Giacomo Oberto

LEZIONI SUL PATTO DI FAMIGLIA

 

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Sommario articolo per articolo:

 

768-bis

768-ter

768-quater

768-quinquies

768-sexies

768-septies

768-octies

 

 

Capo V-bis (1)

Del patto di famiglia

 

(1) Capo (da art. 768-bis ad art. 768-octies) inserito dalla Legge 14 febbraio 2006, n. 55.

768-bis

Nozione.È patto di famiglia il contratto con cui, compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa familiare e nel rispetto delle differenti tipologie societarie, l’imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, l’azienda, e il titolare di partecipazioni societarie trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote, ad uno o più discendenti.

Sommario: 1. Generalità. Ratio dell’istituto. — 2. Rapporti con il principio dell’autonomia privata. — 3. Immediata efficacia traslativa del patto. Esclusione della riferibilità al contratto a favore di terzi. — 4. Rapporti con la donazione. Conseguenze in tema di comunione legale tra coniugi. — 5. Natura del patto di famiglia. — 6. Rapporti con il divieto dei patti successori. — 7. I soggetti dei trasferimenti: il disponente e la questione della sua qualità di imprenditore. — 8. I soggetti dei trasferimenti: discendenti e ascendenti. — 9. Oggetto dell’attribuzione del disponente. Il trasferimento dell’azienda. — 10. Oggetto dell’attribuzione del disponente. Il trasferimento delle partecipazioni societarie. — 11. Costituzionalità della limitazione all’azienda e alle partecipazioni societarie. Il caso della divisio inter liberos coinvolgente altri beni.

 

1 Generalità. Ratio dell’istituto. 1.1. L’istituto del patto di famiglia è stato introdotto nel tessuto del codice per effetto della 1. 14 feb. 2006/55, mediante la quale il legislatore ha provveduto ad inserire, quale sede, appunto, della nuova disciplina, un nuovo Capo, identificato come il V-bis, (contenente gli articoli da 768-bis a 768-octies c.c.), anziché il VI; la giustificazione di questa apparente anomalia è fornita in Oberto 2006, 19, nt. 32, ove si pone in luce che la scelta di introdurre un capo numerato come V-bis (e non VI) all’interno di un titolo (il IV) del libro secondo del c.c., che di capi ne conta solo cinque, sebbene contraria ad ogni logica apparente, sembra rispondere ai criteri di tecnica legislativa contenuti nella Circolare del Presidente del Senato in data 20 aprile 2001, dal titolo «Regole e raccomandazioni per la formulazione tecnica dei testi legislativi». La predetta novella ha altresì modificato l’art. 458, all’inizio del cui primo periodo figurano ora le seguenti parole: «Fatto salvo quanto disposto dagli articoli 768-bis e seguenti». 1.2. L’intento perseguito dal legislatore appare volto a favorire il passaggio generazionale dei beni aziendali tramite uno strumento il più possibile «blindato» contro possibili attacchi da parte di legittimari che dovessero ritenersi, una volta apertasi la successione del disponente, in qualche modo lesi da siffatte disposizioni. La ratio è dunque quella di preservare l’integrità e continuità dell’impresa nei passaggi generazionali, pur nell’ottica di una conciliazione di questo obiettivo con la tutela della posizione dei legittimari (Petrelli 2006, 40l ss.; Caccavale 2006, 32). 1.3. Il sostrato socio-economico da cui deriva la cennata esigenza è quello di un sistema capitalistico, qual è il nostro, caratterizzato dalla diffusione in numero assai elevato di imprese di piccole e medie dimensioni: imprese rispetto a cui si staglia la figura del «fondatore», quale soggetto che avverte inevitabilmente, ad un certo punto, la necessità di selezionare tra i propri discendenti il più dotato di attitudini imprenditoriali per investirlo della leadership nella gestione dei beni produttivi (Delle Monache 2009, 739). 1.4. La lettura del resoconto della 552a seduta della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati (26 gennaio 2006) consente di desumere che «le iniziative in titolo intervengono sulla materia del patti successori che il vigente articolo 458 del codice civile vieta»; più oltre il medesimo relatore osserva che «gli articolati in discussione propongono di conciliare il diritto dei legittimari – che non è in alcun modo posto in discussione – con la giusta esigenza di assicurare continuità all’impresa, in linea con il mutamento dei bisogni della società che richiedono un parziale superamento del divieto d[e]i patti successori». Sempre ad avviso del relatore, le disposizioni in esame assicurano «in modo adeguato la tutela dei diritti dei legittimari che (…) sono chiamati a partecipare all’atto dispositivo dell’impresa ricevendo dal beneficiario della stessa adeguato ristoro patrimoniale». 1.5. Qualche indicazione ulteriore proviene dalla lettura delle relazioni che accompagnavano due delle proposte di legge poi confluite nel testo, successivamente rimaneggiato e definitivamente approvato in tema di patto di famiglia, vale a dire il disegno di legge S/1353/XIV («Nuove norme in materia di patti successori relativi all’impresa»), comunicato alla Presidenza del Senato il 23 aprile 2002 e il disegno di legge C/3870/XIV («Introduzione dell’articolo 734-bis del codice civile, in materia di patti successori d’impresa»), presentato l’8 aprile 2003 alla Camera dei Deputati. 1.6. Le relazioni, dopo avere evocato il principio ex art. 458 c.c., affermano che «va diffondendosi sempre più, sia nel mondo accademico, sia in quello delle professioni, sia nella pubblica opinione, la convinzione della necessità, se non di annullare tali divieti, quanto meno di ridimensionarli, ammettendone deroghe sempre più ampie; infatti la rigidità del nostro ordinamento in materia contrasta non solo con il fondamentale diritto all’esercizio dell’autonomia privata, riconosciuto e tutelato in via generale dal codice civile e, ancor più, dalla Costituzione, ma altresì con la necessità di garantire la dinamicità degli istituti collegati all’attività di impresa, assicurando la massima commerciabilità dei beni nei quali si traduce giuridicamente l’attività stessa: l’azienda, nella quale si realizza l’impresa individuale, e le partecipazioni sociali nelle quali si concretizza l’impresa collettiva, quella svolta cioè in forma societaria» (v. la relazione al disegno di legge S/1353/XIV). 1.7. Per la dottrina che, in epoca precedente alla novella del 2006, aveva iniziato ad interrogarsi su un possibile superamento del divieto dei patti successori, cfr. Lenzi, Il problema dei patti successori tra diritto vigente e prospettive di riforma, R NOT, 1989, 1209 ss.; Rescigno, Trasmissione della ricchezza e divieto dei patti successori, V NOT, 1993, 1281 ss.; Id., Attualità e destino dei patti successori, in Aa.Vv., La trasmissione familiare della ricchezza. Limiti e prospettive di riforma del sistema successorio, Padova, 1995, 1 ss.; Caccavale e Tassinari, Il divieto dei patti successori tra diritto positivo e prospettive di riforma, RDP, 1997, 74 ss.; Roppo, Per una riforma del divieto dei patti successori, RDP, 1997, 5 ss.; Ieva 1997, 1371 ss.; Dogliotti, Rapporti patrimoniali tra coniugi e patti successori, FD, 1998, 293 ss.; Zoppini 2000, 1265 ss. Giudica «inevitabile alla luce del quadro europeo» l’abolizione del divieto dei patti successori anche S. Patti, Regime patrimoniale della famiglia e autonomia privata, F, 2002, 312. Per uno studio comparatistico del divieto dei patti successori cfr. Zoppini, Le successioni in diritto comparato, in Aa. Vv., Trattato di diritto comparato, a cura di Sacco, Torino, 2002, 155 ss. Per le riflessioni storiche sull’origine dell’istituto cfr. Oberto 2006, 18 ss. 1.8. La relazione al secondo dei disegni di legge citati (C/3870) ricorda inoltre che «analogo impulso riformatore proviene oggi dalla stessa Commissione europea, come risulta dalla comunicazione n. 98/C 93/02 relativa alla trasmissione delle piccole e medie imprese, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale delle Comunità europee n. C93 del 28 marzo 1998, in cui si rileva che ‘specialmente nel caso delle imprese familiari, gli accordi (interfamiliari) possono essere utilizzati per tramandare determinati criteri gestionali da una generazione all’altra’, così come peraltro già avviene ‘nella maggioranza degli Stati membri’. Ne consegue che ‘gli Stati membri che vietano i patti successori (Italia, Francia, Belgio, Spagna, Lussemburgo) dovrebbero provvedere a consentirli, dal momento che il predetto divieto complica inutilmente la buona gestione del patrimonio (familiare)’. Da qui, dunque, l’esigenza di consentire anche nel nostro Paese all’imprenditore di disporre in vita della propria azienda in favore di uno o più dei propri discendenti, purché con l’accordo dei rimanenti discendenti e dell’eventuale coniuge» (per la radicale riforma che ha successivamente interessato l’ordinamento francese in materia cfr. Fusaro 2009, 427 ss.). 1.9. Almeno due appaiono quindi essere le linee direttrici che conducono all’individuazione della ratio della novella: da un lato, l’interesse generale alla promozione dell’attività di impresa, e dall’altro quello privato di ciascun imprenditore all’autoregolamentazione del proprio assetto patrimoniale; peraltro, una certa preferenza sembra espressa dal legislatore verso la prima. Ciò non solo perché «nessuna gradazione assiologica sarebbe concepibile tra le diverse componenti del (…) patrimonio [del disponente]: beni produttivi e beni di mero godimento, mobili e immobili, materiali e immateriali» (Caccavale 2006b, 6), ma anche (e forse soprattutto) perché il patto di famiglia non pare comunque estensibile ad alcun tipo di bene che non sia costituito dall’universitas aziendale (o da un ramo di essa), ovvero da partecipazioni societarie. 1.10. Sul punto si è altresì rilevato in dottrina (Zoppini, Il patto di famiglia non risolve le liti, in Il Sole 24 ore, 3 febbraio 2006b, 27) che la prevalenza dell’interesse dell’impresa rispetto a quello dell’autonomia privata del disponente sembra risultare anche dal passo della relazione alla proposta di legge n. 3870 dell’8 aprile 2003 – dal quale ha preso le mosse il provvedimento normativo in commento – secondo cui «la ratio del provvedimento deve essere rinvenuta nell’esigenza di superare in relazione alla successione di impresa la rigidità del divieto dei patti successori, che contrasta non solo con il fondamentale diritto all’esercizio dell’autonomia privata, ma altresì e soprattutto con la necessità di garantire la dinamicità degli istituti collegati all’attività d’impresa». 1.11. Questo risulta dimostrato non solo dal carattere eccezionale (su cui v. infra, par. n. 6) delle relative statuizioni, ma anche dal fatto che, al disponente non è neppure consentito di «coprire» con l’ombrello del patto di famiglia le liquidazioni compensatorie delle quote dei legittimari diversi dagli assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie, dovendo necessariamente tali attribuzioni provenire invece dal patrimonio proprio di questi ultimi. Principio, questo, che a tutta prima potrebbe apparire curioso, ma che si giustifica alla luce della ratio testé indicata, posto che, se la liquidazione (in denaro o in natura) delle quote agli altri legittimari fosse stata consentita al disponente, si sarebbe spalancata la via ad una vera e propria divisio inter liberos per atto tra vivi di tutto il patrimonio del disponente, inattaccabile sia prima che dopo l’apertura della successione, malgrado ogni possibile violazione delle norme a tutela dei legittimari (Oberto 2006, 10). 1.12. Per quanto attiene alla vera novità introdotta dal patto di famiglia, si è rimarcato (Oberto 2006, 10 s.) che nulla impediva, già prima della riforma in commento, che effetti traslativi analoghi a quelli oggi realizzati dal patto di famiglia potessero compiersi. La vera portata innovativa della novella del 2006 consiste in una disattivazione dei meccanismi di tutela che l’ordinamento ha predisposto a favore dei familiari e segnatamente la riduzione e la collazione, atteso che nemmeno il ricorso ad uno strumento tradizionalmente invocato per la trasmissione familiare della ricchezza – sebbene di discutibile ammissibilità, sotto diversi profili, nel nostro ordinamento – quale il trust, appare in grado di impedire l’esercizio delle azioni a tutela dei legittimari (Oberto 2006, 11 s.; su questo tema specifico cfr. inoltre Moscati, Trusts e vicenda successoria, EUR DIR PRIV, 1998, 1075 ss.; Zoppini 1998b, 919 ss.). 1.13. Sotto questo profilo le regole sul patto di famiglia si vengono a porre nel solco della precedente iniziativa legislativa che ha portato alla modifica degli artt. 561 e 563 c.c. (cfr. art. 2, comma 4-novies, l. 14 maggio 2005, n. 80, di conversione, con modificazioni, del d.l. 15 marzo 2005, n. 35), mediante la previsione che, in riferimento alla donazione di immobili, l’azione di riduzione si prescriva in venti anni dalla donazione, con conseguente affievolimento, se non dell’azione di riduzione in sé, quanto meno dell’effetto «destabilizzante» della conseguente azione di restituzione nei confronti dei terzi aventi causa dal donatario (sul punto v. supra, sub artt. 561 e 563 c.c.). Già tale riforma, prefigurando in qualche modo gli spazi di negozialità aperti dal patto di famiglia, sanciva espressamente la libera rinunziabilità del diritto del coniuge e dei parenti in linea retta del donante di opporsi alla donazione, con conseguente eliminazione del diritto di ottenere, tramite la notifica al donatario di siffatta opposizione, la sospensione del termine ventennale (Oberto 2006, 12). 1.14. Dal punto di vista della ricostruzione storica, le disposizioni in commento costituiscono il frutto di un lungo iter parlamentare articolatosi in varie proposte di legge, anteriori a quelle sopra citate, tra le quali va in particolare segnalato il d.d.l. n. 2799 (presentato nell’ottobre del 1997, durante il corso della XIII legislatura) che prevedeva l’istituzione delle due nuove figure date, rispettivamente, dal patto di famiglia e dal patto di impresa: il primo regolato all’interno del diritto delle successioni (mediante l’inserimento dell’art. 734-bis), l’altro invece destinato a trovare spazio tra le disposizioni in materia societaria (attraverso i due nuovi artt. 2284-bis e 2355-bis e la modifica dell’art. 2479) (in argomento, Ieva 1997, 1371 ss.; Zoppini 1998, 255 ss.; Oberto 2006, 37 ss.). Le istanze sottese al patto di impresa (quale clausola dell’atto costitutivo della società avente ad oggetto l’attribuzione ai soci o a terzi – o anche alla società stessa, se di capitali – del diritto di acquistare le partecipazioni cadute in successione) hanno successivamente trovato in buona parte soddisfazione, con la riforma del diritto societario del gennaio 2003, attraverso le disposizioni degli artt. 2355-bis, 3° co., e 2469, 2° co. (Ieva 1997, 1371 ss.); sicché rimaneva l’esigenza di provvedere all’inserimento nel sistema dello strumento del patto di famiglia (per un preciso resoconto del dibattito dottrinale e dei mutamenti normativi che, precedendola, hanno preparato il terreno alla novella con cui è stato introdotto il patto di famiglia, v. ancora Ieva 2007, 41 ss.; Id. 2001, 184 ss.).

 

2 Rapporti con il principio dell’autonomia privata. 2.1. Si è rimarcato che il patto di famiglia si è venuto a collocare in quella «stagione della negozialità» che da alcuni anni caratterizza i rapporti familiari, fondati o meno sul matrimonio (Oberto 2006, 12 ss.). Sotto questo profilo l’istituto non solo si accomuna a quel filone dottrinale e giurisprudenziale che da un po’ di tempo a questa parte esalta l’autonomia negoziale di coniugi e conviventi, sia nella fase «fisiologica» che in quella «patologica» del loro rapporto, ma si affianca anche ad alcune novità legislative che sono venute a riconoscere expressis verbis l’esistenza di «contratti disciplinati dal diritto di famiglia», o a consentire «atti di destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità», ex art. 2645-ter c.c., o, ancora ad aprire ulteriori spazi alla materia degli accordi nell’ambito delle famiglie legittime e di fatto in crisi, nel contesto della riforma del 2006 sull’affidamento condiviso (sul tema, anche per ulteriori riferimenti, cfr. Oberto, Contratto e famiglia, Aa.Vv., Trattato del contratto, a cura di Roppo, VI, Interferenze, a cura di Roppo, Milano, 2006, 107 ss., 133 ss.). 2.2. La peculiare disciplina del patto di famiglia consente di estrapolare conclusioni che vanno al di là della semplice constatazione del ruolo che la negozialità è venuta ad assumere nei rapporti e nelle dinamiche familiari. La prima osservazione attiene alla assoluta parità che, anche in relazione a questo istituto – esattamente come per le novità introdotte dalla legge sull’affidamento condiviso – assumono famiglia legittima e famiglia di fatto, posto che l’elemento «familiare» che qui viene in considerazione non è dato tanto dal matrimonio (che nel patto di famiglia può rilevare solo in quanto viene ad aggiungere un legittimario), bensì dal vincolo fondamentalmente «di sangue» che lega tra di loro i contraenti. Il che – specie se visto alla luce di recenti interventi legislativi, che hanno dato luogo, nei più disparati settori, ad un’equiparazione tra convivenza more uxorio e unione matrimoniale: dalle disposizioni in tema di violenza domestica, alla procreazione assistita, all’amministrazione di sostegno, all’affidamento condiviso – conferma ancora una volta come, a dispetto e al di là delle declamazioni «politiche» e di principio, famiglia legittima e famiglia di fatto si presentino sempre di più, anche nella nostra società italiana, come le due facce della stessa medaglia: e ciò appare vero in modo particolare, ancora una volta, proprio sul terreno dell’autonomia privata (Oberto 2006, 15 s.). 2.3. Si è poi posto in luce un effetto «moltiplicatore di negozialità endofamiliare» del patto di famiglia. Si è infatti evidenziata sul punto l’assoluta irrilevanza della sopravvenienza rispetto alle eventuali rinunce espresse dai legittimari in sede di stipula del contratto in esame, avuto riguardo ai diritti che – al momento dell’apertura della successione del disponente – potrebbero loro competere per effetto degli atti dispositivi gratuiti a vantaggio di uno solo (o solo di alcuni) di essi (e ciò anche di fronte ai successivi mutamenti di valore dei cespiti aziendali, dell’avviamento e in genere dei beni oggetto del patto di famiglia: in questo senso, su quest’ultimo rilievo, Oberto 2006, 14 ss.; v. anche Petrelli 2006, 437). Quanto sopra, ovviamente, a prescindere dal fatto che la situazione patrimoniale del disponente venga a mutare, magari radicalmente, al momento del suo decesso, rispetto a quella presente all’atto della stipula del patto di famiglia. 2.4. Ciò significa che il discendente non assegnatario dell’azienda (o di quote sociali) potrebbe essere indotto a sottoscrivere un patto di famiglia contenente una rinunzia totale o parziale ai diritti che, come legittimario, gli competerebbero su quei beni, qualora la successione si aprisse in quel momento, «confidando» su di un residuo patrimonio del disponente che in quel momento si presenta, anche a prescindere dall’azienda o dalle quote sociali oggetto del patto, come particolarmente consistente. Ma siffatta rinunzia conserva intatto il suo effetto (cioè quello di precludere irrimediabilmente la possibilità di esperire l’azione di riduzione) anche nel caso in cui, per successive vicende, il patrimonio del disponente dovesse, al momento del suo trapasso, magari molti anni dopo la firma del patto di famiglia, sensibilmente contrarsi o addirittura ridursi a zero. 2.5. L’insegnamento che si trae dall’evidenziata indifferenza del legislatore rispetto alla potenzialmente devastante portata della rinunzia di un soggetto a diritti la cui concreta determinazione è rinviata nel tempo (e ad un tempo che può essere anche molto remoto, rispetto al tempo della rinunzia), non sembra poter rimanere senza effetto anche in altri campi, pure caratterizzati dalla presenza di stretti vincoli familiari. 2.6. Si è instaurato in proposito un rapporto con gli accordi preventivi tra coniugi o tra conviventi more uxorio in vista di un’eventuale crisi del legame. Qui, tra gli argomenti contrari, quelli sicuramente più «ad effetto» fanno leva proprio sull’«ingiustizia» del principio che inchioda le parti al rispetto d’un accordo stipulato magari molti anni prima, nella vigenza di una situazione di fatto che può essere ben diversa rispetto a quella in cui la crisi del rapporto viene successivamente a maturare e ad esplodere. Ora, l’introduzione delle segnalate regole in tema di patto di famiglia sembra voler dimostrare come, per il legislatore, l’esigenza di stabilità e di certezza nel corso del tempo dei rapporti patrimoniali, all’interno del complesso e mutevole intreccio dei legami familiari e delle alterne vicende che possono intervenire, debba prevalere anche rispetto a considerazioni quali quella della possibile incidenza di siffatte vicende su rinunce dai membri della famiglia eventualmente espresse, magari molto tempo addietro, rispetto a diritti non ancora maturati (Oberto 2006, 17).

