LA FAMIGLIA DI FATTO.
INTRODUZIONE ALLA «RIFORMA CIRINNÀ»
Sommario: 1.
Nozione di famiglia di fatto: prima e dopo la novella del 2016. – 2. Famiglia di fatto e ricongiungimento del convivente di
fatto: prima e dopo la novella del 2016. Cenni. – 3.
L’evoluzione della famiglia di fatto in dottrina e giurisprudenza prima della
novella del 2016. – 4. La regolamentazione legislativa
della famiglia di fatto prima della novella del 2016. – 5. Famiglia di
fatto e filiazione. – 6. I rapporti personali nella famiglia di
fatto e il dovere di contribuzione: prima e dopo la novella del 2016. – 7. I rapporti
patrimoniali nella famiglia di fatto. In particolare le obbligazioni
naturali: prima e dopo la novella del 2016. – 8. Il rimedio dell’arricchimento ingiustificato:
prima e dopo la novella del 2016. – 9. I contratti di convivenza: prima e dopo la
novella del 2016. – 10. Convivenza e diritto all’abitazione:
prima e dopo la novella del 2016. – 11. Cessazione
della convivenza, questioni possessorie e (pre)determinazione del diritto di
abitazione dell’ex partner prima della novella del 2016. – 12. Cessazione della convivenza, questioni possessorie e
(pre)determinazione del diritto di abitazione dell’ex partner dopo
la novella del 2016. – 13. La morte del convivente more uxorio: problemi di carattere successorio. – 14. La morte del
convivente more uxorio a seguito dell’illecito compiuto da un
terzo. – 15. La cessazione della convivenza in presenza
di figli minorenni. – 16. Le convivenze omosessuali. – 17. Convivenze
omosessuali e questioni legate all’omogenitorialità. – 18. Segue. La
giurisprudenza più recente in tema di omogenitorialità. |
1.
Nozione di famiglia di fatto: prima e dopo la novella del 2016.
L’espressione «famiglia di fatto» è
utilizzata da sempre al fine di individuare quella particolare formazione
sociale che ricalca la struttura essenziale della famiglia fondata sul
matrimonio (o, in alternativa, oggi, sull’unione civile), pur essendo priva di
qualsiasi formalizzazione del rapporto di coppia. A tale mancanza di formalizzazione ha fatto riscontro, nella
realtà normativa del nostro sistema, per lunghi anni e sino alla legge 20
maggio 2016, n. 76 (c.d. «legge Cirinnà»), l’assenza di una disciplina
organica, anche se, come si avrà modo di dire [1], in
precedenza non facevano certo difetto disposizioni legislative applicabili a
svariati profili relativi alla situazione in esame.
La
definizione in senso negativo
della famiglia di fatto, proposta in epoca precedente dalla maggioranza degli
autori [2],
soprattutto per sopperire all’inesistenza di una definizione legale [3], era
stata contestata [4], sul
presupposto che sarebbe stato invece necessario riferirsi «al rapporto di
coppia, alle relazioni che in essa si svolgono e che hanno il proprio positivo
fondamento in una convivenza sorretta da sentimenti di affetto, solidarietà,
sostegno economico». La giurisprudenza, dal
canto suo, aveva recepito la dizione «famiglia di fatto», definendo il fenomeno
alla stregua di una «convivenza caratterizzata da inequivocità, serenità e
stabilità, da non confondere con i meri rapporti sessuali, che possono anche
dar luogo alla nascita di figli naturali» [5].
La
scelta normativa operata dalla riforma del 2016 utilizza oggi l’espressione
«convivenza di fatto» e non «famiglia di fatto», sebbene dal contesto delle
disposizioni della novella appaia desumibile senza ombra di dubbio l’idea che
pure tale forma di aggregazione sociale vada comunque ricondotta al paradigma
familiare [6].
Il
ricorso della novella del 2016 all’espressione «convivenza di fatto» ha, dal
canto suo, sollevato svariate obiezioni, principalmente fondate sull’apparente
incompatibilità dell’espressione «di fatto» con una situazione che oggi, bene o
male, è pur sempre (ancorchè in maniera disordinata, incoerente e parziale)
normata dal diritto positivo [7]. Per
converso, va tenuto presente che, da tempo, si sottolinea che la
contrapposizione tra «rapporti di diritto» e «rapporti di fatto» si sviluppa pur sempre all’interno del mondo del
diritto [8]: la
constatazione, svolta a livello generale, vale sicuramente anche per l’unione
libera, come confermato da quella dottrina che, in Italia come all’estero, già
da prima delle riforme in argomento, negava quasi unanimemente che i rapporti
tra i conviventi fossero, in quanto tali, sottratti alla sfera del
giuridicamente rilevante [9].
