Giacomo Oberto

 

GLI ACCORDI STIPULATI PRIMA DELLE NOZZE IN VISTA DEL DIVORZIO

ALLA LUCE

DELLE EVOLUZIONI NORMATIVE E GIURISPRUDENZIALI DEGLI ULTIMI ANNI

 

Sommario: 1. Qualche breve considerazione storica e comparata. – 2. La lezione del diritto europeo. – 3. La tesi italiana della nullità, con particolare riguardo agli accordi preventivi sulle conseguenze patrimoniali del divorzio. 4. Contraddizioni e contorsionismi nella giurisprudenza più recente. Le decisioni di legittimità nei primi anni 2000 e la « svolta » del dicembre 2012. – 5. La crisi coniugale come condizione del contratto prematrimoniale. – 6. La crisi coniugale in bilico tra causa e condizione del contratto. Gli sviluppi giurisprudenziali successivi al 2012. – 7. La piena validità delle intese preventive sulla crisi coniugale, anche nell’odierno diritto italiano. – 8. Irrilevanza dell’art. 160 c.c. Ulteriori argomenti in favore della tesi dell’ammissibilità. – 9. Evoluzioni normative recenti e relativi effetti sui contratti prematrimoniali. – 10. Possibili conseguenze degli ultimi orientamenti giurisprudenziali in tema di assegno di divorzio.

 

 

1. Qualche breve considerazione storica e comparata.

 

L’idea di collegare i rapporti patrimoniali tra due soggetti che stanno per convolare a giuste nozze al « buon esito » del rapporto che si va così ad intessere è concezione da sempre legata all’istituto matrimoniale. Proprio lo studio storico e comparato delle pattuizioni in vista della celebrazione delle nozze evidenzia il frequente e diffuso riconoscimento della validità di accordi diretti, per l’eventualità del fallimento del rapporto di coniugio, a riportare i contraenti, per così dire, nella stessa posizione di partenza in cui si sarebbero trovati se mai si fossero impegnati in quell’unione rivelatasi poi così male assortita [1].

A parte le intese contenute nei pacta nuptialia, di cui fanno fede le fonti romane, che in un numero incredibilmente vasto di casi contemplavano espressamente il divortium quale causa di restituzione dell’apporto dotale, provvedendo a fissare le concrete modalità dell’attuazione di tale restitutio [2], va ricordato che pure in epoche nelle quali l’unica causa di scioglimento del vincolo matrimoniale era rappresentata dalla morte (e in particolare nell’epoca del diritto intermedio e del diritto comune), i notai non disdegnavano di prendere in considerazione nei contratti di matrimonio l’ipotesi della separatio a mensa et thoro, proprio quale causa di ristabilimento delle condizioni patrimoniali di partenza dell’una e dell’altra parte [3].

In una prospettiva comparata, è sin troppo noto il successo che negli Stati Uniti riscuotono ormai da svariati anni i prenuptial agreements in contemplation of divorce, al termine di un’evoluzione storica [4] sicuramente non esente da contraddizioni, nella quale ha giocato un ruolo determinante il passaggio dal sistema dello scioglimento del matrimonio basato fondamentalmente sulla colpa, alla regola del no fault divorce. Gli echi di quella giurisprudenza e di quell’atteggiamento, anche culturale, nei confronti dei vantaggi connessi alla definizione in via preventiva di una possibile crisi coniugale [5] sono giunti – in questo mondo globalizzato – persino nel nostro per molti versi arretrato Paese, anche se da noi ciò ha fatto premio è stata piuttosto l’attenzione legata alle vicende di personaggi dello spettacolo o comunque notori. Oltre Oceano, la materia è oggi retta per lo più dall’Uniform Premarital Agreement Act (UPAA) del 1983, adottato da 26 degli States. Il punto centrale di tale normativa è costituito dal concetto di unconscionability. Il termine unconscionability ed il relativo aggettivo unconscionable corrispondono in buona sostanza al concetto di iniquità, che nel sistema dell’UPAA, costituisce il principale limite all’efficacia degli accordi prematrimoniali.

Secondo l’UPAA un prenuptial agreement non è eseguibile quando determini una situazione di iniquità, da valutarsi sia con riferimento al momento della stipulazione dell’accordo, che a quello della sua esecuzione. Secondo un’opinione diffusa in dottrina, il giudice dovrebbe limitarsi a dichiarare l’unconscionability solo in casi di palese iniquità, perché altrimenti si darebbe corso ad una concezione paternalistica del diritto, che è da ritenersi superata. L’UPAA pone inoltre a carico delle parti di un prenuptial agreement un obbligo di « fair e reasonable disclosure », cioè una dichiarazione fedele circa i beni materiali e finanziari di proprietà, che se disatteso, può determinare nella parte sfavorita, il diritto di chiedere che l’accordo venga dichiarato « unenforceable », previa dimostrazione dell’altrui omissione. A questi requisiti di carattere sostanziale, cui è subordinata la validità del prenuptial agreement, si aggiungono poi quelli riguardanti la formazione del consenso: oltre alla violazione dell’obbligo di fair e reasonable disclosure il sistema americano prevede quale causa di nullità dell’accordo il ricorso all’inganno e alla violenza nella stipulazione dello stesso, nonché la mancata possibilità di consultare un legale prima della prestazione del consenso [6].

Al di là dei confini degli States, analoga evoluzione in senso favorevole alla validità delle intese in discorso s’è manifestata in svariati altri ordinamenti di common law. Così in Gran Bretagna – ove peraltro già nei primi anni del XIX secolo una celebre monografia dedicata ai rapporti tra coniugi [7] non esitava a dichiarare sustainable e suscettibile di riconoscimento in our courts of justice ogni « agreement entered into in contemplation of a future separation » – sembrano ormai definitivamente superate le difficoltà emerse nel corso del XX secolo, collegate all’idea che tali contratti, in quanto diretti in qualche modo a favorire il divorzio, fossero « against public policy and void » [8], anche alla luce della considerazione secondo cui i giudici d’oltre Manica sembrano oggi assai più restii d’un tempo a procedere ad una allocazione e divisione del patrimonio accumulato durante la convivenza o alla previsione di assegni o attribuzioni patrimoniali d’altro genere in presenza di precisi accordi, i quali vengono intesi come « evidence of the parties intentions », di cui la corte non può non tenere conto [9].

Ma la rivoluzione copernicana, in terra d’Albione, si è operata con il caso Radmacher v Granatino, in relazione al quale, nel 2009, la Court of Appeals ha letteralmente demolito ogni limite al riconoscimento anche nel Regno Unito degli ante-nuptial contracts. Qui, partendo dalla considerazione per cui « the civil law jurisdictions of Europe generally employ notarised marital property regimes to regulate both the property consequences of marriage and divorce, the common law jurisdictions attach no property consequences to marriage and rely on a very wide judicial discretion to fix the property consequences of divorce », Lord Thorpe, estensore della motivazione, punta tutto sul « doppio argomento » (à la fois comparatistico e internazionalistico) per cui la coppia in oggetto era formata da un cittadino francese e da una cittadina tedesca e che, ove la questione della validità dell’accordo prematrimoniale (stipulato in Germania ed in forza del quale il marito non avrebbe potuto vantare alcuna pretesa d’ordine patrimoniale in caso di divorzio) fosse stata affrontata da un giudice tedesco o da uno francese, essa sarebbe stata sicuramente risolta in modo positivo [10].

Per quanto attiene invece all’Australia, vi è da notare che il tema degli accordi preventivi è affrontato e positivamente risolto dalla legislazione da molto tempo con riguardo alla posizione dei conviventi more uxorio. Già nel 1984 il De Facto Relationships Act del Nuovo Galles del Sud aveva stabilito (art. 44) che un accordo di convivenza potesse essere « made in contemplation of the termination of a domestic relationship ». Proprio tale disposizione (ora inserita nel Property (Relationships) Act) ha, in tempi meno remoti, contribuito a determinare l’introduzione per via legislativa dell’ammissibilità della stipula di prenuptial agreements, conclusi anche eventualmente in contemplation of divorce, per effetto della riforma di cui al Family Law Amendment Act 2000 in vigore in Australia dal 1° gennaio 2001 [11]. Si è, invero, constatato al riguardo che « it seemed ‘illogical’ that parties to a de facto relationship may have contractual rights or entitlements enforceable by a court, whereas agreements by parties who intend to marry will generally after marriage not be recognised as binding or enforceable by the Family Court » [12].

Non potrà poi tacersi che un atteggiamento favorevole verso la validità di intese preventive sulle conseguenze del divorzio è riscontrabile ormai pure in numerosi sistemi dell’Europa continentale. Il caso più significativo è rappresentato dalla Germania, ove dottrina e giurisprudenza, sulla scorta di una radicata tradizione storica [13], da sempre avallano la costante pratica dei coniugi (o meglio, dei notai) di predeterminare, in sede di stipula degli Eheverträge, gran parte degli effetti di un possibile divorzio tra le parti, vuoi dettando i criteri per la determinazione del nachehelicher Unterhalt (vale a dire dell’assegno divorzile) [14], vuoi rinunziandovi in toto, vuoi ancora escludendo ogni forma di Versorgungsausgleich (cioè della liquidazione delle aspettative pensionistiche conseguente allo scioglimento del regime legale della Zugewinngemeinschaft). I citati accordi possono altresì escludere l’eventuale ricorso delle parti a quella Abänderungsklage che, ai sensi del § 323 ZPO, consentirebbe (conformemente a quanto da noi previsto dagli artt. 710 c.p.c. o dall’art. 9 l.div.) la modifica giudiziale di un’eventuale prestazione di mantenimento, per effetto di successive variazioni della situazione economica delle parti in considerazione della quale la prestazione era stata prevista [15].

Interessante risulta poi anche il raffronto con altre esperienze geograficamente e culturalmente piuttosto vicine alla nostra.

Si pensi, ad esempio, alla legislazione catalana, la quale, dopo aver espressamente consentito, sin dal 1998, intese preventive, in contemplazione di una possibile rottura del rapporto, nel contesto degli accordi tra conviventi, sia eterosessuali che omosessuali [16], è passata ad ammettere, nel relativo Codi de familia (art. 15), del medesimo 1998, che pure nei capítols matrimonials, « hom pot determinar el règim econòmic matrimonial, convenir heretaments, fer donacions i establir les estipulacions i els pactes lícits que es considerin convenients, àdhuc en previsió d’una ruptura matrimonial » [17], per poi pervenire ad un’articolata definizione di siffatto tipo di intese nel Codi Civil de Catalunya del 2008 [18].

Si noti infine che, come già posto in luce in altra sede [19], alcuni segnali d’apertura in questo senso si vanno profilando da tempo anche in un sistema che, come quello francese, sino ad oggi appariva piuttosto chiuso alla possibilità di predeterminare tramite accordi conclusi in via preventiva an e quantum di prestazioni postdivorzili, stante anche il dato costituito dall’art. 232 del Code Civil, che consente al giudice di negare l’omologazione dell’accordo di divorzio nel caso in cui esso non salvaguardi in maniera sufficiente gli interessi « di uno dei coniugi » [20].

Venendo al significato che i sopra evidenziati elementi comparativi potrebbero assumere per l’esperienza italiana, va tenuto conto del fatto che, se si eccettua la citata disposizione catalana, nessuno degli ordinamenti continentali, nei quali si ammette la validità di intese preventive sulle conseguenze della crisi coniugale, contiene disposizioni ad hoc, mentre la conclusione favorevole viene desunta, in buona sostanza, da regole non molto dissimili dalle nostre, con particolare riguardo al principio di libertà negoziale [21]. Il tutto, del resto, in maniera assolutamente conforme ad una delle grandi tendenze del moderno diritto di famiglia europeo, impostato su di un concetto di « dejudicialization of the divorce », vale a dire sull’idea di un « divorce based on the parties’ autonomy, on the principle of the best interest of a child, and the principle of assistance to the spouses/families in solving their conflicts and achieving the (ancillary) agreements that will balance the interests of all family members » [22].

 

 

2. La lezione del diritto europeo.

 

Conchiudendo questa panoramica introduttiva non potrà farsi a meno di notare come l’ « impatto » dei nostri principi con accordi del genere di quelli qui in esame è comunque destinato ad aumentare, in considerazione, da un lato, dell’incremento dei matrimoni con cittadini stranieri (o, in ogni caso, delle unioni caratterizzate dalla presenza di un elemento di estraneità), nonché, dall’altro, del principio, già introdotto dall’art. 30, l. 218/1995, secondo cui i coniugi possono, a mezzo di una convenzione scritta, derogare al criterio fissato per l’individuazione della disciplina applicabile ai rapporti personali e ora consacrato dagli artt. 22 ss. Regolamento (UE) 2016/1103 del Consiglio del 24 giugno 2016, che attua la cooperazione rafforzata nel settore della competenza, della legge applicabile, del riconoscimento e dell’esecuzione delle decisioni in materia di regimi patrimoniali tra coniugi [23]. Questo significa che i contratti prematrimoniali catalani, austriaci, tedeschi, inglesi, etc. ben potranno essere eseguiti in Italia, non comportando il profilo dell’ordine pubblico internazionale, come si avrà modo di vedere tra un attimo [24], alcun tipo di ostacolo [25].

A quanto sopra s’aggiunga poi ancora che il Regolamento in tema di legge applicabile alle cause transnazionali di separazione e divorzio [26] prevede l’attribuzione di un ruolo senza precedenti all’accordo delle parti. Un accordo, questo, la cui limitazione temporale viene individuata « al più tardi al momento in cui è adita l’autorità giurisdizionale » [27]. Ora, proprio la mancata fissazione di un dies a quo per il raggiungimento di siffatta intesa autorizza a ritenere che tali accordi possano essere stipulati già al momento della celebrazione delle nozze [28]. Da ciò sembra derivare un’ulteriore conferma dell’ammissibilità dei contratti prematrimoniali, se non addirittura un incoraggiamento alla conclusione degli stessi [29].

Ma non basta ancora. Il Regolamento (UE) 2016/1104 del 24 giugno 2016 che attua la cooperazione rafforzata nel settore della competenza, della legge applicabile, del riconoscimento e dell’esecuzione delle decisioni in materia di effetti patrimoniali delle unioni registrate [30], pur riferibile a situazioni diverse da quelle matrimoniali, ma certamente ascrivibili alla galassia familiare, richiama più volte gli accordi « tra futuri partner », così manifestando chiaramente un favore verso la pattuizione preventiva delle conseguenze patrimoniali dell’eventuale rottura dell’unione [31].

La predeterminazione del diritto applicabile sulla base di un’intesa anteriore, anche di molto, al momento della controversia appare un dato ormai costante nella normativa dell’U.E. e, più in generale, transnazionale. Oltre ai casi già citati della legge applicabile alla separazione e al divorzio, nonché della scelta della legge applicabile al regime patrimoniale, potrà infatti farsi menzione dell’art. 8 del protocollo dell’Aia del 23 novembre 2007, relativo alla legge applicabile alle obbligazioni alimentari, a sua volta richiamato dall’art. 15 del Regolamento U.E. n. 4/2009 sulle obbligazioni alimentari. Secondo quest’ultimo principio, le parti possono designare di comune accordo la legge applicabile al loro rapporto mediante un’intesa che può essere conclusa, testualmente, « at any time ». E in proposito sarà appena il caso di ricordare che tra tali obbligazioni ricadono anche le prestazioni assistenziali postmatrimoniali in sede di separazione e divorzio [32].

Proprio con riguardo all’atto normativo eurounitario del 2009 sulle obbligazioni alimentari, dovrà ancora menzionarsi il fatto che qualsiasi contratto prematrimoniale in vista della crisi coniugale in merito alla determinazione o all’esclusione delle prestazioni di mantenimento, stipulato in un Paese che ne ammetta la conclusione, beneficia del trattamento previsto dall’art. 48, con la conseguenza che, se contenuto in un documento definibile come « atto pubblico » ai sensi dell’art. 2, n. 3, è riconosciuto in ogni altro Stato membro ed ha la stessa esecutività delle decisioni ai sensi del capo IV del citato Regolamento.