 

3 Immediata efficacia traslativa del patto. Esclusione della riferibilità al contratto a favore di terzi. 3.1. Una notevole divergenza di vedute si registra, sin dai primi commenti agli artt. 768-bis ss. c.c. sulla natura e sugli effetti del patto di famiglia. La prima questione attiene all’idoneità del negozio a determinare un’efficace traslazione dei diritti, già durante la vita del disponente. Qui va innanzi tutto tenuto presente che il patto di famiglia è un contratto, come del resto espressamente stabilito dall’art. 768-bis c.c. («E’ patto di famiglia il contratto…»), ed un contratto inter vivos (cfr. Caccavale 2006b, 10 ss., secondo cui la natura inter vivos del patto di famiglia va riconosciuta «per la semplice ma decisiva ragione che il patto stesso non è disciplinato quale atto mortis causa, mentre, se tale fosse proprio la sua natura, occorrerebbe anche che, nell’ordinamento positivo, fosse contemplata una specifica regolamentazione, a essa natura funzionale, altrimenti irreperibile»). 3.2. Peraltro, non vi è dubbio che dal predetto accordo scaturiscano anche effetti mortis causa. Si pensi, in particolare, a quanto disposto dall’ult. cpv. dell’art. 768-bis, a mente del quale «Quanto ricevuto dai contraenti non è soggetto a collazione o a riduzione». A ciò potrà aggiungersi anche il primo comma dell’art. 768-sexies c.c., secondo cui «All’apertura della successione dell’imprenditore, il coniuge e gli altri legittimari che non abbiano partecipato al contratto possono chiedere ai beneficiari del contratto stesso il pagamento della somma prevista dal secondo comma dell’articolo 768-quater, aumentata degli interessi legali». E’ dunque certo che il contratto in oggetto appare idoneo a produrre anche effetti per il periodo successivo alla morte del disponente. 3.3. Si è avanzata in dottrina (per i riferimenti e le relative critiche cfr. Oberto 2006, 45 ss.) la tesi secondo cui il patto di famiglia darebbe vita ad un negozio i cui effetti potrebbero prodursi solo una volta apertasi la successione. 3.4. Siffatta prospettazione si scontra però irrimediabilmente con più di un dato. In primo luogo, la considerazione dell’evoluzione storica dell’istituto (su cui cfr. Oberto 2006, 18 ss.) evidenzia la tendenza, dalla codificazione napoleonica in poi, a consentire l’anticipazione della successione a mezzo negozi irrevocabili, in quanto dotati di immediata efficacia. In secondo luogo, la ratio dell’istituto, volta a favorire e «blindare» un passaggio generazionale dell’azienda e delle partecipazioni societarie verrebbe frustrata ogni volta in cui l’imprenditore volesse (come del resto per lo più accade nella pratica) privarsi in vita della titolarità, o anche solo della nuda proprietà, dei beni e concedersi la «meritata pensione». Vi è da chiedersi che cosa tale soggetto potrebbe fare e la risposta non potrebbe essere individuata se non nel ricorso ad uno dei «tradizionali» strumenti sino ad ora in uso e, tra questi, in primis alla donazione. Una donazione che, però, non beneficerebbe della disattivazione della tutela dei legittimari propria del patto, con conseguente evidente ed ingiustificata disparità di trattamento rispetto al passaggio, in ipotesi legato al momento della morte del disponente (Oberto 2006, 45 ss.). 3.5. Si è inoltre rilevato che, se il disponente, dopo la stipula del patto (sempre nella denegata ipotesi in cui, per absurdum, si ritenesse il patto non dotato di effetti traslativi immediati), dovesse decidere di «ritirarsi» e di «passare la mano», egli non potrebbe farlo se non risolvendo (con il consenso, ovviamente, di tutti i contraenti) il patto di famiglia, e stipulando una donazione, soggetta, questa volta, a collazione e a riduzione. Si è pertanto suggerito di seguire il tenore letterale dell’art. 768-bis c.c., dove il legislatore ha reso nel modo più evidente l’intento di dotare il patto di effetto traslativo immediato, mediante l’impiego dell’espressione «trasferisce», che, secondo il significato reso evidente dall’uso del tempo presente, denota proprio siffatto intento. Inoltre l’interpretazione sistematica dimostra che là ove il legislatore ha inteso riferirsi ad un negozio dotato di efficacia successiva al decesso della parte, tale intenzione è stata esplicitata mediante un’espressione del genere «per il tempo in cui avrà cessato di vivere» (cfr. art. 587 c.c.). Il mancato impiego di siffatta espressione rende dunque evidente che il patto di famiglia ha ad oggetto un effetto traslativo non differito al momento della morte del disponente (Oberto 2006, 45 ss.). 3.6. Infine si è messo in luce che l’art. 768-quater, ult. cpv., c.c. esonera espressamente da collazione i trasferimenti oggetto del patto. Ora, non si riesce a comprendere quale significato avrebbe l’esonero da collazione se riferito ad una disposizione che dovesse prendere effetto solo dalla morte del disponente, posto che l’istituto ex artt. 737 ss. c.c. ha tratto, per sua essenza e definizione, solo ed esclusivamente ad attribuzioni liberali compiute in vita e con efficacia inter vivos dal de cuius. Quanto sopra non toglie, naturalmente, che il patto dispieghi anche effetti mortis causa, ma questi ultimi risiedono nella esistenza di un patto successorio dispositivo (e, per certi aspetti, anche rinunziativo), ma non certo di un patto successorio istitutivo (Oberto 2006, 45 ss.). 3.7. Nel senso che il patto di famiglia non costituisca un atto a causa di morte, atteggiandosi, invece, quale fonte di una o più attribuzioni inter vivos compiute dall’imprenditore o dal titolare di partecipazioni societarie, si esprime la dottrina assolutamente maggioritaria: cfr. Amadio 2006, 71; Zoppini 2006, 275; Delle Monache, Successione necessaria e sistema di tutele del legittimario, Milano, 2008, 131 ss.; Gazzoni 2006, 217 s.; Ieva 2007, 50; Oberto 2006, 45 ss.; in altro senso, Balestra 2006, 372 ss.; inoltre, Sicchiero 2006, 1264 ss. (per cui la causa del patto di famiglia, da intendersi nei termini di una c.d. «causa di successione», si identificherebbe con quella propria dei patti successori istitutivi). 3.8. Secondo una parte della dottrina il contratto in cui il patto di famiglia si sostanzia andrebbe ricondotto al negozio a favore di terzi (Caccavale 2006b, 13 ss., 17 ss.). A questa conclusione dovrebbe indurre la circostanza che la legge preveda, quale effetto principale, un trasferimento avente ad oggetto un’azienda o quote societarie in favore di uno o più discendenti e, dall’altra, l’obbligo di tali ultimi beneficiari di effettuare determinate prestazioni verso gli altri legittimari, non destinatari dei predetti trasferimenti. 3.9. In senso contrario si è obiettato che, mentre necessario presupposto dell’archetipo negoziale ex artt. 1411 ss. c.c. è un accordo tra due (o più) soggetti, per il quale taluni effetti si produrranno verso uno o più soggetti estranei alla pattuizione, in questo caso gli effetti prodotti dal patto di famiglia verso i legittimari non destinatari del trasferimento d’azienda (o delle quote sociali) investono dei soggetti che, se decidono di aderire all’intesa tra disponente e destinatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie, sono vere e proprie parti del contratto e quindi non terzi (Oberto 2006, 67 ss., 126 ss.).

 

4 Rapporti con la donazione. Conseguenze in tema di comunione legale tra coniugi. 4.1. Secondo parte della dottrina, il patto di famiglia andrebbe ricondotto all’archetipo della donazione. In questo senso militerebbe, innanzi tutto, l’impiego, da parte dell’art. 768-sexies c.c., del termine «beneficiari», per designare gli assegnatari dell’azienda o delle quote, ciò che evidenzierebbe che nella specie si dovrebbe trattare di «negozio gratuito con cui si anticipano in vita disposizioni di tipo testamentario» (sul punto, in senso dubitativo, v. ex multis Buffone 2006; Salomone 2006; per la natura donativa del patto si esprime Condò, Il patto di famiglia, in FederNotizie, marzo 2006, 59). 4.2. D’altro canto, occorre però anche tenere conto della collocazione sistematica delle disposizioni al di fuori del titolo consacrato alle donazioni, nonché dell’assenza di animus donandi, avuto riguardo al fatto che, in questo caso, l’essenziale gratuità del negozio non corrisponde all’intento di arricchire la sfera giuridica altrui, ma denoterebbe solo il desiderio di anticipare la propria successione nell’interesse dell’impresa (Salomone, op. loc. ultt. citt.), ciò che, secondo una parte degli Autori, contribuirebbe, dunque, ad escludere il carattere donativo dell’attribuzione (Buffone, op. loc. ultt. citt.). Si è poi rilevato che l’utilizzo del termine «beneficiari» non sembra fornire argomenti esegetici di sorta. Un’analisi delle disposizioni codicistiche in cui tale espressione – vuoi al singolare, vuoi al plurale – compare (cfr. artt. 1865, 1873, 1900, 1920, 1921, 1922, 1923, 2435 c.c.) non appare foriera di particolari frutti sul piano ermeneutico. Inoltre, non sembra che l’animus donandi sia escluso dall’intento di anticipare la propria successione (Oberto 2006, 50 s.). 4.3. Peraltro, numerosi sembrerebbero gli elementi in grado di orientare l’interprete – ad una prima analisi – proprio verso la donazione (sul punto cfr. Merlo, Il patto di famiglia, in CNN notizie. Notiziario di informazione del Consiglio Nazionale del Notariato, 14 febbraio 2006b, 2 ss., dell’articolo in formato .pdf; nello stesso senso v. anche Caccavale 2006b, 24 ss.), per lo meno avuto riguardo all’attribuzione effettuata dal disponente al discendente destinatario dell’azienda o delle quote sociali. Si pensi, in primo luogo, all’assenza di ogni riferimento ad un corrispettivo della cessione da corrispondersi al cedente i beni aziendali o le partecipazioni societarie. Si ponga mente poi al fatto che il disposto dell’art. 768-quater, ultimo comma, c.c. sottrae alla collazione ed all’azione di riduzione l’oggetto del patto di famiglia, mentre il testo del disegno di legge S/2799/XIII, presentato il 2 ottobre 1997, definiva espressamente il patto di famiglia come atto di donazione. 4.4. Secondo una parte della dottrina si tratterebbe di una donazione modale, in cui il modus sarebbe costituito dall’obbligo di liquidazione di cui all’art. 768-quater cpv. c.c., con la conseguenza che siffatto onere, secondo quanto stabilito dall’art. 793 c.c., dovrebbe produrre i suoi effetti anche qualora il suo ammontare arrivasse ad assorbire l’intero arricchimento del donatario (Merlo 2006b, 3). 4.5. Di contro si è però obiettato che l’adempimento dell’onere sarebbe qui contestuale alla conclusione del contratto e, soprattutto, che se i legittimari non rinunziano in tutto o in parte ai loro diritti, la liquidazione della quota di costoro è elemento costitutivo ad validitatem (e non già meramente accidentale) del patto: ciò che appare incompatibile con il concetto stesso di modo; se invece i legittimari non assegnatari rinunziano ai loro diritti il «modo» non viene neppure in considerazione (cfr. Petrelli 2006, 407; per ulteriori approfondimenti sul tema cfr. Oberto 2006, 45 ss.). 4.6. La questione dei rapporti con la donazione influisce sulla soluzione di alcuni ulteriori problemi posti dal patto di famiglia. Per ciò che attiene, in primo luogo, alla comunione legale tra coniugi, si pone l’interrogativo circa la caduta o meno in comunione di quanto ricevuto sia dai soggetti destinatari dell’azienda (o delle quote sociali), sia dagli altri legittimari. Per quanto riguarda il primo gruppo, sembra potersi affermare, che, in considerazione del già evidenziato carattere indubbiamente liberale dell’attribuzione, dovrebbe trovare applicazione il disposto dell’art. 179, lett. b), c.c., tanto più che, come noto, l’interpretazione prevalente (ed al momento assolutamente unanime nella giurisprudenza di legittimità) estende l’applicazione della norma in oggetto al campo delle donazioni indirette (sul tema v. per tutti Oberto, La comunione legale tra coniugi, TR. C.M., Milano, 2010, 961 ss.). Siffatto profilo dovrebbe dunque risultare assorbente anche in relazione alla possibile prospettazione di tali acquisti alla stregua di beni destinati all’esercizio dell’impresa del coniuge acquirente (o incrementi dell’azienda di quest’ultimo), ex art. 178 c.c. 4.7. A diverse conclusioni si dovrebbe invece pervenire per le attribuzioni in favore degli altri legittimari, atteso che il denaro o i beni ricevuti sono trasmessi dall’assegnatario dell’azienda o delle partecipazioni societarie non già per spirito di liberalità, ma per adempiere ad un preciso obbligo imposto dalla legge, mentre, per quanto attiene al rapporto verso il disponente, neppure può parlarsi di donazione indiretta da parte sua (cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, loc. ult. cit.). 4.8. D’altro canto non può nemmeno invocarsi l’art. 179, lett. b), c.c. in relazione al disposto concernente i beni acquisiti «per effetto di (…) successione», posto che il fenomeno acquisitivo descritto dall’art. 768-quater c.c., sebbene in qualche modo legato a profili successori, non è certo riconducibile all’acquisto mortis causa. Si è quindi segnalata l’opportunità di prevedere una modifica legislativa, attesa l’evidente «prossimità» delle attribuzioni in discorso al campo successorio. Dal punto di vista pratico sarà comunque opportuno che il notaio prospetti tale problema ai legittimari ed eventualmente – avuto riguardo al noto revirement operato nel 2003 dalla Corte di legittimità (e ribadito nel 2009), che è venuta a sottrarre la possibilità di impedire la caduta in comunione mediante l’espressione di un rifiuto preventivo di coacquisto – consigli agli interessati di previamente procedere alla stipula di una convenzione di separazione dei beni (Oberto, La comunione legale tra coniugi, loc. ult. cit.). 4.9. La soluzione del problema del rapporto con la donazione dispiega altresì effetti con riferimento alla forma del patto di famiglia (su cui v. infra, sub art. 768-ter c.c.). Inoltre, il rifiuto della tesi che vede nel patto di famiglia una donazione porta inevitabilmente anche ad escludere dal novero dei relativi partecipanti i figli nascituri concepiti o non ancora concepiti. D’altro canto, per le stesse ragioni, dovrebbe ritenersi fuori gioco l’art. 437 c.c., per cui il destinatario dell’azienda o delle partecipazioni sociali non sarebbe tenuto, per effetto del patto, a prestare gli alimenti all’ascendente. Infine, dovrebbe risultare inapplicabile l’art. 774 c.c., così come l’art. 778 c.c.

 

5 Natura del patto di famiglia. 5.1. Si è rilevato che, se il patto di famiglia consistesse nella sola attribuzione in favore dei destinatari dell’azienda o delle quote sociali, magari «compensata» da attribuzioni effettuate dallo stesso ascendente nei riguardi degli altri legittimari, la figura di riferimento più sicura potrebbe essere costituita proprio dalla donazione. Ed in questo senso potrebbero deporre i già evidenziati elementi costituiti dalla sottrazione delle attribuzioni di cui al patto alla collazione ed all’azione di riduzione, nonché il dato «storico» fornito dal disegno di legge S/2799/XIII. Elementi, questi, peraltro, «reversibili», nel senso che la sancita esclusione della collazione e dell’azione di riduzione potrebbe semplicemente sottolineare l’esigenza di fugare ogni dubbio sul carattere non donativo dell’atto, mentre il mancato inserimento del richiamo espresso all’istituto ex artt. 769 ss. c.c. potrebbe essere letto come una prova dell’intenzione del legislatore di dar vita ad un contratto del tutto nuovo (Oberto 2006, 52 ss.). 5.2. E’, però, innegabile che – al di là dell’attribuzione dell’azienda o delle partecipazioni societarie – un altro elemento essenziale del contratto è costituito dalla liquidazione delle quote degli altri legittimari, o, in alternativa, dalla rinunzia da parte di costoro. 5.3. Al riguardo si è prospettata (Lupetti 2006, 3) la presenza di una causa non già liberale, ma solutoria, dal momento che le attribuzioni in cui si sostanzia la liquidazione dei diritti dei legittimari non destinatari dell’azienda o delle quote sociali, pur se avvengono senza corrispettivo, sono in realtà finalizzate a consentire che la cessione dell’azienda (o delle partecipazioni societarie) non possa essere in futuro messa in discussione. Tali liquidazioni non possono dunque qualificarsi come atti di liberalità, in quanto è assente nell’assegnatario di azienda l’animus donandi. Nel caso, poi, alternativo di rinunzia, si potrebbe parlare di liberalità, ma di una liberalità che non proviene certo dall’ascendente che assegna l’azienda o le quote sociali, bensì proprio dai legittimari. 5.4. Si è rimarcato poi (cfr. Oberto 2006, 62 s., 104 ss., 118 ss.) che neppure può parlarsi di donazione indiretta da parte del disponente, attesa l’impossibilità di ravvisare, da parte dei legittimari, la presenza di un «puro» arricchimento, dal momento che il vantaggio da essi conseguito si scambia con il loro sacrificio, consistente nella definitiva rinunzia a far valere pretese successorie sui beni trasferiti, in cambio di quanto ricevuto (o, addirittura, in caso di rinunzia, in cambio di nulla). 5.5. Si è quindi proposto, per la ricostruzione dell’istituto, di partire dalla considerazione dei due fondamentali rapporti giuridici di cui il patto di famiglia si compone: l’attribuzione dal disponente al destinatario dell’azienda (o delle quote sociali) e l’attribuzione effettuata da quest’ultimo agli altri legittimari (ovvero, in alternativa, la rinunzia di costoro). Sulla base di tale rilievo se ne è concluso che il patto di famiglia costituisce un nuovo negozio giuridico tipico e nominato (Oberto 2006, 53 s.; questa soluzione è anche prospettata da Merlo 2006b, 4; nello stesso senso v. inoltre Petrelli 2006, 407, il quale sottolinea come occorra rinunciare ad incasellare il patto di famiglia in uno degli schemi tipici preesistenti alla novella; nel senso che il patto integra una nuova figura contrattuale tipizzata dal legislatore cfr. poi anche Vitucci 2006, 448 s.; Amadio 2006, 69; Id. 2006b, 867; Inzitari, Dagna, Ferrari e Piccinini 2006, 50 e 54; Fusaro 2008, 867; contra, e nel senso che il patto di famiglia sia riducibile allo schema della donazione modale, Caccavale 2006, 48; si richiama a quest’ultima e alla disciplina normativa per essa prevista – pur riconoscendo come necessaria la partecipazione al patto di tutti i legittimari in pectore esistenti – anche A. Palazzo 2007, 263, 267, secondo cui il legislatore avrebbe gravato l’assegnatario con un duplice onere, avente ad oggetto, per un verso, la continuazione efficiente dell’attività imprenditoriale e, per l’altro, la liquidazione della quota dei legittimari esclusi dall’attribuzione preferenziale). 5.6. Siffatto nuovo tipo di negozio è sicuramente distinto tanto dalla donazione che dal testamento, ed appare dotato di una sua autonoma disciplina, che realizza finalità distinte. Così, accanto a quella di liberalità, che contraddistingue il trasferimento dell’azienda (o di partecipazioni) a favore del (o dei) discendenti, s’affianca una finalità solutoria, che concerne la liquidazione – imposta dalla legge – dei diritti di legittima spettanti ai legittimari non assegnatari dell’azienda (o delle partecipazioni societarie), salvo loro rinuncia (Oberto 2006, 52 ss.; Lupetti 2006, 3; sembra non comprendere questa osservazione Amadio, L’utilizzo del patto di famiglia, Relazione al convegno di studi organizzato da Optime - Formazione Studi e Ricerche, svoltosi a Milano nei giorni 12 e 13 novembre 2009, 13, secondo il quale la funzione solutoria potrebbe caratterizzare soltanto l’adempimento del debito liquidativo, «senza nulla dire sul fondamento che giustifica il costituirsi del debito corrispondente», laddove la tesi esposta circa la funzione solutoria delle attribuzioni agli altri potenziali legittimari è volta proprio a dimostrare che la prestazione del destinatario dell’azienda o delle partecipazioni societarie è caratterizzata da una funzione solutoria, intesa quale «prezzo» del sacrificio degli altri legittimari, i quali rinunziano, sottoscrivendo il patto, ad ogni possibile azione a tutela dei loro futuri ed eventuali diritti di legittimari in relazione ai trasferimenti oggetto del patto). 5.7. La tesi di cui sopra non appare incompatibile con quella, sicuramente convincente, già prospettata in dottrina (da Lupetti 2006, 4), che ravvisa nella nuova figura una causa unitaria, rappresentata dalla funzione di regolamentazione dei futuri assetti successori dei legittimari in ordine all’azienda ceduta, ad instar di quanto da tempo proposto in relazione ai contratti della crisi coniugale (Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, Milano, 1999, 703 ss.). La causa di questi negozi consiste, invero, nella determinazione definitiva dell’assetto dei rapporti tra coniugi in crisi, ma, come tale, può coinvolgere anche attribuzioni in favore di terzi soggetti (si pensi ai figli), rispetto ai quali siffatti atti dispositivi assolvono finalità solutorie dell’obbligo di mantenimento, ovvero, quando tali finalità travalicano, possono anche manifestare un intento liberale. Ne deriva che la necessità di individuare una figura negoziale nuova, dotata di una sua causa tipica – quale indiscutibilmente si realizza con il patto di famiglia – non esclude la possibilità di riconoscere la presenza di distinte funzioni, per i rapporti che possono (o, come nel caso di specie, debbono) comporlo, la cui combinazione viene a porre in essere il nuovo tipo di negozio: una funzione liberale, nell’attribuzione a favore del destinatario (o dei destinatari) dell’azienda o delle quote sociali, ed una funzione solutoria, nelle attribuzioni in favore degli altri legittimari. 5.8. Secondo una diversa prospettiva, il patto verrebbe a connotarsi quale fonte di una serie di attribuzioni collegate in vista della distribuzione, proporzionale ad altrettante quote, del valore della massa rappresentata dai beni d’impresa: saremmo di fronte, in altri termini, ad un insieme di apporzionamenti legati da un nesso di reciproca subordinazione funzionale, giustificandosi perciò l’inquadramento della figura qui considerata entro la categoria dei fenomeni funzionalmente divisori. A conferma dell’esattezza di questa impostazione viene anche richiamato il meccanismo divisionale di cui all’art. 720, il quale, risolvendosi nell’acquisto dell’intero bene da parte di uno solo dei condividenti e nella liquidazione degli altrui diritti di quota mediante il venire in essere di crediti pecuniari di valore corrispondente, condurrebbe ad un esito identico a quello ora realizzabile attraverso il patto di famiglia (Amadio 2006, 75; cfr. inoltre, sebbene con toni più sfumati, Id. 2007, 345 ss.; per l’accostamento del patto ai fenomeni divisionali, inoltre, Zoppini 2006, 275; ad avviso di Ieva 2007, 54, il patto, di cui si assume che dia luogo ad una successione separata e anticipata, comporterebbe sia l’implicita devoluzione – in favore dell’assegnatario per la sua quota di legittima nonché per la disponibile e in favore dei non assegnatari per la sola quota di legittima a ciascuno spettante – sia la contestuale divisione, mediante un sistema di conguagli in denaro, di un bene considerato come non divisibile; in termini critici quanto a tutte tali impostazioni si veda ampiamente, tuttavia, Delle Monache, Successione necessaria e sistema di tutele del legittimario, cit., 154 ss.). 5.9. Altri ancora poi riconosce nel patto un negozio caratterizzato da una causa successoria, e ciò nel senso che esso, pur essendo idoneo a determinare il trasferimento attuale dei beni d’impresa che ne costituiscono l’oggetto, si presenterebbe come funzionalmente destinato a regolare la successione del disponente rispetto ai beni medesimi. In questa prospettiva, del tutto irrilevante viene giudicata la sussistenza di qualsiasi connotato di liberalità, giacché, vertendosi in tema di successioni, sarebbe la relativa disciplina a dover trovare applicazione, eccetto che per le regole formali dettate con riguardo al testamento (Sicchiero 2006, 1264 ss.).

