Giacomo Oberto

LEZIONI

SULLA

FAMIGLIA DI FATTO

 

Sommario: I. Nozione di famiglia di fatto. - II. L’evoluzione della famiglia di fatto in dottrina e giurisprudenza. - III. La regolamentazione legislativa della famiglia di fatto. - IV. Famiglia di fatto e filiazione naturale. - V. I rapporti personali nella famiglia di fatto. - VI. I rapporti patrimoniali nella famiglia di fatto. In particolare le obbligazioni naturali. - VII. Il rimedio dell’arricchimento ingiustificato. - VIII. I contratti di convivenza. - IX. Convivenza e diritto all’abitazione. - X. Cessazione della convivenza e questioni possessorie. - XI. La morte del convivente more uxorio: problemi di carattere successorio. - XII. La morte del convivente more uxorio a seguito dell’illecito compiuto da un terzo. - XIII. La cessazione della convivenza in presenza di figli minorenni. - XIV. Le convivenze omosessuali. - XV. Convivenze omosessuali e questioni legate all’omogenitorialità.

 

I. Nozione di famiglia di fatto. @ L’espressione «famiglia di fatto» è oggi utilizzata comunemente al fine di individuare quella particolare formazione sociale che ricalca la struttura essenziale della famiglia fondata sul matrimonio, pur essendo priva di qualsiasi formalizzazione del rapporto di coppia. A tale mancanza di formalizzazione fa riscontro, nella realtà normativa odierna del nostro sistema, l’assenza di una normativa organica, anche se, come si avrà modo di vedere, non fanno certo difetto disposizioni legislative applicabili a svariati profili relativi alla situazione in esame. La definizione in senso negativo della famiglia di fatto, proposta dalla maggioranza degli autori (cfr., ex multis, Gazzoni, Dal concubinato alla famiglia di fatto 83, 60; Roppo, Famiglia. III) Famiglia di fatto, Enc. g. Treccani, 1ss.; Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, 21ss.) soprattutto per sopperire all’inesistenza di una definizione legale (Sesta, Diritto di famiglia, 402), è stata contestata (Ferrando, Convivere senza matrimonio: rapporti personali e patrimoniali nella famiglia di fatto, Fam. e d. 98, II, 183) sul presupposto che occorrerebbe invece riferirsi «al rapporto di coppia, alle relazioni che in essa si svolgono e che hanno il proprio positivo fondamento in una convivenza sorretta da sentimenti di affetto, solidarietà, sostegno economico». La giurisprudenza, dal canto suo, ha recepito la dizione «famiglia di fatto», definendo il fenomeno alla stregua di una «convivenza caratterizzata da inequivocità, serenità e stabilità, da non confondere con i meri rapporti sessuali, che possono anche dar luogo alla nascita di figli naturali» (C 98/3503, F. it. 98, I, 2154; sulla definizione della famiglia di fatto cfr. inoltre D’Angeli, La famiglia di fatto, 1ss., 153ss.). @ Le ragioni che possono condurre una coppia a stabilire una relazione avente carattere familiare, senza la celebrazione delle nozze, possono essere le più svariate: circostanze storiche e ambientali, motivazioni ideologiche di carattere religioso o di segno «libertario», interessi economici, etc. (come sottolinea Roppo, ibidem), ma tali aspetti non interessano direttamente il giurista, cui spetta invece l’onere di stabilire se la convivenza e la nascita di figli al di fuori del vincolo sancito dal matrimonio diano luogo ed effetti rilevanti per il diritto. @ D’altro canto è stato sovente sottolineato in dottrina che la contrapposizione tra «rapporti di diritto» e «rapporti di fatto» si sviluppa pur sempre all’interno del mondo del diritto (Franceschelli, I rapporti di fatto. Ricostruzione della fattispecie e teoria generale, 8ss.; Sacco, Autonomia nel diritto privato, D. 4a ed., Disc. priv., II, 521s.): la constatazione, svolta a livello generale, vale sicuramente anche per l’unione libera, come confermato da quella  dottrina che, in Italia come all’estero, nega ormai quasi unanimemente che i rapporti tra i conviventi siano, in quanto tali, sottratti alla sfera del giuridicamente rilevante: Savatier, Le droit, l’amour et la liberté, 137; Furgiuele, Libertà e famiglia, 277s.; Grassetti, Famiglia (diritto privato), Nov. D., Appendice, III, 639; Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, 4ss. L’espressione «di fatto» connota dunque semplicemente il modo in cui la fattispecie viene in essere (rebus ipsis et factis, appunto, e non per effetto di un negozio giuridico), non  già le sue conseguenze (Oberto, ibidem). @ Elementi costitutivi della famiglia di fatto (su cui v. per tutti Balestra, La famiglia di fatto, Tr. Ferrando, II, 1037ss.) sono usualmente ritenuti i due seguenti: il primo, di carattere soggettivo, consiste nell’affectio, vale a dire nella partecipazione di ognuno dei partners alla vita dell’altro; mentre il secondo, di carattere oggettivo, è costituito dalla stabile convivenza, quindi da un impegno serio e duraturo, basato su una tendenziale fedeltà, in assenza di qualsivoglia formalizzazione. Da questo primo inquadramento del fenomeno, nei suoi termini generali, prendono poi le mosse posizioni e orientamenti peculiari, nell’ambito dei quali si segnala chi pone l’accento, attribuendogli maggiore valenza, sull’elemento soggettivo (Gazzoni, op. cit., 69), inteso come cardine del fenomeno; altri, invece, valorizzano maggiormente l’elemento oggettivo (Dogliotti, Famiglia di fatto, D. 4a ed., 194). @ Si sostiene, in via generale, che è famiglia di fatto quella che presenta nella sostanza lo stesso contenuto della convivenza che ha alla base il matrimonio: «tra i soggetti che vivono come coniugi more uxorio, secondo il corrente modo di esprimersi, si stabiliscono vincoli di fedeltà, coabitazione, assistenza, e di reciproca contribuzione agli oneri patrimoniali» (Rescigno, Manuale del diritto privato italiano, ed. a cura di Cirillo, Milano, 2000, 309; v. inoltre per ulteriori rinvii Balestra, Comm. Sesta2, 3769s.). Rispetto alla famiglia legittima, in cui s’impone il «dover essere», il tratto differenziale della famiglia di fatto viene individuato nell’«essere» del rapporto (Busnelli - Santilli, Comm. dir. it. fam., 760), con ciò evidenziando come ogni valutazione relativa al fenomeno debba avvenire sulla base del principio di effettività. @ Ci si domanda poi se possa considerarsi meritevole di tutela la convivenza more uxorio che presenti i contenuti sopra descritti e che tuttavia si caratterizzi per l’essere i partners – o anche uno solo di essi – privi dello stato libero. In dottrina si sostiene che, nell’ipotesi in cui uno dei conviventi difetti dello stato libero, la convivenza sarebbe contra legem, divenendo immeritevole di tutela, a causa della (inammissibile) violazione della previsione di favore per il nucleo familiare solennemente costituitosi (cfr., anche per i richiami, Quadri, Rilevanza attuale della famiglia di fatto ed esigenze di regolamentazione, D. fam. 94, 291s.; Balestra, Comm. Sesta2, 3770). Tale posizione non sembra condivisibile, essendosi rilevato esattamente che al giorno d’oggi appare difficile negare che la separazione è, dal punto di vista funzionale, strettamente legata al divorzio, di modo che il coniuge separato nella maggior parte dei casi considera terminata definitivamente l’esperienza matrimoniale (cfr. Balestra, La famiglia di fatto, Tr. Ferrando, II, 1039s.; v. inoltre Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, 209ss.). @ Per la trattazione dei profili comparatistici della famiglia di fatto si rimanda a Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, 3ss., 114ss., 130ss., 215ss.; Asprea, La famiglia di fatto in Italia e in Europa, 29; Oberto, Famiglia e rapporti patrimoniali. Questioni di attualità, 961ss.; Dogliotti, op. cit., 199ss.; Busnelli - Santilli, op. cit., 760ss.; Moscati - Zoppini, I contratti di convivenza, 205ss.; Pescara, Le convivenze non matrimoniali nelle legislazioni dei principali paesi europei, Tr. Ferrando, II, 967ss. @ In quest’ottica neppure vanno trascurati i riflessi che le nozioni di «famiglia» e di «legami familiari» proprie di altri ordinamenti possono dispiegare sul nostro dato normativo, specie allorquando i diversi sistemi vengono a collidere. Sintomatiche le questioni legate alle problematiche dell’immigrazione e dei ricongiungimenti familiari, sia nei casi riguardanti cittadini extraeuropei soggiornanti in Italia, sia in relazione alle ipotesi che vedono protagonisti cittadini comunitari o italiani, laddove la vigente disciplina italiana espressamente esclude le coppie non unite in matrimonio dall’esercizio di tale diritto. Nel primo caso, infatti, l’art. 29, d.lgs. 286/1998 (T.U. in materia di immigrazione e trattamento dello straniero), espressamente limita al «coniuge» dello straniero residente la possibilità di ottenere il ricongiungimento familiare, escludendo dai beneficiari il partner non coniugato. Analoga impostazione si desume dalla disciplina del ricongiungimento familiare dei cittadini comunitari di cui alla direttiva recepita con d.lgs. 6-2-2007, n. 30: l’art. 2, 1° co., lett. b) n. 2), infatti, esclude dalla nozione di familiare rilevante ai fini della libera circolazione il partner che abbia contratto con il cittadino europeo un’unione registrata sulla base della legislazione di uno Stato membro, se la legislazione dello Stato membro ospitante non equipara l’unione registrata al matrimonio; a quanto pare, il medesimo principio riguarda anche i familiari di cittadini italiani non aventi la cittadinanza italiana, in forza del disposto dell’art. 23 d.lgs. 30/2007. @ Sul punto sarà utile evocare la vicenda risolta dalla Corte d’appello di Firenze nel 2006, secondo cui, poiché il nostro ordinamento subordina il rilascio del permesso di soggiorno per motivi familiari alla qualità di «familiare» del soggetto richiedente, il provvedimento dell’autorità neozelandese che riconosce a due persone del medesimo sesso la qualifica di partners di fatto, cioè di conviventi, e non di familiari, non costituisce titolo idoneo perché possa essere rilasciato il permesso di soggiorno ai sensi del d.lgs. n. 286/1998 (cfr. App. Firenze, 6-12-2006, Fam. e d. 07,  1040. La predetta decisione è stata confermata dalla Suprema Corte (C 09/6441, Fam. e d. 09, 454). Secondo, invero, la Cassazione, «In tema di diritto dello straniero al ricongiungimento familiare, il cittadino extracomunitario legato ad un cittadino italiano ivi dimorante da un’unione di fatto debitamente attestata nel paese d’origine del richiedente, non può essere qualificato come “familiare” ai sensi dell’ art. 30, primo comma, lettera c), del d.lgs. n. 286 del 1998, in quanto tale nozione, delineata dal legislatore in via autonoma, agli specifici fini della disciplina del fenomeno migratorio, non è suscettibile di estensione in via analogica a situazioni diverse da quelle contemplate, non essendo tale interpretazione imposta da alcuna norma costituzionale. Nè tale più ampia nozione può desumersi dagli artt. 8 e 12 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo o dall’art. 9 della Carta di Nizza (…) in quanto tali disposizioni escludono il riconoscimento automatico di unioni diverse da quelle previste dagli ordinamenti interni, salvaguardando l’autonomia dei singoli Stati nell’ambito dei modelli familiari. Infine, non può trovare applicazione la più recente normativa di derivazione comunitaria, in quanto il d.lgs. n. 5 del 2007 si applica soltanto ai familiari di soggiornanti provenienti da paesi terzi e il d.lgs. n. 30 del 2007 tutela la libertà di circolazione e di soggiorno dei cittadini UE e dei loro familiari nel territorio di uno stato membro diverso da quello di appartenenza, e non il diritto al ricongiungimento familiare con un cittadino di uno Stato membro regolarmente residente e dimorante nel suo paese d’origine». @ Sul punto si è rilevato (Oberto, Fam. e d. 10, 511) che questa soluzione risulta quanto mai deludente, con riguardo al contenuto ed agli effetti della Carta di Nizza. Secondo la Cassazione, infatti, al fine di accedere ad una nozione di «familiare» comprensiva anche del convivente omosessuale, non varrebbero le disposizioni dell’art. 9 del predetto documento sovranazionale («Il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio»), posto che, «Se è vero che la formulazione del citato art. 9 da un lato conferma l’apertura verso forme di relazioni affettive di tipo familiare diverse da quelle fondate sul matrimonio e, dall’altro, non richiede più come requisito necessario per invocare la garanzia dalla norma stessa prevista la diversità di sesso dei soggetti del rapporto, resta fermo che anche tale disposizione, così come l’art. 12 CEDU, rinvia alle leggi nazionali per la determinazione delle condizioni per l’esercizio del diritto, con ciò escludendo sia il riconoscimento automatico di unioni di tipo familiare diverse da quelle previste dagli ordinamenti interni che l’obbligo degli stati membri di adeguarsi al pluralismo delle relazioni familiari, non necessariamente eterosessuali». Del tutto ignorato è rimasto, invece, l’art. 21 della predetta Carta, che, come noto, fonda un chiaro divieto di trattamenti discriminatori, a ragione, tra l’altro, delle «tendenze sessuali». Quest’ultimo profilo viene, invece, velocemente sfiorato dalla Cassazione con riguardo agli artt. 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in relazione alla (dai ricorrenti) lamentata «arbitraria ingerenza nelle scelte del modello familiare, avente anche portata discriminatoria sulla base degli orientamenti sessuali». Ma siffatto peculiare aspetto viene invece espressamente scartato dalla Corte, «in quanto la mancata equiparazione al coniuge è prevista in relazione a qualsiasi tipo di convivenza non matrimoniale, e non soltanto per quelle tra persone dello stesso sesso». Peraltro, che la via del matrimonio sia (da noi) irrimediabilmente sbarrata agli omosessuali non sembra sfiorare neppure per un attimo le menti dei Supremi Giudici. @ Ugualmente deludente, sul profilo del divieto di discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale, risulta la soluzione fornita dalla Consulta (Corte cost. 15-4-2010, n. 138, F. it. 10, 1361), al problema del matrimonio tra persone del medesimo sesso. La decisione, tra l’altro, ritiene il predetto principio di non discriminazione inapplicabile, in quanto derogato per «specialità» dagli artt. 12 CEDU e 9 della Carta di Nizza, che prevedono il diritto di sposarsi e di costituire una famiglia (peraltro con rinvio ai limiti propri delle legislazioni nazionali). Sul punto sarà appena il caso di osservare che la regola di non discriminazione non ha nulla a che vedere con il diritto di sposarsi, né quest’ultimo può essere qualificato come «speciale» rispetto al primo, atteso che  il diritto di contrarre matrimonio non è certo una specificazione del diritto di non essere discriminati! Semmai, è proprio la concreta conformazione del diritto di sposarsi nel nostro ordinamento a costituire patente violazione del principio di non discriminazione. @ In senso contrario all’invocabilità del principio di non discriminazione (sub specie, però, dell’art. 3 Cost.) si esprime D’Angeli, Il fenomeno delle convivenze omosessuali: quale tutela giuridica?, 18 ss., pervenendo alla non condivisibile conclusione per cui la convivenza omosessuale, pur se formazione sociale rilevante ex art. 2 Cost., non potrebbe assurgere al rango di «famiglia» (cfr. in partic. 18). Ora, se si pone mente al fatto che il termine «famiglia» non può ormai essere negato alla convivenza more uxorio tra persone di sesso diverso (sul tema v. per tutti Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, 21 ss.), appare più che lampante come la negazione della medesima qualifica alla stabile unione affettiva tra persone del medesimo sesso non tragga altra origine se non da una (preconcetta e gratuita) discriminazione non basata su altra «ragione», che non sia proprio l’orientamento sessuale. Negare la presenza di una discriminazione rilevante ai sensi dell’art. 21 della Carta di Nizza (ma, quasi altrettanto certamente, anche ex art. 3 Cost.) significa, dunque, negare l’evidenza (ed infatti cfr. Trib. Venezia 3-4-2009, disponibile al sito web seguente: http://www.personaedanno.it/cms/data/articoli/014238.aspx; sulle questioni poste dalle unioni omosessuali v. anche infra sub §§ XIV e XV). Sui temi collocati al crocevia tra convivenza more uxorio, immigrazione, espulsione e ricongiungimento familiare v. anche Corte Cost. 22-12-2006, n. 444, Corr. giur. 07, 253; Cass. pen. 08/240596, Fam. e d. 09, 407.

