Giacomo Oberto

 

CRISI DELLA FAMIGLIA

E OBBLIGHI DI MANTENIMENTO NELLA UE –

I rimedi all’inadempimento

 

Sommario:

 

1.     L’inadempimento agli obblighi di mantenimento nell’ambito della crisi della famiglia come fonte di responsabilità contrattuale.

2.     Responsabilità contrattuale e doveri dei genitori.

3.     Il sequestro ex artt. 156 c.c. e 8 l.div. Differenze rispetto al sequestro ex art. 671 c.p.c. Presupposti.

4.     Il sequestro ex artt. 156 c.c. e 8 l.div. Impugnazioni avverso il provvedimento.

5.     Il sequestro ex artt. 156 c.c. e 8 l.div. Fattispecie particolari (nullità del matrimonio, separazione consensuale, figli naturali riconosciuti).

6.     Il sequestro ex art. 146, terzo comma, c.c.

7.     L’ipoteca giudiziale.

8.     L’ordine di pagamento diretto. Le varie ipotesi conosciute dal nostro ordinamento.

9.     L’ordine di pagamento diretto ex art. 148 c.c.

10.           L’ordine di pagamento diretto ex art. 156, sesto comma, c.c.

11.           La distrazione dei redditi ex art. 8, commi terzo, quarto, quinto e sesto, l.div.

12.           L’ordine di pagamento diretto ex art. 342-ter c.c.

13.           L’obbligo di prestare idonea garanzia.

14.           Il giudice competente per l’esecuzione.

15.           Gli interventi ex art. 709-ter c.p.c.: generalità; la competenza.

16.           Gli interventi ex art. 709-ter c.p.c.: i provvedimenti di tipo sanzionatorio.

17.           Nuove forme di garanzia degli assegni di separazione e divorzio: le clausole penali.

18.           Nuove forme di garanzia degli assegni di separazione e divorzio: il trust.

19.           Nuove forme di garanzia degli assegni di separazione e divorzio: il vincolo di destinazione ex art. 2645-ter c.c.

20.           I rimedi all’inadempimento nella proposta di regolamento U.E. in materia di obbligazioni alimentari del 15 dicembre 2005.

 

 

 

1. L’inadempimento agli obblighi di mantenimento nell’ambito della crisi della famiglia come fonte di responsabilità contrattuale.

 

Il primo dubbio da affrontare di fronte ad un tema quale «i rimedi all’inadempimento degli obblighi di mantenimento nell’ambito della crisi coniugale» è costituito dalla possibilità o meno di considerare siffatto tipo di inadempimento come rilevante ex art. 1218 c.c. E’ evidente che, in caso di risposta positiva a siffatto interrogativo, il primo rimedio sarebbe costituito dalla individuazione della sussistenza di ipotesi di responsabilità contrattuale.

 

L’articolo testé citato prevede, come noto, l’ipotesi del «debitore» che non esegue esattamente «la prestazione dovuta». In effetti, nel linguaggio legislativo, il termine «debitore» indica esclusivamente il soggetto passivo dell’obbligazione, e il termine «prestazione» esprime tipicamente l’oggetto del rapporto obbligatorio. Il fatto dell’inadempimento è così letteralmente riferito all’inesecuzione dell’obbligazione, come risulta anche dalla intitolazione del capo in cui è contenuta la norma e dalla sua collocazione nel titolo che disciplina l’obbligazione in generale.

Sarà poi il caso di sottolineare come, dal punto di vista terminologico, la denominazione invalsa per descrivere il fenomeno in questione, vale a dire «responsabilità contrattuale», sebbene confortata da un lungo uso, sia imprecisa: il contratto, invero, non è che una delle fonti di obbligazione e pertanto non è corretto assegnare l’attributo contrattuale alla responsabilità che può derivare dall’inadempimento di qualsiasi obbligazione, nascente da contratto o da altra fonte, secondo quanto stabilito dall’art. 1173 c.c.

 

Si tratta dunque di vedere se e in che misura gli obblighi di mantenimento derivanti dalla crisi coniugale siano qualificabili alla stregua di obbligazioni. Il tema della possibilità di ravvisare la sussistenza di vere e proprie obbligazioni nell’ambito dei rapporti familiari o parafamiliari ha formato oggetto di apposito studio monografico, cui non potrà che farsi rinvio (cfr. Oberto, La responsabilità contrattuale nei rapporti familiari, Milano, 2006).

 

In questa sede, una volta ribadito che la natura familiare del rapporto non impedisce che vincoli obbligatori tra due soggetti determinati aventi ad oggetto una prestazione di carattere patrimoniale possano rilevare ex artt. 1173 ss. c.c., va rilevato che a questa categoria ben appartengono i doveri di mantenimento in discorso, i quali posseggono tutte le caratteristiche proprie a farli qualificare alla stregua di obbligazioni in senso tecnico. La mente corre qui, in primo luogo, al contributo per il mantenimento del coniuge separato ex art. 156 c.c., o all’assegno di divorzio ai sensi dell’art. 5 l.div., o, ancora, alle prestazioni patrimoniali dovute ai sensi degli artt. 129 e 129-bis c.c. per il caso di invalidità del vincolo.

 

Naturalmente non è possibile trattare qui, neppure per sommi capi, delle questioni che attengono a ciascuna delle prestazioni in discorso, sviluppate in altra sede. Ciò che preme invece sottolineare è che la natura contrattuale della responsabilità per inadempimento di una qualsiasi di siffatte prestazioni si giustifica non solo nel caso in cui queste siano determinate da un contratto della crisi coniugale, ma anche nell’ipotesi in cui esse siano previste da una statuizione giudiziale, definitiva o provvisoria che sia.

 

Anche qui, invero, si può parlare di obbligazione nel senso proprio del termine, come dimostrato dal fatto che la giurisprudenza non esita a fare applicazione, a tutela della posizione del coniuge titolare del credito a titolo di mantenimento o di assegno divorzile, del più classico degli strumenti a protezione del creditore (di un’obbligazione) nei confronti degli atti fraudolenti posti in essere dal debitore: vale a dire l’azione revocatoria. D’altro canto, la stessa giurisprudenza non ha difficoltà ad ammettere la risarcibilità del danno conseguente all’inadempimento di siffatto tipo di obbligazioni.

 

Naturalmente, quanto sopra vale pure con riguardo al caso in cui le parti abbiano eventualmente stabilito che la corresponsione dei contributi in oggetto sia compiuta in una delle svariate modalità «non tradizionali», altrove in dettaglio illustrate: dalla fissazione del quantum in misura «fluttuante», legata al reddito dell’obbligato, alla determinazione in termini non monetari, all’attribuzione diretta di redditi o proventi dell’obbligato, all’effettuazione di rimborsi di spese, alla diretta somministrazione dei mezzi di sussistenza, al pagamento diretto del canone di locazione e delle spese accessorie, alla corresponsione di beni in natura.

 

Con particolare riguardo a quest’ultima ipotesi potrà ricordarsi che il trasferimento di diritti su beni, mobili o immobili, in sede di contratto della crisi coniugale – ormai pacificamente ammesso – ove non attuato con effetto reale, può compiersi per il tramite di un impegno assunto in sede di accordo di separazione o divorzio e successivamente adempiuto con distinto e separato negozio attuativo. Anche l’eventuale inadempimento di tale obbligazione può dar luogo a responsabilità contrattuale, salvo il rimedio specifico contemplato nell’art. 2932 c.c. Conformemente a quanto sopra illustrato, deve però ritenersi che la parte in favore della quale l’impegno traslativo era stato assunto, possa optare per il risarcimento del danno (contrattuale) nelle forme ordinarie, rinunziando al rimedio specifico, oppure agire ex artt. 1218 ss. c.c., in concorso con l’azione ai sensi dell’art. 2932 c.c., quando il danno di cui si intenda chiedere il risarcimento sia, ad esempio, quello da ritardo, per la mancata disponibilità del bene per un determinato periodo.

 

 

2. Responsabilità contrattuale e doveri dei genitori.

 

Come nei rapporti tra coniugi ex art. 143 c.c., anche nelle relazioni tra genitori e figli i primari doveri che vengono in considerazione in forza degli artt. 30 Cost., 147 e 148 c.c. presentano eminenti profili di non patrimonialità. Di conseguenza si dovrà fare rinvio a quanto illustrato in altra sede circa la non ravvisabilità di una responsabilità ex artt. 1218 ss. c.c per il caso di eventuale violazione di siffatti doveri (Cfr. Oberto, La responsabilità contrattuale nelle relazioni familiari, Milano, 2006, p. 12 ss.).

 

Sarà però necessario rilevare qui come la violazione del dovere di mantenimento della prole, in quanto relativa ad un obbligo eminentemente patrimoniale, ancorché di fonte legale, non possa sottrarsi alla categoria dell’illecito contrattuale.

Peraltro, un precedente di legittimità risalente al 2000 ha affermato la responsabilità aquiliana del padre naturale che, successivamente alla dichiarazione giudiziale, per anni aveva ostinatamente rifiutato di corrispondere al figlio i mezzi di sussistenza; al riguardo la Corte ha riconosciuto la «lesione in sé» di fondamentali diritti della persona inerenti alla qualità di figlio e di minore, affermando che l’art. 2043 c.c., correlato agli articoli 2 ss. Cost., va necessariamente esteso fino a ricomprendere il risarcimento non solo dei danni in senso stretto patrimoniali, ma di tutti i danni che almeno potenzialmente ostacolano le attività realizzatrici della persona umana, con la conseguenza che la lesione di diritti di rilevanza costituzionale va incontro alla sanzione risarcitoria per il fatto in sé della lesione (danno evento), indipendentemente dalle eventuali ricadute patrimoniali che la stessa possa comportare (danno conseguenza) (Cfr. Cass., 7 giugno 2000, n. 7713,  in Fam. dir., 2001, p. 159, con nota di Dogliotti; in Corr. giur. 2000, p. 873, con nota di De Marzo; in Danno e resp. 2000, p. 835, con note di Monateri e di Ponzanelli; in Resp. civ. prev., con nota di Ziviz).

 

La lettura della motivazione della pronunzia consente peraltro di accertare che il genitore aveva in effetti corrisposto tutto quanto da lui dovuto a titolo di mantenimento, seppure in ritardo. La lesione lamentata non riguardava il profilo patrimoniale consistente nel danno da mancata o ritardata corresponsione dei mezzi di sussistenza, quanto il diritto fondamentale del figlio, come persona umana, ad essere, si potrebbe dire, «trattato come tale».

 

Naturalmente, vere e proprie obbligazioni concernenti la prole minorenne (o maggiorenne, ma non autosufficiente) possono scorgersi anche nella fase patologica del rapporto coniugale, laddove le determinazioni giudiziali o, in alternativa, la volontà delle parti, prevedano la corresponsione di assegni per il contributo al mantenimento dei figli.

 

Basti ricordare qui l’enfasi posta dalla legge sul rilievo, anche in subiecta materia, degli accordi tra i coniugi (o ex tali), al punto che l’obbligo – oggi sussistente a seguito della riforma dell’art. 155 c.c. per effetto della legge sull’affidamento condiviso – per il giudice di «prendere atto», ancor di più di quello, precedente, di «tener conto», sembra tradursi prevalentemente in un dovere di motivazione delle ragioni per le quali l’intesa viene eventualmente disattesa, motivazioni che non potranno trovare altro punto di riferimento se non quello dell’eventuale violazione dei canoni fondamentali espressi dagli artt. 30 Cost., 147 e 148 c.c., o della regola dell’ «interesse del minore».

 

Si noti peraltro che il nuovo art. 155, quarto comma, nel prevedere che ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito «salvo accordi diversi, liberamente sottoscritti dalle parti», sembra voler addirittura smentire il criterio di necessaria proporzionalità scolpito nell’art. 148, norma sino ad oggi ritenuta inderogabile, venendo altresì a porre (quanto a tale limitato aspetto) forse anche un problema di conformità all’art. 30 Cost.

 

 

3. Il sequestro ex artt. 156 c.c. e 8 l.div. Differenze rispetto al sequestro ex art. 671 c.p.c. Presupposti.

 

A prescindere dai rimedi risarcitori ex artt. 1218 ss. c.c., le obbligazioni qui in discorso sono rafforzate da una serie di garanzie speciali a tutela dell’adempimento degli obblighi di carattere pecuniario derivanti dalla separazione e dal divorzio:

·         obbligo di prestare idonea garanzia reale o personale,

·         iscrizione dell’ipoteca giudiziale ai sensi dell’ articolo 2818 c.c.,

·         sequestro di parte dei beni del coniuge obbligato,

·         ordine ai terzi, tenuti a corrispondere anche periodicamente somme di danaro all’obbligato, che una parte di esse venga versata direttamente agli aventi diritto, ex artt. 156, quarto, quinto e sesto comma, c.c., 8, primo, secondo e settimo comma, l.div.,

·         distrazione dei redditi ed azione diretta esecutiva ex art. 8, terzo, quarto, quinto e sesto comma, l.div.

E’ giunto quindi il momento di analizzare da vicino siffatti rimedi, unitamente ad alcune nuove forme di garanzia degli assegni di separazione e divorzio.

 

Iniziando dallo speciale potere di sequestro dei beni del coniuge obbligato al mantenimento previsto dal sesto comma dell’art. 156 c.c., in materia di separazione personale dei coniugi, e dall’ultimo comma dell’art. 8 L. div., in materia di divorzio, va detto che tale strumento non è includibile nelle c.d. misure cautelari atipiche di cui all’art. 669-quaterdecies c.p.c., in quanto ha caratteri peculiari rispetto all’ordinario sequestro conservativo disciplinato dagli art. 671 e seguenti c.p.c.

Ecco schematizzate le differenze:

 

Sequestro ex artt. 671 ss. c.p.c.

