrontato funditus la questione. Di fronte alla domanda della moglie diretta al riconoscimento della comproprietà su di un immobile acquistato dal solo marito in regime di separazione dei beni, la sentenza impugnata (e confermata) aveva espressamente escluso che tra le parti si fosse instaurata una «comunione di fatto»: una comunione che si sarebbe, cioè, creata, a dire della moglie, per effetto del comune godimento della casa e del pagamento da parte sua delle relative tasse [50].

 

SOMMARIO

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[1] E’ impossibile in questa sede fornire un elenco esauriente dei contributi dottrinali sulla comunione legale. Sia consentito per tutti rinviare a Oberto, La comunione legale tra coniugi, I e II, Milano, 2010, passim.

[2] Cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, II, cit., p. 2135 ss.

[3] Per un’analisi delle considerazioni fiscali che possono spingere alla adozione di un regime piuttosto che dell’altro Ieva, Le convenzioni matrimoniali, in Trattato di diritto di famiglia, diretto da Zatti, III, Milano, 2002, p. 31 ss.

[4] Per un uso della scelta in favore del regime di separazione in contemplation of divorce cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, Milano, 1999, p. 558 ss.; per analoghe considerazioni cfr. Sesta, Titolarità e prova della proprietà nel regime di separazione dei beni, in Familia, 2001, p. 871 ss.

[5] Cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 859 ss.

[6] Sul tema cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 799 ss.

[7] O, addirittura, per i legittimari tout court: si pensi all’ipotesi in cui il coniuge anziano, che avesse contratto nuovo matrimonio in presenza di figli di primo letto, abbia ancora il tempo, prima di morire, di divorziare dalla (ex) nuova fiamma… In tal caso la seconda ex moglie potrebbe comunque fare salva la sua quota in comunione sui beni medio tempore acquisiti, pur non possedendo neppure più la veste di legittimario.

[8] Cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 61 ss. (in partic. nota 197).

[9] Cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 823 ss.

[10] V. per tutti Roubier, Le Droit transitoire (Conflits des lois dans le temps), Paris, 1960, p. 293.

[11] Il codice civile francese, dopo aver solennemente consacrato, all’art. 2, il principio fondamentale dell’irretroattività della legge, conteneva pochissime disposizioni sparse sulla disciplina transitoria di alcuni specifici rapporti (sul punto cfr. Roubier, op. cit., p. 89 ss., 93 ss.). Per questo la dottrina e la giurisprudenza si videro costrette ad elaborare alcune teorie, tra le quali spicca quella dei droits acquis (cfr. Roubier, op. loc. ultt. citt.).

[12] Cfr. Roubier, op. cit., p. 394 (anche per i richiami, in nota 1, alla giurisprudenza), il quale soggiunge che «On peut, en effet, considérer que les parties ont pu ne pas passer de contrat particulier parce qu’elles étaient satisfaites du régime légal, et on ne peut cependant les obliger à reprendre dans un contrat toutes les dispositions de la loi en vigueur. Il convient d’ailleurs de reconnaître que l’extrême complexité des régimes matrimoniaux rend très difficile l’introduction de nouvelles règles dans un bloc de clauses souvent indivisibles. Aussi voit-on assez peu souvent de modification législative de ce genre ; ce qui, au contraire, arrive quelquefois, notamment au moment d’une codification ou d’une annexion de territoire, c’est la possibilité de la substitution d’un régime entier à un autre, sous certaines conditions d’option et de délai ; tel fut le cas lors de la réintroduction du droit civil français en Alsace-Lorraine (L. 1er juin 1924, art. 127 et s.) le régime de la communauté réduite aux acquêts devait remplacer, à l’expiration d’un délai d’une année pendant lequel les intéressés pourraient faire une option contraire, le régime légal antérieur du Code civil allemand». Sul tema v. anche Chabot de L’allier, Questions transitoires sur le Code Napoléon, relatives à son autorité sur les actes et les droits antérieurs à sa promulgation. Et dont la discussion comprend 1°. le tableau des diverses législations sur chacune des matières qui sont traités, 2°. des explications sur les lois anciennes et sur le code, I, Paris, 1809, p. 79 ss.

[13] Laurent, Principes de droit civil, XXI, Bruxelles, 1878, p. 232; v. inoltre, ad es., Guillouard, Traité du contrat de mariage, I, Paris, 1885, p. 319: «la base des deux communautés, légale ou conventionnelle, est la même, la volonté des parties, volonté expresse dans un cas, volonté présumée dans l’autre».