 

 

3. La tesi italiana della nullità, con particolare riguardo agli accordi preventivi sulle conseguenze patrimoniali del divorzio.

 

La nostra giurisprudenza ha avuto modo di esprimersi svariate volte sulla validità di accordi preventivi in vista di un’eventuale crisi coniugale, anche se per lo più con riguardo ad intese concluse in sede di separazione consensuale.

Ponendo mente, invece, alla fattispecie « americana » dell’intesa conclusa all’atto della celebrazione delle nozze, va considerata una pronunzia di legittimità, che, già nel lontano, 1984, ebbe ad affermare la compatibilità con l’ordine pubblico internazionale, ex art. 31 prel. (cfr. ora art. 16, l. 218/1995), di un accordo stipulato tra due coniugi statunitensi residenti in Italia e diretto a regolamentare i reciproci rapporti patrimoniali in vista del divorzio. Si trattava, per la precisione, di quello che in America si definirebbe postnuptial agreement, in quanto concluso in contemplation of divorce, ma in costanza di matrimonio.

La relativa massima recita quanto segue: « L’accordo, rivolto a regolamentare, in previsione di futuro divorzio, i rapporti patrimoniali fra coniugi, che sia stato stipulato fra cittadini stranieri (nella specie, statunitensi) sposati all’estero e residenti in Italia, e che risulti valido secondo la legge nazionale dei medesimi (applicabile ai sensi degli artt. 19 e 20 delle disposizioni sulla legge in generale), è operante in Italia, senza necessità di omologazione o recepimento delle sue clausole in un provvedimento giurisdizionale, tenuto conto che l’ordine pubblico, posto dall’art. 31 delle citate disposizioni come limite all’efficacia delle convenzioni fra stranieri, riguarda l’ordine pubblico cosiddetto internazionale, e che in tale nozione non può essere incluso il principio dell’ordinamento italiano, circa l’invalidità di un accordo di tipo preventivo fra i coniugi sui rapporti patrimoniali successivi al divorzio, il quale attiene all’ordine pubblico interno e trova conseguente applicazione solo per il matrimonio celebrato secondo l’ordinamento italiano e fra cittadini italiani » [33].

Come si è già rimarcato, la giurisprudenza italiana ha invece avuto più volte occasione di pronunziarsi circa la validità delle intese che, in sede di separazione consensuale, le parti raggiungono sull’assetto patrimoniale da dare ad un eventuale (ma, a questo punto, probabile) futuro divorzio. Anche in questo caso – come per quello del carattere disponibile o meno del contributo al mantenimento del coniuge separato e dell’assegno di divorzio – si assiste ad una significativa evoluzione del pensiero dei giudici di legittimità, da concezioni più « liberiste » (o, quanto meno, più « possibiliste ») a posizioni di assai più rigida chiusura. Invero, dopo una serie di aperture nella giurisprudenza degli anni Settanta dello scorso secolo [34], a partire da una decisione del 1981 la Corte di legittimità comincia ad enucleare specifici profili di illegittimità degli accordi in questione, tali da sconsigliarne l’adozione anche a chi volesse attestarsi sulla tesi della validità delle rinunzie (successive) ai diritti patrimoniali insorgenti dallo scioglimento del vincolo matrimoniale.

La prima sentenza di tale « nuovo corso », destinato, pur se tra alterne vicende, a durare sino ad oggi, concerne il caso di un accordo che prevedeva il diritto per il marito separato di mantenere fermo per un certo periodo l’ammontare dell’assegno dovuto alla moglie per il mantenimento di quest’ultima e dei figli, a prescindere da un eventuale divorzio. Qui la Corte, dopo aver negato la disponibilità dell’assegno divorzile per quanto si riferisce alla sua componente assistenziale (come espressione del perdurare, pur dopo lo scioglimento del vincolo, di un rapporto di solidarietà economica, nel quale viene trasferito ciò che rimane del reciproco soccorso della vita matrimoniale), stabilisce che, se conclusi prima della sentenza, gli accordi sull’assegno di divorzio sono comunque nulli, anche se riferiti alle sole componenti risarcitoria e compensativa [35]. E a questo punto la Cassazione presenta per la prima volta l’argomento destinato a diventare negli anni a seguire il suo vero e proprio « cavallo di battaglia » in questa materia: la tesi, cioè, che si basa sull’asserito condizionamento del comportamento delle parti nel futuro giudizio di divorzio e sull’asserito commercio dello status di coniuge.

Quattro anni più tardi, pronunziandosi su una rinunzia alla possibilità di chiedere la revisione dell’assegno di divorzio, contenuta nell’atto di transazione stipulato tra i coniugi separati, la Corte ribadisce che l’inoperatività di tale negozio deve ricollegarsi alla più radicale ragione della sua nullità per illiceità della causa, secondo quanto posto in luce dalla precedente decisione, in considerazione del fatto che « gli accordi preventivi tra i coniugi sul regime economico del divorzio prima che esso sia pronunziato hanno sempre lo scopo o, quanto meno, l’effetto di condizionare il comportamento delle parti nel giudizio concernente uno status, limitandone la libertà di difesa » [36].

I precedenti appena illustrati trovano ulteriore sviluppo nel corso dei primi anni Novanta dello scorso secolo, durante i quali si ribadisce la nullità, per illiceità della causa, dell’accordo tramite il quale i coniugi, in sede di separazione consensuale, stabiliscono, per il periodo successivo al divorzio, a favore dell’uno il diritto personale di godimento della casa di proprietà dell’altro [37], o escludono la facoltà di chiedere la revisione dell’assegno di mantenimento, qualora sopravvengano giustificati motivi [38]. Ancora, vengono dichiarati invalidi quegli accordi preventivi nei quali si prevede, sempre in caso di divorzio, la concessione in godimento alla moglie di beni mobili ed immobili del marito [39], ovvero la corresponsione di emolumenti ulteriori rispetto a quelli giustificati da bisogni alimentari [40], oppure viene fissata in anticipo la spettanza e l’entità dell’assegno di divorzio [41], o, infine, viene decisa la vendita di un immobile che le parti ritengono in comproprietà, con conseguente divisione del ricavato [42]. L’indirizzo più rigoroso continua quindi nel corso degli anni successivi, definitivamente consolidandosi con altre pronunce ispirate ai medesimi principi [43].

 

 

4. Contraddizioni e contorsionismi nella giurisprudenza più recente. Le decisioni di legittimità nei primi anni 2000 e la « svolta » del dicembre 2012.

 

Va però detto, a questo punto, che, a partire dall’ingresso nel terzo millennio, la nostra giurisprudenza inizia a registrare alcune decisioni in controtendenza.

Il primo caso fu quello, assai pubblicizzato a suo tempo dai media (e non a caso ricordato da diverse sentenze successive) di una decisione dell’ormai lontano 2000 [44], la quale, pur riaffermando il tradizionale principio della nullità delle intese concluse in sede di separazione, con valore inteso dalle parti come vincolante anche per il divorzio, rigettò la domanda di nullità di un accordo preventivo sull’ammontare dell’assegno di divorzio, sulla base del pretesto che l’invalidità era stata invocata nella specie non dal coniuge avente diritto all’assegno, bensì dall’altro, che di tale assegno avrebbe potuto essere onerato.

Il risultato paradossale di siffatta operazione ermeneutica fu quello di trasformare – al di fuori di ogni previsione di legge – la nullità per violazione di regole d’ordine pubblico in una sorta di nullità relativa, la quale potrebbe essere fatta valere soltanto dal coniuge che avrebbe diritto all’assegno, con buona pace di quanto disposto dall’art. 1421 c.c. E’ del resto innegabile che, se la causa è illecita, la nullità colpisce l’intero atto; quest’ultimo non può essere lecito nei confronti di una parte e illecito nei riguardi dell’altra, al punto che, secondo taluno, la sentenza si sarebbe posta addirittura in violazione dell’art. 3 Cost., poiché avrebbe riservato un trattamento differenziato a ciascuno dei coniugi.

Il secondo caso, assai meno noto, ma certo non meno paradossale, fu quello in cui, in quel medesimo anno, la Corte [45] si spinse ad affermare che tale forma di nullità non solo potrebbe essere invocata esclusivamente dal coniuge avente diritto all’assegno, ma dovrebbe essere fatta valere soltanto nell’ambito della procedura di divorzio (e pertanto non successivamente alla relativa pronunzia), così surrettiziamente introducendo per quell’ipotesi di nullità un’impropria forma di prescrizione, in aperta ed ingiustificata violazione, questa volta, non solamente del principio di cui all’art. 1421 c.c., ma anche di quello ex art. 1422 c.c.

All’antologia di cui sopra potrà aggiungersi ancora una decisione di legittimità del 2012, da cui emerge che la Corte ha sostanzialmente attribuito rilievo, senza rendersene conto, ad un patto raggiunto in sede di separazione, sebbene con una chiara valenza divorzile e postdivorzile [46]. Secondo tale decisione, invero, il giudice deve tener conto degli accordi intervenuti tra i coniugi sul godimento della casa familiare. Va pertanto cassata la decisione di merito che abbia rigettato la richiesta di assegnazione della casa familiare per aver raggiunto il figlio maggiorenne convivente l’autosufficienza economica, quando per gli accordi intercorsi in sede di separazione è stato attribuito al coniuge il diritto a godere l’abitazione fino a quando fosse durata la convivenza con il figlio maggiorenne, a prescindere dalla raggiunta autonomia economica e (ancorché non espressamente dichiarato dalle parti, ma comunque secondo quanto implicitamente desumibile) a prescindere dalla circostanza che ormai si verta in un giudizio di divorzio [47].

        Un significativo e consapevole distacco rispetto all’impostazione tradizionale va poi registrato, in seno alla giurisprudenza di legittimità, a partire da una decisione del dicembre 2012 (Cass., 21 dicembre 2012, n. 23713, in Fam. e dir., 2013, 321), ad avviso della quale « Gli accordi sulle conseguenze patrimoniali del divorzio conclusi prima del matrimonio, così come quelli stipulati in sede di separazione consensuale e in vista del futuro divorzio, sono nulli allorquando intendono regolare l’intero assetto economico tra i coniugi o un profilo rilevante (come la corresponsione di assegno), con possibili arricchimenti e impoverimenti; questi accordi sono invece validi nel caso in cui prevedano prestazioni e controprestazioni tra loro proporzionali, in un contesto in cui la crisi del rapporto viene in considerazione alla stregua di una condizione ».

        Sempre secondo tale decisum, quale conseguenza di tali premesse, « L’accordo stipulato prima delle nozze tra i futuri coniugi, in forza del quale si prevede che la moglie cederà al marito un immobile di sua proprietà, quale indennizzo delle spese sostenute dallo stesso per la ristrutturazione di altro immobile, pure di sua proprietà, da adibirsi a casa coniugale, non configura un’ipotesi di accordo prematrimoniale nullo per illiceità della causa, né, in particolare, per violazione dell’art. 160 c.c., ma un contratto atipico, espressione dell’autonomia negoziale dei coniugi, sicuramente diretto a realizzare interessi meritevoli di tutela, ai sensi dell’art. 1322 cpv. c.c.; tale intesa consiste infatti in una datio in solutum, in cui l’impegno negoziale assunto è collegato alle spese affrontate, e il fallimento del matrimonio non rappresenta la causa genetica dell’accordo, ma è degradato a mero evento condizionale » [48]

Questa volta, peraltro, il distinguishing operato dalla Suprema Corte, più che quel « gioco seducente (fascinating game) che permette al giudice di common law di sottrarsi alla soggezione a un determinato precedente vincolante e di recuperare così ampi spazi di discrezionalità, dichiarando che il caso concreto in quel momento al suo esame non presenta le stesse circostanze di fatto che avevano giustificato l’applicazione della regola nel passato », ricorda la « macchina spaccacapelli » di jheringiana memoria. Una Haarspaltemaschine che, pur se presa a prestito dal « cielo dei concetti giuridici », su cui il grande giurista tedesco ironizzava, sembra, per via del suo uso eccessivo, essersi ormai inesorabilmente inceppata.

Qui, infatti, la Suprema Corte propone, per la prima volta, una distinzione tra i due seguenti tipi di intese. A) « accordi » che intendono « regolare l’intero assetto economico tra i coniugi o un profilo rilevante (come la corresponsione di assegno), con possibili arricchimenti e impoverimenti »: accordi, questi, destinati ad essere colpiti da nullità in base alla ben nota giurisprudenza di legittimità. B) « contratti » caratterizzati « da prestazioni e controprestazioni tra loro proporzionali », in cui la crisi del rapporto viene in considerazione alla stregua di una condizione: negozi, questi, da ritenersi invece validi [49]. In realtà, l’unica ragione che può indurre a considerare come « prematrimoniale » un contratto della crisi coniugale è data dal suo essere concepito in contemplation of divorce, laddove la contemplation va intesa – e non può non essere intesa se non – proprio alla stregua di una condizione. Non ha quindi senso separare il caso dell’accordo prematrimoniale sull’(eventuale) assegno divorzile, da quello di qualsiasi altra pattuizione patrimoniale prematrimoniale sulle conseguenze del divorzio.

 

 

5. La crisi coniugale come condizione del contratto prematrimoniale.

 

Nell’ottica testé delineata, la riconduzione dell’accordo oggetto della decisione del dicembre 2012 al novero delle intese « prematrimoniali », mercé il richiamo delle parti al meccanismo della condizione, appare quanto di più naturale si possa immaginare.

Sebbene la Cassazione parli qui di « un contratto atipico con condizione sospensiva lecita, espressione dell’autonomia negoziale dei coniugi diretto a realizzare interessi meritevoli di tutela, ai sensi dell’art. 1322, secondo comma c.c. », dovrà invece riconoscersi nell’accordo la presenza di un mutuo (per la ristrutturazione di un alloggio della moglie), di cui le parti avevano previsto l’estinzione a mezzo di una datio in solutum, peraltro a sua volta in parte « contro-compensata » o « riequilibrata » – avuto riguardo, evidentemente, al rapporto tra il valore del bene e l’ammontare delle spese di ristrutturazione sostenute dal marito – dal trasferimento da parte del marito alla moglie di « un titolo BOT di L. 20.000.000 ». L’estinzione del mutuo era peraltro soggetta alla condizione sospensiva del « fallimento » dell’unione. Osservando le stesse cose da un altro punto di vista, si poteva pensare ad una donazione indiretta, risolutivamente condizionata al medesimo evento di cui sopra.

È evidente che il trasferimento dell’immobile non era previsto come dovuto nel caso in cui il matrimonio non si fosse venuto a trovare in una situazione di crisi. La persistenza del vincolo avrebbe avuto l’effetto di conservare il carattere gratuito della prestazione costituita dal pagamento, da parte del (in allora futuro) marito delle spese di ristrutturazione di un altro immobile della (in allora futura) moglie.

Negare al contratto in oggetto la natura di patto prematrimoniale, come invece fa la Cassazione nella sentenza in commento, appare quanto mai arduo. A parte la considerazione (per il vero irrilevante per i fini in discorso, ma comunque significativa in vista di una connotazione più marcatamente « familiare » dell’intesa) per cui le spese sostenute dal marito attenevano alla ristrutturazione non già di un immobile « qualsiasi » della moglie, bensì proprio di quello destinato a divenire casa coniugale, va ribadito in questa sede come l’idea di collegare i rapporti patrimoniali tra due soggetti che stanno per unirsi in matrimonio al « buon esito » dello stesso, sia concezione da antichissima data inscindibilmente connessa con l’istituto matrimoniale.