Sequestro dei beni del coniuge

presuppone il controllo del periculum in mora

prescinde dal periculum, legato, com’è, alla semplice inadempienza

può essere concesso anche prima dell’inizio della causa di merito, con efficacia connessa all’esito del relativo giudizio parallelo (cfr. art. 669-novies c.p.c.)

può essere accordato all’esito della separazione o del divorzio  o nel corso dei relativi  giudizi

e può colpire anche l’intero patrimonio del debitore, quale mezzo di conservazione della garanzia finalizzato al pignoramento

può riguardare soltanto parte dei beni del coniuge obbligato, senza poter condurre al pignoramento, avendo una funzione di coazione anche psicologica nei riguardi del coniuge inadempiente (cfr. Corte cost., 19 luglio 1996, n. 258, in Foro it., 1996, I, c. 3603, nota di Cipriani)

 

Esso ha dunque soltanto funzione di garanzia dell’adempimento degli obblighi patrimoniali stabiliti dal giudice della separazione dei coniugi o del divorzio (Cass., 28 maggio 2004, n. 10273).

 

Sull’istanza é competente a decidere

·        il giudice istruttore nel corso del processo divorzile, operando in materia gli stessi principi stabiliti dalla Corte Costituzionale per il sequestro ex art. 156 c.c. nel corso della causa di separazione (sent. n. 258/1996, cit.)  ovvero del giudizio per il sostentamento dei figli naturali (sent. 18 aprile 1997, n. 99, in Foro it., 1998, I, 3074), nonché

·        il collegio colla sentenza definitiva, ovvero con successivo decreto camerale revisionale, poiché in sostanza il provvedimento appartiene  al  giudice  competente a decidere la controversia relativa ai rapporti  patrimoniali  tra i coniugi o ex coniugi (v., con riferimento all’art. 156 c.c., Cass., 30 gennaio 1992, n. 961).

 

Esso può essere domandato o può esserne richiesto l’ampliamento, anche dopo la pronunzia giudiziale di separazione o divorzio dei coniugi e la chiusura del giudizio di primo grado, ogni qual volta l’inadempimento del coniuge obbligato si sia realizzato successivamente, con il limite della proposizione della relativa istanza nel rispetto del principio del contraddittorio (Cass., 28 maggio 2004, n. 10273).

 

Il  provvedimento di sequestro di beni del coniuge obbligato all’assegno di  mantenimento  presuppone:

·        un  credito già dichiarato, anche provvisoriamente, e

·        l’inadempienza, mentre

·        non  richiede il periculum in mora (Cass., 12 maggio 1998, n. 4776).

 

L’inadempienza dell’obbligato

·        non richiede anche la gravità dell’inadempimento o l’intento di sottrarre quei beni, e nemmeno esige che il creditore non sia in grado di acquisire altra analoga garanzia attraverso iscrizione d’ipoteca (Cass., 15 novembre 1989, n. 4861).

·        Non si configura soltanto in caso di mancato versamento dell’assegno di mantenimento, ma anche nel caso di inadempimento all’obbligo di prestare idonea garanzia reale o personale imposto dal giudice ai sensi del quarto comma del citato art. 156 c.c. e dell’omologa disposizione divorzile, ed altresì nel caso di inottemperanza ad eventuali prescrizioni della separazione consensuale volte a garantire l’osservanza dell’obbligo di corrispondere l’assegno di mantenimento nella misura concordata, prescrizioni che, in tali termini, sono equiparabili all’obbligo di prestare idonea garanzia eventualmente imposto dal giudice che pronunzia la separazione giudiziale o il divorzio.

·       Ad esempio in un caso in cui la separazione consensuale prevedeva l’obbligo per il marito di corrispondere il 75% del reddito netto di tutte le partecipazioni societarie, nonché il divieto di cedere a terzi i titoli azionari senza il consenso della moglie, la S.C. ha cassato la decisione di merito che aveva respinto la richiesta di sequestro ex art. 156 c.c. sostenendo che il marito, pur avendo alienato i titoli societari, così violando le prescrizioni della separazione, non si era reso inadempiente all’obbligo di mantenimento (Cass., 12 maggio 1998, n. 4776).

·       L’adempimento successivo all’istanza di distrazione ex art. 156, comma sesto, c.c. non preclude l’accoglimento della stessa (cfr. Trib. Taranto, 8 novembre 1996, in Fam. dir., 1997, p. 131).

 

 

4. Il sequestro ex artt. 156 c.c. e 8 l.div. Impugnazioni avverso il provvedimento.

 

La statuizione sul sequestro può essere diversamente impugnata a seconda del provvedimento che la contiene. Si dovrà quindi distinguere l’ipotesi

1.   della sentenza,

2.   del decreto di modifica delle condizioni della separazione o del divorzio o

3.   del provvedimento emesso dal G.I.

 

Cominciando dalla sentenza, va detto che il relativo capo, contenuto nella sentenza di separazione o divorzio, che abbia confermato o disposto il sequestro, è suscettibile di autonoma impugnazione coll’appello; nel giudizio di secondo grado può essere disposta, per la ricorrenza di giusti motivi, la revoca del sequestro ed è ammissibile pure la pronuncia, in sentenza, della modifica del provvedimento reso in primo grado per assicurare l’adempimento degli obblighi di mantenimento (Cass., 30 gennaio 1992, n. 961, in Giust. civ., 1993, I, p. 3075).

 

Il decreto separatamente reso dal tribunale sul sequestro, col procedimento camerale di cui all’art. 710 c.p.c. ed all’art 9, l. div., è reclamabile dinanzi alla corte di appello. Alla conclusione dell’adozione del rito collegiale camerale per l’emissione del sequestro postumo si deve pervenire in base al secondo ed al terzo comma dell’art. 38 att. c.c., per cui i provvedimenti attribuiti alla competenza residuale del tribunale ordinario in materia di famiglia sono sempre emessi in camera di consiglio (Cass., 19 febbraio 2003, n. 2479; Trib. Verona, 17 novembre 1993, in Giur. merito, 1994, p. 859; Trib. Piacenza, 20 gennaio 1995, in Gius, 1995, p. 1424; Trib. Messina, 7 maggio 1993, in Foro it., 1993, I, c. 1989; Trib. Catania, 23 aprile 1993, in Dir. fam., 1994, I, p. 217), sentito il p.m. ove sia interessata prole minorenne (Trib. Monza, 27 ottobre 1989, in Foro it., 1990, I, p. 1726; Trib. Lucca, 10 gennaio 1986, in Foro pad., 1986, I, c. 209).

 

Sul gravame la corte di appello decide, a sua volta, con decreto camerale, non impugnabile mediante il ricorso straordinario per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost., poiché si tratta di provvedimento non decisorio, né definitivo, avendo esso natura strumentale (rispetto al diritto sostanziale al mantenimento spettante al coniuge o alla prole) ed essendo esso revocabile o modificabile per giustificati motivi (Cass., 19 febbraio 2003, n. 2479). 

 

Secondo taluni il sequestro previsto dall’art. 156, sesto comma, c.c. e dall’art. 8, ultimo comma, L. div. concesso dal giudice istruttore nel corso del giudizio di separazione o di divorzio, essendo caratterizzato dai requisiti della provvisorietà e della strumentalità ed essendo, in particolare, diretto a garantire l’effettività della sentenza che definisce il giudizio, sarebbe reclamabile ai sensi degli art. 669-terdecies e 669-quaterdecies c.p.c. dettati per i provvedimenti cautelari (Trib. Cagliari, 21 maggio 1998, in Foro it., 1998, I, p. 2285).

 

Peraltro, la giurisprudenza di merito maggioritaria è nel senso che, siccome alla luce dei costanti orientamenti della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione il sequestro di parte dei beni del coniuge separato o divorziato che si sia reso inadempiente agli obblighi di contenuto economico non ha natura cautelare, esso  non può essere soggetto a reclamo al collegio (Trib. Modena, 12 febbraio 2003, in Gius, 2003, 10, p. 1118; Trib. Foggia, 12 giugno 2000, in Foro it., 2001, I, c. 2054; Trib. Milano, 21 luglio 1995, in Giur. it., 1995, I, 2, c. 878).

 

A tal fine si ribadisce che il sequestro, essendo volto a garantire un obbligo di mantenimento verso il coniuge o la prole, presuppone l’esistenza di un diritto già sancito in un titolo esecutivo, la cui peculiare natura di credito ad esecuzione periodica comporta che la funzione cautelare non si esaurisca nell’arco del giudizio di merito, ma produca effetti di garanzia permanente, sino a che si protragga il diritto di mantenimento cui si riferisce (Trib. Milano, 2 dicembre 1999, in Giur. milanese, 2000, p. 319).

 

Se lo speciale potere di sequestro dei beni del coniuge obbligato non è includibile nelle misure cautelari atipiche di cui all’art. 669-quaterdecies c.p.c., non può procedersi ad assegnazione delle somme o cose sequestrate ai sensi dell’art. 156 c.c. e dall’art. 8 L. div., stante l’inapplicabilità del primo comma dell’art. 686 c.p.c. agli effetti della conversione del sequestro in pignoramento (Trib. Foggia, 2 maggio 2000, in Riv. esec. forzata, 2000, p. 343). Tuttavia, quanto alla materiale esecuzione del provvedimento sequestro, non pare che si possa prescindere dal riferimento analogico alle forme previste, per il sequestro conservativo, dagli artt. 677 e 679 c.p.c., con gli effetti di cui all’art. 2906 c.c.

 

Non pare che la reclamabilità dei provvedimenti del giudice istruttore sul sequestro dei beni dell’obbligato al mantenimento possa essere desunta dalla generale impugnabilità dinanzi alla corte di appello dei provvedimenti presidenziali ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 708 c.p.c. in vigore del 16 marzo 2006. In questo senso depone del resto il principio della tassatività dei mezzi di impugnazione, previsto dall’art. 568 c.p.p., con valenza sicuramente generale.

 

Tale norma ha natura eccezionale, rispetto al principio generale che i provvedimenti revocabili o modificabili per giustificati motivi non sono impugnabili in corso di causa ma modificabili dallo stesso istruttore ai sensi dell’art. 177 c.p.c. (cfr. l’ottavo comma dell’art. 4, L. div. e l’ultimo comma dell’art. 709 c.p.c.) e del tutto plausibilmente si riferisce perciò ai soli provvedimenti presidenziali (Dosi, L’affidamento condiviso, in Lessico Dir. Fam., 1/2006, p. 41). Del resto dovrebbe operare in subiecta materia il principio generale dell’ordinamento circa la tassatività dei mezzi di impugnazione e delle pronunzie impugnabili (v., nel processo penale, l’art. 568 c.p.p.; nel processo amministrativo, Cons. Stato n. 5319/2003 e n. 422/2001, in Foro amm., 2003, p. 257 e 2001, p. 284).       

 

Il provvedimento di sequestro dei beni del coniuge obbligato all’assegno di mantenimento, potendo essere revocato anche ad opera del giudice di appello per la sopravvenienza di giustificati motivi (ultimo comma dell’art. 156 c.c. e primo comma dell’art. 9 l. div.), ben può, ricorrendo gli stessi giustificati motivi, e pur sussistendo le condizioni necessarie per la sua concessione (inadempienza dell’obbligato), non venire emesso, e la valutazione discrezionale circa la presenza dei giustificati motivi, ove fondata su congrua motivazione, si sottrae al sindacato di legittimità da parte della S.C. (Cass., 28 gennaio 2000, n. 944).

 

 

5. Il sequestro ex artt. 156 c.c. e 8 l.div. Fattispecie particolari (nullità del matrimonio, separazione consensuale, figli naturali riconosciuti).

 

La sopravvenuta nullità del matrimonio concordatario fra i coniugi, dichiarata con sentenza definitiva del tribunale ecclesiastico e resa esecutiva agli effetti civili dalla corte d’appello, non determina la cessazione della materia del contendere nel procedimento di appello pendente sulla revoca del sequestro, in quanto tale pronuncia di nullità del matrimonio non ne modifica sostanzialmente il regime giuridico quanto ai provvedimenti nei confronti delle prole, atteso che l’art. 129 c. c. stabilisce che si applica, per tali provvedimenti, l’art. 155 c.c. (richiamato dall’art. 156 c.c.), essendo essenziale che la legge 151/1975 ha attribuito al giudice il potere di rivedere in ogni tempo la misura e le modalità del contributo degli ex coniugi per il mantenimento, l’istruzione e l’educazione dei figli, anche dopo la sentenza che dichiara la nullità del matrimonio (Cass., 11 ottobre 1983, n. 5887, in Giur. it., 1984, I, p. 1).

 

 

Si noti che il richiamo all’art. 155 c.c. operato dall’art. 156, quarto comma, c.c., rende evidente che i rimedi di cui a tale disposizione trovano applicazione anche con riguardo agli assegni previsti per la prole. Qualche dubbio può sussistere relativamente all’assegno per i figli maggiorenni, posto che l’art. 156 c.c., non toccato dalla riforma del 2006, non fa riferimento all’art. 155-quinquies c.c. Per i maggiorenni disabili, invece, il capoverso della norma da ultimo citata estende tutte le disposizioni concernenti la prole minorenne.

 

Infine va ricordato che è infondata la questione di legittimità costituzionale del sesto comma dell’art. 156 c.c., nella parte in cui escluderebbe che il provvedimento di sequestro ivi previsto possa essere disposto anche in favore di un figlio naturale riconosciuto, in riferimento agli art. 3 comma 1 e 2 e 30 cost.; la disposizione impugnata viene interpretata dalla Corte delle Leggi nel senso che questa trova applicazione anche nelle controversie concernenti il mantenimento dei figli naturali (Corte  cost., 18 aprile 1997, n. 99).

 

 

6. Il sequestro ex art. 146, terzo comma, c.c.

 

Del tutto diversa rispetto a quella sopra vista è la funzione e la struttura del sequestro speciale previsto dal terzo comma dell’art. 146 c.c., da eseguirsi sui beni del coniuge ingiustificatamente allontanatosi dalla residenza familiare. Tale sequestro, secondo la S.C., ha una funzione coercitiva e sanzionatoria, diretta a far cessare l’allontanamento ingiustificato del coniuge; esso è concesso esclusivamente per garantire l’adempimento degli obblighi di contribuzione previsti dagli art. 143 e 147 c. c. Come tale, esso può mai essere autorizzato allo scopo di garantire l’adempimento degli obblighi di mantenimento nascenti dalla sentenza di separazione in quanto presuppone una situazione anteriore ad un qualsiasi provvedimento o atto che legittimi la cessazione della convivenza, ed è destinato a perdere efficacia a seguito di proposizione di domanda di separazione, che realizza una giusta causa di allontanamento (Cass., 29 novembre 1985, n. 5948).