 

II. L’evoluzione della famiglia di fatto in dottrina e giurisprudenza. @ È doveroso evidenziare che, in passato, la convivenza come marito e moglie tra persone non coniugate veniva considerata in senso fortemente negativo ed era nel contempo individuata con una diversa terminologia (Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, 21ss.; Sesta, op. cit., 400). Fino agli anni Sessanta, infatti, con riferimento alle situazioni in discorso, si discuteva di concubinato (per un’analisi approfondita della genesi storica del fenomeno cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, 21ss.; Busnelli - Santilli, ibidem). Con il suddetto termine, impiegato con un’accentuata accezione negativa, si intendeva quel modello familiare non fondato sul matrimonio e dunque ritenuto non meritevole di tutela da parte dell’ordinamento giuridico, nell’ottica secondo cui ogni ipotesi di riconoscimento giuridico concesso alle convivenze di fatto avrebbe importato un’automatica degradazione dello status della famiglia matrimoniale (Roppo, op. cit., 2). Si noti che, curiosamente, in Francia al termine concubinage non viene attribuita alcuna valenza negativa, al punto che la legge sui Pacs (Loi n. 99-944 du 15-11-1999, art. 3) ne ha sancito l’ingresso nel Code Civil (cfr. art. 515-8, secondo cui «Le concubinage est une union de fait, caractérisée par une vie commune présentant un caractère de stabilité et de continuité, entre deux personnes, de sexe différent ou de même sexe, qui vivent en couple»). Successivamente, il mutamento del costume sociale ed alcune aperture a livello legislativo e giurisprudenziale (ci si riferisce, in particolare, alla parificazione della condizione dei figli naturali ai figli legittimi avutasi con la l. rif. dir. fam. – sul punto v. quanto si osserverà infra, sub §§ IV e XIII, nonché Asprea, op. cit., 115ss. – ed alla precedente Corte Cost. 3-12-1969, n. 147, F. it. 70, I, 17, che ha sancito l’illegittimità costituzionale del reato di concubinato previsto dal codice penale all’art. 560 c.p.; cfr. altresì Dogliotti, op. cit., 190) hanno consentito di superare i pregiudizi ancorati ad una concezione tradizionale della famiglia, ravvisando così nella convivenza more uxorio un’autonoma formazione sociale non necessariamente caratterizzata da un disvalore rispetto alla famiglia fondata sul matrimonio (Sesta, ibidem). @ Successivo ed ulteriore passaggio dell’affrancamento della famiglia di fatto è stato il nuovo orientamento giurisprudenziale e, prima ancora, dottrinale, che, soprattutto facendo leva sull’interpretazione dell’espressione «formazione sociale» di cui all’art. 2 Cost., ha attenuato in modo considerevole le differenze legislative intercorrenti tra la famiglia di fatto e la famiglia matrimoniale (Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, 43ss., 53ss.; Asprea, op. cit., 20). Sempre a livello esegetico è da segnalare il contrasto esistente in dottrina nella lettura dell’art. 29, 1o co., Cost., tra coloro che – in un’ottica giusnaturalista – ravvisano nella citata norma un mero riconoscimento a livello legislativo della società naturale basata sulla famiglia matrimoniale e chi, invece, attribuendo alla disposizione in discorso una funzione costitutiva, vede nella famiglia «una formazione frutto di aggregazione all’interno della società (...) operante in quanto riconosciuta dall’ordinamento» (Asprea, op. cit., 11 e 12ss. sulla genesi dell’art. 29 Cost.). Il superamento della concezione tradizionale consente oggi di individuare nell’art. 29 Cost. un favor del Costituente per la famiglia legittima (Oberto, op. cit., 53ss.; Sesta, op. cit., 402; in giurisprudenza cfr. Corte Cost. 26-5-1989, n. 310, secondo cui «l’art. 29 Cost., pur non negando dignità a forme naturali del rapporto di coppia diverse dalla struttura giuridica del matrimonio, riconosce alla famiglia legittima una dignità superiore in ragione dei caratteri di stabilità e certezza e della reciprocità e corrispettività di diritti e doveri che nascono solo dal matrimonio»), ma non necessariamente la previsione di un trattamento sanzionatorio per la famiglia non fondata sul matrimonio, la cui tutela trova anzi un fondamento nella stessa Carta Costituzionale all’art. 2, ove si intendono garantire i diritti inviolabili dell’uomo nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (Roppo, ibidem; Oberto, ibidem, 53ss.; Dogliotti, op. cit., 192s.; in giurisprudenza v. C 93/6381, su cui cfr. infra, § VIII). @ Appare dunque ragionevole affermare che le limitazioni che nel nostro ordinamento derivano dal riconoscimento costituzionale della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio, non possono essere intese come il segno di un atteggiamento di riprovazione verso i vincoli non formalizzati: cfr. ad es. Corasaniti, Famiglia di fatto e formazioni sociali, in Aa.Vv., La famiglia di fatto. Atti del convegno nazionale di Pontremoli (27-30 maggio 1976), Montereggio-Parma, 1977, 143s.; Prosperi, La famiglia non fondata sul matrimonio, 84ss.; Perlingieri, La famiglia senza matrimonio tra l’irrilevanza giuridica e l’equiparazione alla famiglia legittima, in Una legislazione per la famiglia di fatto?, 136s; Falzea, Problemi attuali della famiglia di fatto, ivi, 51ss.; Dogliotti, op. cit., 192s.; Tommasini, La famiglia di fatto, Tr. Bessone, I, 503s.; Franceschelli, Famiglia di fatto, Enc. D. Agg., VI, 370. @ Il riconoscimento del fenomeno, sul piano costituzionale, è dunque rinvenuto dalla dottrina e dalla giurisprudenza nell’art. 2 Cost. Come osserva autorevole dottrina (Bianca, La famiglia, Milano, 2005, 27) «l’idea secondo la quale anche la famiglia di fatto rientra tra le “formazioni sociali” previste dalla Costituzione può essere condivisa. Essa tuttavia non comporta che la famiglia naturale sia giuridicamente equiparata alla famiglia legittima ma, piuttosto, significa che l’ordinamento deve tutelare l’interesse essenziale della persona a realizzare nella famiglia, quale prima forma di convivenza umana, e cioè quale società naturale» (v. anche Furgiuele, Libertà e famiglia, 282ss.; Ferrando, op. cit., 185; Terranova, Convivenza e rilevanza delle unioni cc.dd. di fatto, Tr. Zatti, I, 806s.). La norma in questione, infatti, se considerata come norma in bianco, e non semplicemente riassuntiva di altre, è in grado di assicurare in via immediata tutela giuridica a tutte quelle forme associative che si sviluppano nella realtà sociale in vista dello svolgimento della personalità dei singoli (Perlingieri, Sulla famiglia come formazione sociale, in Rapporti personali nella famiglia, a cura di Perlingieri, 39; Gazzoni, op. cit., 146 ss.). @ Ulteriore conferma della possibilità di riconoscere, almeno sotto determinati aspetti, una rilevanza normativa al fenomeno della famiglia di fatto è costituita dal complesso di interventi legislativi – che si esporranno nel prosieguo (v. infra sub § III) – i quali, nei settori ordinamentali più diversi, ricollegano all’esistenza di una convivenza una qualche conseguenza giuridica (per una ricognizione di tali disposizioni v. anche Dogliotti, ibidem, 192s.; Busnelli - Santilli, op. cit., 760ss.), giacché si può ritenere che «l’analisi della legislazione speciale, nell’arco delle vicende che l’hanno contrassegnata storicamente, non si presta né ad essere sopravvalutata nella sua portata (fino a ravvisare in essa una sorta di riconoscimento di famiglia di fatto come fonte di uno status paraconiugale), né ad essere relegata sul piano della «eccezionalità» (giudizio che, semmai, era valido in un diverso quadro storico e costituzionale), né, infine, ad essere ritenuta di scarso rilievo ai fini di una verifica della linea evolutiva lungo la quale si viene manifestando la rilevanza giuridica del fenomeno in esame» (Busnelli - Santilli, op. cit., 778). @ Altri interventi del giudice delle leggi hanno avvicinato maggiormente la famiglia di fatto alla famiglia matrimoniale, sancendo l’illegittimità costituzionale della norma che non contemplava tra i successibili nella titolarità del contratto di locazione il convivente more uxorio del conduttore defunto, nonché dell’affidatario della prole naturale, in caso di rottura della convivenza (art. 6, l. equo canone: cfr. Corte Cost. 7-4-1988, n. 404) e dichiarando contraria ai principi della carta costituzionale una legge regionale della Regione Piemonte nella parte in cui non prevedeva la cessazione della stabile convivenza come causa di successione nella assegnazione di alloggi di edilizia popolare ed economica (Corte Cost. 20-12-1989, n. 559). @ In un’altra successiva decisione (Corte Cost. 13-5-1998, n. 166, su cui v. infra, sub § XIII), in tema di tutela dei minori delle coppie di fatto, si è peraltro affermato che «la convivenza more uxorio rappresenta l’espressione di una scelta di libertà dalle regole che il legislatore ha sancito in dipendenza dal matrimonio, sicché l’estensione automatica di queste regole alla famiglia di fatto potrebbe costituire una violazione dei principi di libera determinazione delle parti» (per altri riferimenti di giurisprudenza costituzionale cfr. Asprea, op. cit., 80ss.). Da segnalare poi alcune decisioni che, pur non presentandosi come di accoglimento, hanno dichiarato infondate le relative questioni di costituzionalità, proponendo ai rispettivi giudici a quibus una lettura costituzionalmente orientata di alcune norme concernenti in particolare la tutela della prole. Si pensi ad esempio a Corte Cost. 13-5-1998, n. 166, cit., sull’applicabilità dei principi in tema di diritto di abitazione sulla casa familiare ex art. 155 c.c. (nella versione anteriore alla riforma sull’affidamento condiviso) alla famiglia di fatto, nonché a Corte Cost. 26-10-2005, n. 394, sulla trascrizione del provvedimento di assegnazione della casa familiare nel caso di rottura della convivenza more uxorio in presenza di prole minorenne (si noti che le questioni in oggetto sono ora risolte dall’art. 155 quater c.c., applicabile anche ai figli di genitori non coniugati, in base all’art. 4, l. 8-2-2006, n. 54). @ Notevole è poi la contiguità tra famiglia matrimoniale e famiglia di fatto nel diritto e nel processo penale, avuto riguardo a quelle decisioni che estendono l’applicazione del reato di cui all’art. 572 c.p. e dell’aggravante ex art. 61, n. 11, c.p. anche ai rapporti extramatrimoniali (Roppo, op. cit., 3). L’art. 199, 3o co., lett. a), c.p.p., prevede fra coloro che possono astenersi a testimoniare anche «chi, pur non essendo coniuge dell’imputato, come tale conviva o abbia convissuto con esso». Sull’applicabilità al convivente dell’esimente di cui all’art. 384, 1o co., c.p. cfr. Corte Cost. 18-1-1996, n. 8, Fam. e d. 96, 107.

 

III. La regolamentazione legislativa della famiglia di fatto. @ È agevole rimarcare che la decisione di regolamentare, o meno, il fenomeno delle famiglie di fatto è un problema, prima ancora che giuridico, di politica del diritto e di bilanciamento tra il rispetto della libera autonomia dei privati e l’intervento delle pubbliche istituzioni (Roppo, op. cit., 2). Dinanzi al nostro Parlamento sono state presentate, nel corso degli ultimi decenni, svariate proposte volte a fornire una disciplina organica al fenomeno in esame (su alcuni dei progetti presentati nel corso della XIV legislatura cfr. per tutti Oberto, Contr. imp. E. 04, 87ss.; per una panoramica più ampia v. anche Id., La comunione legale tra coniugi, Tr. CM, 305ss.; per ulteriori commenti di alcune iniziative legislative v. inoltre Dogliotti-Figone, Fam. e d. 07, 416ss.; Lipari, R. trim. dir. proc. civ. 07, 1025; Galuppi, D. fam. 08, 1930), tutte rimaste, ad oggi, senza esito. Occorre comunque prendere atto della circostanza che, malgrado tale singolare latitanza legislativa (che vede il nostro Paese relegato nel novero di quelli più arretrati, nel composito panorama del nostro Continente), non poche disposizioni del vigente ordinamento sono intervenute a disciplinare, nel corso degli ultimi anni, svariati aspetti dei rapporti giuridici che possono venirsi ad intessere nell’ambito di un faux ménage. @ Per citare solo taluni tra i più significativi e meno remoti esempi, si potrà ricordare in primo luogo l’equiparazione del convivente al coniuge per effetto del disposto degli artt. 330, 333, 342 bis e 342 ter c.c., così come, rispettivamente, modificati e introdotti dagli artt. 37, l. 28-3-2001, n. 149 (Modifiche alla legge 4-5-1983, n. 184, recante «Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori», nonché al titolo VIII del libro primo del codice civile) e 2, l. 5-4-2001, n. 154 in materia di violenza nelle relazioni familiari (su cui v. anche infra, § V). @ Un altro caso che si potrà ricordare attiene all’equiparazione al coniuge della «persona stabilmente convivente», operata dalla riforma in tema di amministrazione di sostegno (cfr. artt. 408, 410, 411, 417 e 426 c.c., così come modificati dalla l. 9-1-2004, n. 6), per effetto della quale alla persona stabilmente convivente compete, ad esempio, la legittimazione attiva in ordine alla proposizione della domanda di interdizione, inabilitazione o di nomina di amministratore di sostegno, oltre che il diritto di essere preferita nella scelta dell’amministratore di sostegno (si noti poi che, ai sensi del novellato art. 407 c.c., il nominativo del convivente va comunque indicato nel ricorso per la nomina dell’amministratore di sostegno). @ Anche la disciplina in tema di procreazione medicalmente assistita (l. 19-2-2004, n. 40) contiene una disposizione (cfr. l’art. 5) secondo cui «Fermo restando quanto stabilito dall’articolo 4, 1o co., possono accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi». Al riguardo, quanto mai significativo appare il fatto che il legislatore si sia sentito in obbligo di specificare che le coppie conviventi che vengono qui in rilievo possono essere solo quelle di persone di sesso diverso, temendo che, in caso di mancato inserimento di siffatto inciso, l’interprete avrebbe potuto arrivare alla conclusione che le tecniche di procreazione medicalmente assistita avrebbero potuto ritenersi aperte anche alle coppie omosessuali. @ Andranno poi citate le disposizioni introdotte dalla l. 8-2-2006, n. 54 (Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli), che, pur senza mai espressamente citare la famiglia di fatto, dettano principi in tema di affidamento condiviso e, più in generale, per la gestione del rapporto rispetto alla prole dei coniugi in crisi sicuramente estensibili (cfr. art. 4, l. cit., secondo cui «Le disposizioni della presente legge si applicano anche in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, nonché ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati») alle coppie (già) conviventi more uxorio. @ Potrà ancora ricordarsi che l’art. 4, co. 1, d.p.r. 30-5-1989, n. 223 definisce la famiglia ai fini anagrafici come «un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso comune » (per l’applicazione di questa norma anche alle convivenze omosessuali v. D’Angeli, Il fenomeno delle convivenze omosessuali: quale tutela giuridica?, 25). @ Si tenga poi presente che l’art. 6, co. 4, 1. 4-5-1983, n. 184 (al cui commento si rinvia), così come sostituito dall’art. 6, l. 28-3-2001, n. 149, consente l’adozione «anche quando i coniugi abbiano convissuto in modo stabile e continuativo prima del matrimonio per un periodo di tre anni, nel caso in cui il tribunale per i minorenni accerti la continuità e la stabilità della convivenza, avuto riguardo a tutte le circostanze del caso concreto» (prima che intervenisse la modifica legislativa, la Corte costituzionale aveva dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, co. 1, l. 4-5-1983, n. 184, vecchia formulazione: cfr. Corte Cost. 94/281, Fam. e d. 94, 485; la decisione è stata definita un’«occasione mancata» da Astone, D. fam. 99, 1466). @ Potrà poi ancora farsi menzione dell’art. 129, comma 2, d.lgs. 7-9-2005, n. 209, ai sensi del quale non è considerato terzo e non ha diritto ai benefici derivanti dai contratti di assicurazione obbligatoria, limitatamente ai danni alle cose, il convivente more uxorio. @ Merita infine ricordare la disposizione di cui all’art. 317 bis, co. 2, c.c. (al cui commento si rinvia), ove, con riguardo al figlio naturale riconosciuto sia dal padre che dalla madre, si stabilisce che, se costoro convivono, la potestà spetta congiuntamente ad entrambi (per l’indicazione di ulteriori riferimenti normativi al convivente, si rinvia a Spadafora, Rapporto di convivenza more uxorio e autonomia privata, 8ss.; Annunziata-Iannone, Fam. Pers. Succ. 10, 131ss.). @ Collocandosi su di un altro piano potrà ancora aggiungersi che, in difetto di una normativa organica di carattere generale, svariati comuni italiani hanno provveduto alla creazione di appositi registri delle unioni civili riguardanti le coppie di fatto, sia etero- che omosessuali. Tra questi potranno ricordarsi i comuni di Arezzo, Bologna, Campi Bisenzio (Fi), Desio (Mi), Empoli, Fano (Ps), Ferrara, Fiorenzuola, Firenze, Gallarate, Gubbio (Pg), Ivrea (To), Montebruno, Perugia, Pisa, Roma, Rosignano (Li), San Giovanni Valdarno (Ar), San Sepolcro (Ar), Scandicci (Fi), Sesto San Giovanni (Mi), Tarcento, Terni, Voghera, San Canzian (Go), Montebruno (Ge), Trezzo sull’Adda, Cento (Fe), Bagheria (Pa), Rivoli (To), Bolzano, Rovereto, Casalgrande, Pizzo Calabro, Piombino, Savona, Torino. La funzione di questi registri è quella di certificare pubblicamente una condizione soggettiva, giuridicamente rilevante, ma che non determina la creazione di un nuovo stato giuridico. Gli stessi svolgono essenzialmente due funzioni: quella probatoria della relazione personale di convivenza e quella della estensione alle convivenze di tutti i procedimenti, benefici ed opportunità di varia natura riconosciuti alle coppie sposate e assimilate, nei limiti delle competenze comunali (cfr. Maio, Fam. Pers. e Succ. 07, 59 ss.).