Proprio lo studio storico e comparato delle pattuizioni in vista della celebrazione delle nozze evidenzia il frequente e diffuso riconoscimento della validità di accordi diretti, per l’eventualità del fallimento del rapporto di coniugio, a riportare i contraenti, come dire, back to square one: cioè, nella stessa posizione di partenza in cui si sarebbero trovati se mai si fossero impegnati in quell’unione rivelatasi poi così male assortita.

Quanto sopra – tornando alla disciplina nostrana – è del resto ciò che ancora oggi i coniugi molte volte fanno quando, in sede di separazione, chiariscono che determinati acquisti « squilibrati », operati nel corso dell’unione, vanno « riequilibrati » mercé il ricorso ad atti ricognitivi, per esempio, di proprietà per quote diverse da quelle demonstratae dal rogito d’acquisto, ma rispondenti alla proporzione tra i rispettivi apporti di denaro corrisposti al momento del pagamento del prezzo d’acquisto [50].

E non si venga a dire che un accordo di questo genere non avrebbe carattere « preventivo ». È chiaro infatti che, se il momento in cui intese di questo tipo sono raggiunte è quello della separazione, la valenza (se ci si passa l’espressione) « tombale » alle stesse accordata ne squaderna la contemplation of divorce, a prescindere dalla più o meno accorta formale omissione di ogni richiamo al futuro divorzio, e dunque il carattere « preventivo » (qui non rispetto al matrimonio, ma rispetto al divorzio, che è ciò che conta in questa sede), nel senso più volte chiarito.

Del resto, non può tacersi che l’inconsistenza della tradizionale posizione della giurisprudenza di legittimità è ulteriormente comprovata proprio dal fatto che le intese preventive sulla separazione personale, a differenza di quelle sul divorzio, sono state più volte ritenute valide, pur essendo anch’esse intese preventive su di un futuro, possibile, mutamento di status.

La Cassazione ha, invero, riconosciuto, già molti anni or sono, la validità – per esempio – di un impegno con cui uno dei coniugi, in vista di una futura separazione consensuale (e dunque non nel contesto di quest’ultima), prometteva di trasferire all’altro la proprietà di un bene immobile « anche se tale sistemazione patrimoniale avviene al di fuori di qualsiasi controllo da parte del giudice... purché tale attribuzione non sia lesiva delle norme relative al mantenimento e agli alimenti » [51]. Ancora, potrà citarsi il caso in cui si è ammessa la validità di una transazione preventiva, con la quale il marito si obbligava espressamente, in vista di una futura separazione consensuale, a far conseguire alla moglie la proprietà di un appartamento in costruzione, allo scopo di eliminare una situazione conflittuale tra le parti [52].

Irrilevanti appaiono le obiezioni sollevate in proposito da chi [53] ha evidenziato l’ovvia differenza tra separazione e divorzio, rappresentata dalla perdurante esistenza del vincolo matrimoniale nella prima ipotesi, che si caratterizzerebbe così per il suo carattere di situazione « aperta », rispetto alla seconda. È infatti pacifico che anche la separazione dà vita ad uno status familiare: pertanto, se le intese preventive sono da considerarsi nulle in quanto dirette a « fare mercimonio » di uno status indisponibile al di fuori del momento solennizzato dalla instaurazione della relativa procedura di fronte al giudice, non si riesce a comprendere per quale ragione le obiezioni sollevate contro tali accordi in contemplation of divorce non dovrebbero poi valere se riferite alla separazione. Per non dire poi della giurisprudenza di legittimità favorevole agli accordi preventivi in tema di conseguenze economiche della pronunzia di annullamento del matrimonio [54].

Si noti, poi, che della « prematrimonialità » dell’accordo oggetto della decisione del 2012 sembra rendersi ben conto la Cassazione nella citata sentenza, laddove, nella sua parte finale, collega la « sospensione », in costanza di matrimonio, del credito del marito verso la moglie alla vigenza inter coniuges del dovere di contribuzione ex art. 143 c.c.

 

 

6. La crisi coniugale in bilico tra causa e condizione del contratto. Gli sviluppi giurisprudenziali successivi al 2012.

 

        Le considerazioni di cui sopra introducono la trattazione di un ulteriore criterio distintivo, cui la Cassazione, nella sentenza del dicembre 2012, sembra voler fare solo un marginale richiamo, ma che ha invece costituito il nucleo della decisione di merito confermata in sede di legittimità. Sul punto va tenuto presente che la decisione di primo grado aveva rigettato la domanda del marito, ritenendo nullo l’impegno assunto dalla moglie « per illiceità della causa, in quanto in contrasto con la disposizione imperativa dell’art. 160 c.c., che vieta atti di disposizione relativi a diritti od obblighi nascenti dal matrimonio » [55].

La sentenza d’appello aveva allora avuto buon gioco a sottolineare che l’impegno negoziale assunto dalla moglie, prima del matrimonio, di trasferire al marito, in caso di « fallimento » del matrimonio stesso (ossia in caso di separazione o di scioglimento) l’immobile, a titolo di indennizzo per le spese affrontate dal marito per la sistemazione del diverso immobile adibito a casa coniugale, era « un impegno negoziale che, in sé, non trae[va] il proprio titolo genetico dal matrimonio, e non [poteva] quindi annoverarsi fra i diritti o doveri nascenti dal matrimonio, nell’ottica del prefato art. 160 c.c., che vieta appunto gli atti di disposizione relativi a diritti o doveri “nascenti” dal matrimonio, e sanciti imperativamente » [56].

        Sin qui, peraltro, il discorso si svolgeva sul solo piano generale della validità tout court dell’intesa, non certo su quello specifico dell’intesa, in quanto intesa preventiva.      A sparigliare le carte interveniva però la stessa corte d’appello, introducendo (pur se, a quanto pare, non espressamente richiesta sul punto) il tema del carattere preventivo dell’accordo. Così osservava la corte territoriale: « Si potrebbe, tuttavia, in ipotesi, sostenere che, al di là della causa formalmente apparente di tale datio in solutum condizionale, in realtà la causa negoziale effettivamente sottesa (…) fosse quella di istituire una sorta di abnorme “penale” per il caso di scioglimento del matrimonio, ossia una prestazione patrimoniale destinata ad avere effetto dissuasivo o penalizzante in caso di iniziativa intesa a determinare lo scioglimento del matrimonio: se tale fosse stato l’intento finalistico delle parti, la effettiva causa negotii non avrebbe potuto intendersi come regolamento preventivo (in sé ammissibile) di rapporti di dare ed avere patrimoniali riguardanti il rimborso (mediante datio in solutum di altro bene) delle spese come sopra affrontate dal marito nella prospettiva del matrimonio (in tal senso rilevante solo dal punto di vista del motivo), ma avrebbe invece dovuto intendersi in termini di preventiva, preordinata e dissuasiva penalizzazione di iniziative intese alla risoluzione del vincolo [matrimoniale], e, come tale, sicuramente illecita, in quanto mirante a condizionare preventivamene la libertà decisionale degli sposi ».

        Tale ipotesi, continuava la decisione di merito, « però potrebbe ritenersi vera solo nel caso in cui risultasse una forte sproporzione fra le prestazioni (…), poiché solo dalla eventuale sproporzione di tali contrapposte prestazioni potrebbe eventualmente dedursi (…) che la reale causa negotii della surrichiamata scrittura del 18/8/89 non fosse quella di una datio in solutum con funzione di indennizzo, soggetta all’evento condizionale dello scioglimento del matrimonio, ma fosse, invece, rispondente ad una ben diversa funzione causale, mirata a dar vita ad una sorta di “penale” per la iniziativa di scioglimento del matrimonio ». Seguiva poi l’illustrazione delle ragioni per le quali, nella specie, tale sproporzione non poteva ritenersi sussistente.

        Chiaramente, la decisione di merito legava, sul piano degli accordi preventivi, la validità dell’intesa al fatto di aver le parti considerato il « fallimento » dell’unione alla stregua di una mera condizione del contratto, laddove l’accordo sarebbe stato nullo se i coniugi avessero dedotto l’evento-divorzio non già in condizione, ma nella causa del negozio stesso.

        Ora, come dimostrato da chi scrive in altra sede [57], se il dedurre a causa di un contratto l’impegno a separarsi o a divorziare (o, tutto al contrario, a non separarsi e a non divorziare) è senz’altro motivo di nullità dell’intesa per evidente violazione dei principi di ordine pubblico di protezione della libertà personale nella sfera più intima, ben diversa è la sorte dei contratti che prevedano tali eventi personali alla stregua di mere condizioni, sospensive o risolutive, dell’efficacia delle prestazioni patrimoniali ivi contemplate. Ciò è proprio quanto ha ribadito la corte d’appello, con statuizione confermata dalla sentenza qui in commento, nella parte in cui rileva che « ove causa genetica fosse il matrimonio (e il suo fallimento), l’impegno predetto, una sorta di sanzione dissuasiva volta a condizionare la libertà decisionale degli sposi anche in ordine all’assunzione di iniziative tendenti allo scioglimento del vincolo coniugale, sarebbe sicuramente nullo. Ma indice di tale ipotesi potrebbe essere soltanto una notevole sproporzione delle prestazioni, al contrario non provata » [58].

Da tali parole traspare l’intuizione della vera ed unica distinzione possibile in materia: quella, cioè, tra contratti che vedono il profilo personale dedotto ad oggetto della prestazione (« in cambio di x mi impegno a divorziare », « in cambio di y mi impegno a non divorziare ») e quelli che vedono quello stesso profilo dedotto alla stregua di mero evento in condizione (« nel caso di divorzio mi impegno a riconoscerti x »). Il richiamo alla « notevole sproporzione delle prestazioni » cela, in realtà, l’intuizione del tema della penale collegata ad un comportamento di carattere personale.

Ma, per arrivare a tale conclusioni, non appare necessario scomodare gli angeli del Begriffshimmel per chiedere loro in prestito la « macchina spaccacapelli »: le (per la Cassazione) « famigerate » intese preventive sulla crisi coniugale non vedono mai quale causa l’impegno a separarsi o a divorziare (o, al contrario, ad astenersi dal compiere tali atti), bensì mirano a predeterminare le conseguenze patrimoniali dell’eventuale (libera) decisione sul piano personale, così diminuendo il livello di aleatorietà del possibile contenzioso coniugale, conformemente ad un’esigenza drammaticamente sentita di « certezza », in una materia tanto umanamente delicata. E se mai (ma, si ripete, non risulta che sia mai concretamente capitato) dovesse accertarsi una situazione di evidente sproporzione tra la prestazione promessa in caso di divorzio e la situazione patrimoniale del promittente, la natura di penale dell’attribuzione dimostrerebbe (arg. ex art. 1382 c.c.) la presenza, al di là delle espressioni usate dalle parti nel contratto della crisi coniugale, proprio di un obbligo di astensione dall’esercizio del diritto personale di agire per il divorzio, con conseguente nullità dell’impegno.

        Venendo agli sviluppi successivi della giurisprudenza di legittimità, sarà il caso di ricordare che, nel 2013, la Suprema Corte, ponendosi in linea di continuità con il precedente del dicembre 2013, ha stabilito che « l’inderogabilità dei diritti e dei doveri che scaturiscono dal matrimonio non viene meno per il fatto che uno dei coniugi, avendo ricevuto un prestito dall’altro, si impegni a restituirlo per il caso della separazione. Che poi l’esistenza di un simile accordo si possa tradurre in una pressione psicologica sul coniuge debitore al fine di scoraggiarne la libertà di scelta per la separazione è questione che nel caso specifico non ha trovato alcun riscontro probatorio; e che comunque, ove pure sussistesse, non si tradurrebbe di per sé nella nullità di un contratto come quello in esame ».

Si è così affermato che « È valido il mutuo tra coniugi nel quale l’obbligo di restituzione sia sottoposto alla condizione sospensiva dell’evento, futuro ed incerto, della separazione personale, non essendovi alcuna norma imperativa che renda tale condizione illecita agli effetti dell’art. 1354, primo comma, cod. civ. » [59].

Per ciò attiene agli sviluppi ulteriormente successivi, va detto che, a parte due vistosi obiter contenuti, rispettivamente, in una decisione del 2014 [60] ed in una del 2015 [61], la S.C. ha innestato con vigore la… retromarcia nel corso del 2017.

Così, in una prima sentenza di quell’anno [62], è stato stabilito che « L’assegno divorzile è indisponibile per quanto concerne la componente assistenziale, sicché ogni atto intervenuto in altra sede, tendente a precludere o a limitare la richiesta di un assegno divorzile deve considerarsi nullo. Deriva da quanto precede, pertanto, che qualora i coniugi, in sede di revisione dell’assegno di separazione si accordino nel senso che in occasione del divorzio da un lato il marito avrebbe trasferito in proprietà, alla moglie, un immobile, e la moglie avrebbe, a sua volta, rinunciato a chiedere un assegno divorzile, la moglie non può essere costretta a rinunciare alla pretesa a chiedere l’attribuzione di un assegno di divorzio. Deve escludersi, peraltro - in termini opposti rispetto a quanto disposto dalla Corte di appello - che l’accordo sia, comunque, vincolante per il marito così che alla moglie non solo è attribuito un assegno periodico ma è trasferita anche la proprietà dell’immobile. (In altre parole - ha evidenziato la Suprema corte - data per acquisita la circostanza che ogni patto stipulato in epoca antecedente al divorzio, volto a predeterminare il contenuto dei rapporti patrimoniali del divorzio medesimo, deve ritenersi nullo per illiceità della causa, è di ogni evidenza che una simile nullità travolge anche la pattuizione finalizzata a rappresentare il sinallagma. Altrimenti, si precisa da parte del Supremo collegio, non solo l’attribuzione patrimoniale concretizzata dall’obbligo a contrarre resterebbe priva di causa, ma verrebbe finanche vulnerata la nozione di causa del contratto, nella quale rileva il punto di incontro degli interessi concretamente perseguiti (e nel contratto espressi), essendo la disciplina del negozio giuridico qualificabile sempre come disciplina di interessi concreti, assetto di situazioni e rapporti e sintesi del mutamento così instaurato) ».

Un arresto di poco successivo [63] ha poi ribadito che « Gli accordi con i quali i coniugi fissano, in sede di separazione, il regime giuridico – patrimoniale in vista di un futuro ed eventuale divorzio sono invalidi per illiceità della causa, perché stipulati in violazione del principio fondamentale di radicale indisponibilità dei diritti in materia matrimoniale, espresso dall’art. 160 cod. civ. Pertanto, di tali accordi non può tenersi conto non solo quando limitino o addirittura escludono il diritto del coniuge economicamente più debole al conseguimento di quanto è necessario per soddisfare le esigenze della vita, ma anche quando soddisfino pienamente dette esigenze, per il rilievo che una preventiva pattuizione – specie se allettante e condizionata alla non opposizione al divorzio potrebbe determinare il consenso alla dichiarazione degli effetti civili del matrimonio. Gli accordi dei coniugi diretti a fissare, in sede di separazione, i reciproci rapporti economici in relazione al futuro ed eventuale divorzio con riferimento all’assegno divorzile sono nulli per illiceità della causa, avuto riguardo alla natura assistenziale di detto assegno, previsto a tutela del coniuge più debole, che rende indisponibile il diritto a richiederlo. Ne consegue che la disposizione dell’art. 5, ottavo comma, della legge n. 898 del 1970 nel testo di cui alla legge n. 74 del 1987 – a norma del quale, su accordo delle parti, la corresponsione dell’assegno divorzile può avvenire in un’unica soluzione, ove ritenuta equa dal tribunale, senza che si possa, in tal caso, proporre alcuna successiva domanda a contenuto economico -, non è applicabile al di fuori del giudizio di divorzio, e gli accordi di separazione, dovendo essere interpretati secundum ius, non possono implicare rinuncia all’assegno di divorzio » [64].

Inutile sottolineare che, del travagliato iter giurisprudenziale di legittimità, di cui si è tentato di fornire un rapido schizzo nelle pagine che precedono, non è rinvenibile, nelle due decisioni del 2017 appena citate, traccia alcuna, se si eccettuano pochi, frettolosi, richiami ad alcune delle decisioni che riflettono, peraltro, la sola tradizionale tesi negativa [65].