 

Secondo la dottrina prevalente l’art. 146 c.c. disciplinerebbe un sequestro conservativo vero e proprio (Acone, Finocchiaro, Santosuosso, Santoro-Passarelli, Orsenigo), di talché troverebbe applicazione il processo cautelare uniforme (Saletti). Isolatamente si è sostenuto che si verterebbe in tema di un misura diretta a creare un vincolo di indisponibilità, quale ipotesi autonoma di costituzione di garanzia reale sui beni del coniuge allontanatosi, e che la competenza sarebbe dunque devoluta al tribunale ex art. 38 att. c.c. (Attardi); conseguentemente, secondo tale tesi, la comune natura coercitiva consentirebbe di assimilare il sequestro «preventivo» di cui al terzo comma dell’art. 146 c.c. a quello «successivo» di cui al sesto comma dell’art. 156 c.c. (Trib. Lucca, 10 gennaio 1983, in Foro it, 1986, I, c. 1943) ed il passaggio da l’uno all’altro senza soluzione di continuità.

 

 

7. L’ipoteca giudiziale.

 

Il quinto comma dell’art. 156 c.c. ed il secondo comma dell’art. 8 L. div. contengono disposizioni del tutto inutili poiché esse stabiliscono che le sentenze di separazione e di divorzio costituiscono titolo per la iscrizione di ipoteca giudiziale, con una mera ripetizione della normativa ordinaria di cui all’art. 2818 c.c. pure richiamato in entrambe le norme.

 

Una lettura in chiave sistematica di tali disposizioni conduce a concludere nel senso che la valutazione del coniuge creditore, ai fini dell’iscrizione ipotecaria, circa la sussistenza del pericolo della sottrazione del debitore agli obblighi su lui gravanti, resta sindacabile nel merito. Ne consegue che la relativa mancanza, originaria o sopravvenuta, determina, venendo appunto meno lo scopo per cui la legge consente il vincolo, l’estinzione della garanzia ipotecaria già prestata e, di conseguenza, il sorgere del diritto del coniuge obbligato di ottenere dal giudice, dietro accertamento delle condizioni anzidette, l’emanazione del corrispondente ordine di cancellazione, ai sensi dell’art. 2884 c.c.

 

Invero il coniuge, separato o divorziato, beneficiario per sé o per i figli di assegno di mantenimento a carico dell’altro coniuge, può iscrivere ipoteca giudiziale sui beni immobili dell’obbligato, sempre che vi sia pericolo di inadempimento da parte di quest’ultimo, sicché proprio l’accertata mancanza, anche sopravvenuta, di tale pericolo comporta l’estinzione della garanzia ipotecaria. Ad esempio, la Cassazione ha ritenuto immune da vizi logico-giuridici la motivazione del giudice che aveva disposto la cancellazione dell’ipoteca iscritta dalla moglie, beneficiaria di assegno di mantenimento in forza della sentenza di separazione, sui beni del marito, in ragione del corretto adempimento di quest’ultimo, in misura anche superiore al dovuto, con conseguente esclusione del pericolo di inadempimento (Cass., 6 luglio 2004, n. 12309).

 

L’iscrizione ipotecaria in base alla sentenza attributiva dell’assegno di mantenimento che la legge prevede senza indicare alcun criterio per la determinazione della somma per cui può essere presa, può essere fatta per la somma indicata dal coniuge creditore (art. 2838 c.c.), con la possibilità per il coniuge debitore di chiederne la riduzione con ricorso al giudice, il quale non gode di discrezionalità piena, ma deve applicare criteri che facciano riferimento ad elementi obiettivi, quali le tabelle previste da r.d. 9 ottobre 1922, n. 1403 per la costituzione delle rendite vitalizie immediate (Cass., 29 gennaio 1980, n. 679).

 

Ai sensi del quinto comma dell’art. 156 c.c. e del secondo comma dell’art. 8 L. div., il coniuge creditore degli assegni ha titolo per iscrivere ipoteca giudiziale sui beni dell’altro coniuge obbligato alla corresponsione degli stessi, in forza del provvedimento che detti obblighi dispone, senza necessità di alcuna autorizzazione da parte del giudice, è inammissibile, per difetto d’interesse, la richiesta al giudice della separazione o del divorzio di autorizzazione all’iscrizione ipotecaria (Cass., 20 novembre 1991, n. 12428).

 

Le clausole della separazione consensuale omologata in tema di mantenimento, nel loro contenuto originario od in quello ridefinito in esito alla procedura di cui agli artt. 710 e 711 cod. proc. civ., hanno, ai sensi dell’art. 158 cod. civ. (nel testo risultante dalla pronuncia della Corte Costituzionale n. 186 del 18 febbraio 1988), natura di titolo giudiziale, anche ai fini dell’iscrizione d’ipoteca a norma dell’art. 2818 cod. civ., al pari delle statuizioni in proposito incluse nella sentenza di separazione. Ne discende che l’avente diritto a detto mantenimento non è abilitato, per difetto di interesse, a reclamare, con il rito ordinario o con quello monitorio, una decisione di condanna all’adempimento, la quale si tradurrebbe nella reiterazione di un titolo di cui già gode (Cass., 10 novembre 1994, n. 9393).

 

Secondo la Corte costituzionale, pure la ingiunzione per il pagamento delle somme destinate al mantenimento della prole ex art. 148 c.c. è titolo idoneo all’iscrizione di ipoteca giudiziale, poiché il decreto emesso nei confronti dell’obbligato inadempiente (genitore o ascendente) segue le regole proprie del decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo; se il decreto medesimo è emesso, invece, nei confronti del terzo debitore dell’obbligato inadempiente esso  costituisce titolo esecutivo ma non è idoneo all’iscrizione di ipoteca giudiziale sui beni del terzo, poiché la legge richiama solo le norme relative al giudizio di opposizione ma non l’art. 655 c.p.c. (Corte cost., 12 febbraio 2002, n. 236).

 

 

8. L’ordine di pagamento diretto. Le varie ipotesi conosciute dal nostro ordinamento. 

 

Esistono quattro ipotesi di ordine di pagamento diretto:

(a)           Art. 148 c.c.

(b)          Art. 156, sesto comma, c.c.

(c)           Art. 8, commi terzo, quarto, quinto e sesto, l.div.

(d)          342-ter c.c.

 

 

9. L’ordine di pagamento diretto ex art. 148 c.c.

 

In primo luogo vi è il caso dell’art. 148 c.c. che, in virtù dell’art. 261 c.c., è applicabile anche a tutela della prole naturale, benché ricompreso nel capo riguardante i diritti ed i doveri che nascono dal matrimonio (Trib. Messina, 10 maggio 1991, in Giust. civ., 1992, I, p. 2899; Trib. Firenze, 31 ottobre 1983, in Foro it., 1984, I, c. 2351).

 

L’ordine giudiziale di pagamento è emesso all’esito di una procedura di tipo monitorio che si svolge dinanzi al presidente del tribunale del luogo di residenza del genitore o degli ascendenti inadempienti, il quale deve sentire preventivamente costoro e può assumere informazioni con rito del tutto deformalizzato.

 

Oggetto del decreto è il versamento di una quota dei redditi dell’obbligato direttamente dal terzo debitore al genitore o a chi sopporta le spese per il mantenimento della prole. Sono legittimati attivamente il genitore o altro affidatario, il figlio maggiorenne, gli istituti di assistenza ed i parenti che vi abbiano interesse. Secondo la S.C. il presidente deve compiere un accertamento sommario sull’ammontare dell’assegno dovuto (Cass., 12 aprile 1979, n. 2153).

 

La disposizione legislativa di cui all’art. 148 c.c., per effetto della quale il giudice può disporre, che «una quota dei redditi dell’obbligato» venga versata direttamente all’avente diritto, non può essere interpretata nel senso che un tale ordine debba indefettibilmente avere ad oggetto solo una parte delle somme dovute dal terzo, quale che, in concreto, ne sia la misura e quale che, in concreto, sia l’importo dell’assegno di mantenimento, bensì nel senso che il giudice possa legittimamente disporre il pagamento diretto dell’intera somma dovuta dal terzo, quando questa non ecceda, ma anzi realizzi pienamente il mantenimento (cfr. sul punto quanto verrà detto con riguardo all’art. 156, sesto comma, c.c.). E’ incerto tuttavia se operino i limiti quantitativi dell’art. 545 c.p.c. (Gabrielli, Santosuosso, Trabucchi) oppure no (Finocchiaro).

 

Il decreto, immediatamente esecutorio, va notificato alle parti ed al terzo debitore. E’ ammessa opposizione nelle forme previste per l’opposizione al decreto ingiuntivo e trovano applicazione gli artt. 645, 649, 652, 653 e 656 c.p.c. Si è ritenuto che il giudizio di opposizione deve svolgersi con la necessaria partecipazione di tutti i soggetti ai quali il decreto stesso va notificato, che pertanto devono essere considerati quali litisconsorti necessari: l’opposizione deve, pertanto, essere proposta nei confronti dei predetti legittimati passivi, in assenza va ordinata l’integrazione del contraddittorio ai sensi dell’art. 102 c.p.c. (in dottrina v. Attardi; cfr. Trib. Potenza, 1 febbraio 1991, in Dir. fam., 1991, p. 1017).

 

Mancando l’opposizione il decreto passa in cosa giudicata e si è sostenuto che, in caso di parziale accoglimento della domanda, il richiedente debba fare opposizione, non potendo riproporre successivamente la sua istanza (Attardi). In senso contrario si é affermato che, nell’ipotesi di accoglimento parziale, il richiedente potrebbe o far decadere il decreto non procedendo alla sua notificazione e dunque rinnovare la richiesta, oppure notificare il decreto ed avanzare impugnazione incidentale riconvenzionale ex art. 334 c.p.c. nel caso di opposizione della controparte (Finocchiaro).

 

Le parti ed il terzo debitore possono sempre chiedere, con le forme del processo ordinario, la modifica e la revoca del provvedimento per circostanze e motivi sopravvenuti. Secondo un primo orientamento a tale procedimento revisionale, previsto dall’ultimo comma dell’art. 148 c.c., si dovrebbe ricorrere anche nel caso del venir meno della qualità di debitore in capo al terzo intimato (Attardi), mentre per altri il provvedimento giudiziale diverrebbe automaticamente inefficace.

 

 

10. L’ordine di pagamento diretto ex art. 156, sesto comma, c.c.

 

La seconda forma di pagamento diretto è data dal sesto comma dell’art. 156 c.c., che regola una ulteriore garanzia a tutela degli obblighi patrimoniali verso il coniuge più debole e la prole minorenne o non autonoma (Cass., 4 dicembre 1996, n. 10813), in quanto prevede che il giudice possa ordinare ai terzi debitori anche di somme periodiche verso il coniuge onerato, che una parte di esse sia versata direttamente al coniuge beneficiario, ovvero ad altri aventi diritto quali ad es. i nonni affidatari  (Cass., 17 luglio 1997, n. 6557).

 

La disposizione è applicabile anche nel caso di separazione consensuale (Corte cost., 19 gennaio 1987, n. 5).

 

Essa sanziona l’inadempimento dell’obbligato ed anche il non puntuale adempimento dell’obbligo di mantenimento del coniuge separato, pure se con pochi giorni di ritardo rispetto alla scadenza imposta, ove tale comportamento provochi fondati dubbi sulla tempestività dei futuri pagamenti, in quanto la funzione che adempie l’assegno di mantenimento viene ad essere frustrata anche da semplici ritardi (Cass., 14 febbraio 1990, n. 1095). Ne deriva che l’inadempienza non richiede la gravità dell’inadempimento o l’intento di sottrarre beni, e nemmeno esige che il creditore non sia in grado di acquisire garanzie attraverso iscrizione d’ipoteca (Cass., 15 novembre 1989, n. 4861).

 

Il debito del terzo deve riguardare solo somme di danaro ivi compresi i proventi di lavoro e gli assegni pensionistici, sia che costituiscano trattamento di quiescenza direttamente scaturente dal rapporto di lavoro, sia che presentino, come quelli dovuti dall’INPS, natura prevalentemente previdenziale e relazione solo indiretta con detto rapporto (Cass., 10 gennaio 1979, n. 159; Cass., 23 dicembre 1992, n. 13630). Ove l’assegno debba essere versato all’avente diritto da una P.A., l’eventuale erronea identificazione dell’organo competente a quel versamento (es. direzione provinciale, anziché ministero), è emendabile dalla amministrazione stessa in sede di esecuzione del provvedimento (Cass., 15 novembre 1977, n. 4969).

 

Il riferimento normativo ad «una parte» non può essere interpretata nel senso che un tale ordine debba indefettibilmente avere ad oggetto solo una parte delle somme dovute dal terzo, quale che, in concreto, ne sia la misura e la quota, e quale che, in concreto, sia l’importo dell’assegno di mantenimento, bensì nel senso che il giudice possa legittimamente disporre il pagamento diretto dell’intera somma dovuta dal terzo, quando questa non ecceda, ma anzi realizzi pienamente, l’assetto economico determinato in sede di separazione con la statuizione che, in concreto, ha quantificato il diritto del coniuge beneficiario (Cass., 2 dicembre 1998, n. 12204).

 

Il principio è stato di recente ribadito dalla Corte Suprema, la quale ha stabilito che «L’art. 156, comma VI, c.c. prevede la facoltà, in capo al Giudice, di ordinare ai terzi, tenuti a corrispondere, anche periodicamente, somme di denaro all’obbligato, che una parte di esse venga versata direttamente agli aventi diritto. Siffatta disposizione deve essere interpretata non già nel senso che un tale ordine debba indefettibilmente avere ad oggetto solo una parte delle somme dovute dal terzo, quale che in concreto ne sia la misura e quale che, in concreto, sia l’importo dell’assegno di mantenimento, bensì nel senso che il giudice possa legittimamente disporre il pagamento diretto dell’intera somma dovuta dal terzo, quando questa non ecceda, ma anzi realizzi pienamente, l’assetto economico determinato in sede di separazione con la statuizione che, in concreto, ha quantificato il diritto del coniuge beneficiario» (Cass., 6 novembre 2006, n. 23668). La lettura della motivazione fornisce un interessante esempio dei casi in cui il rimedio in esame può essere invocato.

