II

LA COMUNIONE DE RESIDUO

 

1. La comunione de residuo. Definizione e ratio dell’istituto. 1.1. Il termine comunione de residuo denota quella comunione meramente residuale e differita che viene a formarsi all’atto stesso dello scioglimento del regime legale a condizione che i beni che ne formano oggetto non siano stati consumati prima di tale momento (in generale sull’istituto v. Schlesinger 1977, 361 ss.; Id. 1992, 116 ss.; Barbiera 1996, 435 ss.; Auletta 1999, 98 ss.; Galasso-Tamburello, Regime patrimoniale della famiglia, I, COM. S.B., Bologna-Roma, 1999, 388 ss., 425 ss.; Russo 1999, 61 ss.; Rimini 2001, 53 ss; Cavallaro 2005, 109 ss.). 1.2. Per effetto dell’art. 177 lett. b) e c) c.c. cadono in comunione de residuo: (a) i frutti dei beni propri (si pensi ad esempio ai canoni di locazione corrisposti dall’inquilino di un alloggio  o al raccolto di un fondo rustico di proprietà di uno solo dei coniugi); (b) i proventi dell’attività separata di ciascuno dei coniugi (si pensi allo stipendio mensilmente percepito dal coniuge lavoratore dipendente, ovvero al reddito da lavoro autonomo). A tali fattispecie occorre poi aggiungere quelle descritte dall’art. 178 c.c. (v. infra sub § 48). 1.3. La dottrina suole individuare una duplice ratio dell’istituto: vale a dire, per ciò che attiene alle ipotesi qui in esame descritte dall’art. 177 lett. b) e c) quella di reperire un giusto equilibrio, un compromesso tra il principio solidaristico che dovrebbe informare la vita coniugale (art. 29 Cost.), da un lato, e la tutela della proprietà privata e della remunerazione del lavoro, dall’altro (artt. 35, 41, 42 Cost.) (v. per tutti Spitali 2002, 134 ss.; Cavallaro 2005, 114 ss.). Nel caso poi delle fattispecie prese in considerazione dall’art. 178 c.c. vengono in rilievo anche motivi di opportunità che hanno suggerito la soluzione di non coinvolgere il coniuge non imprenditore nella posizione di responsabilità illimitata dell’altro, e di garantire a quest’ultimo la piena libertà d’azione nell’esercizio della sua attività d’impresa. 1.4. In relazione al meccanismo di attuazione della comunione de residuo svariate critiche sono state mosse in dottrina, soprattutto avuto riguardo al fatto che sottrarre alla comunione immediata i proventi dell’attività personale di ciascuno dei coniugi significa togliere concretamente rilievo a quella che è la principale (e sovente esclusiva) fonte di reddito della famiglia media italiana, proprio quella verso cui sarebbe maggiormente rivolto il regime legale (sul tema v. per tutti Corsi 1979, 90 ss.). D’altra parte si è invece sostenuto che il tipo di comunione si giustificherebbe nell’ottica del contemperamento di istanze solidaristiche e individualistiche in cui si sostanzia la struttura del regime legale (Cavallaro 2005, 115 ss.).

 

2.  Natura della comunione de residuo durante la situazione di vigenza del regime legale; non surrogabilità dei relativi beni. 1.1. Non vi è dubbio che i beni in comunione de residuo non possano considerarsi comuni, almeno fin tanto che non è intervenuta una causa di scioglimento del regime legale. Più che di beni personali (ed anche per evitare confusioni con i beni elencati dall’art. 179 c.c.) occorrerà parlare in tal caso di beni «propri», di esclusiva titolarità del coniuge percettore. 1.2. L’impiego dell’aggettivo «propri» è anche suggerito dal particolare regime giuridico cui i medesimi sono sottoposti. Invero ad essi non è consentito applicare il fenomeno della surrogazione descritto nella lett. f) dell’art. 179 c.c. A tale conclusione perviene non solo la dottrina (sul punto v. per tutti Corsi 1979, 92; A.-M. Finocchiaro 1984, 1012, nota 49 bis; De Paola 1995, 456; Auletta 1999, 109; Russo 1999, 81 s.), ma anche la giurisprudenza di legittimità. 1.3. In effetti la Corte Suprema (cfr. Cass., 23 set. 1997/9355, CG, 1998, 68; GI, 1998, 876; FI, 1999, I, 1324; D FAM, 1999, I, 537) ha affermato che i beni acquistati con i proventi dell’attività separata di uno dei coniugi «entrano immediatamente e di pieno diritto a far parte della comunione, senza che vi sia possibilità di esclusione tramite la dichiarazione prevista dall’art. 179, lett. f), c.c., che trova applicazione unicamente in relazione all’acquisto effettuato con il prezzo del trasferimento dei beni personali, tassativamente elencati dal predetto art. 179 c.c.». Il caso di specie riguardava in particolare delle azioni societarie sottoscritte da uno dei coniugi acquistate con i proventi della sua attività lavorativa (da notare che la sentenza della corte di merito aveva invece considerato ammissibile la facoltà di surrogazione di cui si parla, ed aveva conseguentemente ritenuto che l’acquisto che si era verificato a favore dell’altro coniuge a seguito del suo mancato esercizio costituiva atto a titolo gratuito). 1.4. Si noti che la S.C. è però giunta alle conclusioni in oggetto, argomentando – oltre che dal presupposto condivisibile dell’inapplicabilità dell’art. 179, lett. f) – cit., dal fatto che (non solo i beni acquistati con i proventi, ma anche) i proventi dell’attività separata di ciascuno dei coniugi entrerebbero «di pieno diritto a far parte della comunione immediata»: conclusione, questa, inaccettabile e che è stata smentita dalla successiva Cass., 12 set. 2003/13441, GC, 2004, I, 2004, la quale ha operato sul punto una saggia correzione di tiro, in particolare ribadendo la differenza tra comunione immediata e comunione de residuo, nel senso che i beni oggetto di quest’ultima rimangono «propri» del coniuge titolare sino al momento dello scioglimento; momento nel quale entreranno a far parte di una situazione di contitolarità, che costituisce il presupposto della divisione in parti uguali.