 

IV. Famiglia di fatto e filiazione naturale. @  Il tema della famiglia di fatto si intreccia, in taluni suoi aspetti, con la disciplina della filiazione naturale. Pur trattandosi di due situazioni assolutamente distinte, la cui coesistenza è solo eventuale e non necessaria (come precisa Paladini, Familia 02, 609), è qui opportuno svolgere alcune considerazioni in ordine al ruolo che le norme introdotte a tutela dei figli naturali rivestono nel quadro dell’evoluzione della convivenza more uxorio. @ Come si è già accennato in precedenza, tra gli interventi normativi che hanno contribuito al graduale riconoscimento della famiglia di fatto assume particolare importanza la novella del 1975 che ha essenzialmente dissolto le discriminazioni tra figli naturali e figli legittimi. In tal modo si è in buona parte reciso quel collegamento che faceva dipendere i diritti del figlio dal tipo di relazione, matrimoniale o extramatrimoniale, dei genitori da cui veniva concepito (a seguito delle modifiche apportate dalla l. rif. dir. fam. la prova della paternità naturale può essere data ora con ogni mezzo (cfr. sul punto sub artt. 269ss. c.c.) ed il figlio naturale gode di uno status sostanzialmente equiparato a quello del figlio legittimo per quanto riguarda sia le pretese che può fare valere nei confronti del genitore che la sua posizione successoria (in generale, in tema di filiazione naturale, cfr. sub artt. 250ss. c.c.). E, sebbene il codice civile novellato nel 1975 limiti la parificazione tra figli legittimi e figli naturali esclusivamente ai rapporti tra genitore e figlio (artt. 258, 1o co., 277, 1o co., c.c.) o comunque in senso verticale (artt. 148, 1o co., 433, nn. 2 e 3, 467, c.c.), la dottrina (Roppo, op. cit., 2s.) ha perspicacemente rilevato che l’interpretazione giurisprudenziale ha consentito un’espansione anche in senso collaterale, quando ha statuito che «la posizione del figlio naturale va assimilata a quella del discendente legittimo, giustificandosi così la successione tra fratelli (o sorelle) naturali, purché la filiazione sia stata riconosciuta o dichiarata» (Corte Cost. 4-7-1979, n. 55, F. it. 79, I, 1941; contra, solo due anni prima, Corte Cost. 12-5-1977, n. 76, op. cit. 77, I, 1346; cfr. poi Corte Cost. 23-11-2000, n. 532, che ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 565 c.c., «nella parte in cui, in mancanza di altri chiamati all’eredità all’infuori dello Stato, non prevede la successione legittima dei c.d. parenti naturali di grado corrispondente al quarto e fino al sesto»). @ La giurisprudenza, anche sulla base del rinvio posto dall’art. 261 c.c., ha ritenuto applicabile l’art. 148 c.c. anche alla famiglia naturale. In particolare C 95/3402, D. fam. 95, 1409, ha ritenuto che «lo speciale provvedimento per decreto disciplinato dal 2o co. dell’art. 148 c.c. è utilizzabile al fine di ottenere la condanna degli ascendenti dei genitori, privi di mezzi economici, a fornire a questi ultimi i mezzi necessari ad adempiere i loro doveri nei confronti dei figli, sia legittimi che naturali». Analogamente la giurisprudenza di merito ha statuito che «il procedimento di cui all’art. 148, 3o, 4o e 5o co., c.c. è da ritenersi pertinente ed applicabile anche qualora il contributo richiesto e non versato per il mantenimento, l’educazione e la istruzione della prole sia destinato, non sussistendo tra i genitori vincolo matrimoniale, a figli naturali» (Trib. Roma 13-12-1993, D. fam. 94, 1059; nello stesso senso anche Trib. Messina 10-5-1991, Giust. civ. 92, I, 2899; in dottrina v., ex multis, Asprea, op. cit., 121ss.). @ È poi opportuno rimarcare che l’art. 317 bis, 2o co., c.c., in tema di potestà genitoriale, attribuisce la potestà sul figlio ad entrambi i genitori, qualora esso sia stato riconosciuto da entrambi ed a condizione che essi siano conviventi. In tal modo l’ordinamento riconosce implicitamente rilevanza alla famiglia di fatto non soltanto in relazione alla condizione del figlio naturale – rispetto a cui, nell’ipotesi in cui i genitori convivano, la soggezione alla potestà parentale è identica a quella che si configura nel caso di famiglia legittima – ma anche nei rapporti tra i genitori conviventi: ad essi si applicano infatti la disciplina di cui all’art. 316 per la risoluzione dei conflitti circa l’esercizio delle potestà, ma anche le norme in tema di doveri verso i figli (art. 147 c.c.) e di concorso negli oneri (art. 148 c.c.) previste nel Titolo VI del Libro I del codice civile, dedicato al matrimonio (sull’argomento Roppo, op. cit., 3; sulla vexata quaestio circa il fatto che l’art. 317 bis c.c. riconosca o meno la famiglia di fatto, cfr. per tutti Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, 52s.). @ Per ciò che attiene ai rapporti con la prole a seguito di cessazione della convivenza si fa rinvio a quanto verrà illustrato infra (v. § XIII).

 

V. I rapporti personali nella famiglia di fatto. @ Venendo ai rapporti tra conviventi, vi è da chiedersi se i diritti ed i doveri nascenti con la celebrazione delle nozze possano essere ritenuti applicabili anche alle convivenze more uxorio. In rapporto ai rapporti personali, si osserva in dottrina che gli obblighi legali che il codice civile impone ai coniugi divengono, all’opposto, degli indici in base a cui valutare l’esistenza, o meno, di una famiglia di fatto (Dogliotti, op. cit., 195; Balestra, La famiglia di fatto, Padova, 2004, 57, che ravvisa in tali comportamenti una doverosità sociale; sul dibattito circa l’applicabilità degli artt. 143 ss. c.c. v. Asprea, op. cit., 93ss.). Si noti che, ad es., l’art. 1 del disegno di legge governativo, approvato nella seduta del Consiglio dei Ministri dell’8-2-2007, dal titolo «Diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi», successivamente accantonato, prevedeva, quale presupposto per l’operatività delle disposizioni relative, che le due «persone maggiorenni e capaci, anche dello stesso sesso» che intendessero dare vita ai rapporti giuridici in questione, dovessero essere «unite da reciproci vincoli affettivi» e che le stesse, oltre a convivere stabilmente, si prestassero «assistenza e solidarietà materiale e morale». Ciò non significa tuttavia che i citati rapporti sociali siano vincolanti, come invece lo sono per i coniugi, considerato che la mancata osservanza di tali precetti non determina il sorgere di alcuna sanzione (Sesta, op. cit., 403), sebbene tutte le prestazioni rientranti nell’assistenza materiale e nel soddisfacimento delle comuni esigenze di vita nell’ambito della convivenza more uxorio di certo non costituiscano dazioni indebite, come si rileverà infra. @ È da evidenziare, inoltre, che, come si è già avuto modo di dire (cfr. supra, § III), in tema di misure contro la violenza nelle relazioni familiari, nella l. 5-4-2001, n. 154, il legislatore ha sostanzialmente parificato la condizione del coniuge sposato a quella del partner extramatrimoniale. In forza di tale novella, infatti, sono stati introdotti nel codice civile gli artt. 342 bis ss. In particolare l’art. 342 bis c.c. dispone che «quando la condotta del coniuge o di altro convivente è causa di grave pregiudizio all’integrità fisica o morale ovvero alla libertà dell’altro coniuge o convivente, il giudice, qualora il fatto non costituisca reato perseguibile d’ufficio, su istanza di parte, può adottare con decreto uno o più dei provvedimenti di cui all’articolo 342 ter c.c.». Significativo, dunque, che l’unica norma la quale prevede l’erogazione di un assegno, sostanzialmente, di mantenimento a carico dell’ex convivente, sia stata inserita, addirittura (e, a quanto pare, senza lo strepito che normalmente accompagna siffatto genere di proposte) nel codice civile. @ Da un punto di vista più generale, in dottrina si è da alcuni sostenuta, in modo più o meno ampio, la possibilità di procedere all’applicazione analogica delle disposizioni che governano i rapporti personali tra i coniugi (v. ad es. Furgiuele, Libertà e famiglia, 288, che esclude l’applicabilità soltanto dell’art. 143 bis, 143 ter  – articolo, quest’ultimo, peraltro abrogato dall’art, 26, 1. 5-2-1992, n. 91 – e 145 c.c.; v. anche Alagna, Famiglia e rapporti tra coniugi nel nuovo diritto, 414ss.; Prosperi, op. cit., 256ss., pur ammettendo il ricorso all’analogia, esclude l’applicabilità degli artt. 143, 143 bis, 145, 146 ultimo cpv., 156; in giurisprudenza v. Trib. Savona 29-6-2002, Fam. e d. 03, 596, a proposito dell’applicazione analogica dell’art. 143, co. 3 cc.; cfr. inoltre Pret. Genova 21-5-1981, F. it. 82, 1, 1459, che ha esteso alla famiglia di fatto la norma di cui all’art. 145 c.c. in considerazione dei fini che caratterizzano la relativa procedura; per una critica al ricorso al procedimento analogico in subiecta materia e per ulteriori approfondimenti v. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, 43ss.; per analoghe conclusioni cfr. anche Monteverde, La famiglia non fondata sul matrimonio, Tr. Bonilini e Cattaneo2, 942; per la doverosità morale e sociale, e non giuridica, di comportamenti tra conviventi analoghi a quelli previsti dall’art. 143 c.c. si esprimono anche Paradiso, La comunità familiare, 106; Santilli, R. trim. 80, 842; Bernardini, La convivenza fuori dal matrimonio, 113; D’Angeli, La tutela delle convivenze senza matrimonio, 68 ss.; Ferrando, op. cit., 92; Tommasini, op. cit., 508; Polidori, Convivenza e situazioni di fatto (i rapporti personali), Tr. Zatti, I, 824; Sesta, op. cit., 403ss.). @ Si esclude, in particolare, che possano concepirsi controversie concernenti i rapporti personali, rilevandosi come ogni questione ad essi attinente, se non risolta spontaneamente, determini «una pura e semplice cessazione della convivenza» e l’insorgenza eventuale di questioni patrimoniali (Gazzoni, op. cit., 116s.; Pret. Milano 8-2-1990, F. it. 91, I, 329, ove si afferma che la situazione di convivenza more uxorio non implica alcun diritto al mantenimento di ciascuno dei conviventi nei confronti dell’altro; ugualmente Trib. Napoli 8-7-1999, Fam. e d. 99, 501). @ Occorre dunque concludere sul punto nel senso che i comportamenti da cui si inferisce l’esistenza di una famiglia di fatto sono caratterizzati dall’assenza del crisma della giuridicità e, per conseguenza, dalla mancanza di coercibilità (elemento, quest’ultimo, peraltro già difficile da ipotizzare in seno ai rapporti scaturenti nell’ambito della famiglia legittima: Balestra, Comm. Sesta2, 3772). La doverosità morale che connota detti comportamenti può però costituire il substrato della fattispecie dell’obbligazione naturale ogniqualvolta il dovere morale scaturente dalla convivenza sia suscettibile di essere adempiuto mediante una prestazione di carattere patrimoniale (ad es. dovere di contribuzione, di assistenza materiale; sulla tematica si rinvia a Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, 83ss.; Balestra, Le obbligazioni naturali, Tr. CM, 59ss., nonché 233 ss.). @ Sempre in tema di inestensibilità in via analogica (o per mezzo di altri procedimenti ermeneutici) alla famiglia di fatto di istituti di carattere generale dettati per il matrimonio, potrà sottolinearsi che tra conviventi more uxorio, a differenza di quel che accade tra i coniugi, non si fa luogo alla sospensione della prescrizione: Corte Cost. 29-1-1998, n. 2, Fam. e d. 98, 214, ha infatti dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2941, n. 1 c.c., in relazione agli artt. 2 e 3 Cost., nella parte in cui non prevede che il termine di prescrizione resti sospeso anche con riguardo, per l’appunto, al convivente more uxorio.