 

L’ordine del giudice al terzo debitore dell’obbligato non solo si riferisce anche ai trattamenti pensionistici corrisposti in favore del coniuge già dipendente di una pubblica amministrazione, ma non sono neppure applicabili in detta ipotesi i limiti stabiliti dal d.p.r. 180/1950 in materia di sequestrabilità e pignorabilità degli stipendi, salari e pensioni dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni (Cass., 27 gennaio 2004, n. 1398).

 

La S.C. esclude anche l’applicabilità per analogia all’assegno di separazione della disciplina stabilita per quello divorzile, che può essere affermata esclusivamente in riferimento a quei profili per i quali si accerti che manchi una specifica disciplina e che sussista la eadem ratio che permetta l’estensione all’uno della regolamentazione stabilita per l’altro; invece una disciplina della distrazione in materia di separazione personale esiste e riguarda, tra l’altro, anche la misura della stessa (l’art. 8, comma 6, L. div. stabilisce quale limite «la metà delle somme dovute»; l’art. 156, comma sesto, c.c., fa riferimento ad «una parte di esse»), è sufficiente a fare escludere l’applicabilità per analogia della disposizione per la dirimente considerazione che non esiste la lacuna normativa che solo legittimerebbe il ricorso all’interpretazione analogica (Cass., 27 gennaio 2004, n. 1398, in motivaz.).

 

L’ordine giudiziale di pagamento diretto può essere emesso

·         dal presidente del tribunale, unitamente ai provvedimenti temporanei ed urgenti, quando il coniuge sia già moroso rispetto agli obblighi previsti dagli artt. 147 e 148 c.c. (Servetti),

·         dal giudice istruttore nel corso del procedimento (Corte cost., 6 luglio 1994, n. 278),

·         dal tribunale

o     con la sentenza (nel rispetto dei limiti processuali per la introduzione di domande nuove per fatti sopravvenuti) e

o     col decreto revisionale.

 

La relativa richiesta può essere proposta per la prima volta anche nel corso del giudizio di secondo grado, trovando nel caso applicazione il c.d. principio rebus sic stantibus, purché risulti sempre rispettato il principio del contraddittorio, a garanzia del diritto di difesa del coniuge obbligato in sede di accertamento della sua inadempienza (Cass., 19 dicembre 2003, n. 19527).

 

L’autonomia e l’originalità dell’istituto dell’ordine giudiziale di pagamento risulta non soltanto dalla sua funzione di alternativa sanzione per gli inadempimenti già verificatisi o di garanzia per prevenire quelli che, pur non essendosi ancora verificati, si ha ragione di temere, quanto soprattutto dalla non prevista partecipazione al procedimento del terzo debitore (datore di lavoro o committente) che, invece, è necessaria nell’espropriazione presso terzi.

 

Sennonché l’ordine di distrazione ex art.156 c.c., pur avente natura latamente espropriativa, non costituisce, secondo la dottrina maggioritaria titolo esecutivo verso il terzo estraneo al procedimento (Caferra, Ceccherini, Goldoni, Finocchiaro); si tratterebbe, dunque di un meccanismo che, ispirandosi alla cessione volontaria dei crediti ex art. 1260 e seg., c.c. (Cass., 7 luglio 1976, n. 2533), avrebbe come suo effetto (quando sia stata notificata al debitore ceduto) non già di obbligarlo a pagare (rimanendo perfettamente libero di contestare l’esistenza o l’ammontare del suo debito), ma di conseguire la liberazione dal suo debito col pagamento eseguito alla persona indicata nell’atto notificatogli e di impedirgli il conseguimento di qualsiasi liberazione qualora paghi invece, nonostante la notifica, al creditore originario.

 

Ciò consentirebbe, nel caso in cui il terzo si rifiuti di adempiere, oltre all’ordinario pignoramento presso terzi, la chiamata nel processo ex art. 107 c.p.c. (Taranto), oppure l’azione civile per danni (Dogliotti, Carbone), ovvero l’azione penale ex art. 388 c.p. (De Filippis e Casaburi); isolatamente si sostiene, invece, che il coniuge creditore possa agire esecutivamente nei confronti del terzo debitore sull’intero suo patrimonio (A. e M. Finocchiaro).    

 

La Corte Costituzionale, con la sentenza 31 maggio 1983, n. 144 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 156, comma sesto, c.c., nella parte in cui non prevede che l’ordine al terzo di pagare agli aventi diritto in caso di inadempienza del genitore relativa al mantenimento dei figli sia applicabile anche alla separazione consensuale. In base a questa sentenza la Cassazione ha ritenuto che l’ordine al terzo di pagare direttamente somme dovute al coniuge obbligato si estenda al contributo per il mantenimento dei figli (Cass., 4 dicembre 1996, n. 10813).

 

 

11. La distrazione dei redditi ex art. 8, commi terzo, quarto, quinto e sesto, l.div.

 

L’ordine al terzo non può, invece, essere emesso a tutela dell’assegno divorzile, poiché l’art. 8 L. div., dopo la novella del 1987, prevede per l’ex coniuge creditore di ottenere per via stragiudiziale, mediante la notifica del provvedimento di condanna nei confronti dell’obbligato, la distrazione dei redditi a quest’ultimo corrisposti da un terzo (comma terzo) e di esercitare, in caso di suo rifiuto o inottemperanza, direttamente nei suoi confronti l’azione esecutiva (comma quarto).

 

L’intimazione deve essere preceduta dalla costituzione in mora dell’obbligato mediante racc. a.r. e dall’inutile decorso del termine di trenta giorni, rappresentando tale adempimento un momento della complessa fattispecie volta ad ottenere stragiudizialmente la distrazione del credito; al coniuge inadempiente va pure data comunicazione della notifica e dell’intimazione fatte al terzo debitore.

 

Il credito, siccome il legislatore parla di «provvedimento» da notificarsi al terzo, può essere portato non solo dalla sentenza divorzile o dal decreto revisionale, ma pure dalle ordinanze interinali rese dal presidente e dall’istruttore.

 

Significativa è dunque la differenza che esiste tra il caso della separazione e quello del divorzio in relazione ai soggetti dell’ordine ai terzi:

·         nel caso della separazione è il giudice che può disporre l’ordine di distrazione ai terzi, mentre

·         nel caso del divorzio è il coniuge che può chiedere direttamente ai terzi la corresponsione di quanto dovuto dall’obbligato.

Inoltre, nel caso del divorzio, a differenza della separazione,

·         il legislatore prescinde dall’inadempienza («per assicurare che siano soddisfatte o conservate le ragioni del creditore») e

·         non fissa limiti alla quantità di beni da sottoporre a sequestro (laddove nel caso della separazione si parla di «parte» dei beni del coniuge obbligato).

·         Ancora, come si è visto, nel divorzio il sequestro può avvenire solo su richiesta di parte e non d’ufficio.

 

Di particolare delicatezza è il tema delle eccezioni opponibili dal terzo debitore che possono riguardare:

-      i rapporti personali tra il terzo ed il coniuge-creditore: le relative eccezioni possono essere fatte valere liberamente, in quanto, con la notifica, si instaura un rapporto diretto fra il terzo ed il titolare dell’assegno;

-      i rapporti personali tra il terzo e  l’ex coniuge inadempiente: il terzo può rifiutare il pagamento, come avrebbe potuto rifiutarlo al creditore principale, nelle ipotesi di estinzione del debito, e cioè per prescrizione ovvero risoluzione del contratto, nonché per compensazione maturata anteriormente alla notifica del provvedimento di condanna (arg. ex art. 1248, comma secondo, c.c. in materia di cessione del credito);

-      i rapporti tra l’ex coniuge obbligato e l’ex coniuge creditore dell’assegno: in questo caso il terzo può far valere quelle eccezioni che incidano sull’assegno fino al momento della notifica del provvedimento giudiziale, con la precisazione però che costui non potrà far valere in via di eccezione vicende modificative del rapporto che non fossero state accertate con un provvedimento revisionale.

 

Gli strumenti processuali per la tutela del terzo debitore sono l’opposizione all’esecuzione (Quadri, Cipriani, Acone), ovvero l’azione di accertamento negativo del credito (Feola, Ceccherini, Dogliotti, Vecchi ed altri), riconosciuta anche dalla giurisprudenza di merito (Trib. Roma, 18 giugno 1994, in Foro it., 1995, I, c. 376).

 

Il sesto comma dell’art. 8 L. div. stabilisce la misura quantitativa massima della distrazione nella metà delle somme dovute al coniuge obbligato comprensive di assegni ed emolumenti accessori; la disposizione si riferisce ad emolumenti derivanti da impiego privato e pubblico (Rigoni, Feola) o da trattamenti pensionistici (Cass., 11 aprile 1991, n. 3817), senza che operino i limiti di sequestrabilità e impignorabilità di cui agli artt. 545 c.p.c. e 5 d.p.r. 180/1950 (Cass., 18 luglio 1978, n. 3595), neppure nelle forme oramai circoscritte dalla giurisprudenza costituzionale (Corte cost., 31 marzo 1987, n. 89; Corte cost., 26 luglio 1988, n. 878). Detto limite alla distrazione non riguarda, invece, le somme periodiche di derivazione non lavorativa (Rigoni), come ad es. i canoni di locazione o di affitto.   

 

Il quinto comma dell’art. 8 L. div. stabilisce che, qualora il credito del coniuge obbligato nei confronti di terzi sia stato già pignorato al momento della notificazione, il giudice dell’esecuzione provvede alla ripartizione delle somme fra il coniuge cui spetta la corresponsione periodica dell’assegno, il creditore procedente ed i creditori intervenuti nell’esecuzione.

 

In questo caso, avendo il coniuge beneficiario dell’assegno azione diretta esecutiva nei confronti del terzo debitore per il pagamento delle somme dovutegli quale assegno di mantenimento, egli dovrà intervenire nella procedura pendente (art. 499 c.p.c.), allegando la costituzione in mora con l’invito al terzo debitore a versargli direttamente le somme nelle forme prescritte (Feola), oppure si procederà alla riunione delle procedure esecutive ove mai esse siano sorte separatamente; il beneficiario potrà anche sostituirsi al creditore procedente ex art. 511 c.p.c. (Rigoni). 

 

E’ dubbio, se nel caso di precedente pignoramento posto in essere da altri creditori del coniuge debitore, il limite dalla metà degli emolumenti vada calcolato al lordo o al netto delle somme pignorate dagli altri creditori. In dottrina, nell’indicare come preferibile la prima soluzione, si è fatto notare che il sesto comma dell’art. 8 L. div. sancisce il limite di «metà delle somme dovute al coniuge obbligato, comprensive degli assegni e degli emolumenti accessori» e che il quinto comma parla di «ripartizione delle somme fra il coniuge (…), il creditore procedente ed i creditori intervenuti»; manca qualsiasi accenno alla decurtazione degli importi pignorati dagli altri creditori (Rigoni).

 

Resta poi incerto se, nel ripartire le somme, il giudice dell’esecuzione debba attenersi alla par condicio creditorum, riconoscendo però la natura alimentare e privilegiata dell’assegno, ovvero valutare discrezionalmente, col limite del citato sesto comma, il fine esistenziale della contribuzione post-matrimoniale e genitoriale, contemperando di diversi interessi di gioco.

 

Qualora il pignoramento sia successivo alla distrazione, spetterà al terzo debitore l’onere di dichiararlo ex art. 547 c.p.c.      

 

 

12. L’ordine di pagamento diretto ex art. 342-ter c.c.

 

L’ultima forma di ordine giudiziale di pagamento è disciplinata dall’art. 342-ter c.c. Quando la condotta del coniuge o del convivente è causa di grave pregiudizio all’integrità fisica o morale ovvero alla libertà dell’altro coniuge o convivente, il giudice, su istanza di parte, ordina al coniuge o convivente, che ha tenuto la condotta pregiudizievole, la cessazione della stessa condotta e dispone l’allontanamento dalla casa familiare del coniuge o del convivente che ha tenuto la condotta pregiudizievole.

 

Nell’occasione il giudice può disporre il pagamento periodico di un assegno a favore delle persone conviventi che, per effetto dei provvedimenti di protezione, rimangono prive di mezzi adeguati, fissando modalità e termini di versamento e prescrivendo, se del caso, che la somma sia versata direttamente all’avente diritto dal datore di lavoro dell’obbligato, detraendola dalla retribuzione allo stesso spettante.

 

L’istanza si propone, anche dalla parte personalmente, con ricorso al tribunale del luogo di residenza o di domicilio dell’istante, che provvede in camera di consiglio in composizione monocratica. Il presidente del tribunale designa il giudice a cui è affidata la trattazione del ricorso.

 

Il giudice, sentite le parti, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione necessari, disponendo, ove occorra, anche per mezzo della polizia tributaria, indagini sui redditi e sul patrimonio personale e comune delle parti, e provvede con decreto motivato immediatamente esecutivo.

 

Nel caso di urgenza, il giudice, assunte ove occorra sommarie informazioni, può adottare immediatamente l’ordine di protezione, fissando l’udienza di comparizione delle parti davanti a sè entro un termine non superiore a quindici giorni ed assegnando all’istante un termine non superiore a otto giorni per la notificazione del ricorso e del decreto; all’udienza il giudice conferma, modifica o revoca l’ordine di protezione.

 

Contro il decreto con cui il giudice adotta l’ordine di protezione o rigetta il ricorso ovvero conferma, modifica o revoca l’ordine di protezione precedentemente adottato è ammesso reclamo al tribunale entro i termini previsti dal secondo comma dell’art. 739 c.p.c. Il reclamo non sospende l’esecutività dell’ordine di protezione. Il tribunale provvede in camera di consiglio, in composizione collegiale, sentite le parti, con decreto motivato non impugnabile.

 

Le disposizioni della legge non si applicano quando la condotta pregiudizievole è tenuta dal coniuge che ha proposto o nei confronti del quale è stata proposta domanda di separazione personale ovvero di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, se nel relativo procedimento si è svolta l’udienza di comparizione dei coniugi davanti al presidente prevista dall’art. 706 c.p.c. ovvero, rispettivamente, dall’art.  4 L. div. In tal caso si applicano le disposizioni contenute, rispettivamente, negli artt. 706 e seg. c.p.c. e nella legge 898/1970, e successive modificazioni, e nei relativi procedimenti possono essere assunti provvedimenti, anche economici, aventi i contenuti indicati nell’art. 342-ter  c.c.