 

 

7. La piena validità delle intese preventive sulla crisi coniugale, anche nell’odierno diritto italiano.

 

Lasciando la pars destruens del ragionamento che si è tentato sin qui di portare avanti, varrà la pena rammentare che gli accordi preventivi circa le conseguenze della separazione e/o del divorzio non vedono normalmente (né lo potrebbero), quale loro oggetto diretto, lo status coniugale, come avverrebbe se, per esempio, le parti stipulassero impegni in termini quali « mi obbligo a non divorziare », « mi impegno a non chiedere la separazione », « prometto di non far valere alcuna eventuale causa di invalidità del nostro matrimonio », ecc. [66].

La contrarietà di un siffatto patto ai principi dell’ordine pubblico non può oggi essere revocata in dubbio. Ma ciò che l’opinione dominante si preoccupa di impedire è che le determinazioni dei coniugi circa il loro stato (di persone, appunto, coniugate o meno) siano anche solo indirettamente influenzate dagli accordi economici in precedenza stipulati. Tale preoccupazione non ha però ragione di sussistere, ogni qual volta le parti si limitano a prevedere le conseguenze dell’eventuale scioglimento del matrimonio, senza impegnarsi a tenere comportamenti processuali diretti ad influire sullo status coniugale.

Una prima osservazione, a conforto di questa tesi, proviene da quella dottrina che ha instaurato in proposito un interessante parallelo con la situazione « antagonista » rispetto a quella qui in esame, vale a dire la celebrazione delle nozze. Proprio con riguardo alla « purezza » della volontà matrimoniale, che non potrebbe subire alcuna compressione, essendo salvaguardata la assoluta libertà del soggetto in ordine alla celebrazione del matrimonio, si è osservato che l’ordinamento consente che il soggetto si « induca » al matrimonio attraverso motivazioni di ordine patrimoniale le quali, pur non essendo determinanti del consenso, indubbiamente lo orientano e lo sorreggono. Anzi, l’ordinamento sembra addirittura volere che il soggetto all’atto del matrimonio « costruisca » le sue prospettive matrimoniali attraverso la stipulazione delle convenzioni (pre)matrimoniali più idonee alla tutela dei suoi interessi in relazione alle circostanze e alle esigenze di vita.

L’argomentazione testé riferita costituisce il primo passo di un’analisi il cui punto cruciale appare quello di vedere se e in che misura l’ordinamento tuteli la libertà delle parti nelle loro determinazioni concernenti gli status o comunque gli aspetti indisponibili dei rapporti umani in quanto attinenti alla sfera delle relazioni personali e sessuali, con riferimento ai condizionamenti d’ordine economico che esse possono subire nelle proprie decisioni. E’ noto che la tutela della libertà delle determinazioni dei soggetti nella sfera personale e sessuale è rimessa dall’ordinamento alla sanzione della nullità della causa per violazione dell’ordine pubblico o del buon costume. Peraltro la nullità consegue sempre al fatto che l’aspetto personale sia portato dai soggetti a costituire parte integrante della causa (« io mi impegno a darti cento e tu ti impegni, in cambio, a disconoscere la paternità di tuo figlio »): esso deve essere, cioè, preso direttamente in considerazione dalle parti come oggetto di un preciso obbligo che queste (errando, ovviamente) vorrebbero come giuridicamente vincolante e quindi processualmente azionabile.

Ma la dottrina ammette – e da tempo – che un comportamento umano non deducibile in obbligazione possa essere dedotto in condizione e che tra siffatti comportamenti umani ben possa rientrare anche la volontà di assumere uno status. Ciò in particolare si verifica quando le parti non intendono con il loro negozio porre un vincolo, giuridicamente rilevante a tenere o a non tenere quel certo comportamento, ma si limitano a prefigurare le conseguenze di quest’ultimo, condizionandovi l’efficacia di un determinato impegno di carattere patrimoniale. In questo modo può essere fatto sì che il comportamento di carattere personale non formi oggetto di vincolo, ma venga – di volta in volta – incoraggiato o scoraggiato a seconda che la promessa di carattere patrimoniale agisca, in alternativa, quale « deterrente » o « premio » per il fatto d’aver tenuto o meno quella certa condotta.

Qui il pensiero corre subito alla clausola penale, e alla disposizione, riflettente un principio di carattere certamente più generale, racchiusa nell’art. 79 c.c. Ma la clausola penale, proprio perché strumento di garanzia per l’adempimento di un’obbligazione, presuppone appunto l’esistenza di un impegno giuridicamente vincolante a tenere quel certo comportamento (positivo o negativo). La sussistenza di tale impegno – ancorché non formalmente enunciato dai contraenti – potrebbe proprio essere dedotta dal carattere « eccessivo » (secondo una valutazione da farsi, ovviamente, caso per caso) della prestazione patrimoniale promessa sotto la condizione che quel determinato evento si verifichi (o meno).

Rovesciando ora per un momento la prospettiva in cui ci si è sino a questo punto collocati e pensando alle pattuizioni dirette a costituire non già un deterrente, bensì un incoraggiamento per la tenuta di un determinato comportamento, occorrerà tenere presente quella clausola, in altre sedi definita « premiale » [67], consistente nell’accordo con cui – all’interno di un contratto di convivenza – uno dei due partners dell’unione libera promette all’altro l’adempimento di una prestazione patrimoniale subordinata all’esecuzione di una prestazione non patrimoniale dell’altra (per es.: « ti prometto che ti darò cento se mi sarai fedele, se tra dieci anni coabiterai ancora con me, se tra cinque anni mi avrai dato un figlio »), oppure ancora nella promessa, effettuata da un fidanzato (o da un terzo) all’altro di corrispondere a quest’ultimo una somma di denaro nel caso di celebrazione delle nozze.

Lo stesso dovrebbe valere nel caso di donazione di una somma di denaro o di un certo bene sospensivamente condizionata alla circostanza che il matrimonio superi « indenne » un certo lasso di tempo. Reciprocamente, per chi vede il divorzio come un’eventualità positiva, di fronte ad una possibile crisi coniugale, dovrebbe avere un senso promettere la corresponsione di una determinata utilità economica al (futuro) ex coniuge « debole » al fine di invogliarlo, con l’assicurazione di un vantaggio economico, a porre più volentieri fine all’unione (« se, nel caso di crisi coniugale, accederai senza porre condizioni alla mia richiesta di presentazione di ricorso per divorzio su domanda congiunta mi obbligo sin d’ora a corrisponderti... »).

Siffatte clausole non sembrano in grado di suscitare obiezioni, posto che con esse l’esecuzione della prestazione di carattere personale (la prosecuzione della convivenza more uxorio oltre un certo limite temporale, la celebrazione delle nozze, la prosecuzione della convivenza matrimoniale, la prestazione del consenso per il divorzio su domanda congiunta, ecc.) non viene « garantita » dalla presenza di una forma di coazione giuridica o dalla assicurazione del pagamento di una penale da parte del soggetto eventualmente inadempiente, ma viene piuttosto incoraggiata mediante la promessa di un premio da parte di colui che ha interesse a che il beneficiario tenga quel certo comportamento.

Proprio con riguardo alle clausole « premiali » legate ad un comportamento personale di una delle parti, potrà aggiungersi che un’ulteriore conferma viene dallo stesso codice civile, che espressamente configura (cfr. art. 785 c.c.) il matrimonio (e dunque un fatto, per definizione, strettamente attinente alla vita personale oltre che costitutivo di uno status familiae) alla stregua di una condizione sospensiva delle attribuzioni patrimoniali gratuite effettuate (si badi: anche l’un l’altro dai promessi sposi) in vista della celebrazione delle nozze.

Neppure appare trascurabile il sistematico rifiuto, da parte della giurisprudenza di legittimità, di estendere al di là dei suoi angusti limiti quella disposizione (art. 636 c.c.) che, in materia di disposizioni mortis causa, fulmina di nullità – proprio in quanto attinente ad un aspetto personalissimo – la condizione « che impedisce le prime nozze o le ulteriori », al punto da affermare la validità della clausola che subordina le attribuzioni testamentarie alla condizione (generica) di contrarre matrimonio [68], o di contrarlo con « persona appartenente alla stessa classe sociale dell’istituito » [69], ovvero ancora di non contrarlo con persona determinata [70].

Il favore nei confronti di una clausola del genere di quella sopra definita come « premiale », intesa nel senso testé chiarito, emerge con evidenza anche in una decisione del 1992, che ha affermato la piena validità della condizione ex art. 636 c.c., quando questa « non sia dettata dal fine di impedire le nozze ma preveda per l’istituito un trattamento più favorevole in caso di mancato matrimonio, e, senza per ciò influire sulle relative decisioni, abbia di mira di provvedere, nel modo più adeguato, alle esigenze dell’istituito, connesse ad una scelta di vita che lo privi degli aiuti materiali e morali di cui avrebbe potuto godere con il matrimonio » [71].

In conclusione sul punto, nemmeno l’art. 1354 c.c. può costituire un ostacolo in ordine alla configurazione del regolamento preventivo dei rapporti nascenti da un eventuale divorzio alla stregua di negozi sospensivamente condizionati all’evento dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio, posto che la semplice predeterminazione delle conseguenze patrimoniali di un futuro ed eventuale divorzio non sembra poter dispiegare, di per sé, alcun effetto sulla spontaneità del comportamento attinente allo status.

Nessun dubbio, poi, può sorgere con riguardo al carattere futuro delle posizioni di cui un contratto prematrimoniale dispone. Ed invero, ai sensi dell’art. 1348 c.c., « la prestazione di cose future può essere dedotta in contratto, salvi i particolari divieti di legge ». La chiarezza di tale disposizione vale a sgombrare il campo dalle perplessità che potrebbero riferirsi alle regole desumibili dagli artt. 458 e 2937 cpv. c.c. Questioni, queste ultime, sicuramente mal poste, in quanto il divieto di disporre della propria eredità mercé un atto tra vivi e l’indisponibilità della prescrizione prima che si sia compiuta si spiegano in ragione di criteri e considerazioni affatto particolari ed attinenti, specificamente, agli istituti in parola. Infatti, il divieto di patti successori trova fondamento nell’esigenza di tutelare al massimo la libertà testamentaria, mentre la regola che impedisce una preventiva rinuncia alla prescrizione si spiega con l’interesse generale su cui si basa l’istituto e con lo sfavore del legislatore per l’inerzia rispetto all’esercizio di un diritto.

 

 

8. Irrilevanza dell’art. 160 c.c. Ulteriori argomenti in favore della tesi dell’ammissibilità.

 

Anche il « classico » richiamo all’art. 160 c.c., al fine di contrastare la tesi di chi scrive, appare fuori luogo.

Come ampiamente dimostrato in altra sede [72], l’unico modo di far vivere tale disposizione nel campo del divorzio si risolve infatti nel paradosso della tesi che, prospettando addirittura un’estensione analogica dell’art. cit., finisce con l’avvilupparsi in una vera e propria contradictio in adiecto, postulando una « similitudine di casi » (v. art. 12 cpv. prel.) tra la materia degli effetti del matrimonio e quella degli effetti del suo ... venir meno.

L’assunto in esame appare, oltre che criticabile per le ragioni appena illustrate, del tutto in contrasto con la concezione contemporanea del matrimonio. Come esattamente osservato già parecchi anni or sono [73], ritenere che il dovere di contribuzione rimanga inalterato addirittura nonostante la pronuncia di divorzio, « significa conservare, per quanto si può, la mistica dell’indissolubilità », favorendo il ritorno alla tesi del carattere pubblicistico del matrimonio, come atto al di sopra della volontà dei singoli, in palese contrasto con il pensiero dominante, oltre che con la giurisprudenza della stessa Corte di legittimità, che non ha mancato di negare, nella maniera più radicale, che nel nostro ordinamento possa attribuirsi al matrimonio effetti di tipo ultrattivo [74].

A chi scrive sembra poi che lo studio dell’art. 160 c.c. non possa prescindere dalla considerazione del contesto storico in cui lo stesso è nato, né dalla sua collocazione « topografica » all’interno del sistema delle norme in materia di rapporti familiari: profili, questi, la cui attenta considerazione deve senz’altro indurre ad escludere l’operatività della norma in esame non solo in relazione alla fase post-matrimoniale, bensì alla situazione di crisi coniugale nel suo complesso, separazione compresa.

La storia dell’art. 160 c.c. insegna che tale norma è erede dell’art. 1379 c.c. 1865 (« Gli sposi non possono derogare né ai diritti che appartengono al capo della famiglia, né a quelli che vengono dalle legge attribuiti all’uno o all’altro coniuge, né alle disposizioni proibitive contenute in questo codice »), a sua volta mutuata da quell’art. 1388 Code Napoléon, che non poche polemiche aveva sollevato in sede di lavori preparatori. Proprio durante la discussione in seno al Consiglio di Stato, di fronte all’obiezione di Cambacérès, secondo cui non sarebbe sembrato opportuno porre limiti eccessivi alla libertà negoziale delle parti in sede di contrat de mariage, venne risposto (da parte di Jean-Baptiste Treilhard) che lo scopo della norma era unicamente quello di « défendre toute stipulation qui rendrait la femme chef de la société conjugale », privando il marito (« celui à qui la nature a donné le plus de moyens pour la bien gouverner ») del diritto – spettantegli « par la nature même des choses » – di essere di tale unione « le maître et chef » [75].

Lo spirito era dunque, in buona sostanza, ancora quello che aveva indotto, diversi secoli prima, Ulpiano a riprovare come contra bonos mores tutti i patti stipulati « contra receptam reverentiam, quae maritis exhibenda est » (D. 24, 3, 14).

In questa direzione si mosse costantemente l’interpretazione della dottrina, sia francese che italiana, che vedeva nelle disposizioni testé citate una regola speciale dettata a tutela delle prerogative del marito come capo della famiglia e portava quale esempio della violazione di tale principio « il patto in virtù del quale i figli nati da un matrimonio misto dovessero essere educati nella religione della madre, o l’altro più frequente che i maschi seguissero la religione del padre e le femmine la religione materna », con la conseguenza che, proprio per effetto del principio indicato, « se (...) non ostante il patto il marito facesse educare i figli nella propria religione la moglie non avrebbe azione per impedirlo; ove lo tentasse, il marito allegando il suo diritto di patria potestà farebbe respingere la domanda » [76].

L’argomento storico sembra dunque sconsigliare la riferibilità della norma in esame alla fase patologica del rapporto coniugale: anche dopo la sostituzione della « regola del capo » con quella della parità, l’attenzione del legislatore continua ad essere rivolta, nell’art. 160 c.c., alla fase di normale svolgimento della vita coniugale, né la parità può essere conseguita al prezzo di ridurre i coniugi ad uno stato di semi-incapacità, mediante l’enunciazione di divieti a contrarre, in pieno contrasto con la regola del pieno accordo sulle « condizioni » (tutte le condizioni!) della separazione, che caratterizza la soluzione non contenziosa della crisi coniugale (artt. 158 c.c., 711 c.p.c.) [77].

Ciò appare del resto confermato – e si viene così alla seconda argomentazione, di tipo sistematico – anche dalla collocazione dell’art. 160 c.c., posto all’interno di un insieme di articoli (quelli in materia di regime patrimoniale della famiglia) miranti a disciplinare gli effetti d’ordine economico dell’unione coniugale nella sua fase fisiologica. Tutto al contrario, è lo stesso legislatore che, disciplinando le conseguenze patrimoniali della crisi coniugale nel capo V, ci fa comprendere che la regola ex art. 160 c.c., dettata in apertura del capo successivo, vale quale disposizione generale (così infatti si intitola la Sezione I) in relazione alle sole norme ivi contenute. Lo stesso uso del termine « sposi », anziché « coniugi » sembra del resto deporre per una lettura della disposizione come riferita a quei diritti e doveri che si presentano a chi sta per iniziare la propria vita di coppia e non certo a chi s’appresta a scriverne l’epitaffio.