Ancora oggi vale dunque la constatazione per cui l’espressione «di fatto»
connota semplicemente il modo in cui la fattispecie viene in essere (rebus ipsis et factis, appunto, e non per effetto di un
negozio giuridico), non già le sue conseguenze [10]. Il
momento cui occorre guardare è dunque quello genetico del rapporto familiare:
se esso si basa su di un negozio giuridico quale il matrimonio, o (oggi)
l’unione civile, dovrà parlarsi di famiglia «legittima»; se esso si fonda su di
un dato di mero fatto, quale la convivenza tra due persone di sesso diverso o
dello stesso sesso, come descritta dal co. 36 della riforma del 2016, dovrà
parlarsi di «convivenza di fatto» o di «famiglia di fatto» (o ancora, secondo
una terminologia in rapida fase di superamento, di «convivenza more uxorio»).
Secondo parte della dottrina sussisterebbe poi
un’ulteriore ipotesi di famiglia (o convivenza) di fatto, vale a dire quella
tra due persone (di sesso diverso o dello stesso sesso), che convivano al di
fuori dei presupposti previsti dalla riforma del 2016. Sarebbe questo il caso
di una coppia formata, ad esempio, da soggetti legati da rapporti di parentela,
o costituita tra due persone che non siano (entrambe) di stato non libero o
maggiorenni [11]. La
soluzione che appare più corretta, alla luce del chiaro tenore letterale del
co. 36, legge 20 maggio 2016, n. 76 è invece quella che tende ad escludere che
gli effetti stabiliti dalla novella del 2016 possano applicarsi in assenza dei
presupposti dalla stessa normativa individuati: ciò naturalmente non impedisce
che altri effetti, previsti dal diritto comune, tradizionalmente riconnessi
alla convivenza more uxorio e non
normati dalla «Cirinnà» – quali ad es. le obbligazioni naturali, o l’azione di
arricchimento o quella di ripetizione dell’indebito – possano trovare esplicazione
con riguardo a tali coppie [12].
Ulteriormente
diverso (e comunque estraneo alla normativa della «riforma Cirinnà») è poi il
fenomeno delle convivenze «di mutuo aiuto» [13], così
come quello delle c.d. «famiglie poliamore», rappresentate da unioni affettive
di più di due persone [14].
Irrilevante
ai fini dell’individuazione della sussistenza di una famiglia di fatto, o
convivenza di fatto che dir si voglia, appare invece, almeno per l’opinione
dominante, la formalizzazione del rapporto tramite la registrazione anagrafica,
come si dirà tra breve. Assai singolare, invece, e del tutto priva del benchè
minimo fondamento normativo, risulta la tesi [15],
secondo cui la convivenza stessa costituirebbe, già di per sé, una autonoma
figura contrattuale. L’idea riprende una tesi piuttosto isolata, sebbene
autorevole [16], circa
la possibilità di riconoscere anche nel nostro ordinamento qualcosa di simile a
ciò che oltre Oceano viene definito come implied
cohabitation contract: opinione, questa, la cui infondatezza, già
dimostrata prima della riforma del 2016 [17], viene
ora definitivamente sancita dal co. 51 della novella, che áncora al necessario
rispetto di una forma prescritta ad
substantiam la validità di ogni volontà negoziale espressa nel contesto del
faux ménage [18]. Inutile
dire, poi, che convivenza è fondamentalmente affectio. La volontà di creare, regolare o estinguere rapporti
giuridici di carattere patrimoniale (cfr. art. 1321 c.c.) – beninteso quando
presente – è qui (esattamente come nel matrimonio o nell’unione civile) un mero
posterius.
Le ragioni che possono condurre una
coppia a stabilire una relazione avente carattere familiare, senza la
celebrazione delle nozze, possono essere le più svariate: circostanze storiche
e ambientali, motivazioni ideologiche di carattere religioso o di segno «libertario»,
interessi economici [19], cui
s’aggiungono oggi la paura del futuro e il desiderio di far precedere ad
un’eventuale unione formalizzata un periodo di «prova» [20]; ma
tali aspetti non interessano direttamente il giurista, cui spetta invece
l’onere di stabilire se e quali condizioni la convivenza e la nascita di figli
al di fuori del vincolo sancito dal matrimonio diano luogo ed effetti rilevanti
per il diritto.