 

Ne consegue la possibilità di intervenire a tutela della famiglia legittima e di quella di fatto, senza distinzioni ed a prescindere dalla pregressa inadempienza dell’obbligato e/o dal pericolo di essa, bastando il fatto storico delle violenze in famiglia. Il procedimento, del tutto deformalizzato, presenta problematiche similari a quelle del sesto comma dell’art. 156 c.c., ivi compreso il dubbio circa la possibilità o meno di agire esecutivamente contro il datore di lavoro dell’obbligato, ove resti inadempiuta la prescrizione del versamento diretto all’avente diritto inserita nell’ordine di protezione.   

 

 

13. L’obbligo di prestare idonea garanzia.

 

Scarsamente adoperato nella pratica è lo strumento previsto dal quarto comma dell’art. 156 c.c. e dal primo comma dell’art. 8 L. div., che prevedono la possibilità, per l’autorità giudiziaria, di imporre, con la sentenza, al coniuge obbligato al mantenimento di prestare idonee garanzie reali o personali, se vi sia pericolo che si sottragga all’adempimento. Si pensi, ad esempio, al caso del moroso abituale anche in ambito extrafamiliare, ovvero al pluriprotestato.

 

La dottrina ha chiarito che non è necessario che l’obbligato abbia già manifestato la propria intenzione di non adempiere, o che abbia già posto in essere atti potenzialmente pregiudizievoli, né che sia stato condannato ai sensi dell’art. 570 c.p. ovvero dell’art. 12-sexies L. div.; il presupposto del provvedimento di condanna alla prestazione di garanzie è il ragionevole sospetto che egli possa sottrarsi all’adempimento (Feola). Tale pericolo di inadempimento va valutato tenendo conto del comportamento, familiare e non, del coniuge obbligato.

 

Secondo la scarsa giurisprudenza di legittimità e di merito sull’argomento, il tribunale che pronuncia la separazione o il divorzio può condannare genericamente il coniuge obbligato al pagamento dell’assegno a prestare idonee garanzie reali o personali, mentre non può procedere direttamente alla costituzione delle garanzie stesse (Cass., 18 luglio 1977, n. 410); la scelta concreta della garanzia da prestare va, dunque, lasciata al debitore, mentre non è consentito subordinare l’efficacia della pronuncia di separazione o divorzio alla suddetta prestazione (Trib. Roma, 6 novembre 1985, in Temi Rom., 1986, p. 114).

 

Anche secondo la altrettanto scarsa dottrina sull’argomento l’autorità giudiziaria può solo pronunziare una condanna a prestare garanzie determinate (Palladino, Barbiera, Santosuosso); isolatamente si è sostenuto che la sentenza possa avere carattere costitutivo della garanzia stessa (De Martino). Invero a ciò ostano sia difficoltà pratiche soprattutto per la costituzione in forma specifica di garanzie personali, sia l’assenza di potere un specificamente attribuito dalla legge, non analogicamente ricavabile dall’art. 2932 c.c. (Feola, Punzi).

 

Se, in base alla sentenza, il coniuge obbligato per il mantenimento è tenuto a dare una garanzia senza che ne siano determinati il modo e la forma, può, in virtù della norma generale dell’art. 1179 c.c., prestare a sua scelta una idonea garanzia reale (pegno, ipoteca) o personale (fideiussione) ovvero altra sufficiente cautela (polizza assicurativa). 

 

Si è ritenuto che l’art. 156 c.c. e l’art. 8 L. div. assegnano al giudice della separazione e del divorzio ampio potere discrezionale nella valutazione della idoneità, per forma e modalità di prestazione, della garanzia medesima, la quale può, ad esempio, consistere nella fideiussione prestata da soggetto solvibile (es. istituto di credito di diritto pubblico), né l’idoneità della garanzia fideiussoria può ritenersi esclusa dall’eventuale pattuizione della preventiva escussione a norma dell’art. 1944 c.c., se la fideiussione, secondo l’apprezzamento del giudice rimane sufficiente a garantire l’adempimento da parte del fideiussore o del debitore principale (Cass., 10 aprile 1992, n. 4391).

 

Nel corso della causa di divorzio il giudice istruttore non può imporre all’obbligato di prestare l’idonea garanzia reale o personale, prevista a conclusione del procedimento, o per un momento successivo (Trib. Milano, 5 dicembre 1995, in Foro it., 1996, I, c. 1050). La sentenza o il decreto collegiale possono contenere la previsione di un termine entro il quale la garanzia deve essere costituita (Feola).

 

Secondo la norma generale di all’art. 1186 c.c., quantunque il termine sia stabilito a favore del debitore, il creditore può esigere immediatamente la prestazione se il debitore non ha dato le garanzie che aveva promesse. La tesi dell’applicabilità di tale disposizione alla materia familiare pure sostenuta in dottrina (Punzi, Barbiera, Feola) è stata giustamente criticata (Palladino, Vincenzi); infatti, il pagamento  in unica soluzione è previsto solo per l’assegno divorzile e coll’accordo delle parti ai sensi dell’ottavo comma dell’art. 5 L. div., il che per un verso esclude l’operatività di tale disposizione per il mantenimento del coniuge separato e della prole, per un altro esclude che  il pagamento  in unica soluzione possa essere giudizialmente imposto.

 

Né è ipotizzabile l’esecuzione specifica ex art. 612 c.p.c. della statuizione giudiziale di prestare idonee garanzie, poiché in caso di genericità della condanna il giudice dell’esecuzione non potrebbe in alcun modo integrare il titolo, mentre in caso di specificità della condanna ad una determinata garanzia si tratterebbe di un obbligo di fare incoercibile.

 

Restano forme di coercizione indiretta di natura penale, in virtù dell’art. 3 della legge 54/2006, che, per i casi di violazione dolosa degli obblighi di natura economica tra i quali rientrano pure quelli di prestare idonea garanzia, si applica sempre l’art. 12-sexies L. div., che inizialmente sanzionava con le pene previste dell’art. 570 c.p. la sola sottrazione al pagamento dell’assegno divorzile. Si aggiunga che l’omessa prestazione della garanzia costituisce condotta negativamente valutabile per conseguire o azionare legittimamente cautele giudiziali più certe ed invasive (es. sequestro dei beni, distrazione dei redditi, ipoteca giudiziale) ovvero, nei casi più gravi, per agire per simulazione o revocatoria (su quest’ultima ipotesi cfr. Trib. Milano, 22 luglio 1993, in Gius, 1994, p. 98).

 

Da ultimo va ricordato che, per la prestazione di idonee garanzie reali o personali, vertendosi in tema di condanna resa dal giudice civile, vale sempre il principio della domanda (Feola), che pur contrastato da parte della dottrina (Scardulla, Bianca), può trovare eccezione forse solo nell’ambito della tutela officiosa della prole minorenne ex art. 155, secondo comma, c.c. (Cipriani, Finocchiaro, Vecchi) ovvero maggiorenni disabili ex art. 155-quinquies, secondo comma, c.c.

 

Quello conferito al giudice della separazione e del divorzio è comunque un potere discrezionale, da esercitarsi mediante la valutazione degli elementi acquisiti e, in particolare, di quelli che concernono tali garanzie; ove il giudice non abbia ritenuto di avvalersi di tale potere, la sentenza di separazione o di divorzio costituisce pur sempre titolo per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale ai sensi dell’art. 2818 c.c., nel qual caso la valutazione del pericolo è rimessa alla parte interessata (Cass., 29 novembre 1977, n. 5184).

 

 

14. Il giudice competente per l’esecuzione.

 

Nella normativa in materia familiare l’unico chiaro richiamo al giudice dell’esecuzione è contenuto nel quinto comma dell’art. 8 L. div., nella parte in cui stabilisce che, qualora il credito del coniuge obbligato nei confronti di terzi sia stato già pignorato al momento della notificazione, all’assegnazione e alla ripartizione delle somme fra il coniuge cui spetta la corresponsione periodica dell’assegno, il creditore procedente ed i creditori intervenuti nell’esecuzione, provvede appunto il giudice dell’esecuzione. Naturalmente, avendo il coniuge beneficiario dell’assegno azione diretta esecutiva nei confronti del terzo debitore per il pagamento delle somme dovutegli quale assegno di mantenimento (comma 4), egli dovrà intervenire nella procedura pendente, allegando la costituzione in mora con l’invito al terzo debitore a versargli direttamente le somme nelle forme prescritte (comma 3), oppure si procederà alla riunione delle procedure esecutive, ove mai esse siano sorte separatamente.

 

Il quinto comma dell’art. 8 L. div. costituisce un indubbio indice rivelatore del fatto che anche nell’attuazione dei provvedimenti in materia di famiglia aventi per oggetto somme di danaro, forme variegate di rispetto della par condicio derivano dal più ampio principio per cui la tutela interinale, anticipatoria e persino cautelare, non può attribuire alla parte effetti giuridici diversi da quelli conseguibili in via ordinaria, il che postula l’applicazione delle regole che garantiscono nella espropriazione il soddisfacimento dei creditori secondo le regole del concorso (Tommaseo, Mammone, Attardi, Arieta).

 

Proprio per la par condicio dovrebbe ritenersi che l’attuazione dei provvedimenti temporanei ed urgenti di natura economica, nell’interesse del coniuge debole e della prole, non può che svolgersi secondo le forme e le modalità tipiche della espropriazione forzata dinanzi al giudice dell’esecuzione, la cui funzione è prevista dall’art. 484 c.p.c. e la cui competenza territoriale va individuata in base all’art. 26 c.p.c. Può dunque verificarsi che all’attuazione dei provvedimenti interinali aventi per oggetto somme di danaro provveda un ufficio giudiziario differente da quello del giudice (presidente o istruttore) che lo ha emesso.

 

Il decimo comma dell’art. 6 L. div. ed il primo comma del nuovo 709-ter c.p.c., prevedono che all’attuazione dei provvedimenti relativi all’affidamento della prole provvede il giudice del merito. Tali disposizioni non sembrano estensibili alle statuizioni economiche nell’interesse della prole, stante proprio la funzione regolatrice del giudice dell’esecuzione per la corretta applicazione del concorso dei creditori. Del resto la dottrina  ha chiarito che persino l’attuazione dei provvedimenti cautelari aventi per oggetto somme di danaro è devoluta al giudice dell’esecuzione e non al giudice della cautela, atteso che il richiamo fatto dall’art. 669-duodecies c.p.c. agli artt. 491 e seg. c.p.c. e, dunque, al pignoramento (Attardi, Saletti, Proto Pisani, Luiso).

 

Per il citato art. 669-duodecies c.p.c. l’attuazione dei provvedimenti cautelari inizia direttamente col pignoramento, non essendo state ivi richiamate le disposizioni relative alla fase propedeutica all’esecuzione costituita dalla notifica del titolo esecutivo e del precetto (Mammone), per l’intrinseca esecutività del provvedimento cautelare (Proto Pisani, Attardi). Pare però dubbio che analogo esonero dalla notifica del titolo esecutivo e del precetto operi anche per l’attuazione dei provvedimenti temporanei ed urgenti in tema di assegno di mantenimento. La disciplina sui procedimenti cautelari non si applica, infatti, ai provvedimenti temporanei ed urgenti emessi dal presidente o dal giudice istruttore nel corso del giudizio di separazione o di divorzio (v. Trib. Roma, 27 gennaio 1994, e Trib. Catania, 21 luglio 1993, in Foro it. 1994, I, c. 1216).

 

In dottrina e giurisprudenza, con riferimento ai presupposti per la pronuncia dei provvedimenti in subiecta materia, si evidenzia che essi esulano dalla previsione di cui all’art. 669-quaterdecies c.p.c. che definisce, unitamente all’art. 703 c.p.c. l’ambito di applicazione del processo cautelare uniforme. A tal proposito va sinteticamente rimarcato che l’art. 708 c.p.c. rientra nel capo I del titolo II, non richiamato nell’art. 669-quaterdecies c.p.c. e che i provvedimenti di cui all’art. 708 c.p.c. prescindono del tutto dalla valutazione del periculum in mora, sono modificabili anche in base ad un semplice mutamento della circostanze e, anche se confermati con la sentenza definitiva del giudizio, sono modificabili e revocabili pure dopo la conclusione del processo nelle forme del rito camerale (art. 710 c.p.c.).

 

Non v’è dunque ragione per l’applicazione diretta, in quanto compatibile o analogica, del procedimento cautelare uniforme e dunque dell’art. 669-duodecies c.p.c. (Cass., 1 aprile 1998, n. 3374), anche nella parte in cui esclude la necessità di notificare preventivamente il titolo ed il precetto alla parte intimata.

 

Va comunque segnalato che una remota decisione della S.C. ha stabilito, in via generale, che i provvedimenti temporanei ed urgenti, adottati dal presidente del tribunale o dal giudice istruttore nel procedimento di separazione personale, sono soggetti, in difetto di spontaneo adempimento, ad esecuzione coattiva in via breve, a mezzo dell’ufficiale giudiziario, salvo che il beneficiario del provvedimento preferisca avvalersi, come gli è alternativamente consentito, della normale procedura di esecuzione forzata, notificando alla controparte il titolo e l’intimazione ad adempiere; nella prima ipotesi giudice competente per l’esecuzione è quello che ha emesso il provvedimento o quello competente per il merito se risulta già instaurato il relativo giudizio, mentre nella seconda ipotesi competente è il giudice dell’esecuzione secondo le regole ordinarie (Cass., 12/11/1984, n. 5696). Tale alternativa pare difficilmente attuabile con modalità diverse da quelle dettate dal libro terzo dinanzi al giudice dell’esecuzione e compatibili coll’attuazione coattiva dei crediti rispetto alla par condicio creditorum tipica  dell’espropriazione forzata individuale.