 

3. Natura della comunione de residuo durante la situazione di vigenza del regime legale; aggredibilità dei relativi beni da parte dei creditori personali; ininfluenza del deposito in banca delle relative somme. 1.1. Se è vero che i beni in comunione de residuo sono e continuano ad essere propri sino al momento dello scioglimento, ne deriva che essi sono aggredibili alla stregua di beni personali da parte dei creditori personali del coniuge. Un esempio significativo è costituito da una sentenza di legittimità, riferita ad un bene in comunione de residuo ex art. 178 c.c., che la Corte ha ritenuto liberamente aggredibile per intero dai creditori personali del coniuge acquirente, i quali deducano e dimostrino che il bene medesimo, sebbene acquistato in costanza di regime legale, era stato effettivamente e concretamente destinato all’esercizio dell’impresa gestita dal solo coniuge acquirente e costituita dopo il matrimonio (cfr. Cass., 29 nov. 1986/7060; sull’appartenenza alla comunione de residuo di un immobile per il solo fatto obiettivo della sua destinazione ad attività di impresa gestita da uno solo dei coniugi cfr. anche Cass., 19 set. 2005/18456). 1.2. Ad analoghe conclusioni, sempre con riguardo a bene in comunione de residuo ex art. 178 c.c., è pervenuta una successiva decisione di legittimità, per cui «ai sensi dell’art. 178 cod. civ., in regime di comunione legale, tutti i beni che vengano acquistati da uno dei coniugi e siano destinati all’esercizio di un’impresa costituita dopo il matrimonio fanno parte della comunione medesima solo de residuo, cioè se e nei limiti in cui sussistano al momento del suo scioglimento. Da ciò consegue che i beni acquistati e destinati all’esercizio dell’impresa sono, prima dello scioglimento della comunione, aggredibili per intero dai creditori del coniuge acquirente» (Cass., 9 mar. 2000/2680; cfr. inoltre Cass. 21 mag. 1997/4533). 1.3. Deve pure ritenersi che il deposito in banca o l’accantonamento su conto corrente di somme di denaro in comunione de residuo non alterino la natura di queste ultime, secondo quanto appare del resto desumibile dall’analisi della giurisprudenza. Così mentre una remota decisione di merito ha affermato che «I redditi individuali, non consumati al momento dello scioglimento della comunione legale, vanno imputati alla cosiddetta comunione de residuo anche se costituiscono crediti verso terzi (come nel caso di depositi in banca o presso uffici postali)» (P Bari 6 feb. 1982, BBTC, 1983, 386), la stessa Cassazione ha riconosciuto che «l’accertamento che il danaro rinvenuto sul conto corrente intestato al marito costituiva provento dell’attività separata di ciascuno (o anche di uno solo) dei coniugi» è idoneo a rendere il danaro stesso oggetto della comunione «in via assoluta, ai sensi dell’art. 177 lett. c) dello stesso codice, senza che possa ammettersi una prova contraria a norma dell’ultima parte dell’art. 195 cod. civ., e di conseguenza deve essere ripartito in parti uguali al momento della divisione dei beni (art. 194, primo comma, cod. civ.) sia che provenga dall’attività di uno solo dei coniugi, sia che provenga dalle singole attività dei due coniugi, ancorchè in misura diversa per ciascuno di essi» (Cass., 22 feb. 1992/2182, su cui v. supra sub § 21).  