Concludendo sul punto può dunque dirsi che gli argomenti storici, letterali, logici e sistematici si oppongono, proprio con riguardo ai contratti prematrimoniali, al dilagare dell’art. 160 c.c. e del relativo dogma dell’indisponibilità.

Un ulteriore argomento che si trova con una certa frequenza in merito al tema delle intese tra coniugi in vista di un futuro divorzio viene presentato quale replica al rilievo secondo cui gli accordi di carattere preventivo sarebbero stati implicitamente riconosciuti dal legislatore mediante l’introduzione del procedimento su domanda congiunta. Qui, si obietta, le cose starebbero diversamente, in quanto nello speciale procedimento previsto dall’art. 4, sedicesimo (già tredicesimo) comma, l.div. le intese raggiunte dalle parti sul relativo assetto economico « attengono ad un divorzio che esse hanno già deciso di conseguire, e quindi non semplicemente prefigurato » [78].

Ora, non è agevole comprendere quale effetto possa dispiegare sul carattere disponibile o meno del diritto la circostanza che il suo evento generatore (il divorzio appunto) sia avvertito dalle parti come « sicuro », anziché inteso come mero elemento condizionante l’efficacia dell’accordo; a meno che, in realtà, il ragionamento qui criticato non celi la preoccupazione di garantire intatta la libertà delle parti in ordine alle determinazioni concernenti lo status coniugale. Ma, anche qui, a parte le obiezioni già sviluppate, rimane da chiedersi perché mai, se l’accordo può essere raggiunto ... la sera precedente alla presentazione del ricorso congiunto esso non potrebbe essere ugualmente concluso un mese prima, un anno prima, ovvero addirittura prima della celebrazione delle nozze.

Se, infatti, la preoccupazione del legislatore fosse veramente quella di salvare la libertà del consenso sullo stato personale, usque ad ... matrimonii supremum exitum, andrebbe allora bandita ogni contrattazione sull’assegno che precedesse anche solo d’un minuto la sentenza di divorzio. Solo due ex coniugi sono in grado di trattare delle condizioni del loro divorzio in maniera del tutto indipendente dalla presenza (o dal sospetto della presenza) di un qualche condizionamento dell’assenso avente ad oggetto lo scioglimento del vincolo all’effettuazione di una o più concessioni in sede di trattative sugli aspetti patrimoniali. Ne consegue che, se lo scopo perseguito dal legislatore fosse veramente quello di rendere la decisione in ordine allo status del tutto svincolata da ogni trattativa di tipo economico, allora non si spiegherebbe l’introduzione del divorzio su domanda congiunta, nel quale le condizioni patrimoniali (insindacabili, secondo l’opinione quasi unanime) vengono liberamente decise prima che venga adottata in via definitiva, da parte del giudice, la decisione sullo status.

In definitiva, l’accordo in esame presuppone pur sempre un atto dispositivo di diritti che alle parti competono per effetto del divorzio, indipendentemente dal grado di « certezza » con cui tale evento si prospetti; per non dire del fatto che, se è vero – come appare innegabile – che il legislatore, con l’introduzione del divorzio su domanda congiunta, ha inteso riconoscere una stretta interdipendenza tra gli accordi in materia di conseguenze del divorzio e l’accelerazione della relativa procedura, occorre allora ammettere che l’ottica che associava lo sfavore nei confronti della contrattazione privata alla preoccupazione di assicurare la stabilità delle situazioni familiari è ormai definitivamente superata.

Tutte le considerazioni svolte nel presente §, così come nel precedente, riassumono le tesi dallo scrivente presentate all’attenzione della dottrina e della giurisprudenza da decenni [79] e vanno ormai inquadrate nell’ottica ben più ampia della contrattualizzazione in via preventiva della crisi non solo del matrimonio, ma anche dell’unione civile e della convivenza di fatto [80], in un contesto, dunque, che, per evidenti ragioni di spazio, non appare possibile condensare nella presente sede. Lo « stato dell’arte » sul tema forma oggetto di un volume collettaneo, pubblicato nel 2018, cui si fa rinvio anche per la ricognizione del livello d’accettazione, nel panorama dottrinale, delle proposte da tempo avanzate dallo scrivente [81].

 

 

9. Evoluzioni normative recenti e relativi effetti sui contratti prematrimoniali.

 

In chiusura del presente studio non potrà farsi a meno di rilevare come, pure in un contesto come quello italiano attuale, non facciano certo difetto elementi evolutivi idonei a dimostrare l’esistenza di una tendenza favorevole alla validità delle intese in oggetto.

Se, come detto, la giurisprudenza non sembra ancora pronta a compiere il « grande passo » verso lo sdoganamento dei patti prematrimoniali, il legislatore, a ben vedere, ha, nel corso degli ultimi anni, posto una serie di premesse di assoluto rilievo in questa direzione, a cominciare dal ruolo – ingiustamente disconosciuto fino ad oggi da gran parte della dottrina – della riforma del lontano 1987, che, con l’introduzione del divorzio a domanda congiunta, venne, da un lato, ad imporre che l’accordo patrimoniale dovesse addirittura necessariamente precedere l’istanza per la cessazione del vincolo e, dall’altro, a chiarire, nel modo più evidente (e comunque in modo del tutto conforme a quanto già stabilito dal codice civile per la separazione), che l’intervento giurisdizionale non può toccare, nel modo più assoluto, l’intesa patrimoniale tra i coniugi, potendo invece riguardare solo le questioni attinenti alla responsabilità genitoriale, nei suoi vari profili personali e patrimoniali [82].

Se dottrina e giurisprudenza avessero tenuto nel dovuto conto questi rilievi, sarebbe risultato chiaro da decenni quali sono i limiti normativi alla tesi della solidarietà post-coniugale: tesi, questa, certamente fondata sull’art. 5 l.div., ma dalla quale non può certo arbitrariamente derivarsi un divieto per le parti – se, ovviamente, d’accordo – di escludere l’operatività di tale principio solidaristico, alla luce di calcoli, valutazioni ed interessi che alla sovrana autonomia negoziale dei coniugi (e solamente ad essa!) sono rimessi.

L’evoluzione normativa successiva, tutta nel segno della negozialità inter coniuges, ha avuto l’andamento travolgente di un vero e proprio « crescendo rossiniano ».

Come messo in evidenza da chi scrive in altra sede, il varo, nel 2006, di un istituto quale il patto di famiglia non può avere altro significato se non quello di un chiaro indizio della volontà legislativa di introdurre un effetto « moltiplicatore di negozialità endofamiliare ». Va evidenziata sul punto l’assoluta irrilevanza della sopravvenienza rispetto alle eventuali rinunce espresse dai legittimari in sede di stipula del contratto in esame, avuto riguardo ai diritti che – al momento dell’apertura della successione del disponente – potrebbero loro competere per effetto degli atti dispositivi gratuiti a vantaggio di uno solo (o solo di alcuni) di essi (e ciò anche di fronte ai successivi mutamenti di valore dei cespiti aziendali, dell’avviamento e in genere dei beni oggetto del patto di famiglia). Quanto sopra, ovviamente, a prescindere dal fatto che la situazione patrimoniale del disponente venga a mutare, magari radicalmente, al momento del suo decesso, rispetto a quella presente all’atto della stipula del patto di famiglia.

Ciò significa che il discendente non assegnatario dell’azienda (o di quote sociali) potrebbe essere indotto a sottoscrivere un patto di famiglia contenente una rinunzia totale o parziale ai diritti che, come legittimario, gli competerebbero su quei beni, qualora la successione si aprisse in quel momento, « confidando » su di un residuo patrimonio del disponente che in quel momento si presenta, anche a prescindere dall’azienda o dalle quote sociali oggetto del patto, come particolarmente consistente. Ma siffatta rinunzia conserva intatto il suo effetto (cioè quello di precludere irrimediabilmente la possibilità di esperire l’azione di riduzione) anche nel caso in cui, per successive vicende, il patrimonio del disponente dovesse, al momento del suo trapasso, magari molti anni dopo la firma del patto di famiglia, sensibilmente contrarsi o addirittura ridursi a zero.

L’insegnamento che si trae dall’evidenziata indifferenza del legislatore rispetto alla potenzialmente devastante portata della rinunzia di un soggetto a diritti la cui concreta determinazione è rinviata nel tempo (e ad un tempo che può essere anche molto remoto, rispetto al tempo della rinunzia), non sembra poter rimanere senza effetto anche in altri campi, pure caratterizzati dalla presenza di stretti vincoli familiari.

Il parallelo più evidente è proprio quello con gli accordi in esame. Qui, tra gli argomenti contrari, quelli sicuramente più « ad effetto » fanno leva proprio sull’« ingiustizia » del principio che inchioda le parti al rispetto d’un accordo stipulato magari molti anni prima, nella vigenza di una situazione di fatto che può essere ben diversa rispetto a quella in cui la crisi del rapporto viene successivamente a maturare e ad esplodere. Ora, l’introduzione delle segnalate regole in tema di patto di famiglia sembra voler dimostrare come, per il legislatore, l’esigenza di stabilità e di certezza nel corso del tempo dei rapporti patrimoniali, all’interno del complesso e mutevole intreccio dei legami familiari e delle alterne vicende che possono intervenire, debba prevalere anche rispetto a considerazioni quali quella della possibile incidenza di siffatte vicende su rinunce dai membri della famiglia eventualmente espresse, magari molto tempo addietro, rispetto a diritti non ancora maturati [83].

All’affermazione della prassi degli accordi prematrimoniali non può poi non contribuire la vera e propria ventata di novità normative degli ultimissimi anni.

In particolare l’introduzione della negoziazione assistita (cfr. artt. 6 e 12, d.l. 12 settembre 2014, n. 132, conv. con modificazioni in l. 10 novembre 2014, n. 162), con la sua carica « desacralizzante » dell’intervento giurisdizionale (in buona sostanza, puramente e semplicemente messo da parte nella maggior parte delle ipotesi), è venuta ad eliminare ogni dubbio sull’estensione dei poteri dei coniugi (e, oggi, dei soggetti civilmente uniti). Se, invero, la stessa decisione (e la relativa procedura) sul cessare della persistenza del vincolo viene integralmente rimessa alla volontà delle parti, le quali, in presenza delle condizioni di legge (la cui sussistenza non va peraltro accertata, come detto, dall’autorità giurisdizionale), possono così incidere direttamente, senza più alcun ricorso al giudice, sul proprio status, a (ben!) maggior ragione deve ritenersi che ogni statuizione di carattere patrimoniale (purché non coinvolga, beninteso, i figli minorenni) è lasciata all’arbitrio delle parti stesse, senza più limiti di carattere formale, sostanziale o anche solo temporale.

Non solo.

La successiva approvazione del c.d. divorzio breve (cfr. l. 6 maggio 2015, n. 55) ha ulteriormente comportato una deminutio del ruolo concreto delle procedure separatizie nel contesto della crisi coniugale, oltre tutto evidenziando l’assurdità della posizione tradizionale che vieta ai coniugi in fase di separazione di assumere impegni patrimoniali in vista di un divorzio, così « forzandoli » ad assumere impegni di durata temporale, ormai, minima [84], mentre la riforma sulle unioni civili, le convivenze di fatto e, soprattutto, i contratti di convivenza (cfr. l. 26 maggio 2016, n. 76), sono venute ad introdurre elementi e fermenti nuovi, idonei a sensibilizzare l’opinione pubblica circa la necessità (o, comunque, l’opportunità) di ricorrere sempre più spesso ad una previa definizione per via negoziale delle questioni patrimoniali potenzialmente connesse all’eventuale crisi dei legami affettivi.

 

 

10. Possibili conseguenze degli ultimi orientamenti giurisprudenziali in tema di assegno di divorzio.

 

Nel contesto sin qui delineato va letta anche la svolta giurisprudenziale degli anni 2017 [85] e 2018 [86] in materia di assegno di divorzio.

Sebbene non certo caratterizzato dal pregio della linearità [87], il sommovimento che ha variamente scosso ab imis le (relativamente) placide acque della illogica ed antistorica lettura in termini di « indissolubilità patrimoniale » del vincolo coniugale, viene a porre in primo piano il tema della « natura prevalentemente disponibile dei diritti in gioco », secondo l’espressione testualmente usata dalla motivazione della decisione delle Sezioni Unite del 2018. Espressione, questa, che, a sua volta, riecheggia i lavori dello scrivente, da decenni impegnato nel tentativo di dimostrare che la c.d. « solidarietà post-coniugale » è criterio nella specie determinante, sì, ma solo laddove i coniugi non decidano di comune accordo di ritenersene svincolati.

Invero, i criteri di pari dignità e di uguaglianza morale e giuridica tra coniugi (artt. 2, 3 e 29 Cost.), pure evocati dalle Sezioni Unite, costituiscono un baluardo della parte debole in caso di disaccordo, ma non sono certo contraddetti dal riconoscimento ai coniugi (soggetti, da tempo, ormai, non più colpiti da alcuna forma di incapacità) del diritto di liberamente disporre dei propri diritti e di fare affidamento vicendevole sugli impegni congiuntamente e liberamente assunti [88]: in omaggio, del resto, proprio a quel principio di « autoresponsabilità » e di « autodeterminazione », che la stessa Corte espressamente più e più volte richiama nella decisione del 2018. E ciò per non dire del fatto che l’inevitabile esasperazione del contenzioso [89] e l’incremento del tasso di discrezionalità decisionale del giudice [90], conseguenti al non troppo felice intervento delle Sezioni Unite, non faranno che porre in risalto l’utilità dei rimedi negoziali preventivi qui in discorso.

Del resto, l’esaltazione di un criterio che impone la valutazione – a fronte di un’eventuale sperequazione economico-patrimoniale tra gli ex coniugi – del contributo prestato alla crescita dell’altro (quand’anche il coniuge artefice dell’avanzata dell’altro sia indipendente economicamente), in considerazione dei « principi costituzionali di pari dignità e di solidarietà, che permeano l’unione anche dopo lo scioglimento del vincolo » [91], non può rimanere senza effetti anche nella materia qui in esame.

La valorizzazione della componente compensativa delle prestazioni post-divorzili non può effettuarsi se non a discapito, quanto meno parziale, di quella assistenziale, a sua volta troppe volte confusa [92] con quella alimentare (non presente, ovviamente, nell’assegno di divorzio) [93]: con conseguente equivoco sulla sua asserita indisponibilità. Come pure correttamente rilevato in dottrina, fin tanto che si predicava la funzione esclusivamente (o prevalentemente) assistenziale dell’assegno divorzile, la sua natura indisponibile era il corollario (relativamente coerente, ancorché tecnicamente non corretto) della tradizionale e consolidata affermazione per cui la parte che ha diritto ad una qualsiasi prestazione assistenziale è ontologicamente debole e quindi non adeguatamente preparata a stipulare ex ante accordi che abbiano per oggetto il proprio diritto [94].

Del resto, è pure stato detto, condivisibilmente,  che la ratio decidendi sostanziale posta alla base dell’orientamento giurisprudenziale contrario alla validità piena dei contratti sugli effetti economici del divorzio è da individuarsi nell’interesse  patrimoniale del beneficiario del credito costituito dall’assegno divorzile a mantenere un tenore di vita più agiato.  La nullità dei contratti in vista del divorzio è, in altri termini, funzionale ad un sistema di regole di diritto pretorio volte a garantire al creditore dell’assegno una adeguata partecipazione, tendenzialmente vitalizia, alle risorse economiche dell’ex coniuge. Risulta quindi abbastanza evidente che i due filoni giurisprudenziali  (quello ante 2017 sull’assegno di divorzio e quello, perdurante, sulla nullità dei contratti in vista della cessazione del vincolo) fossero intimamente intrecciati e funzionalmente collegati dal medesimo paradigma ideologico: la (allegata) nullità del contratto prematrimoniale implica come corollario che la determinazione dell’assegno sarà operata dal giudice per realizzare l’obbiettivo di garantire al coniuge economicamente più debole un tenore di vita analogo al precedente, ed in tale direzione saranno prese le decisioni relative alle altre provvidenze (assegnazione della casa coniugale, assegni perequativi per i figli) [95].