 

Passando all’attuazione delle misure, provvisorie ed urgenti nell’interesse dei coniugi e della prole, aventi ad oggetto obblighi di consegna (es. vestiario, oggetti professionali, strumenti di lavoro) e rilascio (es. casa familiare) in questi caso trovano applicazione gli artt. 606 e 608 c.p.c. sul precetto  sui modi della consegna e/o del rilascio. L’intervento del giudice dell’esecuzione del luogo dove le cose o la casa si trovano è limitata ai provvedimenti, anche verbali, sulle difficoltà che non ammettono dilazioni ed alla liquidazione delle spese esecutive anticipate dalla parte istante (artt. 611 e 612 c.p.c.), nonché alla risoluzione delle opposizioni e delle relative sospensive (artt. 615, 617, 618, 623, 624 c.p.c.).

 

Ad un modello d’attuazione, formale e tipizzato, che mutua le sue regole dal processo esecutivo, si contrappone la disciplina dell’art. 669-duodecies c.p.c., secondo cui l’attuazione delle misure cautelari aventi ad oggetto obblighi di consegna o rilascio avviene invece sotto il controllo del giudice che ha emanato il provvedimento cautelare, il quale ne determina anche le modalità di attuazione e, ove sorgano difficoltà o contestazioni, dà con ordinanza i provvedimenti opportuni sentite le parti; ma, come si è visto, l’art. 669-duodecies c.p.c. non è direttamente applicabile ai provvedimenti emessi ai sensi degli artt. 708 e 709 c.p.c. (Cass., 1 aprile 1998, n. 3374) e delle similari disposizioni per la procedura divorzile.

 

Sennonché la S.C. ha ritenuto che l’ordinanza del presidente del tribunale o del giudice istruttore attributiva, ad uno dei coniugi, del diritto di abitare la casa familiare deve ritenersi soggetta, in mancanza di spontaneo adempimento, ad esecuzione coattiva in via breve (a mezzo del competente ufficiale giudiziario), ovvero alla normale procedura di esecuzione forzata, con la conseguenza che, nella prima ipotesi, giudice competente per l’esecuzione sarà quello che ha emesso il provvedimento (ovvero quello competente per il merito, se risulti iniziato il relativo giudizio), mentre, nella seconda, la competenza si radica in capo al giudice dell’esecuzione, secondo le regole ordinarie (Cass., 1 settembre 1997, n. 8317).

 

All’attuazione dell’ordine di protezione, adottato col decreto ex art. 342-ter c.c., provvede lo stesso giudice che ha emesso il provvedimento. E’ dubbio se l’attuazione di cui parla l’ultimo comma delle citata norma riguardi l’intero decreto, e quindi anche il pagamento periodico di un assegno a favore delle persone conviventi, o solo l’ordine di protezione in senso stretto (es. allontanamenti, divieti, etc.).   

 

 

15. Gli interventi ex art. 709-ter c.p.c.: generalità; la competenza.

 

La riforma sull’affidamento condiviso ha, come noto, introdotto l’art. 709-ter c.p.c., il quale dispone quanto segue.

 

«Art. 709-ter. – (Soluzione delle controversie e provvedimenti in caso di inadempienze o violazioni). Per la soluzione delle controversie insorte tra i genitori in ordine all’esercizio della potestà genitoriale o delle modalità dell’affidamento è competente il giudice del procedimento in corso. Per i procedimenti di cui all’articolo 710 è competente il tribunale del luogo di residenza del minore.

        A seguito del ricorso, il giudice convoca le parti e adotta i provvedimenti opportuni. In caso di gravi inadempienze o di atti che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità dell’affidamento, può modificare i provvedimenti in vigore e può, anche congiuntamente:

        1) ammonire il genitore inadempiente;

        2) disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti del minore;

        3) disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti dell’altro;

        4) condannare il genitore inadempiente al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria, da un minimo di 75 euro a un massimo di 5.000 euro a favore della Cassa delle ammende.

        I provvedimenti assunti dal giudice del procedimento sono impugnabili nei modi ordinari».

 

Per uno tra i primi esempi di provvedimento di ammonimento cfr. Trib. Catania, 11 luglio 2006.

 

Per quanto attiene alla competenza, la riforma prevede

·         che la soluzione delle controversie tra i genitori «in ordine all’esercizio della potestà genitoriale o delle modalità dell’affidamento» è demandata al «giudice del procedimento in corso», su ricorso di uno dei genitori.

·         Se la controversia insorge, invece, dopo il giudicato, il genitore interessato potrà azionare le consuete procedure di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio (rispettivamente art. 710 c.p.c. e art. 9, comma primo, legge sul divorzio) e la competenza sarà del tribunale.

 

Nel caso il giudice del procedimento in corso sia la corte d’appello o la Corte Suprema di Cassazione, se la lettera della norma induce a ritenere che anche di fronte a tali uffici si potranno discutere le questioni in oggetto, rimane il fatto che nel primo caso si perderà un grado di giudizio, mentre nel secondo non è addirittura ammessa alcuna impugnazione. Stupefacente è poi che la Cassazione si debba occupare di questioni prettamente di merito, quali quelle sopra descritte.

 

Per quanto attiene poi all’organo, in ogni caso, competente per siffatto tipo di provvedimenti ritengo che il riferimento al giudice del procedimento in corso, contrariamente a quanto statuito dal Tribunale di Modena, con suo provvedimento in data 7 aprile 2006 (in D&G, 14 aprile 2006, con commento di Bulgarelli), non può che far pensare al collegio e non certo all’istruttore.

 

Quindi la riforma sembra attribuire anche dopo il giudicato al tribunale la funzione di risoluzione delle controversie; non più solo delle modifiche e delle revisioni. In caso di ricorso al giudice del merito nel corso della causa, si apre un subprocedimento, nel quale il giudice risolverà il contrasto adottando le misure opportune potendo anche – come prevede la riforma espressamente – modificare i provvedimenti in vigore.

 

In linea con le indicazioni che da anni i giuristi e la prassi vanno proponendo in ordine alle problematiche relative all’attuazione dei provvedimenti e nella direzione già a suo tempo indicata dalla legge sul divorzio (art. 6, comma decimo: all’attuazione dei provvedimenti relativi all’affidamento della prole «provvede il giudice del merito»), la riforma prevede che la soluzione delle controversie tra i genitori in ordine all’esercizio della potestà, sono risolte dal «giudice del procedimento in corso» su ricorso di uno dei genitori.

 

Si aprirà, perciò, come detto, un subprocedimento – interno alla causa di separazione, di divorzio o di affidamento dei figli naturali – nel quale il giudice risolverà il contrasto adottando le misure opportune e potendo, naturalmente, se richiesto, anche modificare i provvedimenti in vigore. Il procedimento, quanto a modalità di gestione o a mezzi di prova utilizzabili, non ha regole processuali diverse da quelle che disciplinano qualsiasi subprocedimento conseguente ad una richiesta rivolta al giudice istruttore di modificare un precedente provvedimento (art. 177 c.p.c.).

 

Salvo prassi orientate in modo diverso dovrebbe venir meno, quindi, la competenza del giudice tutelare. La tradizionale funzione risolutiva delle controversie attribuita al giudice tutelare passa al giudice del merito o al tribunale ex art. 710 c.c. dopo il giudicato. La decisione del giudice istruttore modificativa dell’assetto vigente e la decisione del tribunale nel processo di revisione potranno essere reclamate davanti alla Corte d’appello.

 

Il giudice tutelare, tuttavia, in base all’art. 337 c.c. – tuttora vigente – conserva però la propria competenza di vigilanza sulle condizioni che il tribunale abbia stabilito per l’esercizio della potestà. Se, quindi, la controversia insorge dopo il giudicato di separazione o di divorzio il genitore interessato potrà sempre rivolgersi al giudice tutelare per la soluzione della controversia salvo a dover ricorrere al tribunale ex art. 710 c.p.c. o 9 legge divorzio ove intendesse modificare i provvedimenti e non solo risolvere una controversia.

 

Il giudice – in corso di causa o in sede di modifica (ma non il giudice tutelare) – non si limiterà, però, alla sola soluzione della controversia portata alla sua attenzione. Qualora egli riscontri gravi inadempienze o atti che arrecano pregiudizio al minore potrà anche adottare provvedimenti di tipo sanzionatorio.

 

 

16. Gli interventi ex art. 709-ter c.p.c.: i provvedimenti di tipo sanzionatorio.

 

Il giudice non si limiterà, però, alla sola soluzione della controversia portata alla sua attenzione. Qualora egli riscontri gravi inadempienze o atti che arrecano pregiudizio al minore potrà anche adottare provvedimenti di tipo sanzionatorio.

 

La riforma introduce con l’art. 709-ter c.p.c. un vero e proprio rebus processuale. Secondo taluni si tratterebbe di una vistosa eccezione – verosimilmente destinata a creare più di un problema – alla regola secondo cui i provvedimenti di condanna sono adottati dal giudice all’esito di un giudizio ordinario e nel contraddittorio tra le parti. Il procedimento prevederebbe solo la fase decisoria con l’ammonizione del genitore inadempiente o con la possibile condanna al risarcimento dei danni in favore dell’altro genitore o del minore ovvero di una sanzione che può giungere fino a 5000 euro a favore della Cassa delle ammende.

 

A dire il vero la previsione del risarcimento dei danni era anche contenuta, per il caso in cui il trasferimento di residenza di un genitore ostacolasse i diritti dell’altro genitore, nell’ultimo comma dell’art. 6 della legge sul divorzio, ma non aveva mai trovato applicazione.

 

Ora, a mio avviso, non vi è dubbio che un’interpretazione del genere di quella testé esposta esporrebbe la riforma ad un’immediata declaratoria di incostituzionalità per violazione dell’art. 24 Cost. Come rilevato da autorevole dottrina, invero, il precetto costituzionale impone che per la tutela dei diritti soggettivi la decisione intervenga a cognizione piena e sulla base di un provvedimento idoneo al giudicato.

 

Deve quindi affermarsi che il giudice cui fa richiamo la norma in oggetto non può essere se non il tribunale e non certo il giudice istruttore e che la decisione che lo stesso emetterà dovrà comunque avere natura e forma di sentenza, da emettersi al termine di un giudizio a cognizione piena. Nella specie si tratterà di una sentenza parziale emessa congiuntamente (come richiesto dallart. 709-ter cit.) all’eventuale ordinanza di modifica dei provvedimenti in vigore, ma comunque da essa distinta e (sempre come richiesto dall’art. cit.) impugnabile nei modi ordinari, cioè appunto, come una sentenza (inutile aggiungere che le medesime conclusioni andrebbero predicate anche se il provvedimento avesse una veste formale diversa, atteso il noto principio, costantemente seguito dalla giurisprudenza di legittimità, della prevalenza della sostanza sulla forma).

 

Un ulteriore problema attiene al carattere esclusivo della procedura delineata (si fa per dire) dalla norma in oggetto, ovvero alla sua possibile alternatività rispetto ad un’azione risarcitoria proposta in via autonoma con rito ordinario: la lettera dell’art. 709-ter c.p.c. sembrerebbe (ma il condizionale è d’obbligo) imporre per l’azione risarcitoria il ricorso al procedimento speciale solo allorquando la pretesa sia strettamente legata a (e dipendente da) una controversia sull’esercizio della potestà genitoriale o delle modalità di affidamento, insorta nel corso di una procedura, attualmente ancora pendente, di separazione, divorzio (o di modifica delle relative condizioni), di annullamento del matrimonio, o, ancora, tra genitori naturali ex art. 317-bis c.c. Negli altri casi dovrebbero invece valere, a contrariis, le regole di competenza ordinarie.

 

Per quanto attiene ai rimedi, avrei più di un dubbio sulla applicabilità (cfr. ad es. Bulgarelli), suggerita da taluno, del reclamo al collegio ex art. 178 c.p.c. Invero, dopo la riforma del 1990 che ha abolito il reclamo al collegio su ordinanze sui mezzi istruttori, rimane l’unica ipotesi dell’ordinanza che dichiara l’estinzione del processo (art. 178 cpv. c.p.c.). La fattispecie di cui al primo comma dell’art. 178 c.p.c., invece, attiene alla fase della decisione della causa e non autorizza (a mio avviso) ad immaginare la possibilità di proporre al collegio le questioni risolte dal G.I. sotto forma di impugnazione prima che il thema decidendum nel suo complesso sia rimesso, per l’appunto, al Collegio per la decisione.

 

A mio modo di vedere sicuramente il provvedimento emesso dal G.I. sarà invece revocabile ex art. 177 c.p.c., ma, se si parte dal presupposto che le decisioni, quanto meno quelle irroganti sanzioni, vanno emesse in forma di sentenza, l’impugnazione «ordinaria» non potrà essere costituita se non dall’appello.

 

 

17. Nuove forme di garanzia degli assegni di separazione e divorzio: le clausole penali.

 

Ci si potrà ora soffermare, pur se brevemente, su alcuni istituti a tutela dei diritti patrimoniali dei coniugi, così come della prole, nella famiglia, tanto legittima che di fatto.

 

Innanzi tutto vorrei ancora una volta ribadire la raccomandazione sull’opportunità di inserire, negli accordi (oltre che di separazione e di divorzio, anche) di regolamentazione della crisi dell’unione di fatto, di clausole penali per l’inadempimento di prestazioni sia patrimoniali, che personali. Se è vero come è vero che le disposizioni codicistiche in tema di contratto in generale costituiscono  l’ossatura del negozio giuridico generale e sono dunque (come affermato da Santoro-Passarelli) applicabili anche al negozio giuridico familiare, laddove non vi siano norme in deroga, vi è da chiedersi perché non si potrebbe valorizzare il «vecchio» istituto della clausola penale, stabilendo che per ogni giorno di ritardo nel pagamento dell’assegno, o per ogni giorno di ritardo nella «riconsegna» del minore, legittimo o naturale che sia, sia dovuta una certa somma di denaro.