[14] Cfr., già alla metà del secolo XIX, Odier, Traité du contrat de mariage ou du régime des biens entre époux, I, Paris, 1847, p. 49: «Nous mettons la loi, expression de la volonté générale, fort au-dessus de l’expression présumée de la volonté de deux particuliers ; nous ne voyons aucune nécessité de justifier la première par la seconde, et de recourir à la fiction intermédiaire d’une convention, là où le législateur a prononcé directement». Per successive prese di posizione in favore della tesi dell’effet légal v. ad es. Ponsard, in Aubry e Rau, Droit civil français, VIII, Paris, 1973, p. 117: «le régime matrimonial est trop lié par sa nature à l’acte même de mariage pour ne pas être considéré comme un effet légal du mariage». V. inoltre, ad es., Flour e Champenois, Les régimes matrimoniaux, Paris, 1995, p. 136: «Sur le plan des textes, il y a pétition de principe à affirmer que le régime légal est une convention tacite, au motif qu’il ne s’applique qu’à défaut de conventions spéciales (art. 1387). Il n’est pas plus probant de tirer argument du fait que la matière est traitée parmi les autres contrats, alors que chacun sait que le plan du code n’est guère scientifique. Sur le plan rationnel, il a fallu les exagérations du “dogme” de l’autonomie de la volonté pour soutenir, au prix d’une pure fiction, que les époux qui se marient sans contrat “veulent” un régime légal sur les dispositions duquel la moindre expérience révèle qu’il n’est pas usuel qu’ils se documentent. Ces arguments n’emportent plus la conviction. La doctrine aujourd’hui dominante voit dans le régime légal un effet du mariage. Sans aller jusqu’à les rendre impératives, le législateur édicte les règles qu’il estime le mieux convenir à un aménagement équitable des rapports pécuniaires entre époux. Certains considèrent en outre que, même dans les régimes conventionnels, il existe une part irréductible de dispositions qui constituent des effets légaux du mariage».

[15] Per approfondimenti storici sul punto cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 17 ss.

[16] Cfr. Giurba, Lucubrationum Pars Prima, in omne ius municipale, quod statutum appellant, S.P.Q. Messanensis, suisque districtus, & totius fere Siciliae, cit., p. 136 s.: «Si vero dolosam, & fraudulentam sic contractam bonorum societatem dissolvere nolit mulier, quae decepit, illam dirimere potest Iudex, impetrata a decepto viro in integrum restitutione».

[17] Cfr. Giurba, Lucubrationum Pars Prima, in omne ius municipale, quod statutum appellant, S.P.Q. Messanensis, suisque districtus, & totius fere Siciliae, cit., p. 137.

[18] Cfr. Giurba, Lucubrationum Pars Prima, in omne ius municipale, quod statutum appellant, S.P.Q. Messanensis, suisque districtus, & totius fere Siciliae, Amstelodami, 1651, p. 138: «Finge Tititum Seiam ambientem habere in uxorem, ab ea tamen recusatum, cum pauper esset, Caio collusisse recipiendo aliquot bona sua sub conditione, ut si quam donationem in eum conferret Cajus, infecta, & fimulata foret. Si Tiutius hoc modo dives putativus factus, accepit Seiam in uxorem, secundum Messanensem hanc consuetudinem, detecta exinde simulatae hujus donationis fraude; Nec posset, Seia uxor, a Messanensi hoc vivendi more, quo contraxit, recedere; quia bona antea a Cajo simulate data (pacto illo cum Titio inito non obstante) communia sunt inter conjuges, & filio, Ut contra Cajum decipiendi animo donantem, conditio ex lege, aut de dolo competat actio uxori, & filiis, pro eorum tertia».

[19] Cfr. Lange, Die Rechts-Lehre von der Gemeinschaft der Güther unter denen teutschen Eheleuten, zu Latein Communio Bonorum Conjugalis genannt, aus ihren ächten Quellen und nach unverwerflichen Grundsätzen erläutert, Beyreuth, 1766, p. 143 ss.: «Gesetzt aber, es gäbe sich ein Frauenzimmer vor sehr reich aus, und inducierte eine Manns-Person betrüglich zur Vereheligung mit ihr, quaeritur: Ob hier auch die communion Platz greiffen müsse? Ich antworte: allerdings (…). Weil sie aber vorsetzlich den Mann betrogen hat, welches ich praesupponire; so sehe ich keine Ursache ein, warum man dem Mann die restitutionem in integrum ex capite doli absprechen könne. Die Ehe an und vor sich muss bestehen (…). Die communio bonorum als ein effectus civilis matrimonii aber kan propter dolum uxoris aufgehoben, und von dem Mann coram judicio gebeten werden». Analoghe considerazioni in Neuß, Theorie der Lehre von der ehelichen Gütergemeinschaft sowohl im Allgemeinen als nach den besonderen Gewohnheiten im Herzogthume Berg, Düsseldorf, 1808, p. 128.