 

VI. I rapporti patrimoniali nella famiglia di fatto. In particolare le obbligazioni naturali. @ La comunione di vita che contraddistingue la famiglia di fatto determina inevitabilmente dei riflessi sul piano dei rapporti patrimoniali tra i conviventi more uxorio, che vengono in rilievo in particolar modo nel momento della cessazione del ménage, palesando le esigenze di tutela della parte debole della coppia che si ritrova spesso in una posizione sfavorevole a seguito dell’interruzione del rapporto (Balestra, Le obbligazioni naturali, Tr. CM, 63). È in tale fase terminale della convivenza, infatti, che sorgono i problemi in ordine alla ripetibilità di quelle dazioni precedentemente intercorse tra i membri della coppia, volte al soddisfacimento delle necessità materiali della vita comune. Tali prestazioni vengono ricondotte all’adempimento di obbligazioni naturali ex art. 2034 c.c. sia dalla dottrina (Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, 83ss.; Balestra, Le obbligazioni naturali, Tr. CM, 233) che dalla giurisprudenza (C 69/60, F. it. 69, I, 1511 e R. d. comm. 69, 403; v. inoltre Trib. Roma 13-5-1995, riportata da Balestra, La famiglia di fatto, Padova, 2004, 74; C 89/285, A. civ. 82, 498; C 75/389; nel senso che si tratti di un’obbligazione naturale di natura indennitaria: C 58/84, F. it. 59, I, 470 e C 60/68, op. cit. 61, I, 2017; contra, nel senso che si tratti invece di donazioni rimuneratorie C 54/3389, op. cit. 55, I, 847; sull’evoluzione della qualifica giuridica delle dazioni in discorso cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, 83ss.; Id., Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, 1ss., e, successivamente, Spadafora, in Moscati - Zoppini, I contratti di convivenza, 157ss.). Il richiamo alla categoria delle obbligazioni naturali non è però scevro dal necessario riferimento a criteri di proporzionalità, analoghi a quelli valevoli per i coniugi ai sensi dell’art. 143 c.c. (sul tema cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, 90ss., nonché C 03/3713, G. it. 04, 530, secondo cui è necessario che «che la prestazione risulti adeguata alle circostanze e proporzionata all’entità del patrimonio e alle condizioni sociali del solvens»). @ Prima della decisione da ultimo citata, una pronunzia di legittimità, fortemente criticata dalla dottrina (come un «ritorno al medioevo»: Carbone, Corr. giur. 99, 54), aveva qualificato come donazioni – nulle per difetto di forma – i regali fatti tra conviventi (C 98/11894, Giust. civ. 99, I, 686; C 94/1260, G. it. 95, I, 1, 684; per altri riferimenti cfr. Balestra, La famiglia di fatto, Padova, 2004, 107ss.). @ Altro tema è quello della titolarità degli acquisti compiuti durante la convivenza. Al riguardo si è evidenziato che, se, da una parte, la comunanza di vita può dar luogo all’idea che tali acquisti siano stati effettuati con l’apporto di entrambi i membri della coppia, dall’altra in tale contesto si può riproporre l’esigenza di tutelare il partner debole (Balestra, La famiglia di fatto, Padova, 2004, 142). Vi è infatti chi ha ipotizzato in tale caso un’applicazione analogica degli artt. 177ss. c.c. (Prosperi, op. cit., 287ss.). @ La dottrina maggioritaria esclude tuttavia che in ordine ai rapporti patrimoniali trovi applicazione il regime di comunione legale dei beni (Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, 59ss.; Id., La comunione legale tra coniugi, Tr. CM, 298ss.; Sesta, op. cit., 405; Cocuccio, D. fam. 09,  908ss.; v. anche Ferrando, Il matrimonio, Tr. CM, 226ss.; Busnelli - Santilli, op. cit., 785ss.; in giurisprudenza Trib. Napoli 8-7-1999, Fam. e d. 00, 502, esclude la sussistenza di un diritto al mantenimento o agli alimenti nei confronti del convivente more uxorio, a cui non si collegano diritti e doveri se non di carattere morale; per una pronunzia di merito che esclude l’applicabilità in via analogica del regime di comunione legale cfr. App. Firenze 12-2-1991, D. fam. 92, 633; per ulteriori riferimenti giurisprudenziali sul tema in oggetto cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, 71ss.; Balestra, ibidem). @ È invece discussa l’applicabilità dell’art. 230 bis c.c. al caso dell’attività lavorativa prestata dal convivente more uxorio, talvolta ammessa con lo scopo di porre rimedio agli abusi, di cui è vittima il partner più debole, che spesso caratterizzano la prestazione di lavoro all’interno delle comunità familiari (per la tesi affermativa cfr., ex multis, Balestra, G. it. 95, I, 1, 845ss.; in senso negativo e per ulteriori riferimenti v. Oberto, Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, 14ss., secondo cui l’ipotesi della convivenza – considerato il rifiuto da parte dei membri della coppia di fatto di sottoporre il ménage alle regole dettate dall’ordinamento per l’unione legittima – non costituisce un «caso simile» ai sensi dell’art. 12 cpv., disp. prel.; è pertanto è preferibile ricorrere, sussistenti determinate condizioni, al principio dell’ingiustificato arricchimento, su cui v. infra, il § seguente; per altri riferimenti cfr. altresì Asprea, op. cit., 233ss.; Ferrando, op. cit., 233). In giurisprudenza C 94/4204, Fam. e d. 94, 514, esclude l’applicazione analogica dell’art. 230 bis c.c. sulla base del carattere eccezionale della norma (analogamente C 76/3585, G. it. 77, I, 1, 1949; C 67/276, F. it. 67, I, 491; per la giurisprudenza di merito: cfr. in senso negativo cfr. Trib. Milano 5-10-1988; Trib. Milano 10-1-1985; Trib. Roma 10-7-1980; nel senso di un’apertura verso l’estensibilità dell’art. 230 bis c.c. v. Trib. Ivrea 30-9-1981, Vita not. 82, 802; decisioni riportate altresì in Balestra, La famiglia di fatto, Padova, 2004, 202ss.). @ Da notare che anche successivamente la Suprema Corte ha ribadito il medesimo principio (cfr. C 04/22405), stabilendo che «Presupposto per l’applicabilità della disciplina in materia di impresa familiare è l’esistenza di una famiglia legittima e, pertanto, l’art. 230  bis cod. civ. non è applicabile nel caso di mera convivenza, ovvero alla famiglia cosiddetta ‘di fatto’, trattandosi di norma eccezionale, insuscettibile di interpretazione analogica».

 

VII. Il rimedio dell’arricchimento ingiustificato. @ La tesi dell’ammissibilità dell’azione di arricchimento ingiustificato a tutela del convivente che abbia contribuito al ménage della famiglia di fatto, in assenza di un’adeguata contribuzione da parte partner, trova la sua prima elaborazione in uno studio di diritto interno e comparato (cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, 105ss.; cfr. inoltre Id., Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, 49ss., 92ss.). Essa, prendendo le mosse dalla critica alla tradizionale impostazione giurisprudenziale e dottrinale (cfr. ad es. C 78/1024; C 68/3592; C 86/1456; C 89/862; C 96/10251; Bile, Riv. dir. civ. 96, 646) secondo cui «la volontaria prestazione esclude l’ingiusto arricchimento», rinviene la fonte di tale ultimo principio nella preoccupazione, espressa da autorevole dottrina (P. Trimarchi, L’arricchimento senza causa, 11ss.; Id., Istituzioni di diritto privato, Milano, 1975, 377), di evitare che un’indiscriminata concessione dell’azione di arricchimento in funzione di recupero di una prestazione di facere (eseguita in assenza di obblighi legali o contrattuali) si possa tradurre nell’imposizione di uno scambio non desiderato dal soggetto arricchito. Riprova di ciò sta nel fatto che non sono certo mancati i casi in cui, a ben vedere, la stessa giurisprudenza di legittimità ha dato luogo all’azione ex art. 2041 c.c. pur in presenza di un arricchimento determinato dalla libera e volontaria ingerenza dell’impoverito nella sfera patrimoniale dell’arricchito (cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, 117ss.; cfr. inoltre Id., Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, 54ss.). @ Come si è cercato di dimostrare, invero, i timori sull’imposizione di uno scambio non desiderato sono destinati a venir meno allorquando l’attività dell’impoverito si sia venuta a inserire in un contesto, per così dire, obiettivamente caratterizzato dall’onerosità; quando, cioè, per l’arricchito fosse chiaro che la prestazione ricevuta non poteva intendersi come compiuta gratuitamente. Rilievo determinante è svolto quindi dalla presenza di un «affidamento» dell’impoverito nell’onerosità del rapporto, conosciuto, o quanto meno conoscibile, dalla controparte proprio per effetto delle peculiari relazioni sussistenti inter partes. @ La conclusione riceve conforto dal raffronto con il parallelo regime dell’indebito oggettivo, nel quale il solo compimento di una prestazione di dare, non giustificato dalla presenza di un’obbligazione legale o contrattuale, dà sempre luogo alla ripetizione. Un’ulteriore dimostrazione della fondatezza della tesi qui sostenuta è ricavabile da una serie di norme che si preoccupano di riconoscere al soggetto che si è ingerito nella sfera patrimoniale altrui, eseguendovi delle prestazioni di facere, il diritto di «recuperare» l’impoverimento subito per effetto di tale attività. Si tratta, più precisamente, dei principi in tema di miglioramenti eseguiti su beni di proprietà altrui (cfr. artt. 975, 985, 1150, 1592, 2152 c.c.), o che successivamente divengano di proprietà altrui, ma con effetto retroattivo (cfr. artt. 748, primo e secondo comma, 749, 1502 c.c.), cui sono assimilabili anche i miglioramenti eseguiti dal terzo acquirente del bene ipotecato (art. 2864 cpv., c.c.). Orbene, se vi è un presupposto comune a tutte le ipotesi è proprio l’assenza di un intento liberale: l’impoverito è infatti sempre vuoi (almeno temporaneamente) proprietario, vuoi possessore, vuoi detentore qualificato; in queste situazioni si deve dunque presumere che chi esegue un miglioramento lo faccia esclusivamente nell’interesse proprio, senza il minimo intento di locupletare la controparte. Se quindi il legislatore ha ritenuto di dover individuare le fattispecie in cui l’ingerenza nel patrimonio di un altro soggetto dà luogo a un’azione restitutoria e lo ha fatto proprio in relazione a quei casi in cui manca ogni intento di arricchire la controparte, sembra logico desumerne, a contrariis, che la presenza dell’intenzione di impoverirsi sia, almeno di norma, sufficiente a giustificare l’arricchimento. Viceversa, l’assenza di un’intenzione di impoverirsi, e quindi l’eventuale «affidamento» su di una controprestazione, potrà dar luogo all’actio de in rem verso. Peraltro, per evitare all’arricchito l’imposizione di uno scambio indesiderato, ciò avverrà solo quando tale «affidamento» dell’impoverito sia conosciuto dalla controparte, o quanto meno conoscibile per via dell’obiettiva onerosità del contesto in cui l’attività si è venuta a inserire (cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, 121ss.; cfr. inoltre Id., Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, 58ss.). @ Ora, posto che l’animus con il quale il convivente «debole» pone in essere la propria attività domestica non è quello di impoverirsi, ma è collegato all’«affidamento» non già in una retribuzione (intesa nel senso tradizionale del termine), bensì nell’adempimento ex adverso di quei doveri morali e sociali (assistenza morale e materiale, contribuzione, ecc.) che caratterizzano oggi il rapporto more uxorio, ne discende che la reciprocità delle obbligazioni naturali tra conviventi, in quanto scaturente da una situazione certamente nota a entrambi, fonda in colui che ha dato spontanea esecuzione ai doveri morali e sociali su di lui gravanti proprio quell’«affidamento» nell’onerosità dell’operazione che è il presupposto del rimedio ex art. 2041 c.c. per le prestazioni di facere. L’arricchimento provocato nell’accipiens dall’esecuzione dell’obbligazione naturale non potrà quindi ritenersi giustificato se non a fronte di un adempimento reciproco del corrispettivo dovere morale e sociale di contribuzione. In definitiva, deve dirsi che la contribuzione prestata da uno solo dei conviventi a vantaggio dell’altro determina in capo all’accipiens un arricchimento ingiustificato allorquando quest’ultimo sia (in tutto o in parte) inadempiente all’obbligazione naturale sullo stesso gravante: in tale ipotesi sarà garantito il diritto della parte adempiente di ottenere una somma corrispondente all’eccedenza della prestazioni eseguite rispetto a quelle ricevute, così riportando i partners a una posizione di sostanziale parità, appianando possibili divari tra le prestazioni eseguite in adempimento delle reciproche obbligazioni naturali sugli stessi incombenti (cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, 127ss.; cfr. inoltre Id., Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, 65ss.). @ L’idea ha ricevuto consensi in dottrina (cfr. ad es. Ferrando, op. cit., 194ss.; Tommasini, op. cit., 509s.; Di Gregorio, Programmazione dei rapporti familiari e libertà di contrarre, 186ss.; Cocuccio, D. fam. 09, 908ss.; contra Panico, Sull’esperibilità dell’azione di ingiustificato arricchimento nel caso di cessazione della convivenza more uxorio, G. it., 97, IV, 263 ss., secondo cui «discutere di prestazioni, controprestazioni, affidamenti ed onerosità appare, in costanza di convivenza more uxorio, abbastanza ozioso»; Quadri, Famiglia e ordinamento civile, 40; nel senso dell’ammissibilità del rimedio soltanto in relazione alle prestazioni che eccedono la normale contribuzione Balestra, Comm. Sesta2, 3779; Id., La famiglia di fatto, Tr. Ferrando, II, 1060ss.). @ La soluzione proposta dallo scrivente sembra avere rinvenuto accoglienza favorevole anche dalla più recente giurisprudenza di legittimità. In un caso risolto nel 2009 (C 09/11330, Corr. giur. 10, 72) la Cassazione ha stabilito che, poiché «l’azione generale di arricchimento ha come presupposto la locupletazione di un soggetto a danno dell’altro che sia avvenuta senza giusta causa» non è dato invocare la mancanza o l’ingiustizia della causa soltanto «qualora l’arricchimento sia conseguenza di un contratto, di un impoverimento remunerato, di un atto di liberalità o dell’adempimento di un’obbligazione naturale». Ne consegue, pertanto, che è «possibile configurare l’ingiustizia dell’arricchimento da parte di un convivente more uxorio nei confronti dell’altro in presenza di prestazioni a vantaggio del primo esulanti dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza – il cui contenuto va parametrato sulle condizioni sociali e patrimoniali dei componenti della famiglia di fatto – e travalicanti i limiti di proporzionalità e di adeguatezza». @ Dovrà considerarsi che, nel caso di specie, risultava, dalla decisione di merito, che la provvista per una serie di acquisti immobiliari operati dal partner «forte» durante l’unione paramatrimoniale era stata fornita «anche e soprattutto» dai proventi del lavoro della convivente e l’assenza di una giusta causa del «rilevante contributo economico e lavorativo» fornito dalla donna per gli acquisti effettuati dal convivente (nel frattempo deceduto) durante tutto il periodo di ultratrentennale convivenza. Si è pertanto ritenuto che l’arricchimento di quest’ultimo fosse conseguente alla conversione a suo esclusivo profitto, mediante l’acquisto di proprietà immobiliari ad esso solo intestate, di contributi economici e lavorativi della convivente, resi in assenza di un titolo (neppure gratuito) che giustificasse lo spostamento patrimoniale e tali – per rilevanza, continuità ed unilateralità degli apporti – da non costituire adempimento dei doveri morali, conseguenti all’instaurazione del rapporto di convivenza. @ In motivazione è altresì dato leggere che l’art. 2041 c.c., costituisce una norma di chiusura della disciplina delle obbligazioni, che costituisce uno strumento di tutela, esperibile in tutti i casi in cui tra due soggetti si verifica uno spostamento patrimoniale (c.d. utiliter versum), tale che uno subisca danno e l’altro si arricchisca, «senza una giusta causa» e, cioè, senza che sussista una ragione che, secondo l’ordinamento, giustifichi il profitto o il vantaggio dell’arricchito. Si rileva inoltre esattamente che l’azione ex art. 2041 c.c. ha carattere generale (perché è esperibile in una serie indeterminata di casi, in quanto espressione del principio per cui non è ammissibile l’altrui pregiudizio patrimoniale senza una ragione giustificativa) e natura sussidiaria (perché è esercitabile solo quando al depauperato non spetti nessun’altra azione, basata su un contratto, su un fatto illecito o su altro atto o fatto produttivo dell’obbligazione restitutoria o risarcitoria: cfr. art. 2042 c.c.). L’arricchimento risulterà pertanto senza una giusta causa quando è correlato ad un impoverimento non remunerato, né conseguente ad un atto liberalità e neppure all’adempimento di un’obbligazione naturale; e ciò in quanto l’ordinamento esige che ogni arricchimento dipenda dalla realizzazione di un interesse meritevole di tutela. @ Con riguardo al caso dell’obbligazione naturale, evidentemente rilevante in relazione al caso della convivenza more uxorio oggetto del giudizio, la Suprema Corte evidenzia che il riferimento ad esigenze di tipo solidaristico non è di per sé sufficiente a prefigurare una «giusta causa» dello spostamento patrimoniale, giacché ai fini dell’art. 2034 c.c., comma primo, occorre allegare e dimostrare non solo l’esistenza di un dovere morale o sociale in rapporto alla valutazione corrente nella società, ma anche che tale dovere sia stato spontaneamente adempiuto con una prestazione avente carattere di proporzionalità e adeguatezza in relazione a tutte le circostanze del caso. Ne deriva che, con particolare riguardo alla convivenza more uxorio, si precisa, a questo punto, che è possibile configurare l’ingiustizia dell’arricchimento da parte di un convivente nei confronti dell’altro in presenza di prestazioni a vantaggio del primo esulanti dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza – il cui contenuto va parametrato in relazione alle condizioni sociali e patrimoniali dei componenti della famiglia di fatto – e travalicanti i limiti di proporzionalità e di adeguatezza. 