Il deposito in banca delle somme di denaro in comunione de residuo non ne altera la natura

 

 
 


4. Natura della comunione de residuo al momento dello scioglimento del regime legale. 1.1. Notevole incertezza sussiste poi relativamente alla natura giuridica della comunione de residuo al verificarsi di una causa di scioglimento del regime legale. Due tesi sembrano contendersi il campo. Da un lato, quella della formazione ex lege di una situazione di reale contitolarità circa i diritti in oggetto e, dall’altro, quella di una natura meramente «creditizia» delle pretese dei coniugi, che si risolverebbero in una mera partita di conto tra i valori delle due masse, con conseguente nascita di un diritto di credito da parte del coniuge più «povero» sulla differenza tra la metà del valore del patrimonio dell’altro, rilevante ex art. 177 lett. b) e c) nonché eventualmente 178 c.c., e la metà del proprio (valori calcolati, oltre tutto, una volta dedotti i rispettivi debiti personali: sul punto v. per i richiami alla dottrina nell’uno e nell’altro senso Parente, Struttura e natura della comunione residuale nel sistema del codice riformato, FI, 1990, I, 2333 ss.; Auletta 1999, 112 ss.; Rimini 2001, 68 ss.; Spitali 2002, 134 ss.). 1.2. Se la prima tesi ha il pregio di corrispondere maggiormente al tenore letterale della disposizione, che parla, per l’appunto, di «comunione», va detto che siffatta soluzione sembra presentare problemi quasi insolubili, quando si procede all’esame delle relative conseguenze pratiche. Basti pensare al fatto che oggetto della comunione de residuo sono non solo somme di denaro, ma anche beni, sia mobili che immobili (si ponga mente in particolare alle fattispecie riconducibili al disposto dell’art. 178 c.c.). In tal caso affermare l’automatico venire in essere di una situazione di contitolarità reale in capo a tali beni verrebbe a porre problemi insormontabili nei rapporti con i terzi, ai quali può sfuggire (ed anzi normalmente sfugge) l’esistenza di ragioni che determinano l’assoggettamento a comunione di beni a questa apparentemente sottratti; siffatta tesi verrebbe poi anche a porsi in contrasto con il principio secondo cui lo scioglimento della comunione legale dovrebbe attenuare i vincoli patrimoniali tra i coniugi, anziché incrementarli sul piano della contitolarità. 1.3. Per queste ragioni appare maggiormente convincente la tesi seguita in giurisprudenza da un ormai remoto precedente di merito (T Camerino 5 ago. 1988, FI, 1990, I, 2333), secondo cui «La comunione de residuo ha natura di mero diritto di credito e non attribuisce al coniuge non imprenditore alcuna automatica ragione nei confronti dei beni aziendali, essendo la sua posizione subordinata al previo soddisfacimento dei creditori dell’impresa» (nello stesso senso v. in dottrina per tutti Spitali 2002, 137 ss.). 1.4. La regola della parità delle quote in comunione de residuo, in quanto strettamente legata a quella principale della comunione immediata non pare suscettibile di deroga convenzionale, dovendosi applicare anche per tale profilo il disposto dell’art. 210 c.c. Le regole sull’amministrazione di quei rapporti potranno invece essere liberamente rimesse all’autonomia negoziale, in quanto è noto che i beni in comunione residuale, propri sino al momento dello scioglimento, possono essere liberamente amministrati (ed anzi, addirittura alienati o consumati) dal titolare, senza che al riguardo competa all’altro coniuge alcun tipo di controllo (sul tema v. Oberto, I contratti della crisi coniugale, Milano, 1999, I, 164 s.).

 