[20] Lo scrivente l’ha trattata per la prima volta in Oberto, La comunione legale tra coniugi, II, cit., p. 2147 ss.

[21] Cfr. ad es. Cass., 12 luglio 2000, n. 9246; v. inoltre Cass., 20 settembre 2000, n. 12429; Cass., 20 settembre 2000, n. 12432; Cass., 22 novembre 2000, n. 15095; Cass., 3 gennaio 2001, n. 59. V. anche Cass., Sez. Un., 6 luglio 1963, n. 1817, secondo cui «La volontà di obbligarsi della pubblica amministrazione non può desumersi da facta concludentia, ma deve essere espressa nelle forme di legge, tra cui la forma scritta, richiesta ad substantiam. Pertanto, in caso di locazione di un immobile di proprietà della pubblica amministrazione, non può trovare applicazione l’istituto della rinnovazione tacita del contratto, che viene posto in essere con una manifestazione tacita di volontà di entrambe le parti contraenti, desunta dal fatto che il conduttore, alla scadenza del contratto, rimane nella detenzione della cosa locata senza l’opposizione del locatore, e che dà luogo a un negozio giuridico nuovo».

[22] Cfr. Cass., 5 dicembre 1970, n. 2576, secondo cui «Anche per la rinnovazione tacita della locazione di immobile, successiva al pignoramento ed anteriore alla vendita forzata, occorre l’autorizzazione del giudice dell’esecuzione. Invero, la rinnovazione tacita della locazione integra il perfezionarsi di un nuovo negozio giuridico bilaterale, sicché, ove trattisi di immobile pignorato, non vi è ragione per far capo ad una disciplina diversa da quella dettata genericamente per la locazione dall’art 560 cod. proc. civ., comma secondo». V. inoltre, nello stesso senso, Cass., 4 settembre 1998, n. 8800; Cass., 25 febbraio 1999, n. 1639; Cass., 30 ottobre 2002, n. 15297.

[23] Cfr. Sacco, Il contratto, Torino, 1975, p. 65; v. inoltre Betti, Teoria generale del negozio giuridico, in Trattato di diritto civile, diretto da Vassalli, Torino, 1950, p. 142: «se alcuno (…) sia stato indotto a tacere per inganno o con minaccia può con azione d’annullamento eliminare le conseguenze che il silenzio abbia prodotte a suo carico (…). Si richiede inoltre la presenza dei presupposti di capacità e di legittimazione».

[24] Cfr. Cass., 17 giugno 1959, n. 1902; v. inoltre Cass., n. 3276 del 1958.

[25] Si tratta, ovviamente, di ipotesi di scuola. Si dovrebbe immaginare il caso di una coppia in cui ad es., sotto la minaccia di un male ingiusto e notevole, un coniuge accetti la «proposta» dell’altro di non pattuire un regime in deroga: il medesimo risultato sarebbe raggiunto anche in presenza del semplice disaccordo tra le parti, per cui la minaccia finirebbe con il pesare, con ogni probabilità, sul consenso matrimoniale stesso, con il risultato di ottenere un matrimonio invalido, cui tuttavia sarebbe applicabile il regime legale (art. 191 c.c.: cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, II, cit., p. 1863 ss.). Per ciò che attiene alla simulazione, poi, può addirittura porsene in discussione la stessa configurabilità in astratto, posto che essa postulerebbe una controdichiarazione che per legge necessita di una forma solenne (art. 162 c.c.), incompatibile con l’idea stessa di simulazione. Inoltre, la stipula di una convenzione in deroga può essa, sì (cfr. art. 164 c.c.), risultare affetta da simulazione, ma non potrà mai porsi quale negozio dissimulato se non rispetto ad una diversa simulata convenzione, la quale non può consistere nel semplice accordo di non operare una scelta per un regime in deroga.

[26] Su questo tema specifico cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, II, cit., p. 1863 ss.

[27] Cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., p.  711 ss., 732 ss.