Di fronte al revirement delle Sezioni Unite sulla natura dell’assegno divorzile, è perciò ragionevole attendersi che il nuovo insegnamento sulla funzione composita e prevalentemente compensativa dell’assegno abbia l’effetto di rendere consapevoli dottrina e giurisprudenza del fatto che il relativo diritto è negoziabile, posto che chi ha fatto o si accinge a fare un sacrificio e deve essere indennizzato per esso è perfettamente in grado di valutare i propri interessi e può validamente disporre del proprio diritto [96].

La svolta giurisprudenziale qui ricordata, quindi, pur senza introdurre, di per sé, alcuna novità in relazione ad una situazione normativa già più che chiaramente orientata nel senso della validità dei patti prematrimoniali, ha se non altro il merito di rimuovere alcuni elementi che ancora impediscono a molti (troppi) interpreti di vedere le cose per come realmente sono.

 

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[1] Per una rassegna critica dei passi delle fonti romane sul punto e per i necessari rinvii ed approfondimenti cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, Milano, 1999, p. 483 ss.; Id., « Prenuptial agreements in contemplation of divorce » e disponibilità in via preventiva dei diritti connessi alla crisi coniugale, in Riv. dir. civ., 1999, II, p. 171 ss.; Id., Contratto e famiglia, in Aa.Vv., Trattato del contratto, a cura di Roppo, VI, Interferenze, a cura di Roppo, Milano, 2006, p. 253 ss.; Id., Gli accordi preventivi sulla crisi coniugale, in Familia, 2008, p. 25 ss.; v. anche Magagna, I patti dotali nel pensiero dei giuristi classici. Per l’autonomia privata nei rapporti patrimoniali tra i coniugi, Padova, 2002, passim.

[2] Cfr. Oberto, opp. locc. citt.

[3] Nel Medioevo, il celebre Rolandino de’ Passeggeri, dopo aver spiegato che (conformemente a quanto unanimemente ritenuto dal pensiero giuridico dell’epoca) la restitutio dotis era dovuta non solo in caso di scioglimento del matrimonio per morte, ma anche di separazione, diremmo oggi, personale, conseguente alla fornicatio del marito (la restituzione veniva invece esclusa, a titolo sanzionatorio, nel caso di adulterio della moglie), si intratteneva nella descrizione dei soggetti cui competeva la richiesta di restituzione ed il tempo in cui tale restituzione avrebbe dovuto essere fatta, rimettendo la predeterminazione di tali elementi proprio alla volontà delle parti nell’atto (prematrimoniale) di costituzione di dote. Ancora nei secoli successivi, in piena età della Controriforma, è dato rinvenire decisioni di tribunali italiani in senso favorevole alla predeterminazione delle conseguenze della futura crisi coniugale (da esplicarsi, ovviamente, solo tramite separazione personale, non essendo all’epoca il divorzio permesso). Così, una decisione della Rota Romana del 1595 (cfr. Bononien. restitutionis dotis, 16 maggio 1595) stabilì che « Placuit Dominis, sententiam esse confirmanda: quia cum convenerit, ut in eventum separationis tori, D. Constantius teneretur D. Lisiae eius uxori praestare scuta 270, pro alimentis, et si in solutione eorum cessaverit per annum, ipsa possit agere ad restitutionem totius dotis: & D. Constantius dictam summam non solverit anno 1589. necessario sequitur, quod dos eidem D. Lisiae debeat restitui »; sulla base della rimanente parte della motivazione sembra possibile inferire che il pactum nuptiale era stato concluso in vista di una futura possibile separazione solemniter iudicio ecclesiae facta, evento che la Rota ritenne in quel caso essersi verificato. Altro eloquente esempio è fornito da una decisione resa nel 1612 dal Concistorium del Regno di Sicilia in applicazione delle consuetudini di Messina, ove per determinati tipi di matrimonio (detti « alla latina ») vigeva un regime di comunione universale legale. La sentenza confermò la validità della clausola del contratto matrimoniale che escludeva la comunione « casu (quod absit) di separatione di matrimonio, tanto senza figli come nati figli, & quelli morti in minori età, vel maiori ab intestato », stabilendo altresì che, in tale ultima ipotesi, « detta sposa non possa disponere, nisi tantum di unzi trenta ». Sarà interessante notare che qualcosa di molto simile è avvenuto ed ancor oggi avviene Oltralpe con la c.d. « clausola alsaziana ». Tramite tale clause alsacienne, invero, le coppie che optano in Francia per il regime di comunione universale possono stabilire che, in caso di scioglimento per divorzio, ognuno dei coniugi riprenderà gli apporti alla comunione (per rinvii ed approfondimenti cfr. Oberto, Contratti prematrimoniali e accordi preventivi sulla crisi coniugale, in Fam. e dir., 2012, p. 69 ss.; Id., Gli accordi prematrimoniali in Cassazione, ovvero quando il distinguishing finisce nella Haarspaltemaschine, Nota a Cass., 21 dicembre 2012, n. 23713, in Fam. e dir., 2013, p. 323 ss.; Id., Attualità del regime legale, in Fam. e dir., 2019, p. 85 ss.).

[4] Oberto, « Prenuptial Agreements in Contemplation of Divorce » e disponibilità in via preventiva dei diritti connessi alla crisi coniugale, cit., p. 171 ss.; Id., Prenuptial Agreements in Contemplation of Divorce: European and Italian Perspectives, in Aa. Vv., Party Autonomy in European Private (and) International Law, Tome I, Edited by Ilaria Queirolo, Bettina Heiderhoff, Ariccia, 2015, p. 221 ss. (anche in Contratto e impresa/Europa, 2016, p. 135 ss.). V. inoltre Al Mureden, Le rinunce nell’interesse della famiglia e la tutela del coniuge debole tra legge e autonomia privata, in Familia, 2002, p. 1014; Id, I prenuptial agreements negli Stati Uniti e nella prospettiva del diritto italiano, in Fam. e dir., 2005, p. 543.

[5] Basterà al riguardo effettuare una ricerca tramite Google sulla rete, oppure digitare l’espressione prenuptial agreement all’indirizzo www.wikipedia.org.

[6] C.d. independent legal counsel o independent legal advice: cfr. anche http://www.prenuptialagreements.org/; http://www.lawdepot.com/contracts/prenuptial-agreement/.

[7] Clancy, A Treatise of the Rights, Duties, and Liabilities of Husband and Wife, at Law and in Equity, First American, from the Third London Edition, New York, 1828, p. 421 ss.

[8] Cfr. ad es. Davidson, Pre-nuptial agreements, in Recent Developments in English Family Law, Updated August 2004, già disponibile al sito web seguente: http://www.cr-law.co.uk.

[9] Leech, “With All My Worldly Goods I Thee Endow”? The Status of Pre-Nuptial Agreements in England and Wales, in Fam. L.Q., 34, 2000, p. 193 ss. Sul tema v. anche Panforti, Gli accordi patrimoniali fra autonomia dispositiva e disuguaglianza sostanziale. Riflessioni sul Family Law Amendment Act 2000 Australiano, in Familia, 2002, p. 156.

[10] Approfondimenti e commenti in Oberto, Contratti prematrimoniali e accordi preventivi sulla crisi coniugale, cit., p. 71 ss.; Id., Prenuptial Agreements in Contemplation of Divorce: European and Italian Perspectives, cit., p. 228 ss.; Scherpe, Rapporti patrimoniali tra coniugi e convenzioni prematrimoniali nel common law - alcuni suggerimenti pratici, in Riv. dir. civ., 2017, p. 920 ss.

[11] Panforti, op. loc. ultt. citt.

[12] Cfr. la relazione sul Bills Digest No. 88 1999-2000, Family Law Amendment Bill 1999, preparato nel 1999 dal Department of the Parliamentary Library del Parliament of Australia, consultabile all’indirizzo web seguente:

https://www.aph.gov.au/Parliamentary_Business/Bills_Legislation/bd/Bd9900/2000bd088.

[13] Approfondimenti e commenti in Oberto, Contratti prematrimoniali e accordi preventivi sulla crisi coniugale, cit., p. 74 ss.; per i modelli di Eheverträge tedeschi v. anche Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 540 ss.; Id., Prenuptial Agreements in Contemplation of Divorce: European and Italian Perspectives, cit., p. 225 ss.

[14] Per un’ampia trattazione al riguardo cfr. Wönne, Vereinbarungen zum Ehegattenunterhalt, in Aa. Vv., Das Unterhaltsrecht in der familienrechtlichen Praxis, a cura di Dose, München, 2011, p. 1184 ss.

[15] Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 540 ss., cui si fa rinvio anche per approfondimenti, e per la disamina di concreti modelli e clausole adottati in Germania. Per ulteriori considerazioni sul diritto tedesco v. però anche i rilievi da chi scrive svolti sulla giurisprudenza d’oltre Reno a partire da una decisione del Bundesverfassungsgericht del 2001 ed una sentenza del 2004 del Bundesgerichtshof, a parziale modifica di una giurisprudenza che, come detto, da sempre ammetteva l’assoluta validità delle intese prenuziali sulla sorte dell’assegno di divorzio (Id., Contratti prematrimoniali e accordi preventivi sulla crisi coniugale, cit., p. 89 ss.).

[16] Cfr. gli artt. 3 – per le convivenze eterosessuali – e 22 – per le convivenze omosessuali – della legge catalana n. 10 del 15 luglio 1998, d’unions estables de parella/de uniones estables de pareja, secondo cui i conviventi, sin dall’inizio della loro unione, « pueden regular las compensaciones económicas que convengan en caso de cese de la convivencia con el límite de los derechos que regula este capítulo, que son irrenunciables hasta el momento en que son exigibles ».

[17] Per i richiami Oberto, Contratti prematrimoniali e accordi preventivi sulla crisi coniugale, cit., p. 75 ss.

[18] Ad ulteriore riprova di tale osmosi, va ricordato che, nel 2010, anche a seguito dell’apertura in Spagna del matrimonio alle coppie omosessuali, si è proceduto in Catalogna ad una revisione delle disposizioni sulla convivenza more uxorio, con la conseguenza che oggi il codice civile della citata regione autonoma iberica (cfr. le modifiche introdotte dalla Ley 25/2010, de 29 de julio) tratta in modo uniforme le coppie conviventi omosessuali ed eterosessuali, concedendo loro la possibilità, ove non intendano accedere al matrimonio, di stipulare una escriptura pública, nella quale esse regolino svariati aspetti patrimoniali della loro unione, persino « en previsió del cessament de la convivència » (cfr. artt. 234-1 – 234-14 del Codi Civil de Catalunya), con espresso rinvio, in questo caso, alla dettagliata normativa degli accordi prematrimoniali all’uopo predisposta dal codice, all’art. 231-20.

Di estremo interesse appaiono le previsioni proprio di tale ultima disposizione:

« 231-20. Pactes en previsió d’una ruptura matrimonial

1. Els pactes en previsió d’una ruptura matrimonial es poden atorgar en capítols matrimonials o en una escriptura pública. En cas que siguin avantnupcials, només són vàlids si s’atorguen abans dels trenta dies anteriors a la data de celebració del matrimoni.

2. El notari, abans d’autoritzar l’escriptura a què fa referència l’apartat 1, ha d’informar per separat cadascun dels atorgants sobre l’abast dels canvis que es pretenen introduir amb els pactes respecte al règim legal supletori i els ha d’advertir de llur deure recíproc de proporcionar-se la informació a què fa referència l’apartat 4.

3. Els pactes d’exclusió o limitació de drets han de tenir caràcter recíproc i precisar amb claredat els drets que limiten o als quals es renuncia.

4. El cònjuge que pretengui fer valer un pacte en previsió d’una ruptura matrimonial té la càrrega d’acreditar que l’altra part disposava, en el moment de signar-lo, d’informació suficient sobre el seu patrimoni, els seus ingressos i les seves expectatives econòmiques, sempre que aquesta informació fos rellevant amb relació al contingut del pacte.

5. Els pactes en previsió de ruptura que en el moment en què se’n pretén el compliment siguin greument perjudicials per a un cònjuge no són eficaços si aquest acredita que han sobrevingut circumstàncies rellevants que no es van preveure ni es podien raonablement preveure en el moment en què es van atorgar ».

[19] Oberto, Les contrats prénuptiaux en prévision d’un éventuel divorce et le rôle du notaire dans la prédétermination des conséquences de la crise du couple, in Europa e diritto privato, 2019, in corso di stampa.

[20] Non andrà peraltro trascurato che quello stesso ordinamento permette ai coniugi, sul versante dei regimi patrimoniali, un’ampia gamma di intese tramite le quali costoro possono, tra l’altro, aménager il regime legale di comunione in contemplazione di un possibile divorzio, prevedendo, in base ad una tradizione risalente al droit coutumier, l’inserimento di clausole che vanno dalla attribuzione (a titolo sia gratuito che oneroso) di beni personali di un coniuge al coniuge superstite, all’assegnazione, all’atto dello scioglimento, di beni comuni, previo pagamento di una somma di denaro predeterminata, o alla facoltà per l’uno o l’altro dei coniugi di prelevare, sempre in occasione dello scioglimento, determinati beni a titolo gratuito, o, ancora, alla possibilità di prestabilire la divisione della massa (o di parte di essa) in parti non uguali, o, infine, all’attribuzione dell’intera massa ad uno solo dei coniugi, con diritto, per l’altro ad ottenere una somma a titolo forfetario (Oberto, La comunione legale tra coniugi, nel Trattato di diritto civile e commerciale, già diretto da Cicu, Messineo e Mengoni, continuato da Schlesinger, Milano, 2010, I, p. 52 ss., ss. 380 ss.; v. anche Id., Contratti prematrimoniali e accordi preventivi sulla crisi coniugale, cit., p. 75 s.; Id., Attualità del regime legale, cit., p. *** ss.).

[21] Ulteriori rilievi di tipo comparato sono disponibili in Oberto, Contratti prematrimoniali e accordi preventivi sulla crisi coniugale, cit., p. 75 s.

[22] Così Aras Kramar, The transformation of divorce procedure in Europe, in Familia, 2018, p. 277 ss., 298.

[24] V. infra, § 3.

[25] Non solo: l’accordo sulla scelta della legge applicabile al regime patrimoniale ben potrà essere effettuato prima del matrimonio, come chiaramente stabilito dal considerando n. 45 e come del resto reso chiaro dall’art. 22, che consente tale accordo ai coniugi, ma anche ai nubendi, tanto più che l’accordo tra nubendi sulla legge applicabile al regime patrimoniale ben può includere i rapporti patrimoniali che si verranno a determinare anche in conseguenza dello scioglimento del matrimonio, secondo quanto disposto dall’art. 3.

[26] C.d. Roma III: cfr. il Regolamento (UE) n. 1259/2010 del Consiglio del 20 dicembre 2010, relativo all’attuazione di una cooperazione rafforzata nel settore della legge applicabile al divorzio e alla separazione personale, disponibile online al sito web seguente: http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2010:343:0010:0016:IT:PDF.

[27] Cfr. art. 5, para. 2, Regolamento n. 1259/2010 cit.

[28] In questo senso anche Rimini, Arrivano i patti prematrimoniali, in La Stampa, 23 novembre 2006, p. 25.

[29] Di « porta aperta agli accordi prematrimoniali » parlano anche Velletti e Calò, La disciplina europea del divorzio, in Corr. giur., 2011, p. 733.