Elementi
costitutivi della famiglia di fatto [21] sono
usualmente e tradizionalmente ritenuti i due seguenti: il primo, di carattere
soggettivo, consiste nell’affectio,
vale a dire nella partecipazione di ognuno dei partners
alla vita dell’altro; mentre il secondo, di carattere oggettivo, è costituito
dalla stabile convivenza, quindi da
un impegno serio e duraturo, basato su una tendenziale fedeltà, in assenza di
qualsivoglia formalizzazione. Da questo primo inquadramento del fenomeno, nei
suoi termini generali, prendevano poi le mosse, prima della novella del 2016,
posizioni e orientamenti peculiari, nell’ambito dei quali si segnalava chi
poneva l’accento, attribuendogli maggiore valenza, sull’elemento soggettivo [22],
inteso come cardine del fenomeno; altri, invece, valorizzavano maggiormente
l’elemento oggettivo [23]. La
constatazione vale pur dopo l’approvazione della citata riforma del 2016, il
cui co. 36 definisce come segue la situzione in esame: «Ai fini delle
disposizioni di cui ai commi da 37 a 67 si intendono per “conviventi di fatto”
due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di
reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela,
affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile».
In
proposito un ampio dibattito si è aperto sul rilievo che dovrebbe svolgere la
(possibile) iscrizione anagrafica, secondo quanto disposto dal co. 37 della
citata normativa del 2016. Al riguardo, mentre per una parte minoritaria degli
interpreti siffatta iscrizione avrebbe valore costitutivo [24], per
la condivisibile opinione dominante essa costituisce solo possibile fonte di
prova della sussistenza del legame di fatto [25]. La
giurisprudenza di legittimità ha, dal canto suo, chiarito che la convivenza non
va confusa con la coabitazione [26].
Tradizionalmente
si sostiene, in via generale, che è famiglia di fatto quella che presenta nella
sostanza lo stesso contenuto della convivenza
che ha alla base il matrimonio: «tra i soggetti che vivono come
coniugi more uxorio, secondo il corrente modo
di esprimersi, si stabiliscono vincoli di fedeltà, coabitazione, assistenza, e
di reciproca contribuzione agli oneri patrimoniali» [27].
Rispetto alla famiglia legittima, in cui s’impone il «dover essere», il tratto
differenziale della famiglia di fatto viene individuato nell’«essere» del
rapporto [28], con
ciò evidenziando come ogni valutazione relativa al fenomeno debba avvenire
sulla base del principio di effettività,
secondo, del resto, quanto già rilevato in tema di rapporti (di qualsiasi tipo)
«di fatto».
Ci si
domanda poi se possa considerarsi meritevole di tutela la convivenza more uxorio che presenti i contenuti sopra descritti e
che tuttavia si caratterizzi per l’essere i partners
– o anche uno solo di essi – privi dello stato libero.
In dottrina, prima della riforma del 2016, si sosteneva che, nell’ipotesi in
cui uno dei soggetti coinvolti difettasse dello stato libero, la convivenza
sarebbe stata contra legem, divenendo immeritevole
di tutela, a causa della (inammissibile) violazione della previsione di favore
per il nucleo familiare solennemente costituitosi [29]. Tale
posizione non sembrava però condivisibile ai più, essendosi rilevato
esattamente che al giorno d’oggi appare difficile negare che la separazione è,
dal punto di vista funzionale, strettamente legata al divorzio, di modo che il
coniuge separato nella maggior parte dei casi considera terminata
definitivamente l’esperienza matrimoniale [30]. La
questione è stata però riaperta dalla «riforma Cirinnà», per effetto di un
evidente tentativo di «matrimonializzazione» del rapporto in oggetto [31], che
ha condotto ad introdurre anche nel faux
ménage situazioni in tutto e per tutto equiparabili agli impedimenti
matrimoniali, tra cui, per l’appunto l’assenza di vincoli da matrimonio o da
unione civile. Nonostante una parte della dottrina abbia inteso limitare la
disposizione all’ipotesi di legami del genere tra i soli conviventi, la tesi
maggioritaria riconosce che gli effetti della novella del 2016 possono
dispiegarsi solo per quelle coppie di cui nessuno (neppure uno solo) di essi
sia legato da un persistente legame matrimoniale (ancorchè «allentato» da
separazione legale) o da unione civile [32].