[28] Il caso solitamente riportato è quello della nullità per difetto di forma: sul punto v. già Marcadé, Explication théorique et pratique du Code Napoléon, V, Paris, 1866, p. 414, con ampi richiami alla giurisprudenza francese dell’epoca (primi decenni d’applicazione del Code); cfr. inoltre L. e A. Mérignhac, Traité du régime de communauté‎, I, Paris, 1894, p. 18. Per un intervento più recente sul punto cfr. Cornu, Les régimes matrimoniaux, Paris, 1995, p. 188, che parla del regime legale come di uno «statut de secours ou suppléance auquel il faut raccrocher, au cours du mariage, le règlement des intérêts pécuniaires, en cas de défaillance de la charte volontaire».

[29] Cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, II, cit., p. 1702 ss.

[30] Cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 1664 ss.

[31] Cfr. Busnelli, voce Convenzione matrimoniale, in Enc. dir., Aggiornamento, IV, Milano, 2000, p. 516; Oberto, Le convenzioni matrimoniali: lineamenti della parte generale, in Fam. dir., 1995, p. 599 s.

[32] Cfr. De Paola, Il diritto patrimoniale della famiglia coniugale, II, Il regime patrimoniale della famiglia. Nozioni introduttive – Convenzioni matrimoniali – Comunione legale dei beni – Comunione convenzionale, Milano, 1995, p. 185 s.

[33] Sull’ammissibilità, anche dal punto di vista dell’interpretazione fondata sullo studio storico dell’istituto, della pattuizione del regime di comunione sotto condizione sospensiva, cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 43 s. (in partic. nota 141); II, cit., p. 1671 ss.

[34] Cfr., anche per i richiami, Malaurie e Aynès, Les régimes matrimoniaux, Paris, 2007, p. 89.

[35] Lacruz Berdejo e Sancho Rebullida, Derecho de familia, Barcelona, 1982, p. 330 s.

[36] V. per la Francia Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 33 ss. e per l’Italia p. 17 ss.

[37] Così Dölle, Familienrecht, I, Karlsruhe, 1964, p. 662; nello stesso senso v. anche Meyer e Weirich, Zum Ehevertrag während der Übergangszeit, in FamRZ 1957, p. 401; Thiele e Rehme, J. von Staudingers Kommentar zum Bürgerlichen Gesetzbuch mit Einführungsgesetz und Nebengesetzen, Viertes Buch, Familienrecht, §§ 1363-1563, Berlin, 2000, p. 362 s. (con ulteriori richiami). Sul tema dei rapporti tra libertà contrattuale e regimi patrimoniali in Germania v. per tutti Börger e Engelsing, Eheliches Güterrecht, Baden-Baden, 2005, p. 28 ss. Sulla libertà contrattuale nella scelta e nella conformazione del regime matrimoniale in Germania v. anche supra, Cap. I, 16.2. L’idea che oltre Reno i regimi patrimoniali possano liberamente essere collegati a termini e condizioni è così diffusa da generare anche una discreta quantità di materiale diffuso nei siti web di tipo divulgativo. Cfr. ad es. le informazioni disponibili in Benz, Unterschiedliche Ehetypen und interessengerechte Eheverträge, alla pagina web seguente: http://www.jurawelt.com/studenten/seminararbeiten/516: «Eine Lösung wäre die grundsätzliche Vereinbarung von Gütertrennung (§ 1414 BGB) unter gleichzeitigem Ausschluß von Versorgungsausgleich und nachehelichem Unterhalt und dies unter einer auflösenden Bedingung, unter Vereinbarung eines Rücktrittsrecht oder unter einer Befristung». Cfr. inoltre Veit, Ehevertrag, alla pagina web seguente: http://www.notar-veit.de/die_urkunden/ehevertrag/ehevertrag.shtml: «Der Versorgungsausgleich kann ehevertraglich vollständig ausgeschlossen werden. Der Ausschluss kann aber auch unter einer Bedingung oder Zeitbestimmung erfolgen, z.B. nur für den Fall, dass die Ehe kinderlos bleiben sollte oder nicht länger als drei oder fünf Jahre dauern sollte». V. poi anche l’anonimo scritto dal titolo Ehevertrag, al sito http://www.janolaw.de/export/sites/default/vorlagen/konfigurator/protokolle/P117001.pdf: «Soll im Hinblick auf künftig möglicherweise veränderte Ehesituationen auf einen Ehevertrag wieder  ganz verzichtet werden und es beim gesetzlichen Scheidungsfolgenrecht bleiben, bietet es sich an, den Vertrag teilweise oder insgesamt auflösend bedingt zu schließen. In diesem Fall wird der Ausschluss des Zugewinnausgleichs unter einer auflösenden Bedingung geschlossen. Ab Eintritt dieser Bedingung wird dann der Zugewinn berechnet. Sinn einer solchen Bedingung ist es, den Ehevertrag an möglicherweise eintretende Veränderungen anzupassen, ohne dass es eines neuen Vertrages bedarf. Soll die Gütertrennung nicht an eine auflösende Bedingung, wie z.B. die Geburt eines Kindes oder den Verlust der Arbeitsmöglichkeit durch Krankheit geknüpft sein, dann wird der Vertrag bis zu einer eventuellen Eheaufhebung oder Scheidung vereinbart». Per i richiami su libertà negoziale negli Eheverträge con riguardo alla predeterminazione delle prestazioni divorzili v. per tutti Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 242 ss.; Id., Gli accordi preventivi sulla crisi coniugale, in Familia, 2008, p. 28 ss., 44 ss.; cfr. inoltre Aa. Vv., Vertragsfreiheit im Ehevertrag? Der aktuelle Stand der Rechtsprechung zur Inhaltskontrolle von Eheverträgen, a cura di Hager, Baden-Baden, 2007, passim (cfr. in particolare i contributi di Münch, Konsequenzen richterlicher Inhaltskontrolle für die notarielle Vertragsgestaltung, p. 21 ss., 33 ss. e di Popper, Die Inhaltskontrolle von Eheverträgen aus anwaltlicher Sicht, p. 53 ss.).