 

VIII. I contratti di convivenza. @ In mancanza di una disciplina ad hoc, volta a regolamentare i rapporti patrimoniali nei rapporti more uxorio, la dottrina tende ad individuare una soluzione a tale carenza normativa nel ricorso all’autonomia privata attraverso la stipula dei contratti di convivenza, da intendersi come una vera e propria risorsa per le esigenze delle unioni di fatto (Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, 7ss., 151ss.; Id., Contr. imp. E. 04, 17ss.; cfr. inoltre Asprea, op. cit., 149; Balestra, Le obbligazioni naturali, Tr. CM, 220; Astiggiano, Fam. e d. 09, 385ss.; Annunziata-Iannone, Fam. Pers. Succ. 10, 131ss.; sui limiti di tale strumento v. Ferrando, op. cit., 229ss.). Un ostacolo al riconoscimento della validità dei contratti di convivenza potrebbe risiedere nel fatto che i doveri di reciproca convivenza e contribuzione tra conviventi si riconducono pacificamente allo schema delle obbligazioni naturali; l’inammissibilità di una novazione di un’obbligazione naturale in civile – stante il principio per cui gli artt. 1230ss. c.c. presuppongo la preesistenza di un rapporto giuridico obbligatorio – ha portato a ritenere che il negozio in discorso trova la sua causa nello scambio tra due sacrifici reciproci, mentre l’adempimento del dovere morale e sociale degrada a mero motivo (Oberto, Famiglia e rapporti patrimoniali. Questioni di attualità, 977; in senso parzialmente difforme cfr. Spadafora, op. cit., 199, che individua la causa dei negozi in discorso nei doveri morali e sociali caratterizzanti il rapporto di convivenza; sul tema v. altresì Del Prato, Familia 02, 959). Si individua in tal modo una sorta di corrispondenza biunivoca tra due obbligazioni, una naturale – l’assolvimento del vincolo morale – ed una civile – ovvero, per l’appunto, il contratto di convivenza. @ Mentre la giurisprudenza ha avuto modo molto raramente di soffermarsi sull’argomento, peraltro chiaramente esprimendosi nel senso dell’ammissibilità (per un esempio di contratto di convivenza sottoposto al giudizio della S.C. cfr. C 93/6381, Corr. giur. 93, 947; nella giurisprudenza di merito cfr. Trib. Savona 7-3-2001, Fam. e d. 01, 529; Trib. Savona 29-6-2002, Fam. e d. 03, 596), in dottrina si è osservato che un contratto di convivenza non può contenere accordi con cui ci si impegna a convivere ovvero che implichino profili di carattere personale che, oltre ad essere inidonei a costituire oggetto di prestazioni ai sensi dell’art. 1174 c.c. (Sesta, op. cit., 415), violerebbero inevitabilmente l’ordine pubblico (Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, 193ss.; Id., Contr. imp. E. 04, 42; sul tema v. anche Franzoni, Tr. Bonilini-Cattaneo, 470ss.). Esso può invece legittimamente prevedere l’obbligo della corresponsione di una determinata somma di denaro in caso di rottura dell’unione (Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, 282ss.; Id., Famiglia di fatto e convivenze: Tutela dei soggetti interessati e regolamentazione dei rapporti patrimoniali in vista della successione, Fam. e d. 06, 661ss.; Balestra, Fam., pers. e succ. 06, 1), ancorché subordinato alla condizione che la cessazione della convivenza sia derivata da determinate circostanze (Gazzoni, op. cit., 165; Bernardini, op. cit., 205; Oberto, ibidem), ma evitando di formulare la pattuizione sotto forma di clausola penale per il caso di abbandono, per evitare eccessive limitazioni della libertà personale (Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, 72). @ Il contratto di convivenza può peraltro avere ad oggetto un obbligo di contribuzione nell’interesse del ménage, così come, in alternativa, il mantenimento di un convivente a favore dell’altro, ovvero il mantenimento reciproco in caso di necessità (Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, 241ss.; Sesta, ibidem; Franzoni, op. cit., 474). Lo strumento contrattuale è altresì idoneo a regolamentare il diritto di abitazione del partner che non sia proprietario dell’appartamento ove si svolge il ménage (come è accaduto nella già citata ipotesi di C 93/6381, cit.; sul tema v. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, 285ss.; Id., Famiglia di fatto e convivenze: Tutela dei soggetti interessati e regolamentazione dei rapporti patrimoniali in vista della successione, Fam. e d. 06, 661ss.; Asprea, L’assegnazione della casa familiare nella separazione, nel divorzio e nella convivenza, 104ss.). Allo stesso modo il contratto di convivenza può regolare il regime degli acquisti introducendo eventualmente un regolamento lato sensu analogo a quello della comunione legale dei beni (Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, 260ss.; Balestra, ibidem; Franzoni, op. cit., 476ss.; sugli strumenti utilizzabili a tale fine cfr. anche Del Prato, ibidem), con il limite – invalicabile stante il disposto dell’art. 1372 c.c. – dell’inopponibilità nei confronti dei terzi (Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, 268ss.; Id., Famiglia e rapporti patrimoniali. Questioni di attualità, 993ss.). Si tenga conto, tuttavia, che, considerato che è al momento della cessazione della convivenza che verrà in rilievo la funzione regolatrice della convenzione in discorso, è quanto mai necessario ancorare tale situazione ad un evento ben determinato (Oberto, Contr. imp. E. 04, 57). In tema di forma del contratto, valgono i principi generali del contratto e dunque occorrerà fare riferimento ai caratteri dei negozi che verranno di volta in volta conclusi; per quanto riguarda invece la forma ad probationem si ritiene prevalentemente opportuno che i contratti di convivenza risultino da atto scritto (Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, 77; v. anche Franzoni, op. cit., 474). @ Una fattispecie piuttosto singolare è stata risolta nel 2009 dalla Cassazione (cfr. C 09/23691), la quale ha statuito che la dichiarazione di rinuncia, contenuta in una scrittura privata, alla comproprietà di un immobile già acquistato in comunione tra conviventi more uxorio, rinunzia rilasciata al momento della cessazione del rapporto da parte della donna, la quale aveva riconosciuto che il bene era stato acquistato interamente con denaro del partner, integra un «negozio di natura abdicativa» ex art. 1104 c.c. in favore del comproprietario che, in virtù del principio di elasticità della proprietà, importa, ipso iure, «l’accrescimento della quota rinunciata in favore dell’ex compagno che, pertanto, data la proporzione delle rispettive quote, è divenuto proprietario dell’intero immobile». Nella specie, in seno ad una coppia di fatto poi separatasi, la convivente aveva sottoscritto una dichiarazione di rinuncia alla proprietà della casa all’uomo insieme al quale aveva formalmente acquistato il bene, ma di fatto comprato soltanto con i soldi di lui. La proprietà esclusiva in capo all’uomo, poi deceduto, è stata fatta valere dal figlio di questi che ha invocato la caduta in successione dell’intero immobile facendo valere la rinunzia della ex convivente. @ Sul punto si è esattamente obiettato in dottrina che alla decisione si può rimproverare di aver applicato l’istituto di cui all’art. 1104 c.c. senza tener conto che la rinuncia abdicativa effettuata con la scrittura in oggetto era stata posta in essere nell’ambito di una più complessa operazione negoziale, mediante la quale i conviventi avevano inteso disciplinare i reciproci diritti e doveri al momento della rottura del rapporto di convivenza (così Annunziata, Fam. Pers. Succ. 10, 414). Del resto andrà tenuto conto del fatto che l’art. 1104 c.c. tratta della rinunzia come unicamente finalizzata alla liberazione del comunista dall’obbligo di contribuire nelle spese necessarie per la conservazione e per il godimento della cosa comune. La disposizione non sembra quindi, nella specie, invocata a proposito.

 

IX. Convivenza e diritto all’abitazione. @ In tema di diritto all’abitazione va detto che già diversi anni or sono si era ammessa l’applicabilità alla famiglia di fatto della norma che consente al locatore di opporsi alla proroga del contratto, qualora abbia necessità di destinare l’immobile ad abitazione del proprio nucleo familiare (Pret. Pordenone 7-12-1950, F. it. 51, I, 800; non diversamente, ma dal lato del conduttore, Pret. Sampierdarena 20-10-1979, F. it., 80, I, 1214; Pret. Bassano del Grappa 26-6-1978, G. it. 78, I, 2, 446; Trib. Firenze 13-1-1951, F. it. 51, I, 800). In argomento è stato poi il giudice delle leggi, nella già ricordata Corte Cost. 7-4-1988, n. 404 (F. it. 88, I, 2525; cfr. anche – nel senso dell’infondatezza della sollevata questione di legittimità costituzionale – Corte Cost. 14-4-1980, n. 45) a dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 6, l. equo canone, nella parte in cui non prevedeva che, in caso di morte del conduttore di un immobile adibito ad uso abitativo, gli succedesse nel contratto il convivente superstite: sul tema, amplius, Coppola, in Bonilini (diretto da), Il diritto delle successioni, 385ss.; Busnelli - Santilli, op. cit., 789s.; per l’ipotesi della successione nel contratto del convivente in caso di allontanamento del partner dall’alloggio comune ponendo termine alla convivenza: Corte Cost. 7-4-1988, n. 423, F. it. 88, I, 2514; principio esteso da C 97/9868, Fam. e d. 98, 175, quand’anche lo stato di convivenza non sia conosciuto dal locatore. La giurisprudenza successiva ha rilevato che la convivenza, ai fini dell’applicazione della citata norma della l. equo canone, deve essere accertata alla data del decesso del conduttore, a nulla rilevando che gli aventi diritto alla successione nel contratto siano o meno rimasti nell’alloggio locato dopo la morte del dante causa, giacché la successione mortis causa nel contratto di locazione è fatto giuridico istantaneo, che si realizza all’atto stesso della morte del conduttore, restando insensibile agli accadimenti successivi (C 00/10034, G. it. 01, 902). @ La giurisprudenza, nel sottolineare la necessità di un accertamento circa l’effettività della convivenza, ha peraltro posto significativamente in luce come la speciale norma di cui all’art. 6 della l. n. 392/1978 precluda l’applicabilità della disciplina generale (art. 1614 c.c.), da ritenersi implicitamente abrogata, e dunque la successione nel contratto degli eredi (C 90/11328, G. it. 92, I, 1, 341; C 92/4767, Arch. civ. 92, 778; C 91/8155, ivi, 1992, 54; App. Roma 14-3-1990, ivi, 1991, 573; Trib. Roma 8-6-1992, Giust. civ. 82, I, 2195; Pret. Genova 24-9-1994, Arch. civ. 94, 845; Pret. Capri 31-12-1990, ivi, 1991, 350; contra G. Gabrielli-Padovini, La locazione di immobili urbani, 753s.). Il convivente more uxorio, dunque, in virtù della disciplina di cui all’art. 6, l. equo canone, così come risultante dall’intervento del giudice delle leggi, succede nel contratto indipendentemente dalla circostanza che manchino eredi del conduttore e dunque anche in presenza di figli legittimi del conduttore convivente (cfr. C 94/5544, F. it. 94, I, 3438). @ In tema di edilizia residenziale pubblica l’art. 17, l. 17-2-1992, n. 179, dopo aver disposto che in caso di decesso del socio di una cooperativa edilizia, assegnatario di un alloggio di edilizia economica e popolare, gli succedono il coniuge e i figli, prevede che «in mancanza del coniuge e dei figli minorenni, uguale diritto è riservato ai conviventi more uxorio e agli altri componenti del nucleo familiare, purché conviventi alla data del decesso e purché in possesso dei requisiti in vigore per l’assegnazione degli alloggi. La convivenza, alla data del decesso, deve essere instaurata da almeno due anni ed essere documentata da apposita certificazione anagrafica od essere dichiarata in forma pubblica con atto di notorietà da parte della persona convivente con il socio defunto».