5. Oggetto della comunione de residuo. 1.1. Come si è già detto, per quanto attiene all’art. 177 c.c. l’oggetto della comunione de residuo è costituito dai frutti dei beni propri e dai proventi dell’attività separata di ciascuno dei coniugi. Per ciò che concerne la prima categoria si dovrà tenere presente che il richiamo al concetto di beni «propri» consente di riferire la disposizione tanto ai beni personali ex art. 179 c.c. che agli stessi beni in comunione de residuo. Ne consegue che cadranno in comunione de residuo anche i frutti dei beni appartenenti a tale tipo di comunione. 1.2. Per frutti dovranno intendersi tanto quelli naturali che quelli civili (artt. 820 s. c.c.). I primi potranno distinguersi in frutti organici e inorganici. Per frutti organici dovranno intendersi i prodotti e raccolti agricoli, parti degli animali (ma nel caso di mandria o di gregge andrà tenuto conto del disposto dell’art. 994, co. 1°, c.c.), alcune parti staccate di cose principali (si pensi alla legna tagliata dai boschi cedui). Frutti inorganici sono invece i prodotti delle miniere, cave e torbiere. 1.3. Venendo ai frutti civili, vale a dire al corrispettivo del godimento che altri ha della cosa principale, andranno menzionati gli interessi dei capitali, i canoni di locazione e gli affitti dei fondi rustici, oltre alle rendite vitalizie. 1.4. Tra i proventi dell’attività separata di ciascuno dei coniugi rientrano invece sicuramente non solo stipendi e salari da lavoro dipendente, ma anche i redditi da lavoro autonomo di artigiani, imprenditori, professionisti. Può dunque definirsi «provento» qualsiasi utilità o entrata che derivi dall’attività di lavoro svolta dal coniuge in qualunque forma, subordinata o autonoma, professionale od occasionale, compresi i diritti ed i redditi correlati all’esercizio del diritto patrimoniale d’autore, o di altre opere dell’ingegno. 1.5. Venendo ora a considerare il trattamento di fine rapporto, non vi è dubbio che, attesa la relativa natura di retribuzione differita, l’art. 177 lett. c) c.c. possa trovare applicazione con riferimento  a tutte le somme che a tale titolo siano state effettivamente percepite dal lavoratore manente communione (v. per tutti Gigliotti 1997, Trattamento di fine rapporto e regime patrimoniale della famiglia, D FAM, 1997, 723). Ne consegue che, come correttamente rilevato da parte della dottrina, l’indennità medesima si sottrae al disposto dell’art. cit. sino al momento dell’effettiva percezione da parte del coniuge lavoratore (De Paola 1995, 463); nulla è pertanto dovuto a tale titolo all’altro coniuge in caso di corresponsione dell’indennità in epoca precedente all’instaurazione, ovvero successiva alla cessazione del regime legale. 1.6. Alcuni autori, al contrario, sostengono la riconducibilità alla comunione de residuo dei crediti già maturati, pro parte, in costanza del rapporto di lavoro, sebbene non ancora esigibili (Gigliotti, op. cit., 722), con il paradossale risultato di costringere il coniuge lavoratore ad «anticipare» all’altro una quota, magari consistente, di un’indennità la cui percezione (oltre che incerta nello stesso an, visti i tempi che corrono!) potrebbe comunque essere ancora assai lontana nel tempo. 1.7. A ciò s’aggiunga che il concetto di «provento», ex art. 177, lett. c.) non sembra riferibile ad un credito non ancora esigibile, mentre lo stesso richiamo, nella norma citata, alla necessità che i beni non siano già stati consumati all’atto dello scioglimento sembra logicamente postulare che solo i proventi già esigibili vengano qui in considerazione (per tali rilievi cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale, II, Milano, 1999, 1050 s.). 1.8. Ad ogni buon conto, proprio l’incertezza sussistente su questo, così come su altri aspetti, ben potrebbe indurre i coniugi a concludere un’apposita convenzione avente ad oggetto la preventiva definizione di siffatti possibili aspetti di un’eventuale futura crisi coniugale, ivi compresi profili quali la determinazione della sorte di quelle attribuzioni la cui riconducibilità al concetto di indennità di fine rapporto appare dubbia: dalla «indennità di buonuscita» spettante ai dipendenti statali, all’indennità di fine servizio, alle indennità ex artt. 2118 e 2119 c.c. per mancato preavviso o giusta causa, alle eventuali anticipazioni effettuate ex art. 2120, 6° – ult. co., c.c., agli incentivi per l’anticipato collocamento in quiescenza (così Oberto, I contratti della crisi coniugale, loc. ult. cit.). 1.9. Rimane invece comunque esclusa la possibilità di concludere accordi con efficacia post mortem circa le indennità ex artt. 2128 e 2120 c.c., che sono sottratte per legge al patrimonio del defunto ed attribuite iure proprio ai soggetti indicati dalla legge (cfr. art. 2122 c.c.), con conseguente inapplicabilità della disciplina della comunione de residuo, atteso che «il diritto alle indennità in oggetto matura alla morte del lavoratore, quando la comunione legale, sciogliendosi, cessa di produrre i suoi effetti» (cfr. A Napoli, 23 mar. 1984, C.E.D.-Corte di cassazione, Arch. MERITO, PD. 850327). 1.10. Per ciò che attiene infine alle categorie di beni riconducibili alla disposizione in commento potrà ricordarsi che per Cass., 8 mag. 1996/4273 «In regime di comunione legale fra coniugi, i beni che possono formare oggetto della comunione de residuo, che si forma ai sensi dell’art. 177 comma primo lett. b) e c) all’atto dello scioglimento della comunione stessa sui frutti non consumati dei beni propri e sui proventi della attività separata, possono consistere esclusivamente in beni mobili o in diritti di credito verso terzi, con esclusione, pertanto, degli immobili».   

 