[38] V. per tutti De Paola, Il diritto patrimoniale della famiglia coniugale, II, cit., p. 187 ss.; Oberto, Le convenzioni matrimoniali: lineamenti della parte generale, cit., p. 599 ss. (con le limitazioni, peraltro, di cui si dirà tra breve nel testo); Carnevali, Le convenzioni matrimoniali, CARNEVALI, Le convenzioni matrimoniali, in Aa. Vv., Il diritto di famiglia, Trattato diretto da Bonilini e Cattaneo, II, Il regime patrimoniale della famiglia, Torino, 1997, p. 20; per la dottrina anteriore alla riforma cfr. G. Tedeschi, Il regime patrimoniale della famiglia, in Jemolo, Il matrimonio, G. Tedeschi, Il regime patrimoniale della famiglia, in Trattato di diritto civile, diretto da F. Vassalli, Torino, 1950, p. 474. Dubbi vengono invece espressi da F. Corsi, Il regime patrimoniale della famiglia, II, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da Cicu e Messineo, continuato da Mengoni, Milano, 1984, p. 23. Cattaneo, Note introduttive agli articoli 82-88 Nov., in Commentario alla riforma del diritto di famiglia, a cura di Carraro, Oppo e Trabucchi, I, 1, Padova, 1977, p. 470, segnala poi esattamente che una difficoltà potrebbe sorgere per via dell’impossibilità di procedere all’annotazione negli atti di stato civile dell’avveramento della condizione. Peraltro il problema sembra superabile alla luce della funzione integrativa svolta dalla pubblicità sui registri immobiliari (i quali prevedono, invece, siffatta possibilità: cfr. art. 2655 c.c.), come illustrato altrove (cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 2169 ss., 2236 ss.).

[39] Cfr. De Paola, Il diritto patrimoniale della famiglia coniugale, II, cit.,  1995, p. 187 ss.; Carnevali, Le convenzioni matrimoniali, cit., p. 20.

[40] Cfr. per i richiami Oberto, La comunione legale tra coniugi, II, cit., p. 1708, nota 78.

[41] Cfr. Oberto, Le convenzioni matrimoniali: lineamenti della parte generale, cit., p. 600.

[42] Sul tema cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, II, cit., p. 2169 ss., 2236 ss. Ad analoghe conclusioni perviene la dottrina spagnola: v. ad es. Lacruz Berdejo e Sancho Rebullida, op. cit., p. 331: «El ùnico problema que plantean las capitulaciones bajo condición (…) sobre todo desde el punto de vista de su publicidad y de su eficacia respecto de terceros, es la constatación del cumplimiento o incumplimiento de la condición y, especialmente, la cuestión de si, al suponer el cumplimiento de la condición un complemento de la escritura pública, debe también constar por documento público. Nos inclinamos a pensar que entre los cónyuges y frente a ellos sera viable cualquier medio de prueba, pero que, en cambio, para que opere en perjuicio de tercero de buena fe deberá el cumplimiento de la condición constar por documento público y alcanzar la necesaria publicidad».