 

X. Cessazione della convivenza e questioni possessorie. @ Il discorso finora svolto sulla rilevanza giuridica della famiglia di fatto assume primaria importanza qualora la convivenza more uxorio venga a cessare per volontà dei partners o per morte di uno di essi (Ferrando, op. cit., 225): è in tale fase terminale che la validità di determinate regole di diritto viene in rilievo, poiché fino ad allora difficilmente i membri della famiglia di fatto (o i loro possibili eredi) avranno invocato la tutela dell’ordinamento giuridico al fine di veder accolte le proprie pretese. @ Al riguardo taluno (Dogliotti, op. cit., 196) ha ipotizzato la configurabilità di un danno risarcibile in caso di cessazione della convivenza per volontà di uno dei membri della coppia, non nella forma di un assegno periodico, bensì tramite la corresponsione di una somma una tantum; tuttavia sia la dottrina (Gazzoni, op. cit., 132; Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, 282ss.; Balestra, Gli effetti della dissoluzione della convivenza, R. d. priv. 00, 468), che la giurisprudenza (cfr. C 86/7064, F. it. 87, I, 805) escludono siffatta possibilità. Infatti, più in generale, «l’interruzione di una sia pure prolungata relazione amorosa [...] non è fonte di obbligazioni nel senso proprio del partner che l’abbia voluta e a favore dell’altro. L’ordinamento positivo, invero, non conferisce a quella relazione idoneità a produrre fra le parti diritti di alcun genere né collega al fatto interruttivo una qualsiasi giuridica responsabilità» (C 86/7064, cit.; più in generale, in tema di responsabilità contrattuale nella famiglia di fatto, Oberto, La responsabilità contrattuale nei rapporti familiari, 64ss.). Prima dell’abrogazione dell’art. 526 c.p. (ad opera della l. 15-2-1966, n. 66) si riteneva che la rottura della relazione extramatrimoniale potesse senz’altro costituire un illecito civile risarcibile, qualora integrasse gli estremi del reato di seduzione con promessa di matrimonio (sul tema v. Oberto, Famiglia e rapporti patrimoniali. Questioni di attualità, 1049s.). @ Parzialmente diversa è la soluzione adottata dalla giurisprudenza nell’ipotesi dell’assegnazione della casa familiare alla cessazione della convivenza: in tal caso si riconosce al convivente una tutela possessoria in forza del fatto che la sua posizione è qualificata e non assimilabile a quella dell’ospite. Più esattamente, si è posto in luce (Balestra, La famiglia di fatto, Padova, 2004, 253ss.; Id., Comm. Sesta2, 3785ss.) che occorre distinguere: a) il caso in cui ad invocare la tutela possessoria sia il partner estromesso dall’abitazione che, pur non vantando alcun diritto reale od obbligatorio, voglia recuperarne la disponibilità e continuare a goderne; b) il caso in cui il partner titolare del diritto di proprietà, o di altro diritto reale o personale di godimento sull’immobile, intenda allontanare l’altro in ragione degli intervenuti dissidi. @ Per quanto attiene alla prima delle due ipotesi appena indicate, cioè allorquando ad invocare la tutela possessoria sia il partner estromesso dall’abitazione, secondo un orientamento che può dirsi in fase di consolidamento, il convivente more uxorio è da qualificare detentore autonomo, in quanto tale legittimato all’azione di spoglio nei confronti del partner che lo abbia cacciato di casa (Pret. Roma 22-11-1975, riportata da Balestra, La famiglia di fatto, Padova, 2004, 448, ove, tra l’altro, si afferma che «la mancanza di un vincolo coniugale e quindi di un diritto a detenere, non può in alcun modo incidere sul contenuto e sulla essenza stessa della detenzione»; Pret. Perugia 29-9-1994, Rass. g. umbra 94, 725; Pret. Firenze 27-2-1992, F it. 93, I, 1712; Trib. Perugia 22-9-1997, F. it. 97, I, 3686; cfr. per altri riferimenti giurisprudenziali Sesta, op. cit., 407). L’orientamento evidenziato non è univoco in quanto si registrano alcune pronunce di segno opposto (cfr. ad es. Pret. Pietrasanta 19-4-1988, F. it. 89, I, 1662, ove, pur rifiutando la qualifica di ospite al convivente more uxorio, piuttosto da considerare alla stregua di un detentore qualificato, si è giunti comunque a negare il rimedio possessorio al convivente, poiché riconoscere la legittimazione attiva ex art. 1168 c.c. «contrasterebbe con l’impossibilità di configurare situazioni di vantaggio da farsi valere dopo la fine del rapporto e, prima ancora, con l’assenza, nel nostro ordinamento, di un giudice della dissoluzione del ménage di fatto»; Pret. Vigevano 10-6-1996, Nuova g. civ. comm. 97, I, 240; in dottrina cfr. Monteverde, op. cit., 961 ss.). @ In una prospettiva opposta (secondo l’ipotesi sopra individuata sub b) occorre poi analizzare l’ipotesi in cui sia l’effettivo titolare di un diritto sull’immobile ad agire in reintegrazione contro il convivente more uxorio che pretenda di continuare ad occuparlo nonostante il venir meno dell’unione. Ora, se si considera la posizione del convivente, non titolare di alcun diritto, in termini di detenzione qualificata, appare difficile concedere al proprietario l’azione possessoria nell’ipotesi in cui il partner, nonostante il venir meno dell’unione, rifiuti di lasciare l’immobile. Nello specifico, ha invece concesso l’azione possessoria Pret. Firenze, 26-10-1990, G. mer. 92, 861, anche in considerazione delle seguenti concrete circostanze: a) la convivenza era durata non più di due anni; b) l’appartamento era stato concesso al ricorrente quale corrispettivo di un contratto d’opera stipulato con terzi; c) il resistente aveva inizialmente lasciato l’immobile, ma poi vi si era reintrodotto con violenza (contra Pret. Pordenone 9-5-1995, Nuova g. civ. comm. 97, I, 240; sul tema cfr. Balestra, Comm. Sesta2, 3785s.). @ Si è peraltro esattamente rimarcato che la negazione della tutela possessoria non comporta la privazione di qualsivoglia tutela e, dunque, l’impossibilità di recuperare la disponibilità esclusiva dell’immobile a seguito della rottura della convivenza more uxorio (Balestra, Comm. Sesta2, 3785s.). Al fine di dirimere le controversie insorte al momento della dissoluzione dell’unione ed aventi ad oggetto il godimento in comune dell’immobile, può essere avviato un giudizio ordinario di accertamento del venir meno del titolo giustificativo con conseguente richiesta di condanna al rilascio. Ciò in quanto il convivente titolare del diritto sull’immobile, mettendo a disposizione dell’altro la propria abitazione, darebbe vita ad un rapporto negoziale di fatto rientrante nello schema della causa comodati (Pret. Monza 30-4-1988, G. mer. 90, 74; Pret. Pordenone 9-5-1995, cit.; Pret. Pordenone 18-3-1997, Arch. loc. cond. 97, 664; osserva tuttavia Lepre, Abitazione «parafamiliare» e problemi possessori, Nuova g. civ. comm. 97, I, 247, che « la riportata ricostruzione, pur nel lodevole sforzo di razionalizzare un fenomeno così sfuggente, quale quello della convivenza more uxorio, sembra, però, peccare di un’eccessiva artificiosità, laddove attribuisce alla coppia la volontà di stipulare un contratto che, nella sostanza, altro non sarebbe se non un negozio riconducibile a quello regolato dalle disposizioni di cui agli artt. 1803 ss., c.c.»). @ In ogni caso, il convivente titolare di un diritto reale o personale di godimento può agire in via d’urgenza, al fine di ottenere un ordine a carico dell’altro di abbandono dell’immobile, ogniqualvolta la situazione, così come determinatasi a seguito della crisi dell’unione, sia divenuta insopportabile (Pret. Milano 31-3-1990, F. pad. 90, I, 363; Trib. Messina 10-9-1997, Fam. e d. 98, 255; Pret. Pisa 30-3-1990, F. it. 91, I, 329). Da segnalare poi anche quella decisione di merito (Trib. Bologna 12-10-2005, Resp. civ. 06, 913) che ha riconosciuto il diritto al risarcimento del danno, in base all’art. 2043 c.c., alla ex convivente e ai suoi genitori nei confronti dell’ex partner che aveva continuato ad abitare nell’appartamento anche dopo l’ordine giudiziale di allontanamento; il tribunale ha in particolare riconosciuto il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale, per la violazione del diritto al riserbo dell’intimità della vita domestica privata delle parti attrici. @ E’ da ricordare inoltre che, in un’altra fattispecie, la S.C. ha escluso la nullità del contratto di comodato di un appartamento concesso da un uomo in favore della convivente e soggetto alla condizione risolutiva di cessazione della convivenza per volontà della donna in virtù del principio per cui «la convivenza more uxorio tra persone in stato libero non costituisce causa di illiceità e, quindi, di nullità di un contratto attributivo di diritti patrimoniali collegato a detta relazione, in quanto tale convivenza, ancorché non disciplinata dalla legge, non contrasta né con norme imperative, non esistendo norme di tale natura che la vietino, né con l’ordine pubblico, che comprende i principi fondamentali informatori dell’ordinamento giuridico, né con il buon costume, inteso, a norma delle disposizioni del codice civile, come il complesso dei principi etici costituenti la morale sociale di un determinato momento storico, bensì ha rilevanza nel vigente ordinamento» (C 93/6381, cit.). @ Per l’ipotesi dell’assegnazione della casa familiare in presenza di prole v. infra, § XIII. @ In relazione, infine, al caso della morte di uno dei membri della coppia di fatto, si è affermato che non sussistono gli estremi dello spoglio e quindi non si può ricorrere alla tutela possessoria nel caso in cui il convivente more uxorio, dopo la morte del partner, impedisca all’erede l’accesso nell’immobile già abitazione della coppia (Pret. Venezia 16-4-1996, G. it. 97, I, 2, 330; sempre in tema di tutela possessoria a favore del convivente cfr. Asprea, La famiglia di fatto in Italia e in Europa, 289ss.; Ferrando, ibidem).

 

XI. La morte del convivente more uxorio: problemi di carattere successorio. @ In caso di morte di uno dei membri della coppia di fatto, l’ordinamento non prevede alcuna tutela per il partner superstite (v. Corte Cost. 26-5-1989, n. 310 che respinge la sollevata questione di illegittimità costituzionale degli artt. 565 e 582 c.c. nella parte in cui non parificano il convivente non unito in matrimonio al coniuge; in tema di trattamento successorio della famiglia di fatto cfr. anche Corte Cost. 12-5-1977, n. 76; Corte Cost. 8-4-1976, n. 71) e pertanto soltanto gli strumenti dell’autonomia privata possono venire incontro alle esigenze dei conviventi more uxorio (in dottrina cfr., ex multis, Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, 295ss.; Id., Famiglia e rapporti patrimoniali. Questioni di attualità, 1004ss.; Id., Famiglia di fatto e convivenze: Tutela dei soggetti interessati e regolamentazione dei rapporti patrimoniali in vista della successione, Fam. e d. 06, 661ss.; v. inoltre Asprea, op. cit., 172ss.; Moscati, in Moscati - Zoppini, I contratti di convivenza, 140ss.; Coppola, op. cit., 379ss.; Franzoni, op. cit., 485ss.). @ Al riguardo, oltre alla possibilità di disporre tramite testamento o donazione (Sesta, op. cit., 407; Coppola, op. cit., 399ss.), si è ipotizzato il ricorso al contratto a favore di terzo con prestazione da effettuarsi dopo la morte dello stipulante, all’assicurazione sulla vita a favore di un terzo, al contratto di mantenimento vitalizio (sul tema, v., amplius, Oberto, Famiglia di fatto e convivenze: Tutela dei soggetti interessati e regolamentazione dei rapporti patrimoniali in vista della successione, Fam. e d. 06, 661; Coppola, op. cit., 413ss.), ovvero l’utilizzo dell’istituto del trust (Oberto, Fam. e d. 04, 310; Coppola, op. cit., 420ss.; Annunziata-Iannone, Fam. Pers. Succ. 10, 131ss.; per altri possibili strumenti utilizzabili cfr. Del Prato, ibidem). @ Si è da altri prospettata la possibilità di ricorrere all’adozione del convivente more uxorio, ma in tal modo i partners si vedrebbero condannati, paradossalmente, a restare uniti per il futuro da un rapporto addirittura indissolubile (Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, 316ss.). @ È infine opportuno evidenziare che molti dei commentatori dell’art. 2645 ter c.c. (introdotto dall’art. 39 novies, l. 23-2-2006, n. 51, di conversione con modifiche del d.l. 30-12-2005, n. 273), hanno ravvisato in esso la possibilità di creare vincoli in favore della famiglia di fatto: da disposizioni sulla casa familiare, alla protezione del patrimonio destinato ad alimentare le risorse del ménage, alla creazione di una sorta di «fondo patrimoniale» tra conviventi (Fanticini, L’articolo 2645 ter del codice civile, in Aa.Vv., La tutela dei patrimoni, 343; Oberto, Fam. e d. 07, 202ss.; Muritano, Trust att. fid. 07, 199ss.; Cinque, Nuova g. civ. comm. 08, 692ss.; G.A.M. Trimarchi, Notariato 09, 426ss.).

 