 

Il riconoscimento della natura di negozio familiare all’accordo relativo ai figli, in tutti gli aspetti in cui il medesimo può manifestarsi, consente anche di estendere ad esso – come già si è accennato – la disciplina in materia contrattuale. Di grande utilità in proposito, di fronte alla comprovata maggior sensibilità di tanti genitori (e dei rispettivi legali) ai profili pecuniari rispetto a quelli affettivi, potrebbe manifestarsi l’inserimento di una o più clausole penali a garanzia dell’adempimento di uno o più degli obblighi assunti in materia di affidamento e di diritto di visita. Per esempio, potrebbero prevedersi vere e proprie penalità di mora per ogni giorno di ingiustificato ritardo nella «consegna» o nella «riconsegna» (per usare i brutti termini in voga nell’ambiente) del minore. Non vengono in questo caso in considerazioni preoccupazioni attinenti alla necessità di garantire il rispetto di diritti inderogabili della persona, quale quello della libertà in merito a decisioni di carattere strettamente personale, facendo, anzi, «premio» su ogni altra considerazione la necessità di salvaguardare in primo luogo l’interesse della prole.

 

Nulla sembra dunque ostare ad un’applicazione delle disposizioni in tema di clausola penale contenute nella disciplina del contratto in generale (artt. 1382 ss.). Sia quindi consentito rinnovare in questa sede l’invito ai pratici a provare ad inserire siffatto genere di clausole negli accordi diretti a disciplinare le conseguenze della crisi coniugale con riguardo alla prole minorenne. L’operazione potrebbe, quanto meno, assumere il valore d’un ballon d’essai per saggiare le reazioni al riguardo della giurisprudenza, mentre è sicuro che le statistiche registrerebbero un assai più diffuso rispetto delle intese raggiunte e, forse, anche una diminuzione dei procedimenti esecutivi in un campo così delicato.

 

Il suggerimento in esame, già presentato dall’autore di questo studio (cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale, II, Milano, 1999, p. 1112), è stato criticato da chi (Amadio, Letture sull’autonomia privata, Padova, 2005, p. 178 s.) ha rimproverato allo scrivente di voler «eludere l’ostacolo» della vincolatività delle intese non patrimoniali inter coniuges, cercando invece di «liquidare il problema degli effetti dell’accordo a contenuto non patrimoniale (e della sua violazione), ricollegandovi sanzioni di natura economica». L’equivoco di una siffatta analisi riflette l’abitudine (tipica di una parte della dottrina) di procedere evidenziando esclusivamente parti del tutto circoscritte (e magari marginali) di opere ben più complesse, per poterne poi predicare l’insufficienza. Ora, non risponde in alcun modo a verità che chi scrive abbia mai inteso far derivare la vincolatività dell’impegno dei coniugi su profili non patrimoniali dall’introduzione di clausole penali. Come evidenziato dall’analisi – significativamente trascurata dal citato Autore – del profilo causale delle pattuizioni qui in discorso (cfr. per tutti Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, Milano, 1999, p. 625 ss., 709 ss.; Id., Prestazioni «una tantum» e trasferimenti tra coniugi in occasione di separazione e divorzio, Milano, 2000, p. 91 ss.), la vincolatività delle intese non patrimoniali in oggetto (non qualificabili alla stregua di contratti, alla luce del disposto dell’art. 1321 c.c.) deriva dal semplice fatto che è il legislatore, con l’espressa ed inequivocabile attribuzione di rilevanza alle «condizioni della separazione consensuale» (art. 711 c.p.c.), e alle «condizioni inerenti alla prole e ai rapporti economici» in sede di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio (art. 4, comma sedicesimo, l.div.), a fornire carattere vincolante ai comportamenti cui le parti intendono astringersi, a prescindere, dunque, dalla patrimonialità o non patrimonialità degli stessi (l’argomento è ampiamente sviluppato, oltre che nelle pagine appena citate, in Oberto, I contratti della crisi coniugale, II, cit., p. 1165 ss.; Id., Del «Galateo postmatrimoniale»: ovvero gli accordi sui comportamenti e sul cognome maritale tra separati e divorziati, in Riv. notar., 1999, p. 337). Il richiamo, dunque, alla clausola penale – contrariamente a quanto ritenuto dalla surriferita opinione – lungi dall’essere compiuto nel tentativo (superfluo) di dotare di giuridica vincolatività intese che tale carattere vincolante già di per se stesse posseggono per effetto delle citate norme (non prese in considerazione dall’Autore dello scritto cui qui si replica), deriva dalla semplice applicazione di principi da tempo enunciati in dottrina e giurisprudenza (per i rinvii all’una e all’altra si rinvia il paziente lettore ai citati passi dello scrivente: si pensi, tanto per citare qualche esempio, alle opinioni di Santoro-Passarelli, Gangi e Bianca, riportate nelle citate opere dello scrivente, oppure alla decisione di legittimità che nel 1983 ritenne applicabili ad un negozio eminentemente personale, quale l’accordo di riconciliazione tra coniugi separati, i principi in tema di formazione del consenso contenuti agli artt. 1326-1328 c.c.: cfr. Cass., 29 aprile 1983, n. 2948).

 

Ci si intende, cioè, riferire alla regola secondo cui le norme in tema di parte generale del contratto, proprio perché costituenti l’«ossatura» del negozio giuridico in generale nel nostro sistema, sono applicabili anche ai negozi giuridici familiari (ivi compresi quelli a contenuto non patrimoniale), ove non esistano (come nel caso in esame) principi speciali in deroga. Ma ciò, evidentemente (e nonostante gli indiscutibili risvolti pratici), non aggiunge di per sé sul piano giuridico una sola oncia di vincolatività al rapporto in discussione e con il tema della vincolatività de iure ha assai poco a che vedere. Et de hoc satis.

 

 

18. Nuove forme di garanzia degli assegni di separazione e divorzio: il trust.

 

Di ostacoli, invece, ve ne sono molti, per ciò che attiene all’impiego del trust, a partire dal fatto che la convenzione de L’Aja del 1985 sul tema è una convenzione di diritto internazionale privato e non una convenzione di diritto materiale uniforme (sul tema cfr. per tutti Oberto, Trust e autonomia negoziale nella famiglia, in Fam. dir., 2004, p. 201 ss., 310 ss.; Id., Il trust familiare, disponibile al seguente indirizzo web:

http://utenti.lycos.it/giacomo305604/milano11giugno2005trust/relazionemilano.htm).  Le relative norme, dunque, presuppongono la presenza di un conflitto di ordinamenti e quindi la presenza di elementi di estraneità che non possono risolversi nel solo fatto che le parti abbiano deciso di rinviare ad una norma straniera (e dunque nel mero capriccio delle parti stesse).

 

Con tutti i dubbi relativi all’ammissibilità della costituzione di un trust «interno» tra cittadini italiani, residenti in Italia e su beni qui situati, rimane il fatto che l’istituto offre uno strumento molto flessibile; sicuramente più flessibile ed utile del fondo patrimoniale: istituto, questo, inapplicabile, come noto, alla famiglia di fatto, anche se, come ho cercato di dimostrare in altre sedi, risultati sostanzialmente analoghi (tutela del convivente debole e della prole) ben possono essere ottenuti tramite la stipula di contratti di convivenza (cfr. Oberto,  I contratti di convivenza tra autonomia privata e modelli legislativi).

 

E se il problema pratico da risolvere (avendo riguardo, soprattutto, al profilo della crisi del rapporto) è solo quello di fornire idonea garanzia per l’adempimento di determinate obbligazioni, non si vede per quale ragione un contratto di convivenza (così come un contratto della crisi coniugale), non possa far ricorso ad uno strumento «sperimentato» con successo per secoli, quale l’ipoteca volontaria.

 

Un caso pratico in materia è quello che ha formato oggetto di verbale di separazione consensuale omologata dal Tribunale di Milano con decreto Trib. Milano, 23 febbraio 2005.

http://utenti.lycos.it/giacomo305604/milano11giugno2005trust/giurisprudenza/TribMilano23feb05verbaleseparazioneconiugi.pdf

 

Qui, nell’ambito della varie condizioni della separazione, uno dei coniugi, al fine di provvedere alle esigenze abitative della figlia minore sino a che non avrà completato il ciclo di studi e raggiunto l’autonomia economica, istituisce un trust autodichiarato avente ad oggetto un bene immobile.

 

Tra le varie clausole si noti la seguente, che potrebbe porre problemi in tema di divieto di patti successori ed eventuale lesione della legittima (con riferimento anche all’art. 15 della Convenzione dell’Aja):

 

 

Al rigurado potrà notarsi che, ove il trust si pieghi ad una finalità successoria, una possibile sua interferenza con il divieto dei patti successori non può dirsi scongiurata per il sol fatto che una convenzione internazionale ne riconosca l’operatività anche nel nostro paese: la Convenzione dell’Aja all’art. 4 fa infatti salve le norme di diritto interno relative alla validità del testamento o dell’atto costitutivo del trust. Resta allora aperta la porta all’operatività virtuale del divieto?

 

La risposta al quesito richiede la soluzione di un problema a monte. Se l’art. 458 c.c. parla di «convenzioni» ed è intitolato ai «patti», la sua sfera di applicazione, stando ad un’interpretazionme letterale della norma, dovrebbe non ricomprendere il trust, la cui fonte è un testamento ovvero un atto unilaterale fra vivi, non già un contratto. D’altra parte è anche vero che il beneficiary è normalmente al corrente del fatto di essere il destinatario di un’attribuzione patrimoniale da parte del settlor: potrebbe allora darsi il caso in cui la costituzione di un trust adombri un patto in frode alla legge per il fatto di costituire il modo di aggirare il divieto dei patti successori.

 

        Un caso di un certo interesse è quello risolto da Trib. Milano, 20 ottobre 2002, in una fattispecie veramente caraterizzata (una volta tanto!) da un elemento di (reale) estraneità. Nella specie il giudice italiano, ritenutosi dotato di giurisdizione e facendo applicazione della legge inglese, ha rimosso dalla posizione di trustees entrambi i coniugi, sostituendoli con due professionisti.

Il trust era stato costitutito in Gran Bretagna su beni ivi situati e per disposizione del giudice inglese che si era occupato del divorzio tra le parti. La domanda giudiziale era stata proposta dall’ex marito, che aveva chiesto la decadenza dalla posizione di trustee della ex moglie per conflitto di interessi con le beneficiarie (le figlie).

 

 

19. Nuove forme di garanzia degli assegni di separazione e divorzio: il vincolo di destinazione ex art. 2645-ter c.c.

 

All’ «armamentario legislativo» sopra ricordato viene ora ad aggiungersi l’art. 2645-ter c.c., introdotto dall’art. 39-novies della l. 23 febbraio 2006, n. 51, di conversione con modifiche del d.l. 30 dicembre 2005, n. 273 («Recante definizione e proroga di termini, nonché conseguenti disposizioni urgenti. Proroga di termini relativi all’esercizio di deleghe legislative»). La norma è volta a consentire «atti di destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela». A prescindere dalle gravi questioni generali di inquadramento dell’istituto e dai suoi collegamenti con il trust (su cui si fa rinvio per tutti a Oberto, Atti di destinazione (art. 2645-ter c.c.) e trust: analogie e differenze, in corso di stampa), non vi è dubbio che il medesimo appaia applicabile anche alla famiglia di fatto, in relazione alla quale potrebbe consentire alle parti di dar vita a qualcosa di analogo al fondo patrimoniale (cfr. Oberto, Famiglia di fatto e convivenze: tutela dei soggetti interessati e regolamentazione dei rapporti patrimoniali in vista della successione, in Fam. dir., 2006, p. 661 ss.: cfr. in particolare §§ 7 ss.).

 

Uno o più beni immobili o mobili registrati potrebbero così essere vincolati da uno o da entrambi i conviventi (o da terzi: si pensi ai genitori) allo scopo di contribuire al soddisfacimento dei bisogni del nucleo familiare, vuoi per ciò che attiene all’uso dei beni stessi (si pensi alla casa d’abitazione), vuoi per il reddito che eventualmente da essi potrebbe derivare (si pensi ai canoni di locazione), un po’ come può avvenire per la famiglia legittima ex artt. 167 ss. c.c.

 

A ben vedere, anzi, il vincolo ai sensi dell’art. 2645-ter c.c. appare assai più «forte» di quello da fondo patrimoniale, per via dell’opponibilità nei confronti di tutti i creditori dei coniugi, anche a prescindere dalla ricorrenza delle condizioni descritte dall’art. 171 c.c. D’altro canto, per ciò che attiene agli eventuali atti dispositivi, il medesimo vincolo appare dotato di un più elevato grado di «duttilità», rispetto a quello ex artt. 167 ss. c.c., avuto riguardo alla non necessità di autorizzazione giudiziale per gli atti ex art. 169 c.c. in presenza di figli minorenni.

 

Sempre in relazione alla maggiore souplesse dell’istituto novellamente introdotto, potrà ipotizzarsi un accordo dotato di efficacia per un periodo superiore a quello della durata del ménage di fatto, magari proprio nell’interesse della prole (minorenne o maggiorenne ma non autosufficiente). Tenuto conto della regola (fissata dall’art. 2645-ter c.c.) secondo cui il vincolo di destinazione può estendersi per novanta anni o per tutta la vita della persona fisica beneficiaria, tale istituto potrebbe dunque garantire i diritti dei figli della famiglia di fatto, assicurandone l’avvenire, a prescindere dalle vicende dei rapporti tra i genitori. 

 

La prima applicazione pratica di cui si abbia notizia dell’art. 2645-ter c.c. alla crisi coniugale è costuita da Trib. Reggio Emilia, 26 marzo 2007, in Guida al dir., 2007, n. 18, p. 58, con nota di Tonelli.

 

Il Tribunale ha qui deciso su di un’istanza ex art. 710 c.p.c. di modifica delle condizioni di una separazione consensuale. In particolare i coniugi volevano sostituire il versamento d’un assegno mensile da parte del marito, pari ad € 400,00, per il contributo al mantenimento dei figli, con il trasferimento della proprietà per intero o per quota di unità immobiliari, non già ai figli, ma alla moglie, ancorchè a titolo di contributo al mantenimento dei figli.

E’ lo stesso collegio a suggerire ai coniugi la soluzione che fa perno sull’art. 2645-ter c.c.