[43] Sacco, Se tra i coniugi l’attuazione di fatto di un regime patrimoniale di­verso da quello corrispondente a diritto dia luogo a restituzioni, in Aa. Vv., Questioni di di­ritto patrimoniale della famiglia discusse da vari giuristi e dedicate ad Alberto Trabucchi, Padova, 1989, p. 83 ss.

[44] Cfr. Cass., 20 settembre 1958, n. 3021, in Giur. it., 1959, I, 1, c. 797, che poneva come requisiti della fattispecie l’appartenenza dei costituenti ad una medesima famiglia, la comunione di vita, il conferimento di lavoro da parte di tutti i membri, il conferimento di tutti gli acquisti. I beni potevano appartenere ad ad un solo partecipante (Cass., 2 agosto 1956, n. 3034); l’acquisto in nome proprio e con denaro proprio da parte di un partecipante non ostacolava la comunione (Cass., 9 luglio 1951, n. 1835, in Giur. compl. Cass. civ., 1951, 3°, p. 196). V. inoltre Cass., 18 ottobre 1958, n. 3345. Per il richiamo ad un parere espresso in dottrina da Rescigno cfr. Sacco, Se tra i coniugi l’attuazione di fatto di un regime patrimoniale di­verso da quello corrispondente a diritto dia luogo a restituzioni, cit., p. 84.

[45] E’ il caso della giurisprudenza brasiliana dei primi anni del XX secolo, di cui si riferisce in Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 181 s. (nota 625).

[46] Cfr. Sacco, Se tra i coniugi l’attuazione di fatto di un regime patrimoniale di­verso da quello corrispondente a diritto dia luogo a restituzioni, cit., p. 87.

[47] Cfr. Sacco, Se tra i coniugi l’attuazione di fatto di un regime patrimoniale di­verso da quello corrispondente a diritto dia luogo a restituzioni, cit., p. 87 s.

[48] Cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 16 s.

[49] Cfr. Cass., 12 ottobre 2009, n. 21637.

[50] Dalla motivazione della decisione di legittimità si desume che la corte d’appello ha rigettato l’impostazione di cui al testo per i motivi seguenti: «2.1. - A tale conclusione la Corte territoriale è giunta sulla base delle seguenti argomentazioni: certo ed incontestato che i coniugi ebbero a scegliere il regime patrimoniale della separazione dei beni, la “comunione di fatto” invocata dall’appellante non è circostanza che valga a mutare il regime degli acquisti in costanza di matrimonio; il godimento della casa ed il pagamento di tasse attengono al regime di vita dei coniugi, per cui la moglie poteva sicuramente godere della casa e, nell’ambito del contributo economico alle esigenze familiari, anche sostenere le spese, senza che ciò importasse l’acquisto della proprietà in comunione».

La Cassazione ha inoltre rigettato (qui nel merito) il motivo volto a contestare la decisione impugnata nella parte in cui essa aveva affermato che l’attrice avrebbe dovuto dimostrare, con una convenzione scritta, la simulazione o interposizione fittizia di persona all’atto di acquisto del terreno su cui poi era stata realizzata la casa; atto d’acquisto che, come già detto, era stato compiuto dal solo marito in regime di separazione dei beni. Sul punto osservava ulteriormente la moglie che la dichiarazione resa dal marito in forma scritta in sede di ricorso per separazione (in cui il marito attestava e riconosceva il diritto di proprietà della moglie nella misura del 50% sulla casa) ed il contegno processuale (mancata risposta all’interrogatorio formale) avrebbero consentito di affermare che vi era stato un riconoscimento costitutivo del diritto di proprietà dell’immobile in questione in ragione della metà. Su questo tema specifico la Cassazione ha stabilito che «Nel negare l’idoneità, ai fini della dimostrazione della dissimulata cointestazione ad entrambi i coniugi del terreno su cui è avvenuta la costruzione, della mancata risposta del convenuto all’interrogatorio formale deferitogli, la Corte territoriale si è attenuta al principio – costante nella giurisprudenza di questa Corte (da ultimo, Sez. II, 19 febbraio 2008, n. 4071) – secondo cui, nel caso di allegazione della simulazione relativa per interposizione fittizia di persona di un contratto necessitante la forma scritta ad substantiam, la dimostrazione della volontà delle parti di concludere un contratto diverso da quello apparente incontra non solo le normali limitazioni legali all’ammissibilità della prova testimoniale e per presunzioni, ma anche quella, più rigorosa, derivante dal disposto degli artt. 1414, secondo comma, e 2725 cod. civ., di provare la sussistenza dei requisiti di sostanza e di forma del contratto diverso da quello apparentemente voluto e l’esistenza, quindi, di una controdichiarazione, dalla quale risulti l’intento comune dei contraenti di dare vita ad un contratto soggettivamente diverso da quello apparente: di conseguenza, e con riferimento alla compravendita immobiliare, la controversia tra il preteso acquirente effettivo e l’apparente compratore non può essere risolta, fatta salva l’ipotesi dì smarrimento incolpevole del relativo documento (art. 2724, numero 3, cod. civ.) con l’interrogatorio formale, non potendo la mancata comparizione della parte all’interrogatorio deferitole supplire alla mancanza dell’atto scritto». Quanto, poi, alla doglianza secondo cui la decisione impugnata non si sarebbe data carico dell’esistenza di un atto unilaterale – il ricorso per separazione coniugale – nel quale il marito avrebbe attribuito alla moglie il diritto di proprietà sul 50 per cento della casa, sulla base del contestuale riconoscimento dell’averla costruita insieme, la Corte di legittimità ha riconosciuto l’inammissibilità del relativo motivo, affermando che «la ricorrente è venuta meno all’onere, imposto dal principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di riportare specificamente nel motivo dell’atto di impugnazione il contenuto della risultanza – il ricorso per separazione contenente il dedotto atto negoziale a causa atipica, non liberale ma corrispettiva, dall’effetto costitutivo – asserita come decisiva e non valutata o insufficientemente valutata».