6. Il problema dell’onere della prova nella comunione de residuo. 1.1. In relazione al requisito della non consumazione dei beni in comunione de residuo all’atto dello scioglimento del regime legale, vanno sottolineate le evidenti difficoltà probatorie cui va incontro il coniuge creditore, su cui, come attore, ricade, in base agli ordinari criteri fissati dall’art. 2697 c.c., l’onere di dimostrare non solo la percezione da parte dell’altro di frutti e proventi, bensì anche quello di provare che tali somme erano ancora nel patrimonio del percipiente al momento della cessazione della comunione. In tema la Corte Suprema è intervenuta alcune volte. 1.2. Con una prima decisione (Cass., 10 ott. 1996/8865, CG, 1997, 36) essa ha stabilito che «Nella comunione de residuo, di cui all’art. 177 comma 1, lett. c) c.c., provata attraverso consulenza tecnica l’esistenza di redditi, grava sul titolare dell’attività l’onere di provare che essi sono stati consumati o per il soddisfacimento di bisogni della famiglia o per investimenti caduti in comunione». Analoga ratio decidendi si rinviene con riferimento alla successiva Cass., 17 nov. 2000/14897, in relazione ad alcune somme depositate su un conto corrente cointestato, ritirate prima della separazione e asseritamente utilizzate per l’attività d’impresa del coniuge prelevante. 1.3. Venendo alle valutazioni di siffatte argomentazioni, non vi è dubbio che la Cassazione abbia in tal modo compiuto un encomiabile sforzo per «venire incontro» alle esigenze del coniuge del soggetto percettore delle utilità in discorso, soggetto alla necessità di fornire una probatio quasi diabolica. Sotto questo profilo l’analisi della decisione del 1996 evidenzia un sostanziale (ancorchè non dichiaratamente esplicitato) ricorso allo strumento della praesumptio hominis, nel momento in cui si dichiara che «In tal modo si è venuto a spostare il criterio distri­butivo dell’onere della prova, di cui all’art. 2697 c.c., perché, una volta provata l’esistenza di cospi­cui, notevoli redditi tratti dall’impresa, sia pure attraverso una consulenza tecnica, doveva ritenersi assolto l’onere probatorio incombente sulla richie­dente, sicché, l’inesistenza in concreto di apprezza­bili disponibilità liquide all’atto dello scioglimento della comunione non poteva non ricadere su chi negava che gli accertati redditi fossero rimasti tali». 1.4. In altri termini, appare più che ragionevole fondare su di una massima di comune esperienza il principio secondo cui (salvo prova contraria) i proventi, specie se cospicui, di una certa attività, una volta concretamente accertati, si ritengano ancora esistenti (o perché accantonati, o perché reinvestiti) all’atto dello scioglimento del regime, ponendosi l’evento della consumazione o comunque della perdita dei medesimi come eccezionale. 1.5. Il terreno su cui appare difficile invece seguire il ragionamento della Cassazione è costituito quell’idea per cui la prova liberatoria dovrebbe necessariamente consistere nel fatto che tali beni «sono stati consumati o per il soddisfacimento dei bisogni della famiglia o per investimenti già caduti in comunione». 1.6. Per la verità, questa idea di «coniuge virtuoso», tutto «casa e lavoro» (si badi: neppure «tutto casa e Chiesa», posto che in tale situazione l’adempimento del precetto evangelico quod superest date pauperibus non potrebbe rientrare nell’alternativa secca posta dalla Cassazione) appare estranea al vigente sistema normativo. Ai sensi delle norme qui in commento, infatti, l’esistenza di un diritto ex communione de residuo è legato al solo fatto che determinate utilità siano ancora presenti nel patrimonio di uno dei coniugi, a prescindere nella maniera più assoluta dalle ragioni che ne abbiano determinato la «sparizione», anche solo un momento prima del verificarsi di uno degli eventi descritti dall’art. 191 c.c.

 