XII. La morte del convivente more uxorio a seguito dell’illecito compiuto da un terzo. @ Diverso da quello sopra affrontato è il tema della configurabilità di un diritto al risarcimento del danno subito dal convivente a seguito dell’uccisione del partner. Se inizialmente la giurisprudenza escludeva siffatta possibilità (cfr., ex multis, C 81/8209, D. e prat. ass. 82, 716; C. pen. sez. VI 82/159410), successivamente è stato riconosciuto il risarcimento prima del danno morale e poi del danno patrimoniale (nei limiti in cui quest’ultimo sia provato) in caso di morte del convivente more uxorio (Trib. Verona 3-12-1980, Resp. civ. prev. 81, 74; C.pen. sez. I 94/199108, R. pen. 95, 921). La giurisprudenza formatasi a partire dagli anni Novanta dello scorso secolo ritiene dunque che «il diritto al risarcimento da fatto illecito concretatosi in un evento mortale va riconosciuto – con riguardo sia al danno morale, sia a quello patrimoniale, che presuppone, peraltro, la prova di uno stabile contributo economico apportato, in vita, dal defunto al danneggiato – anche al convivente more uxorio del defunto stesso, quando risulti concretamente dimostrata siffatta relazione caratterizzata da tendenziale stabilità e da mutua assistenza morale e materiale» (C 94/2988, Giust. civ. 94, I, 1849 e G. it. 95, 1366; dell’avvenuta equiparazione mediante tale pronuncia della posizione del convivente a quella dei congiunti della vittima dà atto C 03/8828, F. it. 03, I, 2272). Sul tema, per i richiami alla dottrina, cfr. altresì Asprea, op. cit., 311ss., mentre Fraccon, Relazioni familiari e responsabilità civile, 397, ricollega le aperture della giurisprudenza ai «cambiamenti paralleli del costume sociale e della dogmatica della responsabilità civile»; su questo argomento, in generale, v. anche Ambanelli, Fam. Pers. Succ. 06, 251ss. @ Sarà opportuno considerare che, per ciò che attiene alla dottrina, quest’ultima sin dagli anni Sessanta dello scorso secolo aveva posto in luce la contraddittorietà della posizione dell’«antica» giurisprudenza nella misura in cui altre decisioni, per contro, ritenevano ammissibile il risarcimento del danno patrimoniale sofferto per effetto della morte di un congiunto nella forma del danno potenziale, consistendo il danno, pur nell’assenza di un obbligo alimentare attuale, nell’aspettativa di una futura prestazione alimentare (Sbisà, Risarcimento di danni in seguito a morte di un familiare di fatto, R. trim. dir. proc. civ. 65, 1256). @ Come rilevato dagli autori più recenti (Balestra, Comm. Sesta2, 3790), nel revirement del 1994 i giudici di legittimità hanno affermato che, sussistendo un rapporto diretto fra il danno e il fatto lesivo, tutti coloro che abbiano subito un danno, siano essi legati al soggetto leso da un rapporto di natura familiare o parafamiliare, hanno diritto al risarcimento. Invero, per quanto attiene al danno morale, anche il convivente more uxorio patisce una sofferenza a seguito della perdita del partner in termini analoghi a quanto accade nella famiglia legittima; con riferimento invece al danno patrimoniale, questo non discende automaticamente dalla morte del convivente, né può identificarsi nel venir meno di elargizioni occasionali, né con una mera aspettativa: sarà dunque l’attore a dover fornire la prova del carattere stabile del contributo patrimoniale e personale che il partner deceduto apportava. Del resto, sostiene la Suprema Corte, anche il decesso di un coniuge comporta un danno patrimoniale solo nei limiti in cui esso determini il venire meno di un contributo al soddisfacimento dei bisogni della famiglia. @ Osserva poi anche la dottrina (Balestra, ibidem) che la giurisprudenza successiva non si è attestata su posizioni univoche, posto che a fronte di una serie di decisioni di merito che hanno riconosciuto il diritto al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale (App. Perugia 15-5-1998, Rass. g. umbra 98, 473; Trib. Milano 21-7-1998, Resp. civ. prev. 00, 763; App. Milano 14-8-1998, ivi; Ass. app. Ancona 31-5-2002, G. mer. 02, 1351, ove il riferimento è al diritto di libertà, nascente direttamente dalla Costituzione, alla continuazione del rapporto), si sono contrapposte altre pronunce che, facendo leva sul tradizionale orientamento che ravvisava l’ingiustizia del danno unicamente nella violazione di un diritto soggettivo, hanno negato qualsiasi tutela al convivente della vittima di un altrui fatto illecito (Ass. Milano 20 mag. 1998, Resp. civ. prev. 00, 764). In particolare Trib. Perugia 30-10-1996, Rass. g. umbra 97, 747, ha esplicitamente preso posizione contro la decisione della S.C. 1994/2488 alla luce delle disposizioni che prevedono e disciplinano la risarcibilità del danno e dei principi generali dell’ordinamento, anche costituzionale (la pronuncia è stata riformata da App. Perugia 15-5-1998, cit.). @ Peraltro andrà aggiunto che la giurisprudenza di legittimità ha invece ritenuto di dover confermare nel 2008 il precedente del 1994, stabilendo che «Il diritto al risarcimento del danno da fatto illecito concretatosi in un evento mortale va riconosciuto – con riguardo sia al danno morale, sia a quello patrimoniale, che presuppone, peraltro, la prova di uno stabile contributo economico apportato, in vita, dal defunto al danneggiato – anche al convivente more uxorio del defunto stesso, quando risulti dimostrata tale relazione caratterizzata da tendenziale stabilità e da mutua assistenza morale e materiale; a tal fine non sono sufficienti né le dichiarazioni rese dagli interessati per la formazione di un atto di notorietà, né le indicazioni dai medesimi fornite alla P.A. per fini anagrafici. (Nella specie la S.C. ha confermato sul punto la sentenza impugnata nella parte in cui aveva, appunto, escluso che la ricorrente, che aveva contratto matrimonio canonico privo di effetti civili con la vittima, potesse vantare diritti risarcitori per la morte dell’uomo, essendo mancata la prova dell’esistenza di una relazione tendenzialmente stabile e di una mutua assistenza morale e materiale tra i due)» (C 08/23725, Nuova g. civ. comm. 09, p. 446). @ La dottrina più attenta rileva del resto correttamente (cfr. sempre Balestra, ibidem; v. inoltre Barbanera, Ancora sulla tutela aquiliana dei rapporti di fatto, Nuova g. civ. comm. 09, 450ss.) come non possa in alcun modo dubitarsi che la tendenza attualmente in atto sia nel senso di attribuire rilevanza, ai fini risarcitori, anche ai legami di fatto. Si riporta al riguardo il caso risolto da Trib. Milano 21-2-2007, Fam. e d. 07, 938, ove il riferimento è alla convivenza indipendentemente dal fatto che essa sia more uxorio: il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale «è già stato riconosciuto dalla giurisprudenza, in casi analoghi, al convivente more uxorio a seguito del decesso dell’altro convivente, e non vi è astrattamente alcun motivo per negare il diritto, a determinate condizioni, al risarcimento del danno non patrimoniale allorché la convivenza riguarda, oltre alla coppia, anche il figlio di uno dei conviventi, con il quale il convivente non genitore abbia instaurato un solido legame affettivo». @ Particolare menzione merita Trib. Venezia 31-7-2006, Nuova g. civ. comm. 07, I, 864, che ha riconosciuto il diritto al risarcimento del danno, patrimoniale e non patrimoniale, alla sorella della vittima di un altrui illecito sul presupposto che tra l’ucciso e l’anzidetta sorella esisteva una convivenza more uxorio. In proposito si è affermato (Balestra, Comm. Sesta2, 3792) che la decisione in questione rappresenta per l’osservatore attento un documento interessante poiché testimonia la sensibilità ormai maturata dalla magistratura in ordine al rilievo che, nell’odierno contesto sociale, rivestono i rapporti affettivi, e ciò a prescindere da ogni atto formale che ne sancisca la rilevanza esplicita al cospetto dell’ordinamento e, anzi, come nel caso di specie, anche quando l’ordinamento esprima una valutazione di contrarietà.

 

XIII. La cessazione della convivenza in presenza di figli minorenni. @ Si è esattamente rilevato in dottrina (cfr. per tutti Balestra, Comm. Sesta2, 3787) che la dissoluzione della convivenza, con riguardo ai figli, pone praticamente gli stessi problemi che si prospettano in occasione della separazione del divorzio. Proprio in ragione di tali considerazioni, la l. 8-2-2006, n. 54 – che ha introdotto la disciplina sull’affidamento condiviso – ha statuito che le relative disposizioni si applicano anche ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati (art. 4, co. 2). @ L’applicazione della legge sull’affidamento condiviso anche ai procedimenti concernenti i figli naturali non ha comportato la tacita abrogazione dell’art. 317 bis, comma 2 c.c. (al cui commento si rinvia), posto che l’applicazione della nuova disciplina presuppone l’attivazione di un procedimento, mentre ex art. 317 bis c.c. il ricorso al giudice non è necessario. Infatti, mentre nel caso di separazione o divorzio è il giudice che provvede ovvero, trattandosi di separazione consensuale o divorzio su domanda congiunta, controlla la rispondenza all’interesse del minore dell’accordo raggiunto dai genitori, nell’ipotesi di cessazione della convivenza more uxorio l’intervento del giudice è previsto dall’art. 317 bis, co. 2, c.c., come meramente eventuale e successivo: cfr. C 07/8362, Fam. e d. 07, 446, ove si legge che «l’art. 317-bis cod. civ., resta il referente normativo della potestà e dell’affidamento nella filiazione naturale, con finalità essenzialmente correttive dei criteri previsti dalla stessa norma» (sul punto cfr. anche Oberto, Accordi tra conviventi e diritti del minore, alla luce della riforma sull’affidamento condiviso, in Oberto (a cura di), Il nuovo rito del contenzioso familiare e l’affidamento condiviso, 271ss.). @ Si è peraltro correttamente rilevato che la conflittualità che sovente caratterizza la dissoluzione della coppia imporrà il più delle volte ricorso al giudice (cfr. Paladini, Familia 02, 612). @ I Tribunali per i minorenni, di fronte al contenzioso in discorso, hanno sempre seguito i criteri elaborati dai Tribunali ordinari nei casi di separazione e di divorzio. Così, ad es., una decisione del 1997 (Trib. Min. Perugia 25-8-1997, Rass. g. umbra 98, 349) ha stabilito che «Poiché la norma costituzionale non distingue tra la potestà del genitore naturale e quella del genitore legittimo, deve essere analogicamente estesa alle norme che attribuiscono un controllo del giudice sulla potestà dei genitori naturali in caso di cessata convivenza, la disciplina prevista per il controllo del giudice sulla potestà dei genitori divorziati (al divorzio infatti, più che alla separazione, consegue una situazione analoga a quella dei genitori non conviventi rispetto al residuo rapporto di ciascuno di essi con la prole). Rientra di conseguenza nella competenza del tribunale per i minorenni il potere di prendere tutti i provvedimenti in ordine alla potestà sui figli naturali, adottando gli omologhi provvedimenti di competenza del giudice del divorzio, fermo restando che, in caso di accordo – sopravvenuto al ricorso di uno dei genitori – sulle condizioni inerenti all’affidamento e al mantenimento della prole, il giudice “deve tener conto” di esso anche se i suoi provvedimenti possono essere diversi rispetto all’accordo medesimo». @ D’altro canto, già da epoca precedente alla riforma del 2006 sull’affidamento condiviso, si era riconosciuta la possibilità di estendere istituti che, come nel caso dell’affidamento congiunto, erano esplicitamente previsti solo dalla disciplina sul divorzio (v. Trib. Min. L’Aquila 22-4-1998, Giust. civ. 99, I, 596), anche nel caso di conflittualità tra i genitori (Trib. Min. Perugia 16-1-1998, Fam. e d. 98, 376). @ In tema di competenza si tende a ritenere che questa spetti al tribunale per i minorenni, mentre permane la competenza del tribunale ordinario per le decisioni in tema di mantenimento (Paladini, ibidem; Sesta, op. cit., 409, il quale evidenzia che in tal modo si determina un differente trattamento processuale tra figli legittimi e figli naturali, che tuttavia è rimasto privo di censure di legittimità costituzionale in due diverse pronunce del giudice delle leggi aventi ad oggetto la conformità a Costituzione del combinato disposto di cui agli artt. 317 bis e 38 disp. att. c.c.: Corte Cost. 5-2-1996, n. 23, D. fam. 96, I, 1327; Corte Cost. 30-12-1997, n. 451, op. cit. 98, 490). La questione è peraltro animatamente discussa in dottrina e giurisprudenza a partire dall’entrata in vigore della riforma sull’affidamento condiviso (l. 8-2-2006, n. 54): per alcuni commenti al riguardo cfr. Facchini, Quale giudice e quale rito per i figli naturali?, in Oberto (a cura di), Il nuovo rito del contenzioso familiare e l’affidamento condiviso, 237ss.; Ceniccola-Sarracino, L’affidamento condiviso alla luce della Legge n. 54/2006, 235ss.; Giunti, Giur. merito 09, 2116ss. @ Ad avviso della Cassazione (C 07/8362 cit.), dunque, L’art. 317 bis c.c. continua a rappresentare lo statuto normativo della potestà del genitore e dell’affidamento del figlio nella crisi dell’unione di fatto e il richiamo ad esso contenuto nell’art. 38, primo comma, disp. att. c.c. deve ritenersi tuttora vigente. Di conseguenza, la competenza a emanare i provvedimenti nell’interesse del figlio naturale spetta al Tribunale per i minorenni. Peraltro, una volta confermata la competenza del giudice minorile per l’emanazione dei provvedimenti relativi all’esercizio della potestà e all’affidamento dei figli naturali, ne deriva l’attrazione, in capo allo stesso giudice specializzato, della competenza a provvedere, altresì, sulla misura e sul modo con cui ciascuno dei genitori deve contribuire al mantenimento del figlio, con la conseguenza che, in caso di contestualità della domanda di natura patrimoniale con quella relativa all’affidamento, il tribunale per i minorenni è competente a provvedere anche sul contributo al mantenimento dei figli naturali stessi. @ Per il resto, nel caso di cessazione della convivenza more uxorio in presenza di figli, è dato riscontrare il frequente ricorso all’applicazione analogica delle norme previste in tema di separazione e divorzio, proprio per assicurare una più completa tutela ai figli nati al di fuori dal matrimonio in assenza di una disciplina ad hoc prevista. @ L’accordo dei conviventi, quando vi sia, considerata l’immediata operatività dei criteri di legge, è produttivo di effetti senza la necessità di un preventivo vaglio giudiziario: Balestra, Comm. Sesta2, 3787; cfr. inoltre Oberto, Accordi tra conviventi e diritti del minore, alla luce della riforma sull’affidamento condiviso, in Oberto (a cura di), Il nuovo rito del contenzioso familiare e l’affidamento condiviso, 271ss. Tuttavia, l’esigenza di attribuire a siffatti accordi efficacia vincolante, spinge sovente i conviventi a richiederne la «ratifica», di modo che si è posto il problema in merito all’accoglimento del ricorso presentato dai coniugi congiuntamente e volto ad ottenere una sorta di omologa o ratifica dell’accordo già raggiunto. Si è dunque instaurata una prassi presso i Tribunali per i minorenni che prevede l’emissione di un provvedimento che, pur non essendo un’omologazione in senso formale, è volto ad assolvere la medesima funzione. Si osserva, in particolare, che sussiste un interesse all’adozione di un provvedimento che recepisca l’accordo raggiunto da ravvisarsi, essenzialmente, nella prevenzione di future conflittualità (così Trib. Min. Reggio Calabria 17-10-1994, D. fam. 95, 611, secondo cui: «allorché i partners di una famiglia di fatto cessino dal convivere e, nell’interesse della prole da essi concepita e generata, raggiungano un accordo extragiudiziale sull’affidamento della prole stessa [...] è ammissibile e legittimo l’intervento, a richiesta dei genitori, del tribunale per i minorenni che, constatata la conformità dell’accordo agli interessi della prole, ne omologhi il contenuto»; analogamente, si è sostenuto che «poiché la norma costituzionale non distingue tra la potestà del genitore naturale e quella del genitore legittimo, deve essere analogicamente estesa alle norme che attribuiscono un controllo del giudice sulla potestà dei genitori naturali in caso di cessata convivenza, la disciplina prevista per il controllo del giudice sulla potestà dei genitori divorziati del tribunale per i minorenni, che, nell’interesse della prole, potrebbe adottare provvedimenti diversi», in tal senso Trib. Min. Perugia 25-8-1997, Rass. g. umbra 98, 349; in precedenza v. Trib. Min. L’Aquila 31-1-1994, D. fam. 95, I, 1039; favorevole in dottrina Ferrando, op. cit., 188; per una critica, v. Galizia Danovi, D. fam. 95, 1044; sul tema v. anche Fiorini, R. not. 07, 47ss.). @ I provvedimenti del tribunale per i minorenni vengono assunti mutuando gli istituti previsti per la separazione ed il divorzio, così da assicurare ai figli naturali un trattamento paritario rispetto a quello dei figli legittimi (sul tema cfr. Paladini, ibidem; per una critica dell’ammissibilità di un’omologazione di tali accordi da parte del tribunale dei minorenni cfr. Sesta, op. cit., 413s.; in argomento v. anche Oberto, D. fam. 06, 240). @  Prima della riforma del 2006 sull’affidamento condiviso la giurisprudenza si era invece divisa sull’applicabilità analogica dell’istituto dell’assegnazione della casa coniugale. Secondo un primo orientamento si era ritenuto che «in applicazione analogica dell’art. 155, 4o co., c.c., in caso di cessazione della convivenza more uxorio la casa familiare di proprietà comune dei genitori può essere assegnata a quello che sia affidatario dei figli minori» (Trib. Palermo 20-7-1993, F. it. 96, I, 122; Trib. Milano 23-1-1997, Fam. e d. 97, 560; Trib. Bari 11-6-1982, F. it. 82, I, 2032). In senso contrario, escludendo implicitamente che la disposizione in questione fosse applicabile alla famiglia di fatto – neppure in forza di interpretazione analogica o estensiva – si era invece affermato che: «non è manifestamente infondata la q.l.c. dell’art. 155, 4o co., c.c., nella parte in cui non prevede la possibilità di assegnazione in godimento della casa familiare al genitore naturale affidatario di un figlio minore nato da un rapporto di convivenza more uxorio cessato» (Trib. Cagliari 24-2-1998, R. g. sarda 99, 137). Al riguardo il giudice delle leggi, con sentenza interpretativa di rigetto, aveva ritenuto che, considerato il fatto «che l’obbligo di mantenimento della prole, sancito dall’art. 147 c.c., comprende in via primaria il soddisfacimento delle esigenze materiali, connesse inscindibilmente alla prestazione dei mezzi necessari per garantire un corretto sviluppo psicologico e fisico del figlio, e segnatamente, tra queste, la predisposizione e la conservazione dell’ambiente domestico, considerato quale centro di affetti, di interessi e di consuetudini di vita, che contribuisce in misura fondamentale alla formazione armonica della personalità del figlio – l’interpretazione sistematica dell’art. 30 Cost. in correlazione agli artt. 261, 146 e 148 c.c. impone che l’assegnazione della casa familiare nell’ipotesi di cessazione di un rapporto di convivenza more uxorio, allorché vi siano figli minori o maggiorenni non economicamente autosufficienti, deve regolarsi mediante l’applicazione del principio di responsabilità genitoriale, il quale postula che sia data tempestiva ed efficace soddisfazione alle esigenze di mantenimento del figlio, a prescindere dalla qualificazione dello status» (Corte Cost. 13-5-1998, n. 166, Giust. civ. 98, I, 1759; in dottrina Sesta, op. cit., 412ss.; Paladini, op. cit., 609ss.). La questione è stata legislativamente risolta dal già citato art. 4, l. 8-2-2006, n. 54, che ha reso applicabile anche ai genitori non coniugati le disposizioni di cui all’art. 155 quater c.c.