 

6 Rapporti con il divieto dei patti successori. 6.1. Sul tema dei rapporti tra patto di famiglia e divieto dei patti successori (su cui v. sub art. 458 c.c.) va tenuto presente che la proposta di legge n. 3870 dell’8 aprile 2003 – da cui ha preso le mosse il provvedimento normativo in commento – specificava che «la ratio del provvedimento deve essere rinvenuta nell’esigenza di superare in relazione alla successione di impresa la rigidità del divieto dei patti successori, che contrasta non solo con il fondamentale diritto all’esercizio dell’autonomia privata, ma altresì e soprattutto con la necessità di garantire la dinamicità degli istituti collegati all’attività d’impresa». A tale notazione fa poi eco, sul piano normativo, l’espressa modifica, disposta dall’art. 1, l. 14 febbraio 2006, n. 55, dell’art. 458 c.c., che ha inserito nel primo comma della norma l’inciso: «Fatto salvo quanto disposto dagli articoli 768-bis e seguenti». 6.2. Parte della dottrina ha criticato tale richiamo. In effetti già in relazione al progetto stilato sotto il coordinamento di Antonio Masi e di Pietro Rescigno (su cui cfr. Oberto 2006, 37 s.), dal quale ha preso inizio il movimento normativo che ha portato all’approvazione della riforma sul patto di famiglia, alcuni Autori avevano sostenuto che tale patto non configurerebbe un patto successorio «perché ciò che forma oggetto dell’attribuzione è l’azienda nella consistenza che ha al momento dell’atto dispositivo, l’effetto attributivo è immediato e allo stesso modo immediata è anche la determinazione del soggetto o dei soggetti beneficiari» (Ieva 1997, 1373 s.). 6.3. D’altro canto si è anche sostenuto che il patto di famiglia non si porrebbe in deroga al divieto dei patti successori, dal momento che il diritto di legittima non sarebbe dismesso, ma sarebbe, anzi, reso immediatamente esercitabile, con la conseguenza che non potrebbe scorgersi, nell’operazione, una corrispondente rinuncia (Caccavale 2006b, 20). 6.4. A questa impostazione si è però obiettato (Merlo 2006b, 5; Oberto 2006, 64 ss.) che, nella disciplina introdotta dagli artt. 768-bis ss. c.c., è possibile individuare quanto meno un patto successorio dispositivo, rappresentato dalla convenzione in base alla quale il destinatario dei beni aziendali o delle quote, all’atto della stipulazione, soddisfa le ragioni di legittimario dei non assegnatari, versando una somma corrispondente al valore della legittima, contestualmente calcolata fingendo che la successione del donante si fosse testé aperta. Tale previsione introduce una deroga ad un principio dell’ordinamento in forza del quale la determinazione dei diritti dei legittimari ai fini della riduzione si compie in base al valore dei beni oggetto di disposizioni al momento di apertura della successione (art. 556 c.c.): diritti dei legittimari che non vengono neppure in essere se non al momento della morte del de cuius. 6.5. Il patto successorio dispositivo è ravvisabile proprio nel fatto che l’assegnatario, in vita del de cuius, anticipa ai suoi fratelli o sorelle ed all’altro genitore quanto di loro spettanza sui beni, oggetto del patto, che altrimenti cadrebbero in successione. In cambio di ciò, i soggetti non assegnatari, nel momento in cui accettano la liquidazione della quota, in denaro o in natura, assumono il ruolo di disponenti, in quanto, in sostanza, alienano al donatario, dietro corrispettivo, la porzione di legittima sul bene oggetto del patto di famiglia. In tal modo, è innegabile che i non assegnatari stanno disponendo dei diritti che possono loro competere su una successione altrui non ancora aperta (Merlo 2006b, 5; nello stesso senso v. anche Petrelli 2006, 408; Oberto 2006, 64 ss.). 6.6. Da un ulteriore punto di vista può poi ravvisarsi nel patto di famiglia un patto successorio rinunziativo. Al riguardo si è sostenuto che, qualora i non assegnatari rinuncino alla liquidazione, si realizza un patto successorio rinunziativo poiché, in sostanza, tali soggetti rinunciano preventivamente a diritti di legittima che possono loro competere sulla successione del genitore non ancora aperta (Merlo 2006b, 5, 8; Petrelli 2006, 408). A quest’affermazione può contrapporsi quella di chi ha rilevato come, in tal caso, la rinunzia investa invece il diritto ad ottenere la liquidazione: diritto, che, sorgendo con il contratto, deve definirsi diritto attuale (così invece Caccavale 2006b, 21). In realtà, il profilo rinunziativo del patto va visto anche qui nel fatto che, con la sottoscrizione del medesimo, il legittimario rinunzia sempre e comunque (indipendentemente dalla posizione che possa avere assunto in merito alla liquidazione) alla possibilità di pretendere la legittima che a lui su quei determinati beni competerebbe all’atto dell’apertura della successione, anche se questa dovesse eventualmente rivelarsi, in quel momento, di valore ben diverso rispetto alla somma accettata in sede di stipula del patto (sul carattere di patto successorio della rinunzia ex art. 557, cpv., c.c. cfr. Santoro-Passarelli, Dei legittimari, in Aa. Vv., Codice civile. Libro delle successioni per causa di morte e delle donazioni, Commentario D’Amelio, Firenze, 1941, 317, secondo cui «si tratta di un’applicazione particolare del divieto dei patti successori rinunciativi»; v. inoltre Capozzi, Successioni e donazioni, I, Milano, 1983, 322; afferma il carattere eccezionale del patto di famiglia nei confronti del divieto dei patti successori anche Bolano 2006, 94). Va da sé che il patto di famiglia non costituisce, invece, un patto successorio istitutivo (o confermativo), non producendo effetti mortis causa sul patrimonio del disponente (cfr. quanto esposto supra, sub n. 3, circa l’immediata efficacia del patto di famiglia). 6.7. Si è così posto in luce che la conclusione circa la natura eccezionale del patto di famiglia è foriera di evidenti conseguenze sul piano ermeneutico. La regola di cui all’art. 14 prel. verrà così a costituire un limite al principio d’autonomia privata che, in base all’art. 1322 c.c., al patto di famiglia è sicuramente applicabile. Ne deriva dunque che, ogni qualvolta l’esercizio della libertà contrattuale nell’ambito del patto di famiglia dovesse portare a conseguenze in contrasto con l’art. 458 c.c., non riconducibili a quelle disciplinate dagli artt. 768-bis ss. c.c., le relative clausole dovrebbero ritenersi nulle per contrasto con norme imperative (Oberto 2006, 66).

 

7 I soggetti dei trasferimenti: il disponente e la questione della sua qualità di imprenditore. 7.1. Il tenore letterale dell’art. 768-bis c.c. («…l’imprenditore trasferisce…») può far sorgere il dubbio che una delle condizioni necessarie per la stipula di un patto di famiglia sia costituita dal necessario possesso, in capo al trasferente, della qualità – in alternativa alla titolarità di partecipazioni societarie – di imprenditore. Il termine «imprenditore» compare però non solo nella norma citata, ma anche negli artt. 768-quater e 768-sexies c.c.: disposizioni, queste, dalle quali appare evidente l’utilizzo di quell’espressione per designare comunque il disponente, visto che nessuna menzione è fatta del «titolare di partecipazioni societarie». Ne esce rafforzata l’impressione che il termine «imprenditore» sia utilizzato qui in modo improprio e atecnico, con la conseguenza che il nuovo istituto sarà applicabile anche alle ipotesi in cui il trasferente sia, sì, titolare d’azienda (o di un ramo di essa), ma non sia qualificabile come imprenditore ex art. 2082 c.c. D’altro canto, la tesi dell’inapplicabilità della normativa a ipotesi in cui il trasferente sia proprietario dell’azienda, sebbene non imprenditore, lascerebbe comunque insoddisfatti. Basti pensare all’esclusione che ne deriverebbe nel caso di azienda affittata allo stesso discendente candidato assegnatario della stessa (Oberto 2006, 79). 7.2. Neanche per ciò che attiene, poi, al «titolare di partecipazioni societarie», la legge richiede la qualifica di imprenditore. Del resto non si reperiscono nel sistema indici sicuri e condivisibili che consentano di limitare la disciplina a partecipazioni qualificate in senso quantitativo o qualitativo, anche se che tali elementi avranno, probabilmente, un’influenza pratica, nel senso che non sarà frequente il ricorso all’istituto in esame per partecipazioni economicamente poco rilevanti. In senso contrario si è osservato che considerare il patto di famiglia estensibile a qualsiasi donazione di partecipazioni – e non già limitato a quella donazione di quote/azioni che rappresentino la partecipazione al capitale sociale della società nella quale il donante esplica la propria attività imprenditoriale – consentirebbe di rivestire con l’involucro del patto di famiglia qualsiasi trasmissione patrimoniale. Ne conseguirebbe, quindi, che, anche dal punto di vista oggettivo, partecipazione societaria oggetto del patto potrebbe essere quella sola «partecipazione rilevante ai fini della gestione dell’impresa» (così Iannaccone, Patto di famiglia: ascoltiamo chi l’ha voluto, in FederNotizie, marzo 2006, 57), o che «assicuri il controllo su una azienda di famiglia» (così Friedmann, Prime osservazioni sui patti di famiglia, in FederNotizie, marzo 2006, 62; sostanzialmente nello stesso senso v. anche Bolano 2006, 94, il quale rileva che «solo colui che abbia una partecipazione maggioritaria al capitale dell’impresa può, quale dominus effettivo dell’impresa stessa, deciderne l’eventuale trasmissione». Di analogo avviso è Petrelli 2006, 415 ss.). 7.3. A questa impostazione si può però agevolmente obiettare che, come rilevato da altri osservatori, risulta enormemente difficile rinvenire una discriminante che, per ogni tipo di società, in modo esaustivo valga a far discernere, nell’ambito delle partecipazioni societarie, quelle dotate di apprezzabile peso nella cura dell’attività sociale e quelle che, invece, ne siano sprovviste; ne consegue pertanto che, per non sacrificare alle ragioni della disciplina successoria le une, appare preferibile accettare l’eventualità che, del nuovo regime, beneficino anche le altre (Caccavale 2006b, 8; Oberto 2006, 80). 7.4. Dal momento che nessun requisito viene richiesto in capo al trasferente partecipazioni societarie, deve concludersi che la normativa potrà trovare applicazione anche per il socio di minoranza e addirittura per il socio «risparmiatore» o solo nudo proprietario. Per contro, l’espressione usata dall’art. 768-bis c.c. («…trasferisce, in tutto o in parte, l’azienda, (…) trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote…») può far sorgere il dubbio che non possa essere oggetto del patto un diritto di usufrutto sulle stesse partecipazioni. Ma la norma in esame – proprio avuto riguardo all’atecnicismo delle espressioni usate – ben può essere estensivamente letta come facente riferimento al «titolare di diritti (di ogni genere, purché disponibili), su aziende o rami d’azienda, nonché su partecipazioni societarie». D’altro canto, proprio la riserva d’usufrutto costituisce, anche alla luce della normativa sul patto di famiglia, l’unico sistema in grado di consentire all’imprenditore di riservarsi, usque ad vitae supremum exitum, il controllo dell’impresa e pertanto (non solo il trasferimento del diritto d’usufrutto, ma) anche il trasferimento della sola nuda proprietà potrebbe ritenersi rientrare nella fattispecie in questione (Oberto 2006, 81; sull’ammissibilità di un patto di famiglia avente ad oggetto la cessione della nuda proprietà dell’azienda cfr. Zoppini 2000, 1269).

 

8.   I soggetti dei trasferimenti: discendenti e ascendenti. 8.1. La norma in commento prevede che i soggetti destinatari del trasferimento dell’azienda o delle partecipazioni societarie siano «discendenti». Ne consegue che non solo il figlio, ma anche il discendente nipote o pronipote può essere beneficiario delle attribuzioni in discorso, e ciò indipendentemente dall’eventuale premorienza del suo ascendente, legittimario del disponente. Peraltro quest’ultimo (cioè il diretto legittimario del disponente: vale a dire il padre dell’accipiens, o il nonno, a seconda che il destinatario del trasferimento sia, rispettivamente, nipote o pronipote del disponente) dovrà necessariamente sottoscrivere il patto, come stabilito dal successivo art. 768-quater, primo comma, c.c., ove si prevede testualmente che al contratto debbano partecipare anche il coniuge e «tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell’imprenditore» (Fietta, Patto di famiglia, in CNN notizie. Notiziario di informazione del Consiglio Nazionale del Notariato, 14 febbraio 2006, 4, dell’articolo in formato .pdf). L’imprenditore, dunque, ben potrebbe decidere di trasferire l’azienda (o la società di cui è «titolare») al nipote che nell’attività manageriale abbia dato miglior prova del proprio padre, «saltando» così una generazione nella titolarità e nell’amministrazione dell’impresa di famiglia (ma, in tal caso, anche gli appartenenti alla «seconda generazione» dovrebbero comunque partecipare, come legittimari del disponente, all’atto). 8.2. La previsione dei soli discendenti esclude la possibilità che il disponente possa valersi delle norme del patto per trasferire azienda o partecipazioni societarie al coniuge o ai suoi fratelli, o ai discendenti di costoro, o, ancora, agli eventuali ascendenti. La scelta è stata giustificata come legata alla necessità di realizzare «un effettivo passaggio generazionale nella gestione dell’impresa» (così Zoppini 2000, 1272), anche se tale ratio non sembra in grado di spiegare la motivazione dell’inestensibilità del patto al passaggio zio-nipote o prozio-pronipote. Ciò, naturalmente, non esclude che un trasferimento verso questi soggetti avvenga, pur se con strumenti (e con effetti) diversi da quelli descritti dagli artt. 768-bis ss. c.c. (Oberto 2006, 82 ss.). 8.3. Si pone poi il problema se al contratto debbano (o, quanto meno, possano) partecipare anche gli ascendenti del disponente, posto che costoro non rientrano nel novero dei soggetti che «sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione», ma che potrebbero diventarlo nel caso di premorienza dei discendenti (Oberto 2006, 82 ss.). I legittimari «sopravvenuti» cui fa richiamo oggi l’art. 768-sexies, primo comma, c.c. non possono invero essere quelli divenuti tali per premorte del loro dante causa, legittimario del disponente (vale a dire quelli cui fa richiamo l’art. 536 ult. cpv., c.c.), bensì solo quelli direttamente legittimari del disponente medesimo: dal nuovo coniuge, al figlio (del disponente) nato, riconosciuto o dichiarato successivamente al patto, a quello che comunque, benché già in vita al momento del patto, non vi avesse in qualche modo partecipato. 8.4. Ai discendenti, invece, dei figli legittimi e naturali, cui l’art. 536 ult. cpv. c.c. riserva i medesimi diritti che competono ai figli legittimi e naturali del disponente, il patto è comunque opponibile, posto che essi succedono iure repraesentationis e pertanto si trovano nella medesima situazione del loro dante causa, cui il diritto verso il disponente era a suo tempo già stato (ovviamente: solo per la parte relativa all’oggetto del patto) liquidato, o che a tale diritto aveva rinunziato. In altre parole, i discendenti predetti non potrebbero mai ritenersi «terzi» rispetto al patto, posto che i diritti dagli stessi vantati sono per l’appunto «gli stessi» (così, infatti, si esprime il citato art. 536, ult. cpv., c.c.) già vantati dal soggetto da essi rappresentato: le limitazioni (o addirittura, le eventuali esclusioni, vuoi per effetto di iniziale rinunzia, vuoi per successiva estinzione determinata dall’intervenuto adempimento dell’obbligo di liquidazione) di tali diritti varranno dunque, tali quali, nei riguardi dei discendenti del rappresentato, sia nel caso di sua rinunzia all’eredità, che di sua premorienza rispetto al disponente. Come il rappresentato non avrebbe potuto pretendere alcunché alla morte del disponente sui beni oggetto del patto, per avere egli già ricevuto soddisfazione, così i suoi discendenti non potranno vantare per tale peculiare titolo alcuna pretesa (Oberto 2006, 85 s.). 8.5. Quanto poi ai figli non riconoscibili del disponente, pure ai quali la legge riserva non una quota ereditaria, ma il semplice diritto alla corresponsione di un assegno vitalizio (art. 594), va tenuto presente che, per effetto della pronuncia di incostituzionalità dell’art. 278 di cui alla sentenza della Corte Cost. n. 02/494, essi possono ora agire per l’ottenimento della dichiarazione giudiziale della paternità o maternità naturali: dichiarazione da cui discende il conseguimento del relativo status e l’acquisto dei diritti successori che ad esso si riconnettono (art. 573). Quando perciò il patto di famiglia intervenga dopo che la filiazione sia stata giudizialmente dichiarata, esso necessiterà della partecipazione anche dei figli irriconoscibili (così Delle Monache 2009, 747). 8.6. Dubbio appare se possa avere rilievo l’eventuale compimento di atti, da parte del legittimario potenziale, che siano idonei a determinarne lo stato di indegnità rispetto al disponente; si è osservato in proposito che la risposta ad un tale quesito dipende probabilmente dalla nozione che si sia disposti ad accogliere dell’indegnità, nell’alternativa tra la tesi che la concepisce nei termini di un’incapacità a succedere (sicché l’indegno, se la successione si aprisse nel momento in cui il patto viene stipulato, dovrebbe considerarsi privo di qualunque diritto sul patrimonio ereditario) e la prospettiva tradizionale alla cui stregua, per contro, essa è intesa concretare una causa di rimozione ope iudicis dell’acquisto (l’indegno essendo pur sempre un soggetto nei cui confronti intanto opera la delazione) (Delle Monache 2009, 747). 8.7. Il problema, si rileva, si atteggia in maniera diversa allorché il comportamento che è all’origine dell’indegnità sia posto in essere nel lasso di tempo che intercorre tra la stipulazione del patto di famiglia e l’apertura della successione del disponente. Chi riconosce nel patto un negozio che, dal punto di vista funzionale, si presenterebbe specificamente caratterizzato nel senso dell’attitudine a predisporre una regola pensata in vista della successione del disponente, conclude poi, di conseguenza, che le attribuzioni per suo tramite divisate dovrebbero intendersi sottoposte alla disciplina dettata dal diritto successorio: si applicherebbero così, certamente, le norme relative all’indegnità a succedere, ma poi anche, ad es., la regola prevista dall’art. 634 – a scapito del generale disposto di cui all’art. 1354 – nel caso di inserimento di una condizione impossibile o illecita. Diversamente, quando la causa del patto di famiglia, avuto riguardo alle attribuzioni traslative che in esso trovano la loro fonte, venga fondamentalmente identificata con un fine di liberalità, i comportamenti degli assegnatari, idonei a determinare l’indegnità a succedere, rileveranno eventualmente, se posteriori al perfezionamento della fattispecie, alla stregua di una causa di revocazione dell’atto ex art. 801. Se poi tali comportamenti sono posti in essere, sempre nel lasso temporale in questione, da uno degli esclusi dall’attribuzione preferenziale, non ne discenderà un esito sostanzialmente diverso, atteso che alla liquidazione della quota spettante a ciascuno di tali soggetti deve riconoscersi la natura, nei rapporti con il disponente, di una liberalità indiretta, laddove l’art. 809 estende espressamente alle liberalità atipiche o indirette, appunto, le norme che regolano la revocazione delle donazioni per causa di ingratitudine (cfr. sempre Delle Monache 2009, 747). 8.8. Dubbia si presenta la questione se la stipula del patto di famiglia sia possibile anche da parte di quell’imprenditore o titolare di partecipazioni societarie che, oltre a non avere coniuge, vanti un unico discendente (per la negativa cfr. Oppo 2006, 443; Petrelli 2006, 434 s.; diversamente, tuttavia, Oberto 2006, 86; Zoppini 2006, 275). Invero, l’eventualità che legittimari possano sopravvenire (per la nascita di un figlio o la celebrazione di nozze), alla luce della disposizione dell’art. 768-sexies c.c., deve indurre a ritenere che il patto sia liberamente stipulabile tra il solo disponente e l’assegnatario. In tale accordo le parti dovranno pertanto fissare il valore dell’attribuzione, fermo restando che gli eventuali legittimari sopravvenuti potranno aderire al patto stesso, ovvero rimanerne estranei, senza in tal modo dover subire alcuna eventuale conseguenza pregiudizievole (Oberto 2006, 86). 8.9. Sempre in tema di soggetti del patto di famiglia basterà in questa sede solo citare l’esistenza di problemi relativi alla rappresentanza, sia volontaria che legale (per un approfondimento dei quali cfr. Oberto 2006, 86 ss.).