7. Amministrazione dei beni della comunione de residuo e (inesistenza di) poteri dell’altro coniuge. 1.1. Per ciò che attiene all’amministrazione dei beni in comunione de residuo appare necessario il riferimento al parametro espresso dall’art. 217 c.c. in relazione ai beni dei coniugi in regime di separazione; disposizione, questa, riferibile anche ai beni personali in regime di comunione (sul tema v. per tutti Oberto 2005, 131 s.). Come rilevato da una sentenza di merito (cfr. T Trani 12 mag. 1997, D FAM, 1998, 1472), in relazione ai beni oggetto di comunione de residuo, «siccome non ancora individuati e dei quali non è certa la loro stessa venuta ad esistenza, il coniuge non titolare non vanta alcun potere di disposizione o di amministrazione, né gli è riconosciuto il diritto al rendiconto. Si è affermato, infatti, che i beni in comunione de residuo, e ‘per eccellenza le somme di denaro’, costituiscono una categoria a sé stante, giacché ‘ad essi non sarà mai applicabile la disciplina propria dell’amministrazione dei beni della comunione (art. 180 c.c.): non esistendo, invero, una comunione, all’amministrazione di tali beni si applicheranno le norme di cui ai commi 2, 3 e 4 dell’art. 217». 1.2. E’ noto che, secondo l’opinione espressa un tempo da autorevole dottrina (Schlesinger 1977, 381 ss.) al coniuge non titolare dei beni destinati alla comunione de residuo sarebbe spettato manente communione un potere di «informazione e di controllo sui redditi dell’altro». Siffatta tesi è però stata vivacemente criticata (v. in particolare A.-M. Finocchiaro 1984, 932 ss.; Giusti, L’amministrazione dei beni della comunione legale, Milano, 1989, 34, nota 13), sottolineandosi che nessun dato normativo – al di là dell’obbligo generico gravante su tutti i coniugi di contribuire ai bisogni della famiglia ex art. 143 u.c. c.c. – giustifica limiti alla incondizionata libertà di ciascun coniuge di disporre a proprio piacimento dei risparmi individuali, una volta assolti i predetti obblighi di contribuzione. 1.3. Peraltro lo stesso sostenitore della tesi favorevole ad un «sindacato di controllo» esercitabile dall’altro coniuge ha successivamente mutato avviso (cfr. Schlesinger 1992, 116 s.), concludendo nel senso che «i redditi individuali sono destinati: (a) o agli investimenti, che cadono in comunione secondo la regola (…) codificata dalla lettera a dell’art. 177; (b) o ai consumi, insuscettibili di controllo reciproco, restando nella esclusiva, anche capricciosa, discrezionalità del titolare; (c) o ai risparmi, che viceversa, al momento del verificarsi di una causa di scioglimento della comunione, diventano automaticamente oggetto di un diritto dell’altro coniuge» (sull’inesistenza di poteri di controllo da parte del coniuge cfr. anche T Trani, 12 mag. 1997, D FAM, 1998, 1472; in dottrina v., anche per i richiami, Russo 1999, 62 ss.; Spitali 2002, 143 ss.). 1.4. La disputa sembrava sopita, allorquando un’improvvida decisione di legittimità (Cass., 12 set. 2003/13441) sembra esser venuta ad operare un rimescolamento di carte. La sentenza, pur affermando, correttamente, che «L’art. 177 lett. c) del codice civile esclude dalla comunione legale tra coniugi i proventi dell’attività separata svolta da ciascuno di essi e consumati in epoca precedente allo scioglimento della comunione», contiene poi in motivazione un obiter, nel quale vengono elencati i seguenti strumenti a tutela della posizione del coniuge del percettore dei proventi in discorso: (a) la separazione giudiziale dei beni ex art. 193 c.c.; (b) l’azione revocatoria; (c) l’azione surrogatoria; (d) la domanda di risarcimento dei danni; (e) «in via di estremo subordine (…) il principio di buona fede ed il divieto dell’abuso del diritto, fermo l’obbligo per il coniuge ‘dissipatore’ di rendere il conto delle sue entrate e di come sono state spese». 1.5. Sul punto potrà rimarcarsi criticamente che, per quanto attiene al rimedio sub (a) esso è concesso a tutela contro la mala gestio del patrimonio in comunione immediata, mentre i proventi in comunione de residuo sono e rimangono, fino al momento dello scioglimento, di esclusiva titolarità del percettore, il quale può pertanto esercitare il diritto dominicale di disporre di siffatte utilità a suo esclusivo piacimento. Per ciò che attiene al rimedio sub (b) sarà appena il caso di rilevare come l’azione surrogatoria presupponga l’inerzia del titolare di un diritto nel suo esercizio verso terzi, laddove qui si discute di comportamenti che, tutto al contrario, manifestano l’esercizio del diritto dominicale. Venendo al rimedio sub (c) andrà rimarcato che il medesimo è concesso al creditore, laddove nel caso di specie il coniuge non ha ancora tale veste, essendo oltretutto l’oggetto di siffatto preteso credito ancora da determinarsi, dal momento che il regime non è ancora cessato. Ogni domanda risarcitoria – e qui si viene al punto (d) – poi, è destinata ad infrangersi contro la considerazione per cui qui iure suo utitur neminem laedit e lo stesso vale in relazione ai supposti rimedi indicati sub (e) (in dottrina, per una serie di osservazioni critiche ai rimedi di cui sopra, così come proposti da una parte della dottrina, il cui avviso è stato recepito dalla decisione qui citata, v. anche Cavallaro 2005, 119 ss.). 1.6. Assai più saggiamente la successiva Cass., 16 lug. 2004/13164 si è limitata a ribadire che «i frutti dei beni di ciascun coniuge ed i proventi dell’attività separata di ciascuno di essi cadono in comunione nei soli limiti in cui essi non siano stati consumati al momento del suo scioglimento», con la conseguenza che nessuna pretesa può vantare un coniuge sulle somme attinte dall’altro dai proventi della sua attività artigianale e consumate in costanza del regime di comunione legale. 1.7. Forme di tutela del coniuge potranno invece essere individuate in presenza di atti (donazioni o contratti di mutuo), con i quali il soggetto determini simulatamente la fuoriuscita dal proprio patrimonio di somme di denaro destinate alla comunione de residuo. In tal caso al coniuge leso potrà essere riconosciuta la posizione di terzo (avente causa), al quale l’ordinamento tutela l’interesse a far rilevare la realtà sull’apparenza, con quanto ne consegue per ciò che attiene alle agevolazioni sul piano probatorio (art. 1417 c.c.: Auletta 1999, 102). Il rimedio dell’inefficacia/invalidità non appare invece praticabile nel caso in cui l’atto sia stato posto in essere «realmente», anche se con l’esclusivo intento di ledere la posizione del coniuge (Cavallaro 2005, 127). 1.8. Una questione in qualche modo connessa a quella qui esaminata riguarda la capacità a testimoniare del coniuge del titolare del diritto destinato a ricadere in comunione de residuo. Al riguardo la Cassazione (Cass., 5 mar. 2004/4532) ha stabilito che «Il coniuge in regime di comunione legale non è incapace a testimoniare nelle controversie in cui sia parte l’altro coniuge, ove esse abbiano ad oggetto crediti derivanti dall’esercizio dell’impresa di cui sia titolare esclusivo l’altro coniuge, in quanto essi diventano comuni solo al momento dello scioglimento della comunione e nei limiti in cui ancora sussistano, non essendo egli in questo caso titolare di un interesse che ne legittimi la partecipazione al giudizio; in questo caso, il giudice non può escludere a priori l’attendibilità della testimonianza in considerazione del rapporto di coniugio, ma deve far riferimento ad ulteriori elementi».