[31] Cfr. art. 3, par. 1, lett. c; art. 22, par. 1; art. 22, par. 1, lett. a, b. Non solo: l’accordo può avere chiaramente ad oggetto anche gli effetti dello scioglimento dell’unione affettiva, come reso chiaro dagli artt. 3 e 27 del citato regolamento. Nel sistema di tale strumento normativo è dunque chiaro che una « convenzione tra partner » è un accordo che ben può essere concluso (addirittura!) prima dell’inizio della unione registrata e ben può avere ad oggetto (anche, o solo) la divisione, distribuzione o liquidazione dei beni all’atto dello scioglimento dell’unione registrata. Ove trasposto alla realtà italiana il nuovo istituto ha ad oggetto non già le convivenze di fatto (cfr. art. 3, 1.a: la registrazione è obbligatoria, laddove non è così per le italiche unioni di fatto), ma certamente le unioni civili, per cui, però, le « convenzioni tra partner » altro non sono che le convenzioni matrimoniali, richiamate nel comma 13 (dell’art. unico di cui si compone la l. 20 maggio 2016, n. 76), mercé il rinvio all’art. 162 c.c.

[32] Oberto, Contratti prematrimoniali e accordi preventivi sulla crisi coniugale, cit., p. 78.

[33] Cass., 3 maggio 1984, n. 2682, in Riv. dir. int. priv. proc., 1985, p. 579; in Dir. fam. pers., 1984, p. 521. L’esame della motivazione della decisione non evidenzia elementi ulteriori rispetto alla affermazione contenuta nella massima. La compatibilità con le regole dell’ordine pubblico internazionale forma oggetto di una dichiarazione piuttosto apodittica, che lascia deluso l’interprete ansioso di conoscere perché mai principi così solenni come, per esempio, quello della indisponibilità degli status, su cui la soluzione negativa nel diritto interno viene fondata, non sarebbero annoverabili tra quelli assolutamente irrinunciabili del nostro ordinamento, quando lo stesso si viene a trovare in situazione « di collisione » rispetto a sistemi stranieri. Si rafforza dunque il sospetto che, in realtà, neppure la Corte Suprema sia poi così convinta (o per lo meno lo fosse, quella volta) della bontà della tesi negativa.

[34] Per una completa analisi cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 562 ss.; id., Contratti prematrimoniali e accordi preventivi sulla crisi coniugale, cit., p. 78 ss.

[35] Cass., 11 giugno 1981, n. 3777, in Foro it., 1981, I, c. 184; in Giur it., 1981, I, 1, c.1553; in Dir. fam. pers., 1981, p. 1025; in Giust. civ., 1982, I, p. 724.

[36] Cass., 20 maggio 1985, n. 3080, in Giur. it., 1985, I, 1, c. 1456; in Dir. fam. pers., 1985, p. 876; in Foro it., 1986, I, c. 747; in Giust. civ., 1986, I, p. 188.

[37] Cass., 11 dicembre 1990, n. 11788, in Arch. civ., 1991, p. 417; in Giur. it., 1991, I, 1, c. 156; in Giur. it., 1992, I, 1, p. 156.

[38] Cass., 2 luglio 1990, n. 6773.

[39] Cass., 1 marzo 1991, n. 2180 (ivi peraltro si trattava del tema dell’assegnazione della casa familiare).

[40] Cass., 20 settembre 1991, n. 9840, in Giur. it., 1992, I, 1, p. 1078; in Dir. fam. pers, 1992, p. 562.

[41] Cass., 6 dicembre 1991, n. 13128.

[42] Cass., 4 giugno 1992, n. 6857, in Corr. giur., 1992, p. 863; in Giur. it., 1993, I, 1, p. 340.

[43] Così, ad esempio, si vedano: Cass., 11 agosto 1992, n. 9494, in Giur. it., 1993, I, 1, p. 1495; Cass., 28 ottobre 1994, n. 8912, in Fam. e dir., 1995, p. 14; Cass., 7 settembre 1995, n. 9416, in Dir. fam. pers., 1996, p. 931; Cass., 20 dicembre 1995, n. 13017, in Giust. civ., 1996, I, p. 1694; Cass., 20 febbraio 1996, n. 1315; Cass., 11 giugno 1997, n. 5244, in Giur. it., 1998, p. 218; in Vita notar., 1997, p. 848; Cass., 20 marzo 1998, n. 2955, in Corr. giur., 1998, p. 513. Cfr. inoltre, per le pronunzie più recenti, Cass., 18 febbraio 2000, n. 1810; Cass., 9 maggio 2000, n. 5866; Cass., 12 febbraio 2003, n. 2076, in Fam. e dir., 2003, p. 344. V. poi anche Cass., 9 ottobre 2003, n. 15064, secondo cui « Ogni patto stipulato in epoca antecedente al divorzio volto a predeterminare il contenuto dei rapporti patrimoniali del divorzio stesso deve ritenersi nullo; è consentito, invece, che le parti, in sede di divorzio, dichiarino espressamente che, in virtù di una pregressa operazione (ad es. trasferimento immobiliare) tra di esse, l’assegno di divorzio sia già stato corrisposto una tantum, con conseguente richiesta al giudice di stabilire conformemente l’assegno medesimo, ma in assenza di tale inequivoca richiesta è inibito al giudice di determinare l’assegno riconoscendone l’avvenuta corresponsione in unica soluzione. Del tutto diversa è l’ipotesi in cui le parti abbiano già regolato i propri rapporti patrimoniali e nessuna delle due richieda un assegno (tale regolamento, infatti, non necessariamente comporta la corresponsione di un assegno una tantum, potendo le parti avere regolato diversamente i propri rapporti patrimoniali e riconosciuto, sulla base di ciò, la sussistenza di una situazione di equilibrio tra le rispettive condizioni economiche con conseguente non necessità della corresponsione di alcun assegno), nel qual caso l’accordo è valido per l’attualità, ma non esclude che successivi mutamenti della situazione patrimoniale di una delle due parti possa giustificare la richiesta di corresponsione di un assegno a carico dell’altra. (Nella fattispecie la S.C. ha confermato la sentenza di merito la quale, escluso che i coniugi avessero dichiarato l’avvenuta corresponsione una tantum dell’assegno di divorzio in virtù di una precedente operazione di trasferimento immobiliare, aveva proceduto alla determinazione dell’assegno medesimo su richiesta di modifica delle condizioni di cui alla sentenza di divorzio presentata da uno degli ex coniugi) ». In quest’ultima decisione si ammette, dunque, che è sufficiente un richiamo da parte dei coniugi (purché effettuato chiaramente ed in sede di procedura di divorzio) ad una pregressa attribuzione una tantum, intesa come esaustiva delle pretese ex divortio, perché si produca l’effetto preclusivo di successive domande ai sensi dell’art. 9 l.div. Il che significa, in buona sostanza, ancora una volta ammettere – di fatto e a dispetto delle declamazioni di principio più volte illustrate – la disponibilità dell’assegno divorzile. V. ancora Cass. 10 marzo 2006, n. 5302; Cass. 10 agosto 2007, n. 17634; Cass. 25 gennaio 2012, n. 1084.

[44] Cass., 14 giugno 2000, n. 8109, in Fam. e dir. 2000, p. 429; in Corr. giur., 2000, p. 1021; in Riv. notar., 2000, II, p. 1221; in Giust. civ., 2000, I, p. 2217; in Giur. it., 2000, p. 2229; in Nuova giur. civ. comm., 2000, I, p. 704; in Foro it., 2001, I, c. 1318; in Giust. civ., 2001, I, p. 457; in Familia, 2001, p. 243.

[45] Cass., 1 dicembre 2000, n. 15349, in Giust. civ., 2001, I, p. 1592.

[46] Cass., 13 gennaio 2012 n. 387, in Fam. e dir., 2012, 772.

[47] Nella specie, l’accordo, consacrato nel verbale di separazione personale, era testualmente concepito nei termini seguenti: « L’immobile in questione verrà posto in vendita a terzi con modalità che i coniugi stessi stabiliranno di comune accordo, quando i figli L. e V. trasferiranno altrove la loro residenza e quindi tale abitazione non sarà più di loro necessità ». Ora, di fronte ad una simile intesa, la Cassazione rimprovera alla decisione d’appello di non aver tenuto conto del fatto che il « regolamento convenzionale » era « destinato ad avere vigenza temporalmente indeterminata fino al verificarsi della condizione ivi prevista » (cioè dello stabilimento in altro luogo della residenza dei figli). Prosegue la Corte di legittimità asserendo che « la sentenza impugnata appare quindi viziata laddove non dà conto delle ragioni – eventualmente sopravvenute – per le quali tale accordo non dovrebbe influire sulla domanda di assegnazione della casa coniugale in sede di giudizio di divorzio ». Neppure una parola sulla notoria giurisprudenza di legittimità circa la nullità delle intese preventive di divorzio, nonostante proprio il tema dell’accordo assunto in sede di separazione personale sulla vendita a terzi dell’immobile di proprietà comune, con conseguente divisione del ricavato, avesse già formato oggetto – esattamente vent’anni prima – di uno specifico precedente, che aveva invece (coerentemente con l’indirizzo assolutamente prevalente e da chi scrive mai condiviso) fulminato di nullità siffatto tipo di accordo (Cass., 4 giugno 1992, n. 6857, in Corr. giur., 1992, p. 863; in Giur. it., 1993, I, 1, p. 340: laccordo raggiunto in sede di separazione consensuale prevedeva, nella specie, la vendita dell’unico immobile di proprietà comune e la successiva divisione tra le parti del relativo prezzo). La sentenza del 2012 attribuisce quindi efficacia vincolante all’accordo sulla casa familiare raggiunto in sede di separazione consensuale, riconoscendogli una valenza anche post-divorzile, sebbene ancorata alla clausola rebus sic stantibus (quest’ultima sfumatura mi sembra debba essere colta, invero, nella parte della motivazione che richiama non meglio precisate « ragioni – eventualmente sopravvenute – per le quali tale accordo non dovrebbe influire sulla domanda di assegnazione della casa coniugale in sede di giudizio di divorzio »).

[48] Il caso è assai semplice. Un giorno prima della celebrazione delle nozze, i futuri coniugi sottoscrivono una scrittura privata, che, secondo quanto è dato desumere dalla motivazione della decisione di legittimità, appare concepita nei termini seguenti: « in caso di fallimento del matrimonio (separazione o divorzio) la moglie cederà al marito un immobile di sua proprietà, quale indennizzo delle spese sostenute dallo stesso per la ristrutturazione di altro immobile, pure di sua proprietà, da adibirsi a casa coniugale; a saldo, comunque, il marito trasferirà alla moglie un titolo BOT di lire 20.000.000 ». Sulla base di siffatto impegno, sopravvenuto il giudizio divorzio, il marito propone in tale ultimo processo, in via riconvenzionale, domanda ex art. 2932 c.c. per ottenere una sentenza che tenga luogo del trasferimento immobiliare non effettuato: petitum, questo, che viene rigettato dal tribunale, laddove la corte d’appello dichiara « valido ed efficace » l’impegno, « omettendo peraltro pronuncia ex art. 2932 c.c., ed invitando la parte interessata ad attivarsi, al riguardo, in separata sede ». La moglie propone allora ricorso contro tale statuizione, appoggiandosi alla tradizionale giurisprudenza di legittimità sulla nullità delle intese tra coniugi in vista del divorzio, per violazione dell’art. 160 c.c. La Cassazione nega però che il contratto in discorso sia ascrivibile a questa categoria di negozi. Ne deriva che la nullità non è in tal caso applicabile. Il ricorso è rigettato. Sarà interessante soffermarsi brevemente sul metodo utilizzato questa volta dalla Cassazione, la quale compie una spericolata manovra volta, da un lato, a ribadire in astratto la tradizionale posizione sul tema, eccettuandovi però, dall’altro, il caso di specie. Caso, va subito precisato, in cui la mancata attribuzione di validità al patto sarebbe venuta a porsi in contrasto, in maniera particolarmente stridente, prima ancora che con regole di diritto, con il buon senso. Evidente, dunque, lo sforzo di raggiungere per tale via un risultato di « equità » sostanziale nel caso concreto, facendo salva l’impalcatura concettuale generale da sempre seguita dal Supremo Collegio sul tema degli accordi in vista della crisi coniugale. Il risultato viene perseguito mercé il ricorso ad un sottile distinguo, volto, come si diceva poc’anzi, a sottrarre l’accordo in oggetto al novero di quelli preventivi in vista del divorzio.

[49] In tutta onestà, neppure questa volta il risultato di tale raffinata Haarspaltung appare condivisibile. In primis si dovrà notare che la « prematrimonialità » di un contratto della crisi coniugale nulla ha a che vedere con la sua eventuale « globalità », atteso che nessuno è in grado di prevedere quali e quanto complessi saranno i rapporti economici dopo un periodo magari pluriennale di convivenza uti coniuges. Né essa risulta necessariamente legata allo specifico tema dell’assegno: proprio la Suprema Corte non ha mai esitato, neppure per un istante, a fulminare di nullità intese tra coniugi separati dirette a stabilire singole, ben determinate, attribuzioni patrimoniali al momento dell’eventuale (ancorché in tal contesto ormai facilmente vaticinabile) futuro divorzio, anche al di là e al di fuori dell’ipotesi della predeterminazione del (o della rinunzia al) diritto all’assegno divorzile: cfr. ad es. Cass., 1° marzo 1991, n. 2180; Cass., 11 agosto 1992, n. 9494; Cass., 10 gennaio 2012, n. 1084; sul tema v. per tutti Oberto, Gli accordi prematrimoniali in Cassazione, ovvero quando il distinguishing finisce nella Haarspaltemaschine, Nota a Cass., 21 dicembre 2012, n. 23713, in Fam. e dir., 2013, p. 323 ss.

[50] Cfr. ad es. Cass., 18 settembre 2012, n. 15640: qui la Corte ha ritenuto valida la scrittura privata con cui i coniugi, dopo aver acquistato per quote uguali un immobile, intervenuta la crisi coniugale e separatisi di fatto, avevano emesso una « ricognizione attributiva delle quote di comproprietà sul bene », esplicitando che la contitolarità era ripartita per la quota di 1/7 in favore del marito e per la quota di 6/7 in favore della moglie, impegnandosi reciprocamente a formalizzare con atto notarile, a semplice richiesta, detta ricognizione.

[51] Cass., 5 luglio 1984, n. 3940, in Dir. fam. pers., 1984, p. 922.

[52] Cass., 12 maggio 1994, n. 4647, in Fam. e dir., 1994, p. 660; in Vita notar., 1994, p. 1358; in Giust. civ., 1995, I, p. 202; in Dir. fam. pers., 1995, p. 105; in Nuova giur. civ. comm., 1995, I, p. 882,; in Riv. notar., 1995, II, p. 953.

[53] Quadri, Autonomia dei coniugi e intervento giudiziale nella disciplina della crisi familiare, in Familia, 2005, p. 12.

[54] Cass., 13 gennaio 1993, n. 348, in Corr. giur., 1993, p. 822; in Giur. it., 1993, 1, 1, p. 1670; in Nuova giur. civ. comm., 1993, I, p. 950; in Vita notar., 1994, p. 91; in Contratti, 1993, p. 140.

[55] Apprendo questa informazione dalla lettura della decisione di merito confermata dalla sentenza qui in commento, vale a dire App. Ancona, 14 marzo 2007, n. 104, in causa R.G. n. 432/2006, inedita, la cui motivazione mi è stata gentilmente fornita dall’avv. Marta Lettieri.

[56] Cfr. App. Ancona, 14 marzo 2007, cit.

[57] Per la trattazione del tema si fa rinvio a Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 605 ss.; Id., Contratti prematrimoniali e accordi preventivi sulla crisi coniugale, cit., p. 83 s.

[58] Cfr. App. Ancona, 14 marzo 2007, cit.

[59] Cass., 21 agosto 2013, n. 19304.