Sui complessi temi (non trattabili, neppure in modo riassuntivo nella presente sede) della rivendica di quote di proprietà di beni acquisiti in costanza di regime di separazione dei beni e della possibilità di «recuperare» in qualche modo i contributi eventualmente forniti da un coniuge per gli acquisti operati dall’altro si fa rinvio per tutti a Oberto, Il regime di separazione dei beni tra coniugi, Artt. 215-219, in Il codice civile. Commentario fondato e già diretto da P. Schlesinger, continuato da F.D. Busnelli, Milano, 2005, p. 336 ss., 347 ss.

Sull’altro profilo affrontato dalla Corte nella decisione del 2009 sopra citata potrà ricordarsi una pronunzia di legittimità risalente al 1966 (Cass., 7 giugno 1966, n. 1495, in Giust. civ., 1966, I, p. 2220), nella quale la Cassazione decise una controversia in cui, in un verbale di separazione consensuale, le parti si erano limitate a qualificare la moglie «proprietaria» di un certo immobile e a stabilire che a questa avrebbero fatto carico le imposte e le tasse relative allo stesso. I giudici di merito avevano da tale accordo desunto «una volontà implicita di trasferire», affermando che le parti avevano in tal modo posto in essere «un negozio attributivo dell’immobile a titolo oneroso». Il S.C., pur senza contestare, in linea di principio, l’ammissibilità di un siffatto trasferimento, rilevò sul punto che nella pronunzia impugnata mancava «l’accertamento della sussistenza di un atto scritto consacrante il negozio attributivo che si sarebbe voluto porre in essere al momento della separazione» e che «soprattutto manca l’accertamento della determinazione, attraverso l’atto scritto, del negozio che si sarebbe voluto porre in essere, dei suoi elementi essenziali, della sua causa, delle sue finalità». Così, dopo avere constatato che la sentenza impugnata si era limitata ad affermare che con il verbale di separazione era stato posto in essere un negozio attributivo dell’immobile a titolo oneroso, senza spiegare se dall’atto scritto risultassero gli elementi essenziali del negozio, la Cassazione rilevò che le parti nel verbale separazione si erano limitate a qualificare la moglie «proprietaria» dell’immobile ed a stabilire che a questa facevano carico le imposte e le tasse relative allo stesso immobile. La Corte di legittimità criticò quindi la valutazione della Corte territoriale, che aveva parlato solo della sussistenza di «una volontà implicita di trasferire», desumendo quella volontà e l’esistenza di un corrispettivo dalle risultanze della prova testimoniale. Peraltro, ad avviso dei Supremi Giudici, mancava nella specie l’accertamento della sussistenza di un atto scritto consacrante il negozio attributivo che si sarebbe voluto porre in essere al momento della separazione e, soprattutto, mancava l’accertamento della determinazione, attraverso l’atto scritto, del negozio che si sarebbe voluto porre in essere, dei suoi elementi essenziali, della sua causa, delle sue finalità. Accertamento che era tanto più necessario nel caso in esame, in cui vi era stata una precedente attribuzione a titolo gratuito nulla e si sarebbe dovuto chiarire, per non ingenerare equivoci, che la volontà delle parti era quella di procedere ad una nuova attribuzione del bene alla moglie, ad un nuovo trasferimento della proprietà, questa volta con causa lecita e quindi con elementi ben precisi che lo differenziavano dalla prima attribuzione o da un mero riconoscimento o richiamo di questa. Ciò premesso la Cassazione, prendendo in esame la difesa della moglie, consistente nel tentativo di rinvenire la causa dell’attribuzione in discorso nell’obbligo di mantenimento, ammise che in sede di separazione consensuale i coniugi potessero effettuarsi attribuzioni di diritti patrimoniali a titolo vuoi di datio in solutum, vuoi di contratto atipico con causa onerosa. Essa respinse però l’assunto della stessa resistente, ad avviso della quale una siffatta causa sarebbe resa manifesta dalla dichiarazione con cui le parti – nella specie – si erano limitate a qualificare la moglie «proprietaria» di un certo immobile e a stabilire che a questa avrebbero fatto carico le imposte e le tasse relative allo stesso. In considerazione di ciò la Corte cassò la pronunzia d’appello, con rinvio precipuamente volto ad accertare «tenendo conto soprattutto del verbale di separazione, (…) se effettivamente esso e le sue clausole possano essere interpretati nel senso che effettivamente le parti vollero porre in essere una convenzione nuova sostanzialmente e formalmente valida e completa, con la quale, onerosamente, attribuivano la proprietà dell’immobile alla moglie».