 

9 Oggetto dell’attribuzione del disponente. Il trasferimento dell’azienda. 9.1. L’oggetto dell’attribuzione del disponente è descritto dall’art. 768-bis c.c. come un trasferimento che investe «in tutto o in parte, l’azienda», o «in tutto o in parte, le (…) quote» del «titolare di partecipazioni societarie». Si tratta dunque di un effetto reale, che investe il diritto di proprietà (o, come si è visto, di usufrutto: cfr. supra, sub n. 7) sui beni descritti dalla disposizione citata, che ben potrebbe essere preceduto da un obbligo di tipo meramente preliminare (Oberto 2006, 46). 9.2. In base alla sicura applicabilità della disciplina generale del contratto, non contraddetta in parte qua da elementi normativi in senso contrario, dovrà pure ammettersi che l’efficacia del patto nel suo complesso, così come anche del solo effetto reale, possano essere sottoposti a termine o a condizione. Così, ad esempio, le parti potranno prevedere che l’effetto traslativo dell’azienda o delle partecipazioni societarie si produrrà solo nel momento in cui i destinatari di siffatte attribuzioni avranno interamente liquidato le quote degli altri legittimari, secondo le stime previste in contratto, oppure che la nascita di un nuovo legittimario determinerà automaticamente il venir meno degli effetti del patto. Termini e condizioni possono apporsi anche all’efficacia delle singole partecipazioni dei vari contraenti (Oberto 2006, 93 s.). 9.3. Venendo ai possibili beni oggetto dell’effetto reale, il primo interrogativo concerne l’azienda. Trattandosi qui di un complesso di beni dotato, come noto, del carattere di universitas, ci si chiede se il patto possa riguardare anche solo singoli beni aziendali. Sul punto il richiamo alla ratio della riforma – tesa a conciliare il diritto dei legittimari con l’esigenza di assicurare continuità all’impresa, garantendo la dinamicità degli istituti collegati all’attività di impresa, assicurando la massima commerciabilità dei beni nei quali si traduce giuridicamente l’attività stessa: l’azienda, nella quale si realizza l’impresa individuale, e le partecipazioni sociali nelle quali si concretizza l’impresa collettiva, quella svolta cioè in forma societaria – sembra indurre a circoscrivere l’espressione «in parte» al solo caso della cessione di ramo d’azienda (Oberto 2006, 93 s.). 9.4. Dovrà trattarsi, dunque, di una parte dell’azienda che di quest’ultima riproduca, in scala più o meno ridotta, tutte le caratteristiche e che possegga un grado di autonomia tale da poter essere gestita separatamente dal corpo principale. In proposito sarà possibile ricorrere al concetto di ramo d’azienda, come elaborato con riguardo al disposto dell’art. 2112 c.c., nel testo successivo alle modifiche di cui alla l. 2 febbraio 2001, n. 18, in applicazione della direttiva CE n. 98/50 (per ulteriori approfondimenti e per la casistica prospettabile si fa rinvio a Oberto 2006, 95 ss.). 9.5. Si è poi affermato che non sembrano sussistere limiti all’autonomia privata nel configurare l’oggetto del trasferimento di azienda e le relative pattuizioni. Conseguentemente, sarà legittimo, ad esempio, escludere dal trasferimento i crediti e debiti aziendali preesistenti, o, nei limiti consentiti dall’art. 2558 c.c., i contratti aziendali; potrà essere liberamente pattuito il trasferimento o meno di ditta, insegna, marchi, brevetti, singoli beni mobili ed immobili facenti parte del complesso, alla sola condizione che permanga l’idoneità produttiva ed organizzativa del complesso dei beni costituenti l’azienda ai fini della continuazione dell’attività d’impresa (così Petrelli 2006, 420 s.). 9.6. Nel caso l’azienda afferisca ad una impresa familiare ex art. 230-bis c.c., l’art. 768-bis c.c. impone che il trasferimento avvenga «compatibilmente con le disposizioni in materia», per l’appunto, di impresa familiare. Anche senza assegnare all’istituto la qualifica di donazione, sembra potersi affermare che il carattere gratuito e liberale dell’attribuzione in discorso escluda che in capo ai partecipanti all’impresa familiare sorga il diritto di prelazione sull’azienda trasferita (ex artt. 230-bis, quinto comma, 732 c.c.) (Balestra 2006, 378; Id. 2009, 507s.; Petrelli 2006, 415; Oberto 2006, 97; contra Condò, op. loc. ultt. citt., secondo cui «il patto di famiglia non potrà superare il diritto di prelazione previsto dall’art. 230-bis»; Fusaro 2008, 882), il quale, per sua natura spetta solo a fronte di contratti a titolo oneroso (per quest’ultima osservazione Merlo 2006b, 8 s.; nel senso che «l’istituto della prelazione, traducendosi nella sostituzione di un soggetto all’altro nella posizione di acquirente dietro un predeterminato corrispettivo, è naturalmente riferibile ai soli trasferimenti onerosi» v. CC 12 gen. 1989/93, GC, 1990, II, 563; RN 1989, II, 1244; GC, 1989, I, 1378; escludono il diritto di prelazione previsto dall’art. 230-bis c.c. nel caso di trasferimento gratuito Balestra, L’impresa familiare, Milano, 1996, 317; Palmeri, Del regime patrimoniale della famiglia, II, Bologna-Roma, 2004, 169). 9.7. Relativamente all’interrogativo sul significato dell’inciso «compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa familiare». In proposito è stato osservato che il riferimento alla disciplina dell’impresa familiare può essere interpretato alla stregua di una deroga di quanto disposto dal primo comma dell’art. 230-bis c.c., nel senso che quanto attribuito ai legittimari non assegnatari non deve costituire corrispettivo dell’attività da loro svolta nell’ambito dell’impresa familiare e comunque non deve integrare una partecipazione agli utili dell’impresa od agli incrementi dell’azienda proporzionale alla quantità e qualità del lavoro prestato (così Merlo 2006b, 9). D’altro canto, determinando comunque il patto una alienazione dell’azienda, il titolare dovrà procedere a liquidare preventivamente i familiari che collaborano nell’impresa, secondo quanto previsto dal quarto comma dell’art. 230-bis c.c. Se poi il collaboratore è un legittimario potenziale del disponente, il diritto medesimo si cumulerà con quello previsto dall’art. 768-quater, 2° co. (Petrelli 2006, 415).

 

10 Oggetto dell’attribuzione del disponente. Il trasferimento delle partecipazioni societarie. 10.1. Per quanto attiene invece alle partecipazioni societarie, occorre prendere atto della circostanza che il legislatore non ha ritenuto di introdurre alcuna distinzione, per cui la norma sarà applicabile anche alle c.d. «società di godimento» (così Oberto 2006, 98 s.; contra Petrelli 2006, 421 s., il quale riconosce peraltro che il notaio non è in grado di sapere, con i mezzi a sua disposizione, se con i beni del patrimonio sociale venga o meno esercitata attività d’impresa), nelle quali non si ha esercizio organizzato di attività economica, pur con tutti i problemi di validità che le medesime possono suscitare alla luce del disposto dell’art. 2248 c.c.: norma, del resto, facilmente eludibile e quotidianamente elusa mediante «società di comodo», costituite mediante la fittizia enunciazione, nel contratto costitutivo, dell’intento di esercitare una data attività di impresa (cfr. per tutti Galgano, sub art. 2248, in Aa. Vv., Commentario al codice civile, diretto da Cendon, V, 2, Torino, 1991, p. 773 ss.). 10.2. Un indizio in questo senso pare del resto desumibile dalla Relazione al citato progetto C/3870, in cui, a commento del proposto settimo comma dell’art. 734-bis c.c. – a mente del quale le disposizioni del patto di famiglia si sarebbero dovute applicare «anche alle partecipazioni sociali» – si affermava che «Il settimo comma parifica alla fattispecie dell’assegnazione di azienda quella di assegnazione di partecipazioni, in società di qualsiasi specie» (enfasi d. a.: cfr. Oberto 2006, 98 ss.). In senso contrario sembra invece orientata l’opinione maggioritaria, che, dall’accostamento dell’imprenditore al titolare di partecipazioni societarie, quali soggetti a cui è consentito l’accesso al patto di famiglia, desume che la partecipazione si debba presentare come ulteriormente qualificata, sotto il profilo della sua attitudine a porsi come strumento idoneo ad assicurare un potere di concorso e influenza nella gestione dell’impresa collettiva (Gazzoni 2006, 220 s.; Zoppini 2006, 278; Ieva 2007, 47 s.; Balestra 2007, 29 s.; Id. 2009, 499 s.; De Nova, in De Nova, Delfini, Rampolla e Venditti 2006, 3; Baralis 2006, 224 ss.). 10.3. Comuni alle attribuzioni tanto d’azienda che di partecipazioni societarie sono le osservazioni circa la necessità (desumibile dal dovere di liquidazione di cui all’art. 768-quater c.c.) di una valutazione concordata e quindi definitiva dell’azienda o delle partecipazioni oggetto del trasferimento (così Fietta, Patto di famiglia, cit., 7). Ciò sembra trovare conferma dall’art. 768-sexies c.c., che presuppone, ai fini della liquidazione dei legittimari non intervenuti nel patto, che il rinvio allo stesso consenta con precisione e chiarezza la possibilità di individuare la somma agli stessi dovuta, dando per scontato così che il patto chiaramente individui il valore dell’azienda o delle partecipazioni sociali su cui calcolare la somma (corrispondente alla quota di legittima rapportata a tale valore) dovuta agli assegnatari secondo i criteri della legittima. Tale valutazione risulterà pertanto vincolante per i suddetti legittimari non stipulanti il patto, con la conseguenza che, se questi ultimi decideranno di aderirvi, si vedranno attribuito il diritto di essere liquidati proprio in relazione a tale valore, con il solo riconoscimento degli interessi legali (Fietta, Patto di famiglia, cit., 7). 10.4. Da quanto sopra deriva che il notaio dovrà avere cura, nella stesura del patto, qualora la somma concordata a favore dei non assegnatari non coincida con la loro legittima, sia per difetto (per rinuncia parziale), sia per eccesso, di evidenziare tutto ciò, dovendosi presumere altrimenti che quanto liquidato corrisponda alla legittima, con le conseguenze evidenziate (Fietta, Patto di famiglia, cit., 7). Nel caso non vi sia alcuna liquidazione, il notaio dovrà curare l’inserimento di una rinunzia espressa. L’inciso «ove questi non vi rinunzino in tutto o in parte» sembra infatti presupporre, per l’essenza stessa del patto, una chiara manifestazione di volontà da parte dei legittimari, e pertanto, mentre da una liquidazione determinata può ricavarsi per implicito, tramite il raffronto con il valore dichiarato, una rinunzia implicita alla differenza, assai più difficile appare desumere dal silenzio la presenza di una rinunzia totale ad ogni diritto derivante dal patto (Oberto 2006, 100 s.). 10.5. Per ciò che attiene, poi, al profilo traslativo, va ricordato che l’art. 768-bis c.c. richiede che la convenzione rispetti le «differenti tipologie societarie». Al riguardo si è rimarcato che tale previsione assume una diversa connotazione nelle società di persone e nelle società di capitali. 10.6. Nelle prime, la cessione di una quota sociale rappresenta una fattispecie modificativa del contratto sociale che, in assenza di una diversa pattuizione, deve essere approvata da tutti i soci all’unanimità (art. 2252 c.c.). Solo per la quota del socio accomandante l’art. 2322 c.c. prevede che il trasferimento sia approvato dalla maggioranza dei soci che rappresentano la maggioranza del capitale sociale. Ne consegue che il patto di famiglia potrà trovare attuazione solo qualora sia stato preventivamente acquisito il consenso unanime dei soci o della maggioranza degli stessi nel caso previsto dall’art. 2322 c.c. oppure vi sia nei patti sociali una clausola di libera trasferibilità tra vivi della quota (Sul punto v., anche per i richiami, Merlo 2006b, 9; cfr. inoltre Petrelli 2006, 415 s.). 10.7. Nelle società di capitali, invece, il trasferimento di una partecipazione sociale non costituisce modifica dell’atto costitutivo e, in generale, l’anzidetta partecipazione è liberamente trasferibile, in assenza di un’espressa previsione statutaria (i dati normativi di riferimento, come novellati dal d.lgs. n. 6/2003, sono rappresentati dagli artt. 2355-bis c.c. e 2469 c.c.). Qualora tuttavia i patti sociali prevedano limiti alla trasferibilità, oppure una clausola di gradimento, la conclusione del patto di famiglia (nel caso di clausole limitative al trasferimento) deve essere sottoposta al rispetto di detti limiti e (nel caso di clausola di gradimento) richiede la preventiva acquisizione del placet da parte degli organi sociali (cfr. Merlo 2006b, 9).

 

11 Costituzionalità della limitazione all’azienda e alle partecipazioni societarie. Il caso della divisio inter liberos coinvolgente altri beni. 11.1. Secondo l’opinione preferibile e conforme al testo della norma, il patto di famiglia può avere ad oggetto solo i beni descritti dall’art. 768-bis c.c., con esclusione, pertanto, di qualsiasi altro tipo di cespite. La conformità a Costituzione di siffatta scelta normativa è stata argomentata in sede di lavori preparatori, rilevandosi in proposito che l’art. 3 della Carta Fondamentale «consente trattamenti differenziati in presenza di situazioni diverse», mentre «oggetto del patto di famiglia è l’azienda, la quale per la sua funzione economica – che trova un’apposita tutela nel principio espresso dall’articolo 41 della Costituzione – si distingue rispetto agli altri beni, mobili o immobili, che possono essere oggetto di successione. Conseguentemente la diversa disciplina dell’azienda rispetto agli altri beni che costituiscono l’asse ereditario giustifica il diverso regime giuridico cui essa può essere sottoposta» (cfr. il resoconto della seduta della Commissione affari costituzionali del Senato, sottocommissione per i pareri, del 31 gennaio 2006, n. 276, nel corso della quale il senatore Pastore, con l’accordo della Commissione, ha sostenuto la conformità della nuova normativa all’art. 3 Cost. sulla base dei rilievi riportati nel testo; v. inoltre Petrelli 2006, 404 s.). 11.2. Ha peraltro destato perplessità nei primi commentatori la circostanza che la legge non abbia previsto l’ipotesi forse più frequente nella pratica: cioè quella del genitore che, mentre attribuisce ad alcuni figli l’azienda (o un ramo di essa, o le partecipazioni sociali), agli altri trasferisca altri tipi di beni (Fietta, Patto di famiglia, cit., 8). Effettivamente, tale fattispecie non viene in alcun modo disciplinata dalla legge. 11.3. Peraltro, una parte della dottrina tende ad ammettere che, mediante il patto di famiglia, il disponente, oltre a destinare l’azienda o le partecipazioni societarie a qualcuno dei suoi discendenti, possa trasferire atri suoi beni (immobili, titoli, denaro) ai partecipanti non assegnatari dei beni d’impresa (Petrelli 2006, 441 s.; Delfini, in De Nova, Delfini, Rampolla e Venditti 2006, 24 ss.; parla, al riguardo, di un patto di famiglia «di tipo verticale», Lucchini Guastalla, sub art. 768-quater c.c., NLCC, 58 s.). Ad avviso di alcuni Autori, invero, proprio questa sarebbe l’ipotesi da ritenere disciplinata nel 3° co. dell’art. 768-quater, là dove si parla di «beni assegnati con lo stesso contratto agli altri partecipanti non assegnatari dell’azienda»: una tale dicitura, invero, risulterebbe appropriata soltanto ove interpretata come riferita alle attribuzioni effettuate dal disponente, mentre ciò che il discendente prescelto è tenuto a prestare, in denaro o altrimenti, a titolo di liquidazione della quota dovuta ai restanti legittimari potenziali non rientra, a rigore, nel concetto di assegnazione (Delle Monache 2009, 743). 11.4. In senso contrario si è però obiettato che la deroga al divieto di patti successori è prevista limitatamente al solo patto di famiglia, così come disciplinato dagli artt. 768-bis ss. c.c., per cui un’interpretazione che coinvolga nella disciplina dello stesso altri beni, pur se funzionali al patto, non sembra conforme alla lettera della novella; né, tanto meno, sembra ipotizzabile nella specie il ricorso all’estensione analogica, di fronte al carattere eccezionale delle norme in discorso: carattere reso evidente dal già evidenziato rapporto dialettico regola-eccezione rispetto al principio generale ancora contenuto nell’art. 458 c.c. (Oberto 2006, 102). Ne segue che, nel patto di famiglia, l’autonomia negoziale, pur indiscutibilmente presente, in quanto legata alla natura contrattuale dell’atto, non potrà spingersi al di là dei limiti sopra indicati. Essa potrà quindi muoversi esclusivamente nel perimetro dell’interpretazione estensiva, ma non potrà certo colmare le vistose lacune di questa normativa abborracciata, mediante l’unico procedimento ermeneutico astrattamente idoneo all’uopo, cioè appunto, l’analogia, vietata ogni qualvolta ampliare spazi alla negozialità delle parti significherebbe porre in essere un patto successorio dai contenuti più ampi di quello delineato dagli artt. 768-bis ss. c.c. 11.5. Da quanto sopra deriva che non potrà qualificarsi come patto di famiglia l’attribuzione con la quale un soggetto operi una divisio inter liberos per atto tra vivi, disponendo immediatamente il trasferimento dell’azienda (o di partecipazioni sociali) nei confronti di uno o più discendenti, immediatamente e contestualmente cedendo beni diversi agli altri legittimari. Peraltro, non può neppure escludersi, almeno in linea di principio, che i due negozi possano di fatto coesistere, magari «fisicamente» contenuti nel medesimo rogito, nel senso che potremo avere un patto di famiglia per il primo profilo e una donazione per il secondo. Si è quindi sostenuto (Oberto 2006, 104) che, ad esempio, il genitore A che si trovi ad essere coniugato con B e ad avere come figli C e D potrà, in unico atto, trasferire la sua azienda a C, contestualmente donando altri beni a B e a D. D’altro canto, nulla osterebbe a che, a fronte dell’attribuzione dell’azienda dal genitore al figlio C e di altri beni a B e a D, questi ultimi dichiarino di rinunziare alla liquidazione che competerebbe loro per effetto del trasferimento dell’azienda al solo figlio C. Ovviamente la disattivazione delle tutele dei legittimari potrà valere solo per il primo negozio, per cui i rapporti potranno risultare, alla fine, «disequilibrati», pur in presenza di attribuzioni di pari valore. Peraltro, il «vantaggio riducibile» attribuito a B e D (visto che il valore dell’azienda trasferita a C non potrebbe più venire in considerazione nella riunione fittizia ai fini del calcolo della legittima) potrebbe annullarsi o scemare, per effetto di successive donazioni o disposizioni testamentarie, questa volta a favore del solo C.

 

768-ter

Forma.A pena di nullità il contratto deve essere concluso per atto pubblico.

 

1.1. Il requisito in oggetto risponde all’intento, comune alla donazione, di tutela della effettività e spontaneità della volontà del disponente di compiere l’atto di liberalità; un’ulteriore conferma della necessità della cautela formale dell’atto pubblico in caso di attribuzioni liberali di beni viene, del resto, dall’art. 2645-ter c.c., che prevede la trascrizione degli atti di destinazione, nella sola forma di atto pubblico, in forza dei quali l’autonomia privata realizza interessi meritevoli di tutela «riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni o ad altri enti o persone fisiche» (cfr. Manes 2006, 556). 1.2. La legge non impone peraltro espressamente la forma dell’atto pubblico notarile, né la presenza di testimoni. Esclusa la possibilità di configurare il patto alla stregua di una donazione (v. sub art. 768-bis c.c., n. 4; contra, Caccavale 2006b, 28 s., che proprio dalla qualificazione del patto alla stregua di una donazione fa derivare la necessaria presenza di testimoni), per quanto attiene al primo aspetto (cioè alla forma necessariamente, o meno, notarile), il richiamo alla «dichiarazione agli altri contraenti certificata da un notaio», di cui all’art. 768-septies, n. 2, c.c., consente di desumere l’intento del legislatore di imporre ad substantiam la forma dell’atto notarile per la stipula del patto: se, infatti, l’intervento del notaio è espressamente richiesto per l’esercizio del diritto di recesso, a maggior ragione deve ritenersi che siffatto intervento sia domandato per la stipula di quell’atto che siffatto diritto potestativo di recesso può prevedere (ed anzi deve espressamente prevedere, perché il recesso possa validamente compiersi) (Oberto 2006, 58). 1.3. Se ne è desunta l’impossibilità di dar vita al patto ex artt. 768-bis ss. c.c., in sede, ad esempio, di stipula di un contratto della crisi coniugale di fronte a cancelliere in verbale di separazione o di divorzio su domanda congiunta: ciò ancora a prescindere, naturalmente, dal profilo della possibilità o meno della partecipazione all’udienza anche di soggetti che non sono parti, in senso tecnico, della procedura, quali i figli (Oberto 2006, 58; sul tema della possibilità di dar vita ad un contratto della crisi coniugale coinvolgente eventualmente terzi soggetti cfr. Id., I contratti della crisi coniugale, II, cit., 1153 ss.; Id., Prestazioni «una tantum» e trasferimenti tra coniugi in occasione di separazione e divorzio, Milano, 2000, 135 ss., 154 ss.). 1.4. Per ciò che attiene poi alla presenza dei testimoni, va ricordato che l’attuale versione dell’art. 48 l.notar., così come riformata dall’art. 12, lett. b) e c), l. 28 nov. 2005/246 («Semplificazione e riassetto normativo per l’anno 2005»), non consente in alcun modo un’estensione analogica al patto di famiglia della disposizione dettata in tema di forma della donazione o della convenzione matrimoniale, atteso il carattere pacificamente eccezionale – ricavabile dal raffronto con il precedente art. 47 – che la disposizione è venuta ad assumere (reputa invece «probabilmente più corretta l’interpretazione che ritiene necessaria l’assistenza dei testimoni» Petrelli 2006, 427; contra Rampolla, in De Nova, Delfini, Rampolla e Venditti 2006, 13 s.). 1.5. In ogni caso, poiché è stata da più parti prospettata la tesi della riconducibilità del patto di famiglia all’archetipo della donazione, appare opportuno, dal punto di vista pratico, suggerire ai notai di disporre comunque l’intervento in atto dei testimoni. La loro presenza, invero, sebbene del tutto superflua, allo stato attuale della legislazione, non determina comunque l’invalidità dell’atto, laddove la loro assenza comporterebbe rischi di nullità, ove avesse ad affermarsi la tesi della donazione (Oberto 2006, loc. ult. cit.).

 

768- quater

Partecipazione.Al contratto devono partecipare anche il coniuge e tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell’imprenditore.

 

Gli assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie devono liquidare gli altri partecipanti al contratto, ove questi non vi rinunzino in tutto o in parte, con il pagamento di una somma corrispondente al valore delle quote previste dagli articoli 536 e seguenti; i contraenti possono convenire che la liquidazione, in tutto o in parte, avvenga in natura.

 

I beni assegnati con lo stesso contratto agli altri partecipanti non assegnatari dell’azienda, secondo il valore attribuito in contratto, sono imputati alle quote di legittima loro spettanti; l’assegnazione può essere disposta anche con successivo contratto che sia espressamente dichiarato collegato al primo e purché vi intervengano i medesimi soggetti che hanno partecipato al primo contratto o coloro che li abbiano sostituiti.

 

Quanto ricevuto dai contraenti non è soggetto a collazione o a riduzione.

Sommario: 1. I soggetti. Il problema della partecipazione di tutti i legittimari. — 2. La posizione del coniuge. — 3. L’oggetto della prestazione dei destinatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie. La liquidazione delle quote dei legittimari e il problema dell’intervento del disponente nella liquidazione. — 4. Il pagamento rateizzato o differito nel tempo della liquidazione. — 5. La liquidazione in natura e l’eventuale assegnazione con successivo contratto. — 6. Sulla natura di liberalità indiretta della liquidazione in denaro o in natura. — 7. Conseguenze del patto sulla successione del disponente. Collazione, riduzione, riunione fittizia e imputazione ex se. Le attribuzioni ricevute dai legittimari non assegnatari. — 8. Segue. Le attribuzioni ricevute dagli assegnatari.