I coniugi decidono quindi di seguire il suggerimento del collegio e stabiliscono, come clausola aggiuntiva rispetto a quella che prevede i trasferimenti immobiliari a vantaggio della moglie, quanto segue:

Sulla base dei predetti accordi il tribunale emette dunque il seguente dispositivo:

Ora, a prescindere dalla circostanza che il tribunale, riconosciuta la rispondenza della clausola all’interesse della prole, avrebbe dovuto, secondo la costante giurisprudenza di legittimità, dichiarare non luogo a provvedere sull’istanza, dal momento che è ormai pacificamente assodato che le intese modificative delle condizioni della separazione, anche per ciò che attiene alla gestione del rapporto con i figli minori, sono sottratte al procedimento ex art. 710 c.p.c. e non necessitano di alcuna forma di omologazione, è interessante soffermarsi brevemente sulle distinte prese di posizione della decisione relativamente a varie questioni connesse all’applicazione dell’art. 2645-ter c.c.

 

(a) Sulla forma:

 

(b) Sull’ammissibilità del soddisfacimento dell’obbligo di mantenimento della prole mediante una prestazione una tantum o mediante un trasferimento immobiliare:

Ragionamento, questo, assolutamente condivisibile (tanto più che è tratto dai miei scritti…). Peccato che però, nel caso di specie, non si discutesse di una translatio dominii in favore della prole, ma della madre…

 

(c) Sulla meritevolezza degli interessi perseguiti:

Al riguardo si citano svariate decisioni di legittimità, tra cui le seguenti:

Da notare che la giurisprudenza richiamata concerne sempre ipotesi di trasferimento di diritti su immobili alla prole. In ogni caso, effettuata la necessaria «correzione di tiro», io non contesto nel modo più assoluto che sia contrario all’interesse della prole anche il trasferimento in favore del solo altro genitore, purchè – quando si vuole fare assolvere a tale trasferimento la funzione di sostituzione dell’assegno per la prole – siano apposti vincoli del genere di quelli individuati dal tribunale nella sentenza in esame.

 

In altre parole l’art. 2645-ter c.c. consente una nuova categoria di trasferimenti: quelli in favore del coniuge o ex tale (cioè dell’altro genitore), ma nell’interesse della prole, quale contributo al mantenimento della prole stessa (minorenne o maggiorenne ma non autosufficiente), laddove sino ad ora la giurisprudenza si era occupata di atti traslativi in funzione di contributo al mantenimento della prole, ma disposti in favore della prole medesima.

 

(d) Sulla causa:

 

Abbracciata, dunque, la tesi dello scrivente sulla causa tipica dei contratti della crisi coniugale, la decisione passa a constatare che la predetta impostazione risulta condivisa da recenti prese di posizione della Corte Suprema:

 

(e) Sull’interesse della prole:

 

(f) Sulla garanzia rispetto agli atti di esecuzione (con confronto rispetto al fondo patrimoniale):

 

(g) Sulla ulteriore garanzia, rappresentata dal vincolo di non alienabilità (ma non era superfluo, alla luce dell’opponibilità verso i terzi subacquirenti del vincolo di destinazione, legata alla trascrizione di tale ultimo vincolo???):

 

 

20. I rimedi all’inadempimento nella proposta di regolamento U.E. in materia di obbligazioni alimentari del 15 dicembre 2005.

 

Venendo ora a trattare brevemente delle questioni poste dal contenzioso transfrontaliero nell’ambito dei Paesi dell’U.E. in tema di mantenimento e facendo rinvio, per una presentazione del tema, ad un’altra trattazione dello scrivente (cfr. OBERTO, Aspetti del contenzioso tra coniugi e conviventi nell’ambito dei Paesi membri  dell’Unione Europea (relazioni personali e patrimoniali, esclusi i rapporti con la prole)), va detto che uno dei punti deboli dell’attuale disciplina, che rimette all’art. 5, paragrafo 2, del Regolamento (CE) n. 44/2001 la regolamentazione dei profili relativi alle cause in materia di alimenti (tra le quali sicuramente ricadono anche quelle di cui qui si discute), è costituito dall’assenza di strumenti processuali di garanzia nei confronti dell’inadempimento.  

 

Al riguardo pone rimedio la Proposta di Regolamento del Consiglio relativo alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni e alla cooperazione in materia di obbligazioni alimentari, presentata dalla Commissione il 15 dicembre 2005, assieme ad una Comunicazione della Commissione al Consiglio che invita il Consiglio ad assoggettare all’articolo 251 del trattato che istituisce la Comunità europea le misure adottate ai sensi dell’articolo 65 del trattato in materia di obbligazioni alimentari - COM(2005) 648 def. (sul tema v. anche il Comunicato stampa e MEMO/05/484).

 

A parte la disciplina della competenza giurisdizionale, del riconoscimento e dell’esecuzione delle relative sentenze, nonché la regolamentazione dei possibili conflitti tra norme di ordinamenti diversi, mediante individuazione del diritto applicabile, la proposta contiene alcune interessanti disposizioni in tema di assistenza giudiziaria.

 

Ai sensi dell’art. 29, infatti, «Il ricorrente che nello Stato membro d’origine ha beneficiato in tutto o in parte dell’assistenza giudiziaria o dell’esenzione dalle spese beneficia, nel procedimento d’esecuzione, dell’assistenza più favorevole o dell’esenzione più ampia prevista dal diritto dello Stato membro d’esecuzione».

 

Ai sensi dell’art. 34, «Su richiesta del creditore, l’autorità giurisdizionale d’origine può emettere un ordine di prelievo automatico mensile destinato, in un altro Stato membro, al datore di lavoro del debitore o all’istituto bancario nel quale il debitore è titolare di un conto». L’ordine di prelievo automatico mensile nello Stato membro destinatario ha la stessa esecutività della decisione, conformemente agli articoli 25 e 26.

 

Peraltro tale ordine può essere emesso soltanto se la decisione è stata notificata o comunicata al convenuto in uno dei modi previsti all’articolo 22. La domanda e l’ordine di prelievo automatico mensile devono essere conformi ai moduli di cui all’allegato III del regolamento.

 

L’ordine di prelievo automatico mensile è notificato dall’autorità giurisdizionale d’origine, con lettera raccomandata con ricevuta di ritorno:

a)    al datore di lavoro del debitore o a un istituto bancario presso il quale il debitore è titolare di un conto corrente, e

b)   entro cinque giorni al debitore, con la decisione dell’autorità giurisdizionale d’origine e la nota informativa conforme al modulo di cui all’allegato III bis del regolamento.

Non appena ricevuto l’ordine di prelievo mensile, il destinatario provvede al primo prelievo. Ove si trovi nell’impossibilità assoluta di effettuare tali prelievi, ne informa l’autorità giurisdizionale entro i 30 giorni seguenti la ricevuta di ritorno o l’ultimo prelievo.

Il debitore nei confronti del quale è emesso un ordine di prelievo automatico è tenuto a informare il creditore e l’autorità giurisdizionale di qualsiasi cambiamento di datore di lavoro o di conto bancario.

 

A norma dell’art. 35 il creditore può chiedere all’autorità giurisdizionale adita nel merito di emettere un ordine di sequestro temporaneo di un conto bancario destinato, in un altro Stato membro, all’istituto bancario nel quale il debitore è titolare di un conto bancario. La domanda e l’ordine di sequestro temporaneo di un conto bancario sono conformi ai moduli di cui all’allegato IV del regolamento.

L’autorità giurisdizionale si pronuncia entro otto giorni su domanda del creditore, senza preavvisare il debitore della presentazione di tale domanda e senza dargli la possibilità di essere ascoltato. Essa emette l’ordine di sequestro temporaneo quando ritiene che la domanda del creditore non sia manifestamente priva di fondamento e sussista un serio rischio di inadempimento da parte del debitore.

Un ordine di sequestro temporaneo:

a)           viene notificato dall’autorità giurisdizionale con lettera raccomandata con ricevuta di ritorno, all’istituto bancario nel quale il debitore è titolare di un conto corrente;

b)           ha come effetto, dal momento del ricevimento, di vietare qualsiasi movimento sul conto bancario che renda impossibile il pagamento, da parte del titolare, della somma stabilita nell’ordine di sequestro temporaneo.

Il creditore e il debitore vengono preavvisati dall’autorità giurisdizionale dell’emissione di un ordine di sequestro temporaneo con lettera raccomandata con ricevuta di ritorno, una volta che tale ordine abbia prodotto l’effetto descritto al paragrafo 3, lettera b).

Il debitore può chiedere la revoca dell’ordine di sequestro temporaneo all’autorità giurisdizionale che lo ha emesso; quest’ultima si pronuncia entro 8 giorni. L’autorità giurisdizionale può accogliere la domanda eventualmente imponendo al debitore la costituzione di una garanzia.

L’ordine di sequestro temporaneo cessa di produrre effetti non appena l’autorità giurisdizionale ordina la revoca o qualora non si sia pronunciata entro otto giorni, e comunque quando si pronuncia nel merito. L’ordine di sequestro temporaneo può altresì essere sostituito da un ordine di prelievo automatico mensile dal momento in cui venga emessa una decisione nel merito, se il creditore ne ha fatto domanda, ai sensi dell’articolo 34.

La decisione che pone fine all’ordine di sequestro temporaneo viene notificata dall’autorità giurisdizionale all’istituto bancario, con lettera raccomandata con ricevuta di ritorno.

 

Di grande interesse sono poi le disposizoni di cui agli artt. 44 ss. Ai sensi dell’art. 44, invero, «Le autorità centrali danno accesso alle informazioni che permettono di facilitare il recupero dei crediti alimentari alle condizioni previste nel presente capitolo. Tali informazioni sono fornite ai seguenti scopi:

a)   localizzare il debitore;

b)   stimare il patrimonio del debitore, in particolare l’importo e la natura del suo reddito;

c)   identificare il datore di lavoro del debitore;

d)   identificare i conti bancari di cui il debitore è titolare.

Le informazioni di cui al paragrafo 1 comprendono quanto meno quelle in possesso delle amministrazioni e autorità competenti, negli Stati membri, per i seguenti settori:

a)   imposte e tasse;

b)   previdenza sociale, compresa la riscossione dei contributi previdenziali dei datori di lavoro per lavoratori dipendenti,

c)   registri dell’anagrafe;

d)   registri di conservatoria;

e)   immatricolazione dei veicoli a motore;

f)     banche centrali.

L’accesso alle informazioni menzionate nel presente articolo non può comportare in nessun caso, la creazione di nuovi schedari in uno Stato membro».

 

Secondo l’art. 45 «Il creditore può rivolgersi all’autorità centrale richiedente dello Stato membro nel quale risiede abitualmente per il tramite dell’autorità giurisdizionale del luogo della residenza abituale, la quale trasmette la domanda se la ritiene conforme alle condizioni previste nel presente capo.

Un’autorità centrale presenta una richiesta di comunicazione di informazioni a un’altra autorità centrale per mezzo del modulo di cui all’allegato V del presente regolamento.

La richiesta di informazioni di cui all’articolo 44, paragrafo 1, lettera a) può essere presentata in qualsiasi momento. La richiesta di informazioni ai sensi dell’articolo 44, paragrafo 1, lettera b), c) e d) può essere presentata quando il creditore può produrre un estratto della decisione in forza dell’articolo 28, o un estratto dell’atto in forza dell’articolo 38, paragrafo 1.

Oltre al modulo di cui al paragrafo 1, l’autorità centrale richiesta può chiedere all’autorità centrale richiedente documenti complementari per conseguire uno degli obiettivi di cui all’articolo 44, paragrafo 1.

È prodotta una traduzione dei documenti complementari salvo che lo Stato membro richiesto vi rinunci. Gli Stati membri informano la Commissione, entro sei mesi dall’entrata in vigore del presente regolamento, della loro decisione di richiedere o meno traduzioni in forza del presente paragrafo.

La Commissione mette tali informazioni a disposizione del pubblico.

Ove la domanda di comunicazione di informazioni sia presentata su iniziativa di un creditore che ha ottenuto l’assistenza giudiziaria totale o parziale, la traduzione è effettuata dall’autorità richiedente senza spese per il creditore.

Le autorità richieste comunicano le informazioni alle autorità richiedenti. L’autorità richiesta che non sia in grado di fornire le informazioni richieste ne informa senza indugio l’autorità richiedente precisando le ragioni di tale impossibilità.

 

In merito al possibile uso delle informazioni raccolte, stabilisce poi l’art. 46 che «L’autorità centrale richiedente che riceve un’informazione la comunica senza indugio all’autorità giurisdizionale che le ha trasmesso la domanda, conformemente all’articolo 45, paragrafo 1. L’autorità centrale richiedente distrugge l’informazione dopo averla comunicata all’autorità giurisdizionale.

Le informazioni comunicate conformemente al presente regolamento possono essere usate soltanto da un’autorità giurisdizionale all’unico scopo di facilitare il recupero dei crediti alimentari. Tuttavia, un’autorità giurisdizionale può trasmettere le informazioni, senza comunicarle al creditore, alle autorità competenti per notificare o comunicare un atto giudiziario o stragiudiziario, e alle autorità competenti per provvedere all’esecuzione di una decisione. Le suddette autorità distruggono le informazioni dopo averle utilizzate.

Un’autorità giurisdizionale può conservare un’informazione comunicata conformemente al presente regolamento soltanto per il tempo che le occorre per agevolare il recupero di un credito alimentare. Il termine di conservazione non può essere superiore a un anno».

 

Ai sensi dell’art. 47 è poi prevista un’informazione da effettuarsi nei riguardi del debitore: «L’autorità centrale richiesta comunica al debitore:

a)   le informazioni che ha trasmesso e il modo in cui le ha ottenute;

b)   l’identità dei destinatari delle suddette informazioni;

c)   le condizioni alle quali tali informazioni possono essere usate in forza del presente regolamento;

d)   i diritti e i mezzi d’impugnazione di cui dispone il debitore conformemente alla legislazione interna adottata in applicazione della direttiva 95/46/CE ;

e)   gli estremi dell’autorità di controllo attuata in applicazione della direttiva 95/46/CE, sia nello Stato membro cui appartiene l’autorità centrale richiedente sia nello Stato membro cui appartiene l’autorità centrale richiesta, a meno che l’autorità centrale richiedente non abbia indicato, nella domanda di comunicazione presentata conformemente all’articolo 45, paragrafo 2, che tale comunicazione al debitore sarebbe tale da pregiudicare il recupero effettivo di un credito alimentare; nel qual caso, l’autorità centrale che riceve la domanda differisce la comunicazione al debitore per una durata massima di 60 giorni».

 

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