 

8. Rapporti con i creditori personali nella comunione de residuo. 1.1. Si è rilevato in dottrina (Corsi 1979, 94 s.) che un grave problema posto dalla comunione de residuo è quello della posizione dei creditori personali al momento della cessazione del regime. Questi infatti vedono cadere in comunione gli stessi mezzi di pagamento che, fino a ieri, costituivano la loro (benché mobile e fluttuante) garanzia. Con la conseguenza che, da un giorno all’altro, essi si trovano nella condizione di potersi soddisfare su quegli stessi mezzi, soltanto in via sussidiaria fino a concorrenza della quota del coniuge obbligato e, se chirografari, con postergazione rispetto ai creditori della comunione. 1.2. Per rimediare a questo stato di cose si è proposto, argomentando dall’art. 228 della legge di riforma del 1975 (che consentiva transitoriamente l’assoggettamento volontario al regime di comunione dei beni acquistati in costanza di matrimonio da uno dei coniugi prima dell’entrata in vigore della riforma stessa, fatti però «salvi i diritti dei terzi»), di «aprire il conto» in sede di determinazione dell’ammontare della comunione de residuo anche ai debiti personali, ossia intendere frutti e proventi «non consumati», al netto delle passività (Corsi 1979, 94 s.). 1.3. In tal senso pare orientata anche la giurisprudenza. Così P Bari 6 feb. 1987, GI, 1983, 8 ha stabilito che «Con il verificarsi di una delle cause di scioglimento della comunione legale, si opera, per i redditi individuali non consumati, un automatico trasferimento a favore della comunione de residuo, anche se detti redditi si sostanziano in crediti verso i terzi. Al momento dello scioglimento della comunione legale per morte di uno dei coniugi, il coniuge superstite non ha diritto a pretendere la metà della somma di denaro depositata dall’altro coniuge su un conto corrente postale, perché ciò potrebbe pregiudicare le legittime pretese dei terzi creditori del coniuge defunto». 1.4. Ancora più esplicitamente la Cassazione ha deciso che «In regime di comunione legale tra coniugi, il fallimento di uno di essi determina la comunione de residuo sui beni destinati post nuptias all’esercizio dell’impresa solo rispetto ai beni residui a seguito della chiusura della procedura» (Cass., 9 mar. 2000/2680).

 