 

XIV. Le convivenze omosessuali. @ Il ricorso, da più parti caldeggiato, per la soluzione dei problemi posti dalla famiglia di fatto, agli strumenti del diritto comune – ed in particolare di quello contrattuale – consente il superamento di taluni dei limiti talora imposti alla convivenza more uxorio, primo tra i quali quello della diversità di sesso tra i suoi componenti (Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, 8, nota 9; Quadri, Fam. e d., 1999, 502ss.; Calò, Le convivenze registrate in Europa, passim; Caricato, Familia 02, 501ss.; Aa.Vv., Matrimonio, Matrimonii, a cura di F. Brunetta d’Usseaux e A. D’Angelo, passim; Sesta, Diritto di famiglia, 417ss.; Balestra, La famiglia di fatto, Tr. Ferrando, II, 1040ss.; Pescara, op. cit., 979ss.). @ Sino a non molti anni fa, tanto la dottrina che la giurisprudenza di legittimità apparivano compattamente schierate nel senso che per convivenza more uxorio potesse intendersi soltanto quella tra persone di sesso diverso (D’Angeli, La famiglia di fatto, 250). Così, per esempio, in una pronunzia di legittimità ormai risalente, si legge che la fattispecie in esame «si concreta in quella consuetudine di vita fra due persone di sesso diverso, che abbia il requisito subiettivo del trattamento reciproco delle persone analogo, per contenuto e forma, a quella normalmente nascente dal vincolo coniugale e che abbia, altresì, il requisito oggettivo della notorietà esterna del rapporto stesso quale rapporto coniugale, inteso non in senso assoluto, ma in relazione alle condizioni sociali e al cerchio di relazioni dei conviventi, anche se sempre con un certo carattere di stabilità» (C 66/1041, G. it. 67, I, 1, 67). Ancora il non così risalente leading case già ricordato in materia di risarcimento del danno da uccisione del convivente (C 94/2988, cit.) contiene l’affermazione secondo cui «il diritto non può ignorare l’esistenza e la (ancora relativa) diffusione della cosiddetta famiglia di fatto, derivante dalla convivenza di due soggetti di sesso diverso al di fuori del matrimonio» (all’incirca negli stessi termini cfr. anche C 93/6381, cit., che parla di «convivenza more uxorio tra un uomo ed una donna in stato libero»). @ Peraltro, già prima che iniziasse in gran parte del nostro continente la «stagione della contrattualità» della famiglia di fatto (e, segnatamente, di quella omosessuale), che diversi segnali d’apertura comincia a registrare anche al di qua delle Alpi (sul tema cfr. per tutti Bonini Baraldi, Le nuove convivenze tra discipline straniere e diritto interno, 1ss.; Id., Le nuove convivenze: profili internazional-privatistici, Tr. Ferrando, II, 1109ss.), qualche voce isolata si era levata da parte di alcuni giudici di merito. Così il Tribunale di Roma (Trib. Roma 20-11-1982, R. g. edil. 83, I, 959) aveva ritenuto la convivenza – espressamente qualificata come more uxorio – tra persone dello stesso sesso idonea a escludere la presunzione di sublocazione di cui all’art. 59, l. 27-7-1978, n. 392 e comunque non costituente abuso della cosa locata, mentre il Tribunale di Firenze (Trib. Firenze 11-8-1986, N. dir. 88, 321), dopo aver qualificato senz’altro come more uxorio una convivenza omosessuale, aveva rigettato la domanda proposta da uno dei conviventi avverso gli eredi dell’altro e avente ad oggetto il pagamento delle spese sopportate dall’attore per l’ospitalità offerta al defunto per un periodo di circa tre anni, nonché quelle mediche e per l’assistenza del defunto stesso durante tutta la durata della malattia, ritenendo tali prestazioni rientranti nella obbligazione naturale tra i partners. @ Già diversi anni fa si rimarcava in dottrina come l’abbandono della via del diritto di famiglia costringesse l’interprete a concentrare la propria attenzione sui singoli atti posti in essere dai conviventi, a prescindere dal loro compimento nell’ambito, o meno, di una cornice para-matrimoniale (Oberto, ibidem). In quest’ottica il problema viene inevitabilmente a spostarsi sulla possibilità del riconoscimento di un’obbligazione naturale tra conviventi omosessuali, argomento sul quale si registra già da tempo la segnalata presa di posizione del Tribunale di Firenze. A favore di una simile soluzione può anche invocarsi l’evoluzione nel concetto di obbligazione naturale che è intervenuta a livello sia dottrinale che giurisprudenziale, per cui il dovere morale e sociale di assistenza e di contribuzione reciproca viene oggi a poggiare, più che altro, sull’«affidamento» ingenerato nella controparte. @ Si noti peraltro che, in tempi non molto remoti, la Corte Suprema ha ritenuto congruamente motivata una decisione d’appello che aveva qualificato come donazioni remuneratorie (e non come atti di adempimento di obbligazioni naturali) alcune compravendite simulate con le quali, nell’ambito di una convivenza omosessuale, uno dei partners aveva trasferito all’altro la titolarità di beni immobili (con conseguente declaratoria di nullità dei trasferimenti: cfr. C 95/1989, A. civ. 96, I, 484). La lettura della motivazione dimostra come la Corte abbia sostanzialmente eluso il problema posto alla base del motivo di ricorso, vale a dire, non già il carattere remuneratorio o meno della donazione (irrilevante nel caso di specie, posto che la forma solenne non era stata rispettata), bensì la presenza – in forza del rapporto di convivenza more uxorio – di quel dovere morale e sociale più elevato della gratitudine, che induce ad ascrivere l’attribuzione alla categoria degli atti di adempimento di un’obbligazione morale, come tale esente dai requisiti di forma imposti alla donazione, «semplice» o remuneratoria che sia (cfr. su tali argomenti Oberto, op. cit., 90ss.). @  Ma, ben al di là dei dati surriferiti, s’impone la considerazione per cui ogni differenza di trattamento tra convivenza eterosessuale e convivenza omosessuale si tradurrebbe in una illegittima discriminazione fondata sull’orientamento sessuale, vietata dall’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (sul punto v. Sesta, ibidem), nonché – prima ancora – in modo implicito ma sicuro dall’art. 3 Cost.: cfr. Oberto, Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, 125ss.; sul tema v. inoltre, in senso adesivo, Cordiano, Tutela delle coppie omosessuali ed esigenza di regolamentazione, Familia 04, 107; Long, Il diritto italiano della famiglia alla prova delle fonti internazionali, 226. @ Nessun dubbio può del resto sorgere sull’ammissibilità di contratti di convivenza tra omosessuali, negli stessi limiti valevoli per le coppie eterosessuali, tanto più che proprio nella direzione della negozialità, e non certo in quella dell’imposizione di effetti giuridici conseguenti alla sola sussistenza del rapporto di fatto, si muovono le soluzioni normative che in vari paesi europei si sono prefissate di affrontare e risolvere i problemi in esame (sul tema, e per ulteriori richiami cfr. Oberto, Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, 125ss.).

 

XV. Convivenze omosessuali e questioni legate all’omogenitorialità. @ Una serie di questioni messe a fuoco di recente da dottrina e giurisprudenza, anche sulla scorta di esperienze straniere e trasnazionali, attiene al profilo dell’omogenitorialità: materia, questa, che a sua volta appare strettamente legata ai temi della procreazione medicalmente assistita, nonché dell’adozione e dell’affido familiare (per i richiami alla letteratura, sterminata in materia, si fa rinvio a Oberto, D. fam. 2010, 802ss.). Per ciò che attiene, più specificamente, all’incidenza che, nell’ambito della crisi del rapporto di coppia, l’orientamento sessuale dei genitori può dispiegare sulle relazioni con i figli minori, vanno tenuti distinti i due versanti seguenti: (a) quello delle conseguenze per la prole della crisi di una coppia eterosessuale, allorquando uno dei due genitori abbia dato vita ad una relazione omosessuale con un nuovo partner; (b) quello delle conseguenze per la prole della fine un rapporto di coppia omosessuale, nel corso del quale (nei modi più vari) sia sorto un rapporto di filiazione, o si siano sviluppate relazioni privilegiate tra il/la compagno/a e il figlio dell’altro/a. @ Il primo caso da prendere in considerazione è dunque quello di una coppia eterosessuale – coniugata o meno, ma convivente e con prole minorenne – la quale si venga a trovare in una situazione di crisi, mentre uno dei suoi componenti inizia un rapporto di tipo omosessuale, che magari sfocia anche in una convivenza con il nuovo/la nuova partner. Al riguardo si dovrà tenere presente in primo luogo la regola del divieto, sul piano sovranazionale, di discriminazioni basate sull’orientamento sessuale. Sul punto rilievo dirimente assumono regole quale quelle di non discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale consacrate nella già più volte ricordata Carta di Nizza (art. 21, primo comma) e di rispetto della vita privata e familiare di cui alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (art. 8). @ E’ noto che il Parlamento europeo ha indirizzato raccomandazioni agli Stati membri sulla parità di diritti degli omosessuali nella Comunità, nonché sul rispetto dei diritti umani nell’Unione Europea, affinché si garantiscano alle coppie non sposate e a quelle omosessuali la parità di diritti rispetto alle coppie e alle famiglie tradizionali, in particolare in materia di legislazione fiscale, regime patrimoniale e diritti sociali. Ha inoltre sollecitato i Paesi che non vi abbiano ancora provveduto a modificare i propri ordinamenti in modo da introdurre la convivenza registrata e riconoscere giuridicamente le unioni di fatto, senza discriminazioni basate sul sesso. @ Per quanto attiene alla Corte europea dei diritti dell’uomo, se è vero che tale consesso si è (per lo meno sino ad ora) rifiutato di estendere alle coppie omosessuali i principi attinenti alla legislazione matrimoniale, con le conseguenti norme «di favore» verso i nubendi, esso ha chiaramente preso posizione in senso contrario all’applicazione di principi «di sfavore» (e dunque discriminatori) verso genitori omosessuali. Potrà citarsi al riguardo la sentenza del 21 dicembre 1999, nel caso Salgueiro da Silva Mouta v. Portugal. Sul punto la Corte europea ha ritenuto che una decisione della Corte d’appello di Lisbona, la quale aveva negato l’affidamento della figlia minorenne al padre, motivando sulla base dell’omosessualità di quest’ultimo e della sua convivenza con un altro uomo, costituisse violazione degli artt. 8 e 14 della Convenzione (per rilievi al riguardo si fa rinvio a Oberto, ibidem). @ Sarà interessante notare che il riscontro della medesima violazione dell’art. 14 della Convenzione cit. «combiné avec l’article 8» si pone alla base del successivo arresto del 22 gennaio 2008, con il quale i giudici di Strasburgo hanno condannato la Francia nel caso E.B. v. France, dichiarando contrario alla Convenzione il diniego dell’idoneità all’adozione deciso dalle autorità di uno Stato membro che consente per legge al singolo di adottare, qualora tale diniego sia motivato con la mancanza di un riferimento genitoriale del sesso opposto a quello dell’aspirante genitore adottivo celibe o nubile. Decisione, quest’ultima, che costituisce un’importante novità, atteso che, nel precedente caso Fretté v. France, la medesima Corte europea dei diritti dell’uomo aveva ritenuto, con una maggioranza di soli quattro voti contro tre, che il rifiuto al ricorrente dell’idoneità all’adozione non integrasse un trattamento ingiustificatamente discriminatorio (per i richiami e ulteriori commenti v. Oberto, ibidem). @ Principi analoghi a quelli del caso Salgueiro da Silva Mouta v. Portugal sono stati affermati anche dalla giurisprudenza italiana, che ha in diverse occasioni ritenuto di per sé irrilevante l’orientamento sessuale del genitore (e la situazione di eventuale convivenza con una persona del medesimo sesso) ai fini dei provvedimenti che il giudice deve assumere relativamente alla concreta gestione del rapporto genitoriale  (per i richiami e ulteriori commenti v. Oberto, ibidem). @ Infine, per quel che riguarda le conseguenze per la prole della fine un rapporto di coppia omosessuale, nel corso del quale (nei modi più vari) sia sorto un rapporto di filiazione, o si siano sviluppate relazioni privilegiate tra il/la compagno/a e il figlio dell’altro/a, dovrà tenersi presente che un rapporto di filiazione bilaterale rispetto ad entrambi i membri della coppia omosessuale potrebbe darsi soltanto qualora si trattasse di prole adottiva di entrambi, ovvero di prole biologica di uno di essi (ovviamente vuoi legittima, in quanto derivante da precedente unione matrimoniale, vuoi naturale riconosciuta o dichiarata), successivamente adottata dall’altro; ciò sempre a condizione, beninteso, che la creazione di questo secondo vincolo non avesse «cancellato» il preesistente rapporto, ma vi avesse aggiunto, per così dire, il secondo al primo, come avviene, ad es., in base all’art. 44, lett. b), l. n. 184 del 1983: cosa che, peraltro, è da noi consentita soltanto al coniuge e pertanto non al convivente, tanto dell’opposto, come del medesimo sesso, del genitore. @ Occorre tenere presente che le uniche adozioni legittimanti, in relazione ad un minore abbandonato, da parte di un single ammesse oggi dal nostro ordinamento sono quella della separazione personale tra i coniugi aspiranti adottanti nel corso dell’affidamento preadottivo (art. 25, quinto comma, l. n. 184/1983) e quella dell’adozione pronunciata in un Paese straniero che consente ai singolo l’adozione, a istanza di un cittadino italiano, il quale dimostri al momento della pronuncia di aver soggiornato continuativamente e risieduto da almeno due anni in tale Paese, ai sensi dell’art. 36, comma quarto, l. n. 184/1983. A parte queste ipotesi assolutamente marginali, è comunque innegabile che un rapporto di «genitorialità de facto» della coppia omosessuale possa darsi: basti pensare al caso dell’unico genitore biologico (o adottivo, o al genitore biologico o adottivo affidatario a seguito di allentamento o scioglimento di un precedente legame di coppia eterosessuale) che inizi uno stabile rapporto di coppia con una persona del medesimo sesso, la quale di fatto venga ad assumere, agli occhi della prole, un ruolo «co-genitoriale» (si usa al riguardo talora il termine «genitore intenzionale» proprio per designare il convivente del genitore biologico e/o legale). Il tutto con l’ulteriore particolarità costituita dalla circostanza che il minore in questione ben può aver sviluppato un rapporto affettivo verso entrambi i partners omosessuali, assolutamente identico a quello che i suoi coetanei nutrono verso i propri genitori (biologici o adottivi) eterosessuali. Anche in relazione a questa peculiare situazione sono ipotizzabili rimedi sia per il caso di rottura conflittuale, che nell’ipotesi di accordi tra gli ex partners (per una dettagliata disamina delle possibili soluzioni v. Oberto, ibidem).

 

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