Per una decisione di legittimità che ha affermato non solo la validità, ma anche il carattere traslativo della clausola contenuta nel verbale di separazione consensuale, del tenore seguente: [la moglie] «riconosce l’esclusiva proprietà del marito» (relativamente ad un immobile) cfr. Cass., 11 novembre 1992, n. 12110, in Giur. it., 1993, I, 1, c. 303, con nota di Morace Pinelli. Al riguardo la Corte Suprema ha rimarcato che «La Corte del merito ha qualificato l’atto come non meramente ricognitivo (in tal senso si era invece espresso il giudice di primo grado), in particolare rilevando che una semplice dichiarazione di scienza in un contesto in cui si trattava di dare sistemazione ai rapporti personali ed economici in conseguenza della separazione sarebbe stata priva di significato». Tale natura «attributiva» del negozio è stata così confermata in sede di legittimità, rilevandosi che, in ogni caso, nella specie risultava rispettata la forma voluta dalla legge, non altro che l’atto scritto prevedendosi per le divisioni immobiliari (art. 1350 n. 11, c.c.) e non essendo necessario l’atto notarile per l’accennato negozio atipico, che non realizza, stante la causa, un intento di liberalità, né configura una convenzione matrimoniale ex art. 162 c.c. (che postulerebbe il normale svolgimento della convivenza coniugale). Sul tema v. inoltre Cass., 30 agosto 1999, n. 9117: «E’ valida ed efficace la clausola di accordo di separazione sia che riconosca a uno o a entrambi i coniugi la proprietà esclusiva di singoli beni mobili o immobili, sia che ne operi il trasferimento in favore di uno di loro al fine di assicurarne il mantenimento, e sia, ancora, che impegni uno dei coniugi a compiere quel trasferimento al fine di provvedere al mantenimento della prole».

Nel senso che il riconoscimento della proprietà non potrebbe produrre l’effetto contemplato dall’art. 1988 c.c., che la costante giurisprudenza di legittimità applica ai soli rapporti di carattere obbligatorio, cfr. Cass., Sez. Un., 31 marzo 1971, n. 936; Cass., Sez. Un., 6 aprile 1971, n. 1017; Cass., 24 maggio 1975, n. 2108; Cass., 17 gennaio 1978, n. 202; Cass., 7 febbraio 1978, n. 569; Cass., 7 maggio 1980, n. 3019; Cass., 8 marzo 1984, n. 1621; Cass., 24 agosto 1990, n. 8660. Nel senso che l’atto ricognitivo del diritto di proprietà o di altri diritti reali non può neppure dispiegare l’efficacia di cui all’art. 2720 c.c., valendo tale disposizione soltanto in ordine ai fatti produttivi di situazioni o rapporti giuridici sfavorevoli al dichiarante, e non potendo esplicarsi al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, cfr. Cass., 20 febbraio 1992, n. 2088, in Giust. civ., 1993, I, p. 1302.