[60] Cfr. Cass. 20 agosto 2014, n. 18066, in Fam. e dir., 2015, p. 357, con nota di Filauro, in cui, pur non trattandosi di accordi preventivi in vista del divorzio, vengono affrontati la questione del valore negoziale dell’accordo che si perfeziona nel momento in cui le parti, nel corso di un procedimento contenzioso di divorzio, presentano conclusioni uniformi che prevedono un impegno ad effettuare un trasferimento immobiliare a favore di un figlio e il problema della ammissibilità dell’appello proposto da un coniuge avverso la sentenza che accoglie le conclusioni stesse. Peraltro, anche in tale occasione, la Corte di legittimità ha ritenuto opportuno trattare incidentalmente la questione della validità dei patti in vista del divorzio, ricordando la propria tradizionale giurisprudenza restrittiva, menzionando le aperture a favore dei valori di autodeterminazione che si vanno affermando nel diritto di famiglia, rammentando inoltre le considerazioni svolte nella motivazione della propria sentenza del 2012 appena menzionata, per concludere poi che « tali accordi [gli accordi in vista del futuro divorzio] sono molto frequenti negli altri Stati, segnatamente quelli di cultura anglosassone, dove essi svolgono una proficua funzione di deflazione delle controversie familiari e divorzili ». La Cassazione conclude il ragionamento ricordando – con un chiaro riferimento alle opere dello scrivente – « le critiche di parte della dottrina all’orientamento tradizionale, che trascurerebbe di considerare adeguatamente non solo i principî di diritto di famiglia ma la stessa evoluzione del sistema normativo, ormai orientato a riconoscere sempre più spazi di autonomia ai coniugi nel determinare i propri rapporti economici, anche successivi alla crisi coniugale, ferma ovviamente la tutela dell’interesse dei figli minori ».

[61] Cfr. Cass., 3 dicembre 2015, n. 24621, nella cui motivazione si dà atto della circostanza che la giurisprudenza più recente non riterrebbe più gli accordi preventivi sul divorzio come contrari all’ordine pubblico (ma nella specie non di un accordo preventivo si trattava, bensì di un’intesa intervenuta in corso di causa).

[62] Cass., 13 gennaio 2017, n. 788.

[63] Cfr. Cass., 30 gennaio 2017, n. 2224, in Nuova giur. civ. comm., 2017, p. 955, con nota di Grazzini. La decisione è commentata anche da Grondona, Il problema della (il)liceità degli accordi predivorzili tra (vecchia) polifunzionalità e (nuova) monofunzionalità dell’assegno di divorzio, in Aa. Vv., I nuovi orientamenti della Cassazione civile, a cura di Granelli, Milano, 2018, p. 7 ss.

[64] Sulla decisione v. peraltro le osservazioni critiche di Rimini, Funzione compensativa e disponibilità del diritto all’assegno divorzile. Una proposta per definire i limiti di efficacia dei patti in vista del divorzio, in Fam. e dir., 2018, p. 1047, n. 32, ad avviso del quale è « opportuno rilevare che, nella vicenda esaminata dalla Corte – stando alla descrizione del giudizio di merito che si legge nella prima parte della sentenza – i coniugi non avevano affatto stipulato un patto in vista del divorzio. Semplicemente il marito aveva riconosciuto alla moglie un rilevante capitale e la Corte d’Appello aveva negato alla stessa un assegno divorzile solo sulla base di questa circostanza “attribuendole la valenza di anticipazione non solo dell’assegno di separazione, ma addirittura di quello di divorzio”. La Cassazione ha cassato con rinvio la sentenza di merito ritenendo che essa avesse omesso di applicare i criteri per il riconoscimento e la determinazione dell’assegno divorzile indicati all’art. 5, comma 6, l. div. Le affermazioni che si leggono nella massima ufficiale relative alla nullità dei patti in vista del divorzio non paiono dunque strettamente funzionali alla definizione della controversia ». Rimane, peraltro, il fatto che l’accordo in oggetto è stato ritenuto nullo proprio per via della sua valenza, per così dire, divorzile. A questo proposito del tutto condivisibili appaiono i rilievi di Gorgoni, Accordi definitivi in funzione del divorzio: una nullità da ripensare, in Aa. Vv., Accordi in vista della crisi dei rapporti familiari, a cura di Landini e Palazzo, Biblioteca della Fondazione Italiana del Notariato, n. 1-2018, Milano, 2018, p. 301, nota 22, secondo cui « non è ragionevole ritenere, come fa la Cassazione, che quanto stabilito nella fase della separazione sia irrilevante nel procedimento di divorzio; né è corretto presumere iuris et de jure che l’attribuzione di una consistente somma di denaro induca il coniuge beneficiario a divorziare. Non fosse altro perché, solitamente, le trattative volte alle definizione dei rapporti economici iniziano quando il matrimonio è irrimediabilmente compromesso ».    

[65] Rimarca Gorgoni, Accordi definitivi in funzione del divorzio: una nullità da ripensare, cit., p. 302, nota 23, che « La Suprema Corte collega la propria pronuncia del 2017 ai precedenti anche risalenti, senza aprire ad altri ragionamenti, con una pigra ripetizione di frasi oramai disallineate dal tessuto normativo e dall’evoluzione complessiva dell’ordinamento ».

[66] Per un caso di questo genere cfr. Cass., 21 luglio 1971, n. 2374; sull’irrinunziabilità del diritto a chiedere la separazione v. anche Cass., 6 marzo 1969, n. 714.

[67] Oberto, Contratti prematrimoniali e accordi preventivi sulla crisi coniugale, cit., p. 83 ss.

[68] Cass., 19 gennaio 1985, n. 150, in Foro it., 1985, I, c. 701; in Riv. notar., 1985, II, p. 483.

[69] Cass., 11 gennaio 1986, n. 102; in Foro it., 1986, I, c. 936; in Giust. civ., 1986, I, p. 1009.

[70] Cass., 19 gennaio 1985, n. 150.

[71] Cass., 21 febbraio 1992, n. 2122, in Foro it., 1992, I, c. 2120; in Giust. civ., 1992, I, p. 1753; in Dir. fam. pers., 1992, p. 989; riconducibile allo stesso rationale appare la precedente Cass., 4 marzo 1966, n. 641, in Giur. it., 1967, I, 1, c. 836; in Foro it., 1966, I, c. 414; in Giust. civ., 1966, I, p. 1354.

[72] Oberto, Contratti prematrimoniali e accordi preventivi sulla crisi coniugale, cit., p. 85.

[73] Cfr., con riferimento al dovere di mantenimento ex art. 145 c.c. 1942, Rossi Carleo, Pronuncia di divorzio e domanda di assegno, Nota a Trib. Roma, 23 settembre 1974, in Giur. it., 1975, I, 2, c. 701.

[74] Cfr. Cass., 9 gennaio 1976, n. 40; Cass., 6 novembre 1976, n. 4034; per analoghe considerazioni v. anche Doria, Autonomia privata e « causa » familiare. Gli accordi traslativi tra i coniugi in occasione della separazione personale e del divorzio, Milano, 1996, p. 73 ss.; 184 s.

[75] Oberto, Contratti prematrimoniali e accordi preventivi sulla crisi coniugale, cit., p. 85.

[76] Cfr. per es. E. Bianchi, Trattato dei rapporti patrimoniali dei coniugi secondo il codice civile italiano, Pisa, 1888, p. 70; analoghe considerazioni in Fr. Ferrara Sen., Teoria del negozio illecito nel diritto civile italiano, Milano, 1902, p. 112.

[77] Condivide la soluzione, già proposta dallo scrivente (cfr. Oberto, Le convenzioni matrimoniali: lineamenti della parte generale, in Fam. e dir., 1995, p. 601 ss.), Angeloni, Autonomia privata e potere di disposizione nei rapporti familiari, Padova, 1997, p.113.

[78] In questo senso cfr. Cass., 11 agosto 1992, n. 9494, in Giur. it., 1993, I, 1, p. 1495.

[79] Cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit. p. 494 ss., 554 ss., 589 ss.; Id., « Prenuptial agreements in contemplation of divorce » e disponibilità in via preventiva dei diritti connessi alla crisi coniugale, cit., p. 171 ss.; Id., Contratto e famiglia, cit., p. 253 ss.; Id., Gli accordi preventivi sulla crisi coniugale, cit., p. 25 ss.

[80] Cfr. Oberto, Per un intervento normativo in tema di accordi preventivi sulla crisi della famiglia, in Aa. Vv., Accordi in vista della crisi dei rapporti familiari, cit., p. 33 ss.

[81] Cfr. Aa. Vv., Accordi in vista della crisi dei rapporti familiari, cit., passim. Una sintetica, ma brillante ed accurata ricostruzione delle ragioni che presiedono alla tesi della perfetta ammissibilità dei patti prematrimoniali già de iure condito è rinvenibile in Grondona, op. locc. ultt. citt., cui si fa rinvio anche per una serrata critica dell’italica tendenza alla « giurisdizionalizzazione che assume il tratto dell’ipergiurisdizionalizzazione, e che come tale è stata almeno in parte contrastata dai recenti interventi legislativi » (ma, sia consentito aggiungere, esasperata dall’intervento del 2018 delle Sezioni Unite in tema di assegno divorzile). Di rilevante interesse anche l’analisi di Palazzo, Contratti in vista del divorzio e assegno postmatrimoniale, in Aa. Vv., Accordi in vista della crisi dei rapporti familiari, cit., p. 255 ss.

[82] Per le necessarie riflessioni in proposito cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 618 ss.; Id., Contratti prematrimoniali e accordi preventivi sulla crisi coniugale, cit., p. 87 ss.

[83] Cfr. Oberto, Il patto di famiglia, Padova, 2006, p. 7.

[84] Anche Rimini, Funzione compensativa e disponibilità del diritto all’assegno divorzile. Una proposta per definire i limiti di efficacia dei patti in vista del divorzio, cit., p. 1043, osserva che « certamente una riflessione sul tema della validità dei patti in vista del divorzio è quanto mai opportuna. La tradizionale affermazione della loro nullità riguarda infatti sia i patti stipulati al momento del matrimonio, o prima di esso e in vista del suo eventuale fallimento, sia i patti stipulati al momento della separazione per regolamentare il probabile e prossimo scioglimento del vincolo nel contesto di una crisi coniugale già attuale. In relazione a quest’ultima ipotesi, non può sfuggire che la riforma del 2015 – che, modificando l’art. 3, n. 2, lett. b, l. div., ha ridotto a sei mesi la durata minima della separazione quale presupposto del divorzio nell’ipotesi in cui la separazione sia consensuale – attribuisce al problema un rilievo pratico ancora maggiore rispetto al passato. È infatti naturale che i coniugi, raggiungendo un accordo al momento della separazione, proiettino l’efficacia della loro transazione oltre un orizzonte temporale di sei mesi e vogliano quindi definire i loro rapporti anche nella prospettiva del prossimo divorzio ».

[85] Cfr. Cass., 10 maggio 2017, n. 11504, in Foro it., 2017, I, c. 1859.

[86] Cfr. Cass., Sez. Un., 11 luglio 2018, n. 18287, in Foro it., 2018, I, c. 2671. La letteratura al riguardo è già sterminata: si può rinviare per tutti al fascicolo monografico della rivista Fam. e dir., 2018, 25 anni, 11/2018, passim.

[87] Assai giustamente Macario, Una decisione anomala e restauratrice delle sezioni unite nell’attribuzione (e determinazione) dell’assegno di divorzio, Nota a Cass., Sez. Un., 11 luglio 2018, n. 18287, in Foro it., 2018, I, c. 3608, rimarca la presenza nella decisione del 2018 di « una ratio decidendi che si svolge in modo tutt’altro che lineare e univoco, dunque di difficile razionalizzazione, ma che, soprattutto, non riesce a trovare riscontro (…) nell’enunciazione finale del principio di diritto, cui dovrebbe adeguarsi il giudice di rinvio, al pari della successiva giurisprudenza di merito (…). Un principio che sembrerebbe ridursi, in sostanza, all’applicabilità dei criteri dettati dalla norma per la determinazione dell’assegno (anche) alla decisione relativa alla sua attribuzione, muovendo dal dato primario del « contributo » dato dal coniuge richiedente durante la vita matrimoniale (uno dei criteri di quantificazione indicati dal legislatore) ».

[88] Cfr. per tutti Oberto, Sulla natura disponibile degli assegni di separazione e divorzio: tra autonomia privata e intervento giudiziale, in Fam. e dir., 2003, p. 389 ss. (parte I), 495 ss. (parte II) e già Id., I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 388 ss., 421 ss.

[89] Il dato è saggiamente posto in evidenza da numerosissimi commentatori: cfr. per tutti Macario, op. loc. ultt. citt.; Morace Pinelli, L’assegno divorzile dopo l’intervento delle sezioni unite, Nota a Cass., Sez. Un., 11 luglio 2018, n. 18287, in Foro it., 2018, I, c. 3615 ss.

[90] Come condivisibilmente osservato da Patti, Assegno di divorzio: il “passo indietro” delle Sezioni Unite, in Corr. giur., 2018, p. 1200, la determinazione dell’ammontare dell’assegno divorzile, dopo la decisione delle Sezioni Unite, « rimane affidata ad una valutazione del giudice eccessivamente discrezionale ».

[91] Cfr. Fusaro, La sentenza delle sezioni unite sull’assegno di divorzio favorirà i patti prematrimoniali?, in Fam. e dir., 2018, p. 1038.

[92] Come dimostrato in altra sede dallo scrivente: cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 418 ss., 442 ss.

[93] L’equivoco è ancora presente in una parte piuttosto consistente della dottrina contemporanea: cfr. ad es. Bargelli, L’autonomia privata nella famiglia legittima, il caso degli accordi in occasione o in vista del divorzio, in Riv. crit. dir. priv., 2001, p. 303 ss., che individua tra i limiti di liceità degli accordi sul divorzio proprio quello nascente dall’inderogabilità dell’obbligazione alimentare (cfr. Ead., op. cit., p. 313, nota 37): vincolo, questo, che, come noto, esiste tra coniugi, certo, ma non tra divorziati. In quest’ottica sembra collarsi anche Gorgoni, Accordi in funzione del divorzio tra autonomia e limiti, in Persona e mercato, 2018, p. 237, secondo cui « Certamente invalida sarebbe, invece, una rinuncia alla componente assistenziale-alimentare dell’assegno di divorzio, essendo quest’ultima attuativa del principio di solidarietà post-coniugale ». Qui l’erezione a totem del dogma della solidarietà post-coniugale porta addirittura a confondere le due ben distinte funzioni, con conseguente violazione del principio di tassatività dell’elenco normativo dei soggetti tenuti alla prestazione alimentare e (indebita) applicazione della regola dell’irrinunziabilità dettata per questa sola seconda cerchia di soggetti anche a chi, come l’ex coniuge, da tale elenco risulta, per volontà legislativa, escluso (per una presentazione delle ragioni che presiedono alla necessità di distinguere – e continuare a continuare a tenere ben distinte tra di loro – funzione assistenziale e funzione alimentare v. per tutti Oberto, I contratti della crisi coniugale, II, Milano, 1999, p. 798 ss., 844 ss.).

[94] Cfr. Rimini, Funzione compensativa e disponibilità del diritto all’assegno divorzile. Una proposta per definire i limiti di efficacia dei patti in vista del divorzio, cit., p. 1042. Anche Gorgoni, Accordi in funzione del divorzio tra autonomia e limiti, cit., p. 237, rileva che « Sembra esserci un collegamento logico tra queste due asserzioni: l’ampliamento della funzione dell’assegno oltre la mera assistenza induce la Suprema Corte ad affermare la natura «prevalentemente disponibile» dei diritti rilevanti nello scioglimento del matrimonio ».  

[95] Così Palazzo, Contratti in vista del divorzio e assegno postmatrimoniale, cit., p. 280.

[96] Così, almeno in parte, anche Rimini, op. locc. ultt. citt.