 

1 I soggetti. Il problema della partecipazione di tutti i legittimari. 1.1. Ai sensi del primo comma dell’articolo in commento «Al contratto devono partecipare anche il coniuge e tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell’imprenditore». Al riguardo una parte consistente della dottrina ritiene che la partecipazione al patto di famiglia da parte di tutti i legittimari sia necessaria ad validitatem. In particolare indurrebbe a tale conclusione la considerazione del carattere necessariamente plurilaterale del negozio, la sua struttura essendo caratterizzata dall’intervento di soggetti appartenenti a tre diverse categorie: l’imprenditore o il titolare di partecipazioni societarie (disponente), il discendente o i discendenti cui vengono attribuite l’azienda o le partecipazioni societarie (partecipanti assegnatari dei beni d’impresa), gli altri potenziali legittimari in vita al momento della conclusione dell’accordo (partecipanti non assegnatari dei beni d’impresa): in questo senso cfr. Balestra 2006, 372; Id. 2007, 26; Id. 2009, 484 s.; Baralis 2006, 223; Delle Monache 2006, 893 ss.; Id. 2009, 741; Friedmann, Prime osservazioni sui patti di famiglia, cit., 62; Inzitari, Dagna, Ferrari e Piccinini 2006, 42, 54 s., 244 ss.; Tassinari 2006, 162; Vitucci 2006, 448; De Nova, in De Nova, Delfini, Rampolla e Venditti 2006, 3; Ieva 2007, 48, 53. 1.2. Nel senso, non di una generica plurilateralità, bensì del carattere costantemente trilaterale del patto di famiglia cfr. Gazzoni 2006, 219 s., secondo il quale i discendenti assegnatari e i rimanenti legittimari potenziali – gli uni e gli altri se in numero superiore ad uno – formerebbero due parti soggettivamente complesse e che, in quanto tali, contribuirebbero alla formazione dell’accordo mediante un atto collettivo. 1.3. Chi poi ritiene che il patto sia caratterizzato dall’idoneità a realizzare una funzione divisionale (sul punto, v. supra, sub art. 768-bis, n. 5), argomenta da ciò per concludere nel senso dell’applicabilità ad esso dei principi ispiratori della disciplina della divisione, tra i quali va annoverato quello che richiede la partecipazione al riparto di tutti gli aventi diritto (Amadio 2006, 75; Id. 2006b, 886). 1.4. Altri Autori pervengono poi alla medesima soluzione sottolineando che la denominazione prescelta dal legislatore (patto di famiglia) indurrebbe a ritenere necessaria, per l’appunto, la partecipazione di tutti i legittimari del disponente (rectius: di tutti coloro che sarebbero legittimari, se si aprisse la successione nel momento della stipula del patto), anche ai sensi degli artt. 1420 e 1446 c.c., con la conseguenza che l’omessa partecipazione, in questo caso, determinerebbe non l’inefficacia, ma la nullità ab origine del contratto (così Buffone 2006, loc. ult. cit.; nello stesso senso v. pure Venchiarutti, Patto di famiglia e successione nell’impresa, in Persona e danno, 20 marzo 2006, disponibile all’indirizzo web seguente: http://www.personaedanno.it/site/sez_browse1.php?browse_id=3359&campo1=23&campo2=211a; in senso critico rispetto a tale presa di posizione v. però Caccavale 2006b, 13 ss.; per una sintesi delle diverse posizioni della dottrina cfr. Fusaro 2008, 873 ss.). 1.5. Peraltro, secondo un’opinione radicalmente diversa (Oberto 2006, 67 ss.) la soluzione all’interrogativo circa la necessaria partecipazione di tutti i legittimari potenziali va verificata alla luce del disposto dell’articolo 768-sexies c.c., secondo il quale «all’apertura della successione dell’imprenditore, il coniuge e gli altri legittimari che non abbiano partecipato al contratto possono chiedere ai beneficiari del contratto stesso il pagamento della somma prevista dal secondo comma dell’articolo 768-quater, aumentata degli interessi legali. L’inosservanza delle disposizioni del primo comma costituisce motivo di impugnazione ai sensi dell’articolo 768-quinquies». 1.6. Ora, secondo i sostenitori della tesi della necessaria partecipazione, ad validitatem, di tutti i legittimari, questo articolo potrebbe riferirsi ai soli legittimari sopravvenuti (si pensi ai figli nati o adottati successivamente, o al nuovo coniuge) (nello stesso senso Venchiarutti, op. loc. ultt. citt.), ma a tale impostazione si è obiettata la possibilità di prospettare un’altra lettura: vale a dire quella secondo cui, proprio dal tenore di questa norma, può ricavarsi che la sanzione per la mancata partecipazione di uno o più legittimari già esistenti al momento della stipula del patto non consiste nella nullità del patto medesimo, ma nell’applicazione delle sole conseguenze di cui all’art. 768-sexies c.c. (Oberto 2006, 67 ss.; in senso conforme v. Petrelli 2006, 427 ss.), e dunque della sola inefficacia per i legittimari non partecipanti al patto, come dimostrato dal tenore letterale della disposizione da ultimo citata, che sembra suffragare proprio questa seconda soluzione. 1.7. Invero – si è osservato – basterà tenere presente che l’art. 768-sexies c.c., lungi dallo stabilire che gli effetti del patto si estendono anche ai legittimari che non lo abbiano sottoscritto, si limita a prevedere che tali terzi  «possono» chiedere ai beneficiari del contratto stesso il pagamento della somma prevista dal secondo comma dell’articolo 768-quater, aumentata degli interessi legali, con conseguente possibilità di desumere  l’intento del legislatore di consentire a costoro di aderire al patto, fermo restando che, in caso contrario, ad essi il patto non sarà opponibile, in applicazione, del resto, del generale principio scolpito nell’art. 1372 cpv. c.c. (così Oberto 2006, 67 s.; contra Petrelli 2006, 452, secondo cui i legittimari sopravvenuti sarebbero addirittura vincolati al patto e potrebbero unicamente esperire le azioni ex art. 768-sexies c.c.). 1.8. La dottrina che sostiene il carattere necessariamente plurilaterale del negozio conclude invece per la nullità del patto in cui si verifichi la mancata partecipazione all’accordo contrattuale di anche uno solo dei legittimari in pectore non assegnatari dei beni d’impresa (Gazzoni 2006, 219; Inzitari, Dagna, Ferrari e Piccinini 2006, 42, 54 s., 244 ss.; contra, e nel senso che la mancata partecipazione di un legittimario già esistente determini la mera inopponibilità del patto nei suoi confronti, Petrelli 2006, 432 s.; Oberto 2006, 67 ss.; in tale ultimo senso v. anche Oppo 2006, 441; La Porta 2007, 24, che intende il patto di famiglia come contratto a favore di terzo rispetto a cui l’acquisto del beneficiario – tali essendo i legittimari esclusi dall’attribuzione preferenziale – si perfezionerebbe soltanto nel momento della sua adesione). 1.9. In senso contrario alla tesi della nullità, si pone in evidenza la necessità di tenere conto del riferimento testuale ai «legittimari che non abbiano partecipato al contratto», anziché ai (soli) «legittimari che non abbiano potuto partecipare al contratto»; questo elemento, unito alla predisposizione della speciale sanzione dell’inefficacia del patto verso quei legittimari che – per qualsiasi ragione e senza differenziazione alcuna in merito al momento d’acquisto della loro qualità di legittimari – «non abbiano partecipato al contratto», consente di superare la tesi della «nullità virtuale» per violazione di una norma imperativa (art. 768-quater c.c.): di nullità virtuale non appare, invero, possibile parlare allorquando il legislatore commini espressamente, come si è visto, una diversa sanzione (quella, per l’appunto, dell’inefficacia nei confronti dei soggetti non partecipanti al patto), incompatibile con la nullità (così Oberto 2006, 69). 1.10. V’è ancora da aggiungere che, ad avviso dei fautori della tesi della nullità per mancata partecipazione di tutti i legittimari potenziali, il patto potrebbe formare oggetto di conversione, trasformandosi in una o più donazioni traslative (cfr. per tutti Delle Monache 2009, 741; sul tema della conversione del patto di famiglia cfr. inoltre infra, sub art. 768-quinquies).

 

2 La posizione del coniuge. 2.1. Del tutto peculiare appare la posizione del coniuge del disponente, quale soggetto che può trovarsi a perdere, successivamente alla stipula del patto, la qualità di legittimario, non solo per effetto di predecesso rispetto alla scomparsa del disponente, ma anche in conseguenza di divorzio. 2.2. Da taluno (Fietta, Patto di famiglia, cit., 14: cfr. inoltre infra, sub art. 768-sexies, n. 2) si è sollevato l’interrogativo circa la sussistenza di un obbligo, in capo al coniuge firmatario del patto, di restituire quanto eventualmente ricevuto, una volta che il rapporto di coniugio dovesse venire meno per effetto della cessazione degli effetti civili o dello scioglimento del matrimonio. 2.3. In senso contrario si è osservato che le attribuzioni in esame posseggono una loro giustificazione ben precisa, riscontrabile non già nelle disposizioni in tema di successione, ma nell’attribuzione inter vivos oggetto del patto di famiglia. Gli artt. 768-bis ss. c.c. non solo non prevedono alcun obbligo di restituzione nel caso la qualità di legittimario dovesse venire a cessare, ma danno chiaramente ad intendere che l’eventuale presenza, all’atto del decesso del disponente, di un «parco legittimari» diverso da quello esistente al momento della firma del patto, non costituisce in alcun modo ragione di scioglimento del contratto. Tutto al contrario, all’apertura della successione del disponente, il coniuge e gli altri legittimari che non abbiano partecipato al negozio «possono chiedere ai beneficiari del contratto stesso il pagamento della somma prevista dal secondo comma dell’articolo 768-quater, aumentata degli interessi legali», in base ad una norma (art. 768-sexies c.c.), che offre ai legittimari «terzi» solo l’alternativa tra la possibilità di aderire al patto e quella di avvalersi degli strumenti ordinari a tutela della quota di legittima, senza alcuna possibilità di impugnare il patto medesimo (a meno che, una volta che il legittimario abbia aderito allo stesso, le altre parti non adempiano all’obbligo di liquidazione previsto dalle norme citate: cfr. Oberto 2006, 73). 2.4. In base a tale rilievo può pertanto pervenirsi alla conclusione per cui la premorienza di uno dei legittimari rispetto al disponente non può determinare il diritto degli altri partecipanti di chiedere agli eredi non discendenti del premorto (si pensi al coniuge, in assenza di figli) la restituzione di quanto ricevuto per effetto del patto da parte del legittimario predeceduto (l’interrogativo è posto da Fietta, Patto di famiglia, cit., 14). Lo stesso vale anche per il coniuge che venga a cessare di essere tale per effetto di divorzio dal disponente. 2.5. Si è soggiunto sul punto che, in correlazione con la natura contrattuale del patto di famiglia e in applicazione dei principi in tema di autonomia privata, si potrebbe ipotizzare l’apposizione di una condizione risolutiva al patto di famiglia, in forza della quale la partecipazione del coniuge al patto verrebbe meno in caso di divorzio, con conseguente obbligo di restituzione di quanto eventualmente ricevuto. La conclusione sembra rafforzata dalle conclusioni cui la dottrina unanime perviene in caso di donazioni tra coniugi. Non vi è infatti incertezza tra gli Autori sulla liceità della donazione, sia obnuziale che in costanza di matrimonio, risolutivamente condizionata alla pronunzia di divorzio: la condizione avente ad oggetto lo scioglimento del matrimonio per divorzio (ma anche, è da ritenere, per separazione legale o di fatto), invero, non può intendersi come divietante quello scioglimento, quindi non è illecita. Essa non coarta una libertà fondamentale e preziosa, né può ipotizzarsi costituisca una remora alla richiesta di divorzio, vista la perdita del vantaggio conseguente alla donazione. Più semplicemente, è il fatto in sé, eventuale e futuro, eletto a condizione, ad operare in termini risolutivi. Quanto sopra riceve del resto conferma dalla comparazione con l’ordinamento tedesco, in cui si ammette la piena validità del negozio di trasferimento di un bene mobile da un coniuge all’altro, con riserva di un Rückforderungsrecht für den Fall der Scheidung (per i rinvii e i necessari approfondimenti si rimanda a Oberto 2006, 75; allo stesso studio si rimanda per l’analisi dei problemi posti dal caso di successivo passaggio a nuove nozze del disponente, così come della sorte delle attribuzioni effettuate in favore di contraenti premorti al disponente). 2.6. Escluso dalla partecipazione al patto deve intendersi, in ogni caso, il coniuge separato con addebito, al quale la legge attribuisce il solo diritto all’assegno di cui all’art. 548 cpv., sempre che il de cuius fosse tenuto a corrispondergli un assegno al momento della sua morte (Zoppini 2006, 279).

 

3 L’oggetto della prestazione dei destinatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie. La liquidazione delle quote dei legittimari e il problema dell’intervento del disponente nella liquidazione. 3.1. L’oggetto della prestazione dei destinatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie è descritto come segue dall’art. 768-quater cpv. c.c.: «Gli assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie devono liquidare gli altri partecipanti al contratto, ove questi non vi rinunzino in tutto o in parte, con il pagamento di una somma corrispondente al valore delle quote previste dagli articoli 536 e seguenti; i contraenti possono convenire che la liquidazione, in tutto o in parte, avvenga in natura» 3.2. La dottrina sottolinea che il richiamo all’art. 536 c.c. deve ritenersi improprio. Come chiarisce lo stesso art. 536, la quota cui ivi si allude è «quota di eredità», e cioè frazione aritmetica del relictum al lordo dei debiti ereditari; le porzioni indicate dagli artt. 537 ss. sono invece tali rispetto al patrimonio complessivo netto del de cuius, calcolato. secondo quanto dispone l’art. 556, tenendo conto anche degli atti di liberalità inter vivos che egli abbia compiuto. Ne deriva che nessun senso ha il citato riferimento all’art. 536: laddove, per effetto dell’art. 768-quater cpv., i partecipanti non assegnatari dei beni d’impresa avranno diritto, sul valore di questi ultimi, ad una quota pari a quella individuata, in misura diversa a seconda della qualità e del numero dei legittimari, dagli artt. 537 ss. (sottolinea come, in pratica, assumano rilievo i soli artt. 537, 542 ed eventualmente 548, 1° co., Gazzoni 2006, 221; diversamente. nel senso che, richiamandosi agli art. 536 ss., il legislatore avrebbe inteso rinviare all’intera disciplina in materia di legittima, Lucchini Guastalla, sub art. 768-quater c.c., NLCC, 60). Sulla base di quanto sopra si afferma allora che la base di calcolo, ai fini della determinazione del valore delle quote spettanti ai non assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie alienate, è esclusivamente rappresentata dai beni attribuiti ex pacto (Amadio 2006, 74; Petrelli 2006, 437). 3.3. Se si ritiene l’impossibilità di un utilizzo del patto di famiglia per operare una divisio inter liberos con assegnazione di beni diversi dall’azienda o dalle partecipazioni societarie, ne segue che nel caso (tutt’altro che infrequente) in cui il figlio imprenditore non possegga i beni o il denaro necessari per operare la liquidazione dei diritti spettanti agli altri legittimari, si potrà ipotizzare un intervento da parte del disponente che, in alternativa, doni denaro e/o beni vuoi al figlio imprenditore, vuoi direttamente agli altri legittimari. Per ciò che attiene alla prima ipotesi si sono esattamente poste in luce in dottrina le controindicazioni fiscali del doppio trasferimento, nel caso in cui, per l’appunto, il genitore intendesse donare all’assegnatario il denaro e/o i beni necessari perché costui effettui la liquidazione del dovuto agli altri legittimari (Cfr. Fietta, Patto di famiglia, cit., 8). 3.4. Si è peraltro rimarcato che ancora più sconcertanti appaiono i risvolti sul piano civilistico: queste attribuzioni gratuite, invero, non sono definibili se non come donazioni e pertanto sono soggette a collazione (salvo che il donante, magari consigliato all’uopo dal notaio, escluda tale effetto, peraltro nel rispetto del disposto dell’art. 737 cpv. c.c.), nonché a riduzione, a differenza di quanto stabilito per i beni aziendali o per le partecipazioni sociali. L’esperimento dell’azione di riduzione potrà essere evitato (per lo meno: a condizione che non intervengano alterazioni successive, per effetto di donazioni o disposizioni testamentarie lesive della legittima) mediante una donazione di denaro in parti uguali a tutti i legittimari. A questo punto i discendenti assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni potranno utilizzare la loro parte per liquidare gli altri legittimari. Tale sequenza, se risulta corretta dal punto di vista normativo, incontra delle possibili controindicazioni fiscali, trattandosi – come già evidenziato – di doppio trasferimento, avuto altresì riguardo al fatto che il trasferimento da parte dell’assegnatario a favore degli altri legittimari è qualificabile quale trasferimento oneroso (così Oberto 2006, 105). 3.5. Nel caso invece in cui il disponente provvedesse egli stesso alla liquidazione della quota in favore degli altri legittimari, si potrebbe configurare una donazione indiretta a favore dell’assegnatario dell’azienda o delle partecipazioni societarie, in base al principio secondo cui l’adempimento del debito altrui costituisce, per l’appunto, liberalità indiretta, se eseguito animo donandi, cui non sarebbero, con ogni probabilità, applicabili le norme che escludono l’esenzione da collazione e da riduzione, non rientrando siffatta operazione nello schema negoziale delineato dagli artt. 768-bis ss. c.c.; lo stesso varrebbe anche per il caso in cui a tale liquidazione provvedesse un terzo, non legato da un rapporto di provvista con i beneficiari (Oberto 2006, 106). 3.6. Il pagamento da parte del terzo o del disponente non costituisce patto successorio, atteso che il pagamento non è un contratto. Ma, anche a prescindere dalla diatriba sulla natura negoziale o meno del pagamento, esso non sarebbe comunque ascrivibile alla categoria dei negozi contemplati dall’art. 458 c.c., non disponendosi di diritti rientranti in una successione. Per questa medesima ragione non si vedono ostacoli alla stessa partecipazione del terzo (il disponente, è invece, ovviamente, parte necessaria del negozio) all’atto, quale soggetto che – pur non essendo parte del patto di famiglia – corrisponda la liquidazione gravante sugli assegnatari dell’azienda o delle quote sociali (Oberto 2006, 106 s.). 3.7. Ciò che può apparire problematica è l’estensione dell’art. 768-quater ult. cpv. c.c. al caso della liquidazione operata dal disponente (per il terzo, invece, il problema non può porsi, atteso che lo stesso non è, per definizione, parte del patto e che gli effetti descritti dalla norma in oggetto sono riferiti alla sola successione del disponente). La disposizione stabilisce che «Quanto ricevuto dai contraenti non è soggetto a collazione o a riduzione». Secondo un’opinione, diversa è la risposta a seconda che consideriamo i legittimari che hanno ricevuto tale liquidazione, da un lato, e gli assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie, dall’altro, nei confronti dei quali la liquidazione operata dal disponente ha la natura di donazione indiretta. Per ciò che attiene ai primi, già rimanendo sul terreno dell’interpretazione letterale sembra possibile far rientrare nella citata dizione normativa quanto ricevuto dai legittimari non destinatari dell’azienda o delle partecipazioni sociali, visto che l’accento è posto dalla legge, per l’appunto, su «quanto ricevuto», anche se tale pagamento è stato effettuato, anziché dai cessionari dell’azienda o delle partecipazioni, dal disponente (Oberto 2006, 107). 3.8. Diversa è la conclusione per quanto attiene invece agli assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie, dal momento che l’arricchimento conseguito da costoro per effetto della donazione indiretta (effettuata dal disponente) dipende dal versamento di una somma di denaro che, in realtà, non è stata «ricevuta» da loro (essendo stata ricevuta, invece, dagli altri legittimari), per lo meno nel senso in cui tale espressione va intesa nella norma in oggetto. Inoltre non sembra esservi dubbio sul fatto che questa donazione indiretta, se dovesse ritenersi «coperta» dall’art. 768-quater c.c., e dunque non soggetta a collazione né a riduzione, verrebbe a violare il divieto dei patti successori, in quanto il suo trattamento alla stregua dell’atto di trasferimento dell’azienda o delle partecipazioni societarie si scambierebbe pur sempre con il consenso prestato dagli altri legittimari alla loro liquidazione, con l’effetto di inibire, per il tempo successivo alla morte del disponente, l’esercizio delle azioni a tutela dei legittimari medesimi. Ne deriva che tale attribuzione dovrà ritenersi sottoposta tanto a collazione che a riduzione (Oberto 2006, 107 s.). 3.9. Avverte infine la dottrina che non bisogna confondere la c.d. rinunzia degli altri partecipanti alla liquidazione della quota, qual è prevista dall’art. 768-quater cpv., con la remissione del debito di cui all’art. 1236. La prima si configura infatti come una clausola del patto di famiglia in virtù della quale, in deroga a quanto disposto dallo stesso art. 768-quater cpv., le parti convengono che nulla sia dovuto ai partecipanti non assegnatari dei beni d’impresa o che questi acquistino un credito inferiore al valore della quota ad essi spettante sui beni medesimi (Delle Monache 2006, 900). 

 

4 Il pagamento rateizzato o differito nel tempo della liquidazione. 4.1. L’eventuale ipotesi di un pagamento rateizzato o differito nel tempo (magari collegato ad un effetto sospensivo dell’efficacia del trasferimento dell’azienda o delle partecipazioni societarie) appare compatibile con la struttura del patto di famiglia, né comunque sembra in grado di porsi in contrasto con norme imperative (Oberto 2006, 107). Sebbene il testo dell’art. 786-quater, secondo comma, c.c., sembri presupporre la contestualità della liquidazione, offrendo solo l’alternativa che al denaro possano, su accordo dei partecipanti, sostituirsi beni in natura, il comma successivo del citato articolo ammette espressamente la possibilità di un contratto di assegnazione che, anche se strettamente collegato al primo, può concludersi in un momento successivo. Appare dunque ragionevole supporre che tale concessione all’autonomia privata contenga in sé anche la previsione della possibilità di un pagamento della somma rappresentante la liquidazione dei diritti dei legittimari in forma dilazionata, o rateizzata (cfr. Caccavale 2006b, 31, secondo cui «Anche il momento dell’adempimento della predetta obbligazione deve ritenersi rimesso alla disponibilità delle parti, le quali possono dunque convenire di posticiparlo ad una fase successiva rispetto a quella della stipulazione del patto e della eventuale liquidazione della quota dei legittimari»). 4.2. L’adempimento differito, dal canto suo, se da eseguirsi in natura, si configurerà come negozio traslativo di adempimento, del quale, a beneficio della certezza l’art. 768‑quater, terzo comma, c.c. postula come necessaria l’expressio causae. Non può del resto neppure escludersi l’ipotesi di un trasferimento differito, ma ad efficacia reale, nel senso che la vicenda traslativa (sia dell’azienda o delle partecipazioni societarie, che della liquidazione in natura dei diritti dei legittimari) si operi automaticamente allo scadere di una certa data o al verificarsi di un determinato avvenimento futuro ed incerto. 4.3. E’ anche ipotizzabile che le parti concludano un accordo novativo con il quale l’obbligazione pecuniaria venga sostituita con un’obbligazione avente ad oggetto un bene diverso dal danaro, ovvero che gli obbligati (cioè gli assegnatari) adempiano la loro prestazione originariamente prevista in denaro mediante datio in solutum, trattandosi di diritti pacificamente disponibili (cfr. Caccavale 2006b, 31; Fietta, Patto di famiglia, cit., 10). In tal caso, trattandosi di istituti di carattere generale, non sembra richiesta la partecipazione all’accordo di tutti i soggetti del patto, bensì solo del debitore e del creditore della prestazione in discorso. In senso contrario alla ravvisabilità nella specie di una datio in solutum si è invece asserito che l’attribuzione di cui qui si discute, anziché estinguere, impedisce il venire in essere dell’obbligazione pecuniaria di cui all’art. 768-quater, 2° co. Ciò posto, nulla è d’altra parte d’ostacolo a che l’attribuzione compiuta dall’assegnatario in favore degli altri partecipanti all’accordo contrattuale si sostanzi, invece che nel trasferimento attuale di un dato bene, nell’assunzione di un obbligo di dare. Nel qual caso la successiva prestazione eseguita dal debitore assumerà i contorni propri della figura dell’adempimento traslativo (così Delle Monache 2009, 748). 4.4. Uno dei quesiti attinenti alla liquidazione delle quote dei legittimari non assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie concerne la possibilità che i partecipanti al patto concordino l’attribuzione a favore dei non assegnatari di somme di denaro (o beni) di ammontare minore o maggiore rispetto a quanto corrisponda al risultato matematico legislativamente previsto. 4.5. La prima ipotesi è sicuramente autorizzata dal richiamo dell’art. 768-quater cpv. c.c. alla possibilità che i legittimari rinunzino «in tutto o in parte» ai loro diritti. La questione sarà semmai quella di vedere se tale rinunzia (totale o parziale, a seconda dei casi) possa darsi per implicita nel caso in cui la liquidazione in loro favore (pur partecipando gli stessi, ovviamente, al contratto) sia, rispettivamente, assente o inferiore rispetto al dovuto. Per quanto attiene, invece, alla liquidazione di somme superiori, sembra ragionevole ritenere che anche in siffatte ipotesi si rientri nel patto di famiglia, con la conseguenza che anche tali attribuzioni potranno considerarsi protette dalla disciplina di cui alla legge (Fietta, Patto di famiglia, cit., 6; Petrelli 2006, 439). Del resto, l’istituto giuridico di riferimento è quello contrattuale, per cui, in assenza di una disposizione proibitiva, è la regola dell’autonomia negoziale che deve trovare espressione, magari con l’ulteriore ausilio del procedimento di interpretazione estensiva delle norme in tema di patto di famiglia (Oberto 2006, 112 s., ove si soggiunge che, dal momento che le attribuzioni di cui qui si parla provengono non già dal disponente, ma dai destinatari dell’azienda o delle quote, potrà porsi il problema della ravvisabilità, per la parte eccedente al valore determinato ai sensi di legge, degli estremi di una liberalità da parte di colui che effettua la liquidazione agli altri legittimari; dovrebbe qui trattarsi in particolare di una liberalità indiretta, poiché l’attribuzione è causalmente «coperta» dal patto di famiglia, ma determina comunque un arricchimento non previsto da tali disposizioni).