9. Azienda e impresa coniugale (art. 177 lett. d) e cpv.; art. 178 c.c.). 1.1. A notevoli incertezze dà luogo, infine, il fenomeno delle aziende e delle imprese coniugali, disciplinato dagli artt. 177, lett. d) e cpv., 178 c.c. (per un’approfondita analisi in proposito e per i necessari rinvii v. Auletta 1999, 116 ss.; Gorassini 2002, 217 ss.). Sinteticamente potrà rilevarsi innanzi tutto come una prima distinzione vada compiuta tra aziende gestite (rectius: relative ad imprese gestite) da entrambi ovvero da uno solo dei coniugi. Mentre il primo caso rientra nel disposto dell’art. 177 c.c. (vuoi lett. d), vuoi cpv.), il secondo è disciplinato dall’art. 178 c.c. 1.2. Dunque la distinzione tra comunione immediata e comunione de residuo si fonda sul criterio della gestione: se comune, avremo una situazione di comunione immediata, se individuale, si dovrà riconoscere la presenza di una comunione de residuo. 1.3. Passando dal piano del tipo di comunione a quello dell’oggetto, va notato che la legge tiene anche in considerazione il profilo del momento in cui l’azienda è stata costituita. Se questo momento precede il matrimonio (rectius: l’entrata in vigore del regime legale per quella coppia), allora oggetto della comunione (vuoi immediata, vuoi residuale, a seconda dei casi sopra esaminati) sarà l’intero complesso aziendale (si noti in proposito che per azienda, con buona pace dei sostenitori della natura solo reale dei diritti in comunione, deve intendersi un complesso non solo di beni, ma di rapporti giuridici). In caso contrario la comunione (immediata o de residuo a seconda dei casi) interesserà solo gli utili e gli incrementi (rectius: utili ed incrementi, ex art. 177 cpv. c.c. e i soli incrementi ex art. 178 c.c.; nel senso peraltro che anche gli utili sarebbero rilevanti ai sensi di tale ultima norma v. per tutti Auletta 1999, 136). 1.4. Alcune actiones finium regundorum s’impongono rispetto ad altri istituti giuridici. Per ciò che attiene ai rapporti con l’impresa familiare si è rilevato in giurisprudenza (Cass., 18 dic. 1992/13390) che «In relazione al disposto dell’art. 230 bis cod. civ., l’ipotesi di impresa familiare realizzata mediante la partecipazione del coniuge all’attività aziendale si differenzia dalla fattispecie dell’azienda coniugale prevista dall’art. 177 lett. d) cod. civ., in cui la collaborazione dei coniugi si attua con la gestione comune dell’impresa». 1.5. Sulla distinzione tra mera partecipazione del coniuge all’attività aziendale e gestione comune dell’impresa si fonda pure la dottrina, la quale sottolinea che per aversi impresa coniugale ex art. 177 lett. d) e 177 cpv. c.c. occorre che ambedue i coniugi provvedano ad organizzare l’azienda impiegata, alla direzione dell’attività, alla stipula di atti a proprio nome e quindi a proprio rischio (Auletta 1999, 136 s., il quale rileva anche che la gestione esterna può peraltro essere delegata ad un solo coniuge). In questo caso è comunemente riconosciuto che la caduta in comunione dell’azienda in virtù della  cogestione presuppone l’assunzione da parte di ciascun coniuge della direzione dell’impresa e dunque della qualifica di imprenditore (così, per tutti, Auletta 1999, 129 ss.; contra Russo 1999, 424 ss.). 1.6. Altro punto fonte di notevoli incertezze è dato dai rapporti tra disciplina dell’azienda coniugale e società di fatto (sul tema v. per tutti Auletta 1999, 138 ss.). L’interrogativo riguarda l’amministrazione dei beni comuni e la responsabilità debitoria dei coniugi, ma può avere dei riflessi anche sull’oggetto della comunione. In dottrina vi è infatti un primo gruppo di autori che sostiene l’incompatibilità assoluta tra amministrazione dei beni in comunione legale come delegata ad un soggetto autonomo quale la società e permanenza dei medesimi beni nell’ambito del regime legale. Pertanto i coniugi che intendessero costituire una società di persone mediante apporto di beni sottoposti al regime legale dovrebbero provvedere preventivamente ad escluderli dalla comunione od optare per il regime di separazione (per i richiami v. Auletta 1999, 140 ss.). 1.7. In proposito si è però obiettato che, anche se si ritengono applicabili all’azienda coniugale le norme sull’amministrazione della comunione legale (cfr. art. 210 c.c.), non può dirsi che le norme sull’amministrazione delle società di persone si pongano in contrasto con i principi fondamentali in tema di amministrazione della comunione (Auletta 1999, 142, il quale sottolinea che la regola dell’agire congiunto prevista dall’art. 180 c.c. può trovare attuazione anche per le società, introducendo un’apposita clausola nell’atto costitutivo). 1.8. Un altro punto delicato riguarda i rapporti tra le fattispecie descritte dall’art. 178 c.c., da un lato e 179 lett. d) c.c., dall’altro. Qui l’opinione prevalente propende per riferire tale ultima disposizione ai soli beni attinenti all’esercizio di professione intellettuale (in questo senso v. per es.  Cass., 29 nov. 1986/7060; nello stesso senso v. anche, più di recente, Cass., 19 set. 2005/18456). In proposito, il fatto che l’azienda gestita da uno solo coniuge, a differenza dei beni destinati all’esercizio della professione, non sia personale, ma in comunione de residuo, viene giustificato con il tendenziale maggior valore dei beni d’impresa rispetto a quelli occorrenti per l’esercizio della professione o con la funzione strumentale esplicata da questi ultimi nell’ambito dell’attività lavorativa, tenuto altresì conto dell’attitudine dell’attività di impresa ad attrarre risorse (Auletta 1999, 120 s.). 1.9. In relazione a tale profilo, per ciò che attiene al tema della «destinazione» di uno o più beni a far parte di un’azienda gestita da uno solo dei coniugi, ex art. 178 c.c., si è posto il problema delle formalità attraverso le quali tale destinazione possa essere fatta risultare verso i terzi, suggerendosi da parte di taluno il ricorso al disposto dell’art. 179 cpv. c.c. (per i richiami v. Auletta 1999, 125 s.). La soluzione è stata peraltro rigettata dalla giurisprudenza di legittimità, per cui non è necessaria alcuna formalità, in quanto l’unico elemento rilevante per determinare la titolarità dell’azienda è quello dell’effettiva utilizzazione del bene nell’attività separata d’impresa (Cass., 29 nov. 1986/7060, cit.; Cass., 21 mag. 1997/4533; Cass., 19 set. 2005/18456, cit.; sul tema v. anche infra, sub art. 179). 1.10. Altra questione attiene infine alle possibili incidenze di mutamenti relativi alle persone che utilizzano i relativi beni, dovendosi prendere, in particolare, in considerazione l’ipotesi in cui un soggetto abbia iniziato ovvero cessato l’uso durante il periodo di vigenza del regime legale. Tra le varie tesi prospettate al riguardo quella secondo cui la titolarità dell’azienda può mutare più volte a seconda dell’utilizzazione effettiva che di volta in volta se ne faccia sembra la più aderente al testo della legge. Possibili alternative sono quella dell’esclusivo rilievo del momento iniziale dell’acquisto del bene o della costituzione dell’azienda, con conseguente irrilevanza di possibili mutamenti successivi, ovvero quella dell’esclusivo rilievo dei soli mutamenti che vadano a vantaggio della comunione (sul tema v. per tutti Auletta 1999, 132 ss.).

 

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