 

5 La liquidazione in natura e l’eventuale assegnazione con successivo contratto. 5.1. Ai sensi dell’art. 768-quater, cpv., seconda parte, c.c., «i contraenti possono convenire che la liquidazione, in tutto o in parte, avvenga in natura». Al riguardo la dottrina si è chiesta quale sia la valenza normativa di una disposizione che si limita a ribadire la possibilità per le parti di novare l’obbligazione pecuniaria: possibilità che già discende direttamente dal principio di autonomia privata (sul punto cfr. Caccavale 2006b, 32). 5.2. All’osservazione si è però obiettato che la novazione – sicuramente ammissibile – presupporrebbe comunque la conclusione di un diverso e successivo negozio, laddove la legge consente qui direttamente, nello stesso patto di famiglia, di prevedere la liquidazione in natura. Il significato precipuo della norma viene dunque ad essere quello di autorizzare l’impugnazione per errore anche per il caso di errore sul valore, non solo dell’azienda o delle partecipazioni, ma pure del bene sostitutivo del danaro: valore altrimenti (in via di principio) irrilevante (Caccavale 2006b, 32 s.). 5.3. Stabilisce poi l’art. 768-quater, terzo comma, seconda parte, c.c. che «l’assegnazione può essere disposta anche con successivo contratto che sia espressamente dichiarato collegato al primo e purché vi intervengano i medesimi soggetti che hanno partecipato al primo contratto o coloro che li abbiano sostituiti». 5.4. Si è sostenuto in proposito che, poiché il bene oggetto del patto di famiglia è già trasferito definitivamente in capo all’assegnatario, non è ravvisabile un patto successorio dispositivo. Infatti i legittimari non assegnatari, ricevendo la liquidazione, alienano una porzione della quota di riserva su un bene già uscito dalla massa ereditaria (Merlo 2006b, 8). Proprio l’esclusione del carattere di patto successorio deve indurre l’interprete ad ammettere l’estensione analogica della disposizione in oggetto al caso, non previsto dalla norma, in cui con atto successivo sia effettuata una liquidazione in denaro (ovvero anche in denaro) e non già mediante (o solo mediante) l’assegnazione di beni (Oberto 2006, 114). 5.5. In relazione alla disposizione in commento si rileva altresì che il legislatore ha previsto un caso di collegamento negoziale. Si tratta di un collegamento volontario e non necessario, poiché, malgrado sia espressamente previsto dalla legge, la creazione del nesso, che accomuna i due negozi, è affidata alla libera scelta delle parti. E’, inoltre, un collegamento unilaterale, poiché il secondo negozio è subordinato e accessorio rispetto al primo e ne segue la medesima sorte (Merlo, Il patto di famiglia, cit., p. 8). 5.6. La fattispecie va collegata con la necessità che i legittimari, ove non liquidati, esprimano chiaramente una rinunzia ai loro diritti, non essendo tale rinunzia desumibile dal solo fatto che della liquidazione non sia fatta menzione. Ne segue che l’ipotesi in oggetto presuppone necessariamente che le parti, nel patto di famiglia, abbiano fissato e determinato il valore dell’azienda o delle partecipazioni societarie, nel contempo rinviando ad un atto successivo non già il mero adempimento della prestazione, esattamente determinata in contratto, a favore dei legittimari (cosa peraltro, come si è già rilevato, sicuramente ammissibile), ma la stessa liquidazione di tali diritti: liquidazione che, come si è visto, potrebbe essere effettuata in misura più o meno ampia rispetto ai criteri fissati dalla legge. Naturalmente, risponde all’interesse dei legittimari che i criteri di tale liquidazione siano predeterminati nel patto (e sarà quanto mai opportuno che il notaio inviti le parti ad effettuarla), ma l’eventuale assenza di tali criteri – alla luce delle norme vigenti – non sembra possa determinare la nullità del contratto (Oberto 2006, 115).

      

6 Sulla natura di liberalità indiretta della  liquidazione in denaro o in natura. 6.1. Sempre in relazione alla liquidazione dei diritti dei legittimari esclusi, si è affermato da una parte della dottrina (cfr. Caccavale 2006b, 25 s.) che questa liquidazione sarebbe una liberalità indiretta da parte dell’assegnante. Ciò spiegherebbe il fatto che essa va attribuita alle quote di legittima che i beneficiari vantano verso il disponente, nonché la dispensa da collazione e imputazione. 6.2. Di contro si è rilevato che i citati effetti sono legati alle specifiche norme in tema di patto di famiglia ed all’interpretazione che delle stesse si voglia dare, mentre rimane il fatto che appare assai difficile scorgere una liberalità là ove, come nel caso di specie, l’ «arricchimento» di chi riceve la liquidazione s’incrocia con un ben preciso sacrificio da parte sua, consistente nella rinunzia a far valere ogni pretesa che su quell’attribuzione dovesse nascere sulla base delle norme a tutela dei legittimari, ciò che evidentemente impedisce ogni possibile ricostruzione alla stregua di una donazione indiretta (Oberto 2006, 118). 6.3. Il rilievo deve valere, a maggior ragione, in relazione ai legittimari che, non avendo partecipato al patto, decidessero ai sensi dell’art. 768-sexies c.c. di aderirvi, una volta aperta la successione. Qui tale adesione, atteso l’incontestabile diritto di tali soggetti di non aderire al patto, ma di  avvalersi, ove lo preferiscano, delle tutele disposte dalle norme a protezione dei legittimari, assume valore transattivo in relazione ad un diritto ormai pienamente maturato nei loro confronti.

 

7 Conseguenze del patto sulla successione del disponente. Collazione, riduzione, riunione fittizia e imputazione ex se. Le attribuzioni ricevute dai legittimari non assegnatari. 7.1. Quanto agli effetti delle attribuzioni compiute in seno al patto di famiglia sulla vicenda successoria del disponente, va ricordato che le norme che vengono in considerazione al riguardo sono, in primo luogo, l’ultimo comma dell’art. 768-quater c.c., secondo cui «Quanto ricevuto dai contraenti non è soggetto a collazione o a riduzione», nonché il terzo comma del medesimo articolo, per il quale «I beni assegnati con lo stesso contratto agli altri partecipanti non assegnatari dell’azienda, secondo il valore attribuito in contratto, sono imputati alle quote di legittima loro spettanti». 7.2. Il tenore letterale della prima delle due disposizioni non sembra lasciare adito a dubbi sulla circostanza che non solo la liberalità ricevuta dagli assegnatari, ma anche l’attribuzione compiuta a favore dei legittimari esclusi, benefici dell’esenzione da collazione e riduzione (Oberto 2006, 119 ss.; cfr. anche Caccavale 2006, 35, il quale pone peraltro l’accento sui motivi di equità e ragionevolezza di tale soluzione). 7.3. D’altro canto, la seconda delle disposizioni in discorso (sull’imputazione dei beni ricevuti dai legittimari non assegnatari delle rispettive quote di legittima) sembra porsi in contraddizione con il sistema. Un sistema che mostra, in primo luogo, di volere del tutto escludere che i beni assegnati con il patto tornino in gioco, visto che ne impedisce l’assoggettamento a riduzione e collazione, tenuto poi anche conto del fatto che, per regola comune, all’esonero da collazione consegue anche quello da imputazione (cfr. art. 564, ult. cpv., c.c.), nonché, per interpretazione corrente (per tutti cfr. Capozzi, Successioni e donazioni, I, Milano, 1983, 303; cfr. inoltre Palazzo, Le successioni, I, Introduzione al diritto successorio, istituti comuni alle categorie successorie, successione legale, TR. IUDICA-ZATTI, Milano, 1996, 535), l’esonero dalla confluenza nella riunione fittizia. E d’altro canto proprio la negazione del carattere donativo e liberale dell’attribuzione in favore dei legittimari non assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie dovrebbe indurre ad escludere che costoro debbano procedere ad imputare ex se e a «conferire» nella riunione fittizia quanto ricevuto a titolo di liquidazione: si pensi, ad esempio, a quanto accade in relazione alle attribuzioni gratuite ricevute ex art. 770 cpv. c.c. «in occasione di servizi resi o comunque in conformità agli usi», che, escluse da collazione e da riduzione (cfr. artt. 742, terzo comma, 809 cpv. c.c.), non sono soggette neppure alla riunione fittizia (CC 23 apr. 1969/1311; Oberto 2006, 119 ss.). 7.4. Per ciò che attiene, dunque, alla disposizione (contenuta nel terzo comma dell’art. 768-quater), secondo cui «I beni assegnati con lo stesso contratto agli altri partecipanti non assegnatari dell’azienda, secondo il valore attribuito in contratto, sono imputati alle quote di legittima loro spettanti», la necessità di un’imputazione ex se in senso tecnico sarebbe giustificabile, secondo alcuni (Fietta, Il patto di famiglia, cit., 9) configurando le attribuzioni in discorso alla stregua di donazioni indirette del disponente. Di contro si è però rilevato (Oberto 2006, 119 ss.) che il carattere di queste prestazioni può definirsi come tutt’altro che liberale. D’altro canto, non andranno trascurati alcuni elementi testuali, quali il fatto che la norma si riferisca, curiosamente, ai soli «beni assegnati» in natura e non già alla liquidazione in denaro, nonché la stessa collocazione della disposizione, che, anziché essere inserita nell’ultimo comma (dedicato alle «ricadute successorie» del patto), segue immediatamente la concessione della possibilità che i diritti dei legittimari siano soddisfatti, per l’appunto, in natura e non in denaro. 7.5. Si è così prospettata una lettura della disposizione volta ad intendere l’espressione «sono imputati alle quote di legittima» in maniera del tutto atecnica, cioè come riferita al fatto che, se le parti concordano nell’attribuzione di beni, il valore di questi va espresso in contratto ed è «imputato» – cioè riferito – all’importo corrispondente alla quota del valore dell’impresa (o delle partecipazioni societarie). Ne consegue che, se ad esempio, il valore dell’azienda è 90 e la quota del legittimario è 30 e se si attribuisce al predetto legittimario un bene del valore di 20, l’assegnatario dell’azienda dovrà ancora corrispondere (in denaro o in natura) la somma di 10. In altri termini, il termine «imputazione» va riferito non già all’imputazione ex se da compiersi al momento dell’apertura della successione del disponente, ma, molto più semplicemente, alla maniera in cui nel patto viene concretamente determinata la prestazione a vantaggio dei legittimari non assegnatari dell’azienda (o delle partecipazioni societarie). Secondo questa tesi, dunque, quanto ricevuto dai legittimari non andrà a comporre alcuna riunione fittizia, né dovrà essere imputato ex se al momento dell’apertura della successione del disponente (Oberto 2006, 119 ss.). 

 

8 Segue. Le attribuzioni ricevute dagli assegnatari. 8.1. Un ulteriore problema investe poi la necessità (o meno) che quanto ricevuto dagli assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie confluisca nella riunione fittizia e sia imputato ex se da parte di costoro, sempre al momento dell’apertura della successione del disponente. Rileva una parte della dottrina (Caccavale 2006, 35) che lo sbarramento posto dall’esonero da riduzione e collazione, in aggiunta alla constatazione che nella liquidazione del legittimari esclusi la legge non prescrive di tenere conto di altre liberalità o lasciti provenienti dallo stesso disponente, vale a tradurre la questione in quella di dover stabilire se gli assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni debbano, o meno, vedersi conteggiare, a loro carico, il valore eccedente le quote di legittima, già calcolate con esclusivo riferimento all’uno o agli altri cespiti, quale da essi stessi acquisito in virtù del patto di famiglia. 8.2. In proposito si è prospettato il seguente caso. Posto che l’azienda assegnata ad uno dei figli dell’imprenditore sia del valore, quale calcolato all’epoca del patto, di 300 e che l’assegnatario abbia liquidato all’altro fratello la quota di 100 (cfr. art. 537, cpv., c.c.), egli avrà contabilizzato, a suo favore, oltre che il valore di 100, corrispondente alla sua quota di legittima, anche il restante valore di ulteriori 100, corrispondente alla quota disponibile, quale sempre ragguagliata al cespite assegnato. Ora il dilemma consiste proprio nel decidere se, apertasi la successione, l’assegnatario debba anche imputare alla sua quota di legittima quel residuo valore che pure ha effettivamente conseguito nel suo patrimonio (Caccavale 2006, 35). 8.3. Sul punto si è constatato che l’efficienza dell’impresa può anche richiedere, in aggiunta alla inamovibilità dell’assegnazione, anche la stabilità dell’assetto economico quale originariamente realizzato con il patto. A ciò s’aggiunga che la cennata conclusione può desumersi per implicito dal fatto che il legislatore abbia escluso, per le attribuzioni di cui al patto, l’azione di riduzione e la collazione. Tali esclusioni rendono evidente la voluntas legis di considerare le attribuzioni in discorso del tutto sottratte ad ogni tipo di effetto successorio, con un conseguente risultato di «sterilizzazione» di quella massa rispetto al resto del patrimonio del disponente. Ciò in quanto la determinazione dei rapporti dare-avere in base alle regole a tutela della legittima è già avvenuta e si è esaurita al momento della conclusione del patto (Oberto 2006, 122 ss.). 8.4. D’altra parte costituisce regola generale del diritto successorio che all’esonero da collazione consegua anche quello da imputazione (cfr. art. 564, ult. cpv., c.c.), nonché l’esonero dalla confluenza nella riunione fittizia. Ne consegue che, a prescindere dagli incrementi o decrementi patrimoniali del de cuius intervenuti dopo la stipula del contratto, al momento dell’apertura della successione del disponente gli assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni avranno il diritto di vedersi calcolata la loro quota a prescindere dalle attribuzioni ricevute con il patto. Ciò non solo con riguardo al valore della disponibile sull’azienda o sulle partecipazioni oggetto del patto, ma con riferimento al valore complessivo delle attribuzioni ricevute. Ne consegue dunque che, nell’esempio sopra riportato, l’assegnatario non dovrà neppure contabilizzare, al momento della apertura della successione del genitore, la somma di 100 corrispondente al valore della sua legittima su quell’azienda. 8.5. Al momento dell’apertura della successione del disponente, pertanto, i legittimari «terzi» potranno liberamente decidere se aderire o meno al patto (con le conseguenze ex art. 786-sexies c.c.), così subendo anche gli effetti del  mancato computo dell’azienda (o delle partecipazioni societarie oggetto del patto) nella riunione fittizia e nell’imputazione ex se da parte dell’assegnatario. In alternativa, costoro potranno decidere di non aderire al patto e di invocare le norme a tutela dei legittimari. In tal caso si procederà ad una determinazione della quota ad essi riservata, che sarà però effettuata in maniera diversa rispetto a quella degli altri legittimari che abbiano aderito al patto. Il fatto che si possa pervenire ad un calcolo della legittima su basi diverse per questa categoria di legittimari rispetto agli altri non deve destare stupore. Appartiene alla fisiologia del patto di famiglia che i legittimari rimasti estranei al contratto non ne subiscano gli effetti, con la conseguenza che, per loro, la riunione fittizia comprenderà anche i beni trasferiti con il patto, mentre, solo nei loro rapporti, gli assegnatari tali beni dovranno imputare ex se. Per questi stessi legittimari non varrà poi neppure l’esenzione da collazione e riduzione, per cui essi potranno agire ex artt. 553 ss. c.c. (Oberto 2006, 122 ss.).

768-quinquies

Vizi del consenso.Il patto può essere impugnato dai partecipanti ai sensi degli articoli 1427 e seguenti.

 

L’azione si prescrive nel termine di un anno.

 

1.1. L’art. 768-quinquies c.c. prevede la possibilità di impugnare il patto di famiglia per vizi del consenso ai sensi degli artt. 1427 ss. c.c. La disposizione è stata ritenuta superflua, discendendo il principio di impugnabilità dalla natura contrattuale del patto (Oberto 2006, 130 s.). 1.2. Superflua non è invece la riduzione del termine d’impugnativa, portato da cinque ad un anno. A differenza di quanto disposto dalla formulazione della norma in esame nel disegno di legge C/3870-A, della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, secondo cui l’azione si sarebbe dovuta prescrivere «nel termine di un anno dalla conoscenza del vizio», l’art. cit. non fissa il dies a quo per il computo del termine annuale. Nonostante ciò, appare ragionevole presumere che il termine di riferimento sia pur sempre quello stabilito dall’art. 1442 cpv. c.c., che ancora la decorrenza al  giorno in cui è cessata la violenza o è stato scoperto l’errore o il dolo, tenuto conto del fatto che la norma novellamente introdotta rinvia agli artt. 1427 «e seguenti» e dunque, tra le norme «seguenti» ben può rientrare l’art. 1442 c.c. (Buffone, op. loc. ultt. citt.; Lupetti 2006, 9; Oberto 2006, 132 s.; Venchiarutti, op. loc. ultt. citt.; Villani, Il nuovo patto di famiglia, in Pratica fiscale e professionale, n. 10, 6 marzo 2006;). 1.3. Il vero problema è invece quello di comprendere se l’espresso richiamo alla sola disciplina dei vizi del consenso induca ad escludere altre possibili forme d’impugnativa, sulla base dell’applicazione dei principi generali in tema di contratto. Così, taluni escludono, ad esempio, l’applicabilità degli artt. 1425 e 1426 c.c., giustificando tale scelta in considerazione della forma imposta al patto: l’atto pubblico dovrebbe, invero, essere sufficiente a scongiurare il pericolo che, al momento della stipulazione del patto di famiglia una delle parti versi in stato di incapacità, ovvero sussistano raggiri usati dal minore (in questo senso cfr. Villani, Il nuovo patto di famiglia, loc. cit.). 1.4. Si è peraltro replicato che, allora, non si riuscirebbe a comprendere perché mai siffatte disposizioni trovano pacifica applicazione in relazione ad ogni altro contratto stipulato per atto pubblico. Del resto, neppure l’eventuale autorizzazione da parte dell’autorità giudiziaria – qui non richiesta per il patto, a meno che, ovviamente, a stipularlo non siano chiamati incapaci o semi-incapaci – vale a «proteggere» un negozio da eventuali impugnative in base alle disposizioni che prevedono ipotesi di nullità, annullabilità o rescindibilità (Oberto 2006, 133 ss.; per un approfondimento del tema con riguardo agli accordi in sede di separazione consensuale tra coniugi cfr. Id., Simulazioni e frodi nella crisi coniugale (con qualche accenno storico ad altri ordinamenti europei), nota a Cass., 5 marzo 2001, n. 3149, FA, 2001, 795 ss.; Id., Simulazione della separazione consensuale: la Cassazione cambia parere (ma non lo vuole ammettere), nota a Cass., 20 novembre 2003, n. 17607, CG, 2004, 315 ss.). 1.5. Si è poi anche rilevato che sembrerebbe assurdo limitare l’impugnativa del patto al caso dell’annullamento per vizi del consenso, laddove è pacifico che lo stesso potrebbe di fatto presentare profili di nullità: si pensi, ad esempio, alla violazione dei principi in tema di forma per atto pubblico, in relazione ai quali l’art. 768-ter c.c. commina espressamente la sanzione della nullità. Si pensi anche, e sempre a titolo d’esempio, al trasferimento di beni non rientranti nel disposto dell’art. 768-bis c.c., posto che, come si è avuto modo di dire, l’estensione dei principi sul patto di famiglia a beni diversi dall’azienda (o da un ramo di essa) o dalle partecipazioni societarie presupporrebbe un’estensione analogica della disposizione vietata dal carattere eccezionale della stessa (Oberto 2006, 133 ss.). 1.6. E’ anche stata avanzata la possibilità che si verifichino ipotesi di conversione negoziale. Così, ad esempio, il trasferimento nullo, perché avente ad oggetto beni diversi dall’azienda o dalle partecipazioni societarie, potrà produrre gli effetti di una donazione, sempre che di tale contratto siano stati rispettati i requisiti formali (e questa costituisce una ragione di più perché il patto sia stipulato alla presenza di testimoni, anche se tale presenza non appare stricto iure necessaria), qualora, come richiesto dall’art. 1424 c.c., «avuto riguardo allo scopo perseguito dalle parti, debba ritenersi che esse lo avrebbero voluto se avessero conosciuto la nullità» (cfr. Oberto 2006, 134 s.). 1.7. In proposito si è sottolineato che la conclusione non può ritenersi in contrasto con la negazione della tesi che ravvisa nel patto di famiglia una donazione. Invero, ferma restando la finalità liberale dell’attribuzione dal disponente ai destinatari dell’azienda o delle quote societarie, tale finalità si presenta nel patto appaiata alla liquidazione in denaro o in natura in favore degli altri legittimari, o alla rinunzia da parte di costoro: liquidazione che risponde a finalità solutorie del «prezzo» per la rinunzia ai diritti che a costoro spetterebbero in quanto legittimari. Ma le due prestazioni (quella cioè effettuata dal disponente e quelle compiute dai destinatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie), pur se elementi essenziali del patto, non sono poste tra di loro in corrispondenza biunivoca, con la conseguenza che sembrano poter vivere vite autonome. Così, mentre la prima attribuzione potrà essere fatta salva grazie alla conversione del patto, alle condizioni precisate, in una donazione, più problematico sembra il salvataggio delle attribuzioni in favore degli altri legittimari, essendo assai difficile immaginare l’esistenza di un «contratto diverso» che produca gli effetti descritti dall’art. 768-quater, cpv., c.c. (e che sfugga al divieto dei patti successori: Oberto 2006, 134 s.). 1.8. Per le ragioni sopra illustrate dovrà poi anche ammettersi una convalida, alle condizioni richieste dall’art. 1444 c.c., di eventuali patti di famiglia annullabili (Oberto 2006, 135; così anche Petrelli 2006, 458). 1.9. In relazione alla specifica ipotesi dell’annullabilità per errore, si è ritenuto che la falsa rappresentazione del valore dell’azienda o delle partecipazioni societarie alienate con il patto di famiglia potrebbe assumere rilevanza, ex art. 1429, n. 2, alla stregua di un errore sulle qualità essenziali del bene (Sicchiero 2007, 63 ss.). 1.10. Si rimarca che, nel caso delle partecipazioni in società di capitali, il problema è ulteriormente complicato dalla presenza dello schermo costituito dalla personalità giuridica; se si volesse tuttavia ammettere che i beni sociali non possano considerarsi estranei al patto di famiglia (pur avente come oggetto immediato la partecipazione societaria), ne deriverebbe non solo la rilevanza dell’errore sulle qualità di tali beni, ma anche, per gli assegnatari, la rilevanza dell’aliud pro alio e del difetto delle qualità promesse ex art. 1497 (Gazzoni 2006, 227). 1.11. Altra dottrina ha sottolineato (Delle Monache 2009, 750) che l’interrogativo concernente il rilievo dell’errore per certi versi si interseca con il problema se al patto di famiglia risulti applicabile, relativamente alla liquidazione della legittima spettante ai partecipanti non assegnatari dei beni d’impresa, l’istituto della rescissione del negozio divisorio per lesione. Quello di cui all’art. 763 è del resto un rimedio il quale postula la semplice sussistenza di un divario obiettivo, in misura superiore al quarto, tra ciò che il condividente leso avrebbe dovuto ricevere in base alla divisione e quanto gli è stato invece assegnato. Sicché, a voler ammettere l’applicabilità dell’art. 763 al patto di famiglia (in tal senso Amadio 2006b, 886 s.; contra Oberto 2006, 36; Delle Monache 2009, 750), l’errore sul valore venale dei beni d’impresa alienati assumerebbe pratica rilevanza, come autonoma causa di impugnazione, rispetto ai soli casi in cui l’entità della lesione non superasse la soglia (il quarto del valore della quota) oltre la quale è consentito agire in rescissione (Delle Monache 2009, 750). 1.12. Il patto di famiglia, in quanto contratto, sarà impugnabile con tutti i rimedi attinenti al profilo del sinallagma (oltre che genetico, anche) funzionale, con particolare riguardo a quelli risolutori. In proposito nulla impedirà alle parti di prevedere termini essenziali per l’adempimento (ad es.: la corresponsione differita o rateizzata della liquidazione) o di inserire clausole risolutive espresse, o magari anche penali per il caso di inadempimento di una determinata obbligazione (si pensi sempre al caso in cui determinate prestazioni siano previste come differite). 1.13. Andrà infine tenuto presente che, ai sensi dell’art. 40, 4° co., d. lgs. n. 5 del 2003, l’istanza proposta agli organismi di conciliazione di cui al medesimo decreto – organismi ai quali sono preliminarmente devolute, ex art. 768-octies, le controversie in materia di patto di famiglia – produce sulla prescrizione i medesimi effetti interruttivi della domanda giudiziale, a partire dal momento in cui l’istanza stessa sia stata comunicata alle altre parti con mezzo idoneo a dimostrarne l’avvenuta ricezione (cfr. Delle Monache 2009, 750).

768- sexies

Rapporti con i terzi.All’apertura della successione dell’imprenditore, il coniuge e gli altri legittimari che non abbiano partecipato al contratto possono chiedere ai beneficiari del contratto stesso il pagamento della somma prevista dal secondo comma dell’articolo 768-quater, aumentata degli interessi legali.

 

L’inosservanza delle disposizioni del primo comma costituisce motivo di impugnazione ai sensi dell’articolo 768-quinquies.

Sommario: 1. I legittimari «che non hanno partecipato al contratto»: loro individuazione. 2. Nascituri concepiti, figli naturali e coniuge divorziato. 3. Il diritto dei legittimari-terzi. 4. La sanzione di cui al secondo comma.

 

1 I legittimari «che non hanno partecipato al contratto»: loro individuazione. 1.1. Secondo la tesi prevalente i legittimari presi in considerazione dalla disposizione in commento possono essere solo quelli che hanno conseguito tale qualità dopo la stipula del patto, posto che i legittimari potenziali già esistenti al momento predetto dovrebbero partecipare a pena di nullità alla stipula del negozio in questione (v. supra, sub art. 768-quater, n. 1). Si afferma dunque che per «coniuge» ed «altri legittimari», ai sensi della disposizione in commento devono intendersi unicamente quei soggetti il cui rapporto di coniugio o parentela con il disponente si sia costituito soltanto dopo la stipulazione del patto di famiglia (Balestra 2006, 376; Gazzoni 2006, 222; Vitucci 2006, 473 ss.; Delle Monache 2009, 751). 1.2. In senso contrario si è rilevato che la norma in commento non pone distinzioni tra legittimari rimasti «terzi» perché, sebbene già esistenti, non abbiano sottoscritto per le più svariate ragioni (dissenso, incapacità, assenza, irreperibilità) il contratto e legittimari «terzi» perché nati (si pensi a figli sopravvenuti del disponente) o divenuti (si pensi al nuovo coniuge o al figlio adottato) o riconosciuti (si pensi al soggetto di cui sia stato dichiarato o riconosciuto il rapporto di filiazione naturale o accertato il rapporto di filiazione legittima) quali legittimari solo in epoca successiva alla stipula del negozio (Oberto 2006, 48 s., 126 ss.). Un corollario di tale constatazione risiede nel fatto che, a fronte della predisposizione del rimedio in esame, consistente nella possibilità che il legittimario sopravvenuto aderisca al patto di famiglia, quest’ultimo, a prescindere dalla questione sulla sua natura donativa, non sarà comunque revocabile per sopravvenienza di figli: Oberto 2006, 126; nello stesso senso cfr. Merlo, Il patto di famiglia, cit., 10; Zoppini 1998, 1272. 1.3. I legittimari sopravvenuti, cui fa richiamo l’art. 768-sexies, primo comma, c.c., non possono essere quelli divenuti tali per premorienza del loro dante causa, legittimario del disponente (quelli, cioè, cui fa richiamo l’art. 536 ult. cpv., c.c.), bensì solo quelli direttamente legittimari del disponente medesimo: dal nuovo coniuge (sulla cui peculiare situazione v. supra, sub art. 768-quater, n. 2), al figlio (del disponente) nato, riconosciuto o dichiarato successivamente al patto, a quello che comunque, benché già in vita al momento del patto, non vi avesse per qualunque ragione partecipato (Oberto, 2006, 48 s., 72 ss., 126 ss.). 4.4. Ai discendenti, invece, dei figli legittimi e naturali, cui l’art. 536 ult. cpv. c.c. riserva i medesimi diritti che competono ai figli legittimi e naturali del disponente, il patto è comunque opponibile, posto che essi succedono iure repraesentationis e pertanto si trovano nella medesima situazione del loro dante causa, cui il diritto verso il disponente era a suo tempo già stato (ovviamente: solo per la parte relativa all’oggetto del patto) liquidato, o che a tale diritto aveva rinunziato. 1.5. Tornando agli effetti di quanto disposto dall’art. 768-sexies cit., il termine «possono» di cui alla norma in commento è stato interpretato nel senso che sarebbe in facoltà dei legittimari sopravvenuti chiedere ai beneficiari del patto di famiglia una somma commisurata al valore della quota di legittima, solo qualora all’apertura della successione non vi siano nell’asse ereditario altri beni sui quali soddisfarsi (Merlo, Il patto di famiglia, cit., 10). In senso contrario si è però notato che di questa regola non vi è traccia nel testo normativo, soggiungendosi che, semmai, l’impiego del verbo «potere» fa sorgere il dubbio (da risolversi in modo positivo) che, per effetto del principio della privity of contract (art. 1372 c.c.) i legittimari «terzi», non vincolati in modo alcuno al patto di famiglia, abbiano pur tuttavia il diritto di aderirvi, per effetto di una sorta di diritto di «opzione ex lege»: quanto sopra, naturalmente, fermo restando che, in alternativa, la legge consente loro di valersi degli ordinari strumenti a tutela dei legittimari (Oberto 2006, 128).

 

2 Nascituri concepiti, figli naturali e coniuge divorziato. 2.1. L’art. 462, 1° comma, c.c., equipara, sotto il profilo della capacità di succedere, il nato a chi sia invece solo concepito al momento dell’apertura della successione: sicché l’art. 768-quater, 1° comma, c.c., va interpretato nel senso che tra i potenziali legittimari ivi contemplati vadano compresi anche i figli del disponente (o, eventualmente, i suoi ulteriori discendenti) non ancora nati e tuttavia già concepiti quando il patto viene perfezionato (la loro partecipazione all’accordo essendo possibile mediante l’intervento sostitutivo di un curatore speciale, nominato ai sensi dell’art. 320, ult. cpv. c.c.) (Zoppini 2006, 279; Fusaro 2008, 872 s.). Si è quindi ritenuto che, su queste basi, gli «altri legittimari» di cui parla l’articolo in comm. andranno identificati, più precisamente, con i figli o gli ulteriori discendenti del disponente che non fossero neppure concepiti nel momento in cui è stato stipulato il patto di famiglia (Delle Monache 2009, 751). 2.2. Quanto ai figli naturali riconosciuti, occorrerà avere riguardo alla data in cui è compiuto l’atto di riconoscimento, benché la sua efficacia (come anche è a dire a proposito della dichiarazione giudiziale di maternità o paternità naturali) abbia efficacia retroattiva al momento della nascita. Ciò significa che il figlio riconosciuto dovrà considerarsi compreso tra i soggetti titolati a partecipare al patto di famiglia, ovvero acquisterà il semplice diritto di cui all’articolo in commento a seconda che il riconoscimento sia stato perfezionato o no (o, in caso di dichiarazione giudiziale, la domanda, poi accolta, sia stata proposta o no) anteriormente alla stipulazione del patto medesimo (Delle Monache 2009, 751; contra Gazzoni 2006, 223, per il quale il figlio naturale nato prima, ma riconosciuto o dichiarato tale dopo il perfezionamento del patto di famiglia, sarebbe invece legittimato a farne valere la nullità). 2.3. Nel caso di riconoscimento per testamento, con la conseguenza che i suoi effetti verranno a prodursi solo dal giorno dell’apertura della successione (art. 256 c.c.), il figlio andrà sempre ricondotto al novero dei terzi presi in considerazione dall’art. 768-sexies c.c. (cfr. Delle Monache 2009, 751, secondo cui concludere altrimenti per l’ipotesi che il testamento abbia preceduto la formazione del patto di famiglia, e ciò facendo leva sulla fictio di cui all’art. 768-quater, 1° comma, equivarrebbe invero ad attribuire rilevanza ad un atto per sua natura destinato – qual è, appunto, il negozio testamentario – a rimanere del tutto privo di efficacia fino alla morte del testatore (contra Bonilini 2007, 395). 2.4. Il coniuge sopravvenuto deve  intendersi legittimato a far valere la pretesa di cui all’articolo in commento, anche nel caso in cui il disponente, al momento del patto, fosse sposato con altra persona (Delle Monache 2009, 751). 2.5. Con specifico riguardo al caso di scioglimento del primo matrimonio per divorzio, ritiene parte della dottrina che l’ex coniuge debba restituire la somma che, per effetto della stipulazione del patto, abbia già ricevuto a titolo di liquidazione della sua quota di legittima (Balestra 2006, 381s.). Altri Autori hanno invece asserito che, qualora sia pronunciata una sentenza definitiva di separazione con addebito, il coniuge non dovrebbe restituire quanto a suo tempo ricevuto, essendo comunque l’acquisto sorretto da giusta causa: quando però sopravvenga il divorzio e il disponente si risposi, il nuovo coniuge, dopo l’apertura della successione, potrebbe pretendere solo dall’ex coniuge divorziato il pagamento della somma da questi percepita, corrispondente al valore della propria quota, giungendosi altrimenti all’esito di imporre al discendente alienatario dei beni d’impresa una duplice liquidazione della quota medesima (Gazzoni 2006, 223). Non manca poi chi, ponendosi in un’ottica diversa, ha affermato che, in tutte le ipotesi in cui il partecipante escluso dall’attribuzione preferenziale non assuma in seguito la qualità di legittimario (come nel caso di divorzio, premorienza o rinunzia all’eredità), la liquidazione a suo tempo versatagli dovrebbe considerarsi, ex post, come non dovuta (Petrelli 2006, 459). In senso diametralmente opposto si è invece dimostrato, anche alla luce dell’analisi storica, che il coniuge, a prescindere dalla separazione (con addebito o meno), così come dal divorzio, nulla dovrà mai restituire agli eredi del disponente (Oberto 2006, 73; v. anche supra, sub art. 768-quater, n. 2).

 

3 Il diritto dei legittimari-terzi. 3.1. Il credito preso in considerazione dalla norma in oggetto è un credito pecuniario per una somma pari al valore della quota di legittima a lui spettante, ex artt. 537 ss. c.c., sui beni d’impresa attribuiti con il patto stesso (oltre agli interessi legali, come si specifica nella disposizione in esame). Il valore del compendio non va rideterminato, ma rimane quello stabilito nel patto di famiglia (Ieva 2001, 188 s.; Id. 2007, 44; Gazzoni 2006, 222; Zoppini 2006, 275 s.; Delle Monache 2009, 752). 3.2. E’ da ritenersi che l’espressione «possono chiedere…», di cui alla norma in commento, non denoti tanto il conferimento ai legittimari «terzi» di un potere d’azione, da esercitarsi tramite l’esperimento di una procedura simile all’azione di riduzione (questo è invece l’avviso di Fietta, Patto di famiglia, cit., 13). Essa indica, semmai, la presenza di una situazione in cui i terzi possono aderire al patto, mediante manifestazione di volontà unilaterale (rivestita, è da presumersi, delle stesse forme previste per il patto di famiglia), di adesione ad una sorta di «opzione ex lege». Solo nel caso di successivo inadempimento all’obbligo di liquidazione, da parte degli altri contraenti, secondo quanto previsto dalla norma, i legittimari già «terzi», ora parte del patto, potranno proporre azione d’impugnazione ai sensi dell’ultimo capoverso dell’art. 768-sexies c.c. I legittimari «terzi» potranno decidere di non aderire al patto e dunque di valersi degli ordinari strumenti a tutela della loro posizione (Oberto 2006, 68 s., 126 ss.; analogamente, Checchini, Patto di famiglia e principio di relatività del contratto, RDC, 2007, 296 ss.; contra Delle Monache 2009, 752). 3.3. In caso di adesione al patto da parte dei legittimari sopravvenuti, a costoro compete il diritto di chiedere «ai beneficiari del contratto stesso il pagamento della somma prevista dal secondo comma dell’articolo 768-quater, aumentata degli interessi legali». Il diritto in oggetto compete dunque nei confronti di tutti gli altri contraenti (diversi dal disponente, che non è «beneficiario» di alcunché) e quindi non solo degli assegnatari (Oberto 2006, 128; contra Delle Monache 2009, 752). 3.4. Tale somma, in base alla norma richiamata, è quella «corrispondente al valore delle quote previste dagli articoli 536 e seguenti». 3.5. Posto quindi, che, come doveroso, sia stato indicato nell’originario patto di famiglia il valore dell’azienda o delle partecipazioni societarie, il quantum dovuto ai legittimari sopravvenuti sarà determinato sulla base di quel valore. Ciò a prescindere dal fatto che gli importi effettivamente riconosciuti e corrisposti agli altri legittimari, per effetto di rinunzie totali o parziali, o, al contrario, di atti di liberalità, sia stato diverso o addirittura pari a zero (Oberto 2006, 128). 3.6. Per effetto dell’applicazione della regola generale in tema di obbligazioni con più soggetti ex latere debitoris (cfr. art. 1294 c.c.) dovrà affermarsi la natura solidale dell’obbligazione in discorso (cfr. Merlo, Il patto di famiglia, cit., p.  10; Petrelli 2006, 458; Oberto 2006, 128).

 

4 La sanzione di cui al secondo comma. 4.1. Curiosa è poi la sanzione comminata per l’inadempimento dell’obbligo di liquidazione, con il conferimento all’ex legittimario sopravvenuto del potere di chiedere l’annullamento del contratto. Costituisce un’indubbia distonia del sistema aver previsto, per un’alterazione del sinallagma funzionale, uno strumento tipicamente diretto a porre rimedio alle alterazioni del sinallagma genetico, quale, per l’appunto, l’azione di annullamento (Oberto 2006, 128 s.). Si è del resto osservato che, in termini pratici, la norma si traduce nel rendere incerto il destino del patto per un lasso temporale eventualmente anche assai lungo, in caso di longevità del disponente (Balestra 2006, 383 s.; Id. 2009, 491 s.). 4.2. Altri tuttavia ha osservato come l’anomalia in discorso si giustificherebbe, da un punto di vista equitativo, considerando che i legittimari che invece hanno partecipato al patto di famiglia potrebbero, nel caso rimanga inadempiuto l’obbligo di liquidazione della loro quota, agire con l’azione di risoluzione (Gazzoni 2006, 227; nega, per contro, l’esperibilità ditale azione, Oppo 2006, 444). 4.3. Si è proposto in dottrina che l’inciso «inosservanza delle disposizioni» vada inteso non già come equivalente ad «inadempimento di obblighi» (quale sarebbe il mancato pagamento del dovuto) e che lo stesso possa riferirsi a diversa fattispecie, cioè al mancato funzionamento del sistema previsto dal secondo comma dell’art. 768-quater c.c., dovuto a vizi quali, ad esempio, l’imprecisione dell’aspetto valutativo (Fietta, Patto di famiglia, cit., 13 s.). 4.4. In senso contrario si è osservato che la tesi appare troppo antiletterale. D’altro canto l’esistenza di errori di valutazione potrà rilevare se ed in quanto sia il frutto di un vizio del consenso, in relazione al quale l’azione di annullamento è già esperibile ex art. 768-quinquies c.c. Occorre dunque rassegnarsi all’idea che il legislatore, nella sua sovrana discrezionalità, ha fatto ricorso ad un’azione attinente al piano della validità del negozio per sanzionare l’inadempimento di quanto stabilito nel contratto (Oberto 2006, 128 s.). 5.5. Come per l’ipotesi «normale» di annullamento ex art. 768-quinquies c.c. l’azione sarà disciplinata dagli artt. da 1441 a 1446 c.c., ma sottoposta a termine di prescrizione annuale, decorrente dal giorno della stipula del contratto: cioè del contratto perfezionatosi con la sua adesione all’originario patto di famiglia. Quest’ultima conclusione deriva dalla semplice constatazione che nessuna delle situazioni descritte dal capoverso dell’art. 1442 c.c. sembra adattabile al caso di specie, con la conseguenza che sarà il comma terzo del citato articolo a doversi applicare. Da notare, poi, che la ricostruzione qui proposta – secondo cui il diritto di «chiedere ai beneficiari del contratto stesso» la liquidazione altro non è se non la previsione della possibilità per il legittimario «sopravvenuto» di aderire all’originario contratto – consente di evitare un’altra evidente distonia, rappresentata dal fatto che, altrimenti opinando, dovrebbe ammettersi che l’azione di annullamento di un contratto è stata concessa a un terzo, del tutto estraneo al contratto stesso (Oberto 2006, 129).

768- septies

Scioglimento.Il contratto può essere sciolto o modificato dalle medesime persone che hanno concluso il patto di famiglia nei modi seguenti:

 

1) mediante diverso contratto, con le medesime caratteristiche e i medesimi presupposti di cui al presente capo;

 

2) mediante recesso, se espressamente previsto nel contratto stesso e, necessariamente, attraverso dichiarazione agli altri contraenti certificata da un notaio.

Sommario:1. Lo scioglimento del patto «mediante diverso contratto». 2. Lo scioglimento del patto per recesso.

 

1 Lo scioglimento del patto «mediante diverso contratto». 1.1. Si ritiene che il negozio diretto a sciogliere o a modificare il patto di famiglia rientri nella stessa definizione contenuta nell’art. 1321 c.c. (Merlo, Il patto di famiglia, cit., 11), ma le disposizioni qui in commento sono in gran parte (se si prescinde, cioè, dalle raccomandazioni in tema di forma) superflue, atteso che, avuto riguardo alla natura pacificamente contrattuale del patto di famiglia, risulta più che evidente che un contratto possa essere sciolto per mutuo dissenso o modificato da tutti i suoi contraenti (cfr. art. 1372 c.c.) e che, in base all’art. 1373 c.c. i contraenti originari possano attribuire ad uno o a più di essi il diritto potestativo di recedere (Oberto 2006, 130). 1.2. Inutile dire che, qualora nel patto di famiglia si dovesse riconoscere un contratto costantemente bilaterale – nel senso che la partecipazione dei singoli legittimari esclusi dall’attribuzione preferenziale si verrebbe comunque a tradurre in una serie di atti adesivi esterni all’accordo contrattuale (così, Caccavale 2006, 38 ss.) – sembrerebbe derivarne che, quali soggetti legittimati allo scioglimento o alla modifica andrebbero intesi soltanto il disponente e i discendenti assegnatari dei beni d’impresa. In realtà, è dubitabile che, una volta determinatasi la conversione della legittima in un credito pecuniario a favore dei legittimari cui non sono stati trasferiti i beni d’impresa, gli stessi possano essere privati del diritto ormai acquisito senza che occorra un loro atto di consenso: o perlomeno si dovrà dire, argomentando in base alla disciplina del contratto a favore di terzi, che un tale atto di consenso sarà indispensabile nei casi in cui il legittimario abbia aderito al patto di famiglia (cfr. Delle Monache 2009, 753). 1.3. Per quanto attiene alla struttura soggettiva del contratto diretto a sciogliere o modificare il patto di famiglia, dovrà riconoscersene la natura di negozio plurilaterale, al cui perfezionamento devono partecipare tutti i soggetti che sottoscrissero il patto, laddove quelli che ad esso restarono estranei non dovranno esprimere il loro consenso, se vorranno, come sopra chiarito (v. supra, sub art. 768-quater, n. 1) continuare a non essere vincolati all’accordo (che continua a restare per loro res inter alios acta, né pregiudica i diritti che a loro, in quanto legittimari, competono). Il mutuo dissenso dovrà dunque essere concluso da tutti coloro che hanno preso parte al patto di famiglia e, di conseguenza, anche i non assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni sociali saranno tenuti a restituire quanto ricevuto a titolo di liquidazione (così Merlo, Il patto di famiglia, cit., 13). 1.4. Per ciò che attiene alla formulazione dell’art. 768-septies n. 1 c.c., si è rilevato (Merlo, Il patto di famiglia, cit., 12) che la stessa sembra confermare la teoria, sostenuta in dottrina (cfr. Capozzi, Il mutuo dissenso nella pratica notarile, VN, 1993, 635 ss.), in base alla quale il mutuo dissenso è attuabile anche quando ha per oggetto lo scioglimento di un contratto i cui effetti si sono interamente prodotti (ad avviso di Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2004, 1008, il mutuo dissenso rappresenta un negozio con esclusivi effetti solutori e non è idoneo a produrre l’effetto traslativo costituito dal ritrasferimento, di conseguenza, secondo tale tesi, l’effetto del ritrasferimento verrebbe prodotto da un atto separato solutionis causa, giustificato dal pregresso accordo). In definitiva, col mutuo dissenso del patto di famiglia, l’azienda o le partecipazioni sociali trasferite ritornano nel patrimonio del disponente, ripristinando la situazione precedente. 1.5. Per quanto attiene all’espressione «medesime caratteristiche», contenuta nella norma in commento, pare dover essere riferita ai requisiti di forma previsti per il patto di famiglia, requisiti che dovranno essere osservati anche con riguardo alla conclusione del successivo contratto teso a determinare lo scioglimento o la modifica del primo. 1.6. Quanto poi ai «medesimi presupposti», richiesti dalla legge rispetto a tale contratto, la formula è stata interpretata nel senso di un richiamo alle condizioni sostanziali ed economiche sussistenti al momento del patto e che ne avevano giustificato il perfezionamento: occorrerebbe, in altri termini, che l’azienda assegnata con il patto di famiglia sia ancora integra o che la partecipazione societaria trasferita conservi una consistenza sufficiente a consentire la gestione dell’impresa collettiva (Delle Monache 2009, 753).

 

2 Lo scioglimento del patto per recesso. 2.1. Per quanto attiene, poi, al recesso, si è affermato che la facoltà concessa dall’art. 768-septies, n. 2, c.c., sarebbe difficilmente attuabile. Ciò in quanto tale previsione legislativa si scontra con il disposto dell’art. 1373 c.c., che, in tema di recesso unilaterale, riconosce la facoltà di recedere solo finché il contratto non abbia avuto un principio di esecuzione. Al di fuori di tale ipotesi, il recesso può essere esercitato nei contratti ad esecuzione continuata o periodica, facendo salve tuttavia le prestazioni già eseguite (Merlo, Il patto di famiglia, cit., 13). Si è però obiettato che, avuto riguardo all’effetto reale tipicamente prodotto dal patto, il contratto viene ad «avere esecuzione» fin dal momento della sua stipula. Ciò non toglie però che il legislatore abbia qui chiaramente inteso far salva la possibilità per i contraenti di prevedere siffatta facoltà (Oberto 2006, 131). 2.2. Anche in assenza della disposizione in commento, si sarebbe potuto consentire alle parti di pervenire ai medesimi risultati, utilizzando la facoltà concessa dall’ultimo capoverso dell’art. 1373 c.c., pur a dispetto della natura «non ad esecuzione continuata o periodica» del patto di famiglia. Secondo l’opinione preferibile, oltre che prevalente in dottrina, invero, non vi è motivo di intendere restrittivamente la disposizione testé citata: ragion per cui, anche nei contratti non di durata, appare sensato ammettere che le parti possano pattuire che il recesso sia esercitabile anche dopo che si sia dato principio alla loro esecuzione (per i rinvii cfr. Oberto 2006, 130 s.). Il diritto di recesso può essere convenzionalmente attribuito a ciascuna delle parti contraenti. Tuttavia, mentre il recesso del disponente e quello del destinatario dell’attribuzione preferenziale determineranno lo scioglimento del patto di famiglia, quest’ultimo risulterà soltanto modificato in caso di recesso di un partecipante non assegnatario dei beni d’impresa (Petrelli 2006, 462 s.). 2.3. Qualora si assuma che, ai fini del valido perfezionamento del patto di famiglia, dovesse intendersi necessaria la partecipazione di tutti i legittimari potenziali esistenti, non si potrebbe al contempo concludere che, dall’un lato, sarebbe ammessa l’ipotesi della concessione di un potere di recesso ad nutum in capo a ciascuno di tali legittimari e che, dall’altro, l’esercizio di codesto potere non avrebbe riflessi sul perdurare del vincolo tra gli altri contraenti (Delle Monache 2009, 753). Si è così osservato che, ammessa l’universalità soggettiva del patto, delle due l’una: o (a) il recesso attuato da uno dei legittimari esclusi dall’attribuzione preferenziale dovrà essere concepito come fattore che determina la caducazione dell’intero contratto, o (b) non si potrà ritenere in realtà consentito, rispetto ai legittimari stessi, il recesso ad nutum, ma solo il conferimento di un potere di sciogliersi dal vincolo contrattuale condizionato al ricorrere di una giusta causa, oppure al verificarsi di specifiche circostanze previamente individuate dai contraenti (Delle Monache 2009, 753). Quanto alla prima delle opzioni in gioco – quella, cioè, per cui dovrebbe riconoscersi all’atto di recesso posto in essere da uno dei non assegnatari dei beni d’impresa l’attitudine a travolgere l’intero patto di famiglia – sembra contrastata dal tenore del dettato dell’art. 768-septies, ai sensi del quale il contratto «può essere sciolto o modificato», parimenti, sia attraverso un accordo successivo intervenuto tra i medesimi contraenti (n. 1), sia «mediante recesso» (se espressamente previsto) di uno ditali contraenti (n. 2): la legge contempla perciò il caso di un recesso con valenza soltanto modificativa del patto di famiglia, e tale non può essere se non il recesso proveniente da uno degli esclusi dall’attribuzione preferenziale. Non rimarrebbe pertanto che concludere per l’inammissibilità della concessione, a favore dei non assegnatari dei beni d’impresa, di un potere di recesso da esercitarsi ad nutum, tale potere dovendo invece essere collegato alla presenza di una giusta causa o comunque al verificarsi di determinati presupposti che le parti provvederanno a specificare (così sempre Delle Monache 2009, 753). 2.4. In realtà, l’evidente lontananza di siffatta conclusione dal testo legislativo (che non pone distinzioni, né reca riferimenti al concetto di giusta causa o a istituti similari) dimostra, ancora una volta, l’insostenibilità della tesi che richiede ad validitatem la partecipazione di tutti i legittimari potenziali alla stipula del patto di famiglia. 2.5. Circa la forma del recesso, e nonostante la poco perspicua terminologia utilizzata dal legislatore (il quale parla, nell’art. 768-septies n. 2, di una dichiarazione, da indirizzare agli altri contraenti, che dev’essere «certificata da un notaio»), sembra che non possa dubitarsi della necessità dell’atto pubblico (Delle Monache 2009, 753). 2.6. L’esercizio del diritto potestativo di recesso determinerà il venir meno degli effetti dell’intero negozio, se a recedere saranno il disponente o il destinatario dell’azienda o delle partecipazioni azionarie. Per ciò che attiene agli altri legittimari, il recesso di costoro comporterà solo l’obbligo di restituzione di quanto ricevuto e, ovviamente, la non estensibilità nei loro confronti degli effetti del patto, con il risultato che i medesimi verranno a trovarsi nella situazione descritta dall’art. 768-sexies c.c. Attese le inevitabili complicazioni e gli immaginabili strascichi dell’atto in oggetto, si raccomanda ai notai di fare assai parco uso di questa clausola (Oberto 2006, 132).

768- octies

Controversie.Le controversie derivanti dalle disposizioni di cui al presente capo sono devolute preliminarmente a uno degli organismi di conciliazione previsti dall’articolo 38 del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5.

Sommario:1. Generalità. Controversie sul patto di famiglia e tentativo stragiudiziale di conciliazione. — 2. L’ambito oggetto di applicazione della norma; clausole compromissorie e arbitrato societario. —  3.  Lo svolgimento delle procedure di conciliazione.

 

1 Generalità. Controversie sul patto di famiglia e tentativo stragiudiziale di conciliazione. 1.1. La disposizione richiamata dalla norma in commento (e cioè l’art. 38, d. legisl. 17 gen. 2003, n. 5) prevede, in relazione ai procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, la costituzione, da parte degli enti pubblici o privati, che diano garanzie di serietà ed efficienza, di organismi deputati, su istanza della parte interessata, a gestire un tentativo di conciliazione. Tali organismi debbono essere iscritti in un apposito registro tenuto presso il Ministero della giustizia. Il registro e le modalità di iscrizione sono regolate dal d. legisl. 23 lug. 2004, n. 222 (sulla disciplina della conciliazione stragiudiziale in materia societaria cfr. Minervini, SOC, 2003, 657 ss.; Brunelli, Clausole compromissorie, dell’arbitrato e della conciliazione stragiudiziale in materia societaria, Aa. Vv., La riforma delle società. Aspetti applicativi, a cura di Bortoluzzi, 421 ss.; Miccolis, RDC, 2004, II, 97 ss.; Sanzo e Migliaccio, Della conciliazione stragiudiziale, Nuovo dir. soc. Cottino, 2998 ss.; sui provvedimenti attuativi cfr. Brunelli, VN, 2004, 1734 ss.; Soldati, C, 2004, 1074 ss.; Picaroni, SOC, 2004, 1424 ss.). 1.2.  Non vi è dubbio che la norma si inquadra in una linea di tendenza – che sta progressivamente emergendo negli ultimi anni – volta a superare le lungaggini e gli inconvenienti della giustizia civile, avvalendosi di procedure alternative di risoluzione delle controversie (così Petrelli 2006, 465; nello stesso senso v. anche Brunelli, Arbitrato e conciliazione, Aa. Vv., Patti di famiglia per l’impresa, cit., 318; sul tema delle ADR, v. per tutti Alpa, Modi stragiudiziali di composizione dei conflitti-ADR, Aa. Vv., La parte generale del diritto civile, 2, TR. SACCO, 179; Brunelli, Clausole compromissorie, dell’arbitrato e della conciliazione stragiudiziale in materia societaria, cit., 318 ss., 327 ss.; Ead., N, 2005, 195; Venditti, Articolo 2 (art. 768 octies), De Nova, Delfini, Rampolla e Venditti, Il patto di famiglia, cit., 83 ss.; Oberto 2006, 135 ss.). 1.3. Il problema principale consiste nel comprendere il significato dell’espressione «sono devolute preliminarmente». Si è rilevato in proposito (cfr. Buffone 2006, cit.) che, secondo la Corte costituzionale (cfr. da ultimo Corte Cost., 8 giu. 2005, n. 221, con ampi richiami ai precedenti della stessa Corte in motivazione), l’arbitrato deve essere una scelta e non un’imposizione legislativa. È noto del resto che, come più volte ribadito dalla Consulta, poiché la Costituzione garantisce ad ogni soggetto il diritto di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi, «il fondamento di qualsiasi arbitrato è da rinvenirsi nella libera scelta delle parti: perché solo la scelta dei soggetti (intesa come uno dei possibili modi di disporre, anche in senso negativo, del diritto di cui all’art. 24, 1o co., Cost.) può derogare al precetto contenuto nell’art. 102, 1o co., Cost. [...], sicché la “fonte” dell’arbitrato non può più ricercarsi e porsi in una legge ordinaria o, più generalmente, in una volontà autoritativa», con conseguente incostituzionalità delle norme che prevedano forme di arbitrato obbligatorio (Corte Cost., 8 giu. 2005, cit.). All’osservazione può però obiettarsi (cfr. Oberto 2006, 136) che altro è mediazione e altro è arbitrato. Inoltre, altro è mediazione preliminare all’instaurazione della causa (assimilabile al tentativo obbligatorio di conciliazione, che si ha, ad esempio, nel rito del lavoro) e altro è arbitrato obbligatorio. Come esattamente rimarcato in dottrina (cfr. Venditti, op. cit., 85), la compatibilità del tentativo obbligatorio di preventiva conciliazione, rispetto al libero esercizio del diritto di azione di cui all’art. 24, 1o co., Cost., ha già superato il vaglio del giudice delle leggi (cfr. Corte Cost., 13 lug. 2000, n. 276, G CIV, 2000, I, 2499). 1.4. Semmai la vera obiezione, sul piano dell’opportunità, investe la scelta di politica legislativa di demandare l’opera di mediazione, in una materia caratterizzata da profili di esasperato tecnicismo nel campo del diritto successorio (ma anche di quello familiare e contrattuale in genere), a organismi di conciliazione propri del settore commerciale e societario.

 

2 L’ambito oggetto di applicazione della norma; clausole compromissorie e arbitrato societario. 2.1. Venendo all’ambito oggettivo d’applicazione della norma ci si chiede se la disposizione trovi applicazione in relazione alle controversie che riguardino comunque il patto di famiglia, ovvero solo a quelle originate dalle specifiche disposizioni di cui agli artt. 768 ss., con particolare riguardo alle impugnative previste dagli artt. 768-quinquies e 768-sexies, cpv. Si pensi ad esempio a controversie determinate dalla violazione di clausole statutarie di gradimento, un richiamo alle quali può scorgersi nel riferimento di cui all’art. 768-bis alla necessità che i trasferimenti delle partecipazioni sociali rispettino le differenti tipologie societarie. Il quesito potrebbe anche concernere clausole di arbitraggio ex art. 1349 per la determinazione del valore dell’azienda trasferita. Si pone poi anche la questione dell’ammissibilità di procedure cautelari, prima del tentativo di conciliazione. Agli interrogativi di cui sopra si è risposto prospettando la necessità di indagare caso per caso l’effettivo campo di applicazione della disposizione (così Venditti, op. cit., 86), anche se il tenore della stessa appare di una ampiezza tale da non ammettere eccezioni, in relazione ad ogni tipo di controversia che sia in qualsiasi modo ricollegata all’esistenza delle disp. di cui agli artt. 768-bis ss. 2.2. Trattandosi comunque di diritti disponibili non sembra impossibile ipotizzare (ed anzi, auspicare) l’inserimento di clausole compromissorie (ora definite anche «convenzioni d’arbitrato» dal capo I, titolo VIII, del libro IV del codice di procedura civile, dopo la riforma di cui al d. legisl. 2 feb. 2006, n. 40), che demandino la devoluzione delle controversie sorgenti dal patto di famiglia – una volta superata eventualmente senza soluzione conciliativa la fase della mediazione – a collegi arbitrali a composizione notarile (cfr. Oberto, op. loc. ultt. citt.; nello stesso senso v. anche Brunelli, Arbitrato e conciliazione, in Patti di famiglia per l’impresa, cit., 339 ss.). 2.3. Per quanto attiene più strettamente all’arbitrato, occorre tenere presenti i possibili diversi beni oggetto di trasferimento: azienda e partecipazioni societarie. Nel primo caso, il trasferimento di un’azienda comporterà l’applicazione della disciplina dell’arbitrato ordinario. Nel secondo, proprio il trasferimento di partecipazioni societarie potrebbe innescare l’applicazione della disciplina dell’arbitrato societario. In effetti, l’art. 1, d. legisl. n. 5 del 2003, che individua l’ambito di applicazione del provvedimento, indica, al 1o co., lettera b), il «trasferimento delle partecipazioni sociali, nonché ogni altro negozio avente ad oggetto le partecipazioni sociali o i diritti inerenti». 2.4. L’arbitrato societario disciplinato dal d. legisl. n. 5 del 2003 costituisce una figura di arbitrato sui generis, con caratteristiche che lo distinguono dall’arbitrato disciplinato dal codice di procedura civile. In particolare è comminata la sanzione della nullità per le clausole compromissorie statutarie che non conferiscano il potere di nomina degli arbitri a soggetto estraneo alla società (cfr. art. 34, d. legisl. n. 5 del 2003). In proposito, l’art. 35 del citato d. legisl. n. 5 del 2003 dichiara inderogabili le disposizioni dell’art. 34 cit., il quale a sua volta fa riferimento ai soli rapporti nascenti dallo statuto sociale, riferendosi espressamente (cfr. la relativa rubrica) alle «clausole compromissorie statutarie». D’altro canto, la clausola arbitrale di cui qui si discute non troverebbe la sua genesi nello statuto sociale, bensì, per l’appunto, nel patto di famiglia. L’ampiezza del tenore letterale dell’art. 1 d. legisl. n. 5 del 2003 consiglia però tuzioristicamente di rimettere la nomina degli arbitri ad un terzo tutte le volte in cui il patto di famiglia comporti il trasferimento di partecipazioni societarie (così Brunelli, Arbitrato e conciliazione, in Patti di famiglia per l’impresa, cit., 341).

 

3 Lo svolgimento delle procedure di conciliazione. 3.1. A differenza di quanto è previsto, ad es., nella legge sul franchising (l n. 129/2004, art. 7), nel caso del patto di famiglia la conciliazione è devoluta a tutti gli organismi di conciliazione di cui all’art. 38 cit. e non solo alle camere di commercio. Secondo parte della dottrina non è chiaro tuttavia se il riferimento agli organismi di cui all’art. 38 valga solo ad individuare il soggetto competente ad erogare il servizio di conciliazione, o non valga piuttosto ad estendere alle conciliazione in materia di patto di famiglia l’intera disciplina di cui agli artt. 38 - 40 del decreto n. 5/03 (cfr. Cuomo Ulloa, La conciliazione. Modelli di composizione dei conflitti, Padova, 2008, 378 s.). Quest’ultima soluzione appare tuttavia preferibile, atteso il carattere assolutamente generale e generico del rinvio operato dalla norma in esame. 3.2. Lo svolgimento del procedimento di conciliazione, secondo l’art. 38 cit., dovrà aver luogo nell’osservanza dei successivi articoli 39 e 40 dello stesso d. legisl. n. 5 del 2003, con la conseguenza, in particolare, che i contraenti, nell’atto pubblico con cui è concluso il patto di famiglia, avranno la facoltà di indicare specificamente l’organismo di conciliazione. Inoltre, il mancato preventivo esperimento della conciliazione, senza che sia rilevabile d’ufficio dal giudice, dovrà essere fatto valere dalla parte interessata nella prima difesa; la proposizione della domanda di conciliazione produrrà sulla prescrizione i medesimi effetti di quella giudiziale. Nel caso di successo del tentativo di conciliazione sarà redatto processo verbale che, previo accertamento della regolarità formale, andrà omologato dal presidente del tribunale nel cui circondario ha sede l’organismo di conciliazione. Il verbale acquisterà così l’efficacia non soltanto di titolo per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale, ma anche di titolo esecutivo sia per l’espropriazione forzata, sia per l’esecuzione forzata in forma specifica (cfr. Busani, G DIR, 2006, 49; in senso parzialmente difforme cfr. Venditti, op. cit., 89, secondo cui le norme di procedura ex art. 40 cit. non potranno trovare diretta applicazione, se non richiamate nei regolamenti adottati dagli organismi di conciliazione e nei limiti in cui l’autonomia privata possa farvi riferimento). 3.3. Il fatto che la conciliazione debba svolgersi dinanzi ad un organismo iscritto dovrebbe rendere applicabili anche alle conciliazioni in esame tutte le disposizioni regolamentari di cui al d.m. 222 del 2004: dovendo pertanto il procedimento di conciliazione svolgersi secondo il regolamento di procedura depositato dall’organismo adito (così anche Cuomo Ulloa, ibidem). Per questa ragione dovrebbe applicarsi, anche alle conciliazioni in esame, la norma sugli effetti della domanda di conciliazione, spettando all’organismo adito trasmettere la stessa alla controparte con i mezzi idonei a provarne la ricezione previsti nel regolamento: troveranno applicazione inoltre le norme contenute nel regolamento dell’organismo adito in materia di riservatezza e di imparzialità. così come le regole dettate per la formazione e la qualificazione professionale del conciliatore (così Cuomo Ulloa, ibidem). 3.4. Andrà ancora tenuto conto del fatto che, per effetto dell’art. 5, primo comma, del d.lgs. 4 mar. 2010/28,  «chi intende esercitare in giudizio un’azione relativa ad una controversia in materia di condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti, da responsabilità medica e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari, è tenuto preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione ai sensi del presente decreto ovvero il procedimento di conciliazione previsto dal decreto legislativo 8 ottobre 2007, n. 179, ovvero il procedimento istituito in attuazione dell’articolo 128-bis del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, e successive modificazioni, per le materie ivi regolate». 3.5. Fino alla entrata in vigore dell’art. 54, quinto comma, l. 18 giugno 2009, n. 69, che ha disposto l’abrogazione del «rito societario», atteso che l’articolo 768-octies non aveva introdotto direttamente novità nella specifica materia, in applicazione dell’articolo 1, lett. b), del d. legisl. n. 5 del 2003, si doveva ritenere che, una volta instaurato il giudizio, andasse seguito il c.d. «rito societario» (artt. 1 ss., d. legisl. n. 5 del 2003) soltanto ove nella specie il disponente si fosse servito del patto di famiglia per trasferire partecipazioni societarie. Al contrario, qualora l’imprenditore avesse trasferito «in tutto o in parte l’azienda», si sarebbe dovuto applicare il procedimento ordinario di cognizione (così Busani, ibidem; Oberto, ibidem). Quest’ultima regola deve trovare ora sempre applicazione per qualsiasi ipotesi di processo in materia di patto di famiglia, a condizione che sia stato instaurato successivamente all’entrata in vigore della citata riforma processuale del 2009. 3.6. Da ultimo va aggiunto che il decreto legislativo 4.3.2010, n. 28, attuativo dell’art. 60 l. 18.6.2009, n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali è venuto a stabilire, all’art. 5, primo comma, che «chi intende esercitare in giudizio un’azione relativa ad una controversia in materia di condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti, da responsabilità medica e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari, è tenuto preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione ai sensi del presente decreto ovvero il procedimento di conciliazione previsto dal decreto legislativo 8 ottobre 2007, n. 179, ovvero il procedimento istituito in attuazione dell’articolo 128-bis del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, e successive modificazioni, per le materie ivi regolate», quale condizione di procedibilità della domanda. E’ altresì previsto che tale disposizione acquisti efficacia decorsi dodici mesi dall’entrata in vigore del decreto legislativo e solo per i processi successivamente instaurati.

 

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