In
quest’ottica neppure vanno trascurati i riflessi che le nozioni di «famiglia» e
di «legami familiari» proprie di altri
ordinamenti possono dispiegare sul nostro dato normativo, specie
allorquando i diversi sistemi vengono a collidere [33].
Sintomatiche
le questioni legate alle problematiche dell’immigrazione e dei ricongiungimenti
familiari, sia nei casi riguardanti cittadini extraeuropei
soggiornanti in Italia, sia in relazione alle ipotesi che vedono protagonisti
cittadini comunitari o italiani, laddove la vigente disciplina italiana
espressamente esclude le coppie non unite in matrimonio dall’esercizio di tale
diritto. Nel primo caso, infatti, l’art. 29, d. legisl. n. 286 del 1998 (T.U.
in materia di immigrazione e trattamento dello straniero), espressamente limita
al «coniuge» dello straniero residente la possibilità di ottenere il
ricongiungimento familiare, escludendo dai beneficiari il partner
non coniugato. Analoga impostazione si desume dalla disciplina del
ricongiungimento familiare dei cittadini comunitari di cui alla direttiva
recepita con d. legisl. 6 febbraio 2007, n. 30: l’art. 2, 1° co., lett. b), n. 2), infatti, esclude dalla nozione di «familiare»,
rilevante ai fini della libera circolazione, il partner
che abbia contratto con il cittadino europeo un’unione registrata sulla base
della legislazione di uno Stato membro, se la legislazione dello Stato membro
ospitante non equipara l’unione registrata al matrimonio; a quanto pare, il
medesimo principio riguarda anche i familiari di cittadini italiani non aventi
la cittadinanza italiana, in forza del disposto dell’art. 23 d. legisl. n.
30/2007 [34].
Con
riguardo al ricongiungimento familiare in Italia di cittadino extracomunitario,
va considerato che, prima della riforma del 2016, la S.C. [35] aveva
negato, anche in relazione ad una coppia eterosessuale, siffatta possibilità,
pur in presenza dello stato di gravidanza della cittadina italiana, convivente
con extracomunitario. La Corte, nel rigettare il ricorso del cittadino straniero,
aveva spiegato che il convivente non può essere considerato come «familiare»
della donna in quanto tra i due esiste una semplice unione di fatto, né una
diversa interpretazione «può desumersi dagli artt. 8 e 12 della Convenzione
Europea dei Diritti dell’Uomo o dall’art. 9 della Carta di Nizza (recepita dal
Trattato di Lisbona, ratificato dall’Italia l’8 agosto 2008, ma non ancora da
tutti gli Stati membri) in quanto tali disposizioni escludono il riconoscimento
automatico di unioni diverse da quelle previste dagli ordinamenti interni,
salvaguardando l’autonomia dei singoli Stati nell’ambito dei modelli
familiari».
Peraltro,
si è rilevato che, dopo l’introduzione della «riforma Cirinnà», appare
problematico fornire la prova dell’esistenza di un rapporto familiare, che
dovrebbe essere fornita tramite quella certificazione anagrafica che i comuni
italiani possono rilasciare agli stranieri solo se muniti di regolare permesso
di soggiorno (quel permesso che, invece, dovrebbe essere proprio il frutto
dell’accertata convivenza).
In
questo clima di incertezza va segnalata peraltro un’importante decisione del
Consiglio di Stato [36],
secondo cui, in conformità al fondamentale principio di eguaglianza
sostanziale, ormai consacrato, a livello di legislazione interna, anche
dall’art. 1, co. 36, legge 20 maggio 2016, n. 76, nonché alle indicazioni
provenienti dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (che, anche in questa
materia, si è premurata di chiarire che la nozione di «vita privata e
familiare», contenuta nell’art. 8, par. 1, della Convenzione europea dei
diritti dell’uomo include, ormai, non solo le relazioni consacrate dal
matrimonio, ma anche le unioni di fatto ed anche, in generale, i legami
esistenti tra i componenti del gruppo designato come famiglia naturale), va
considerato illegittimo il diniego alla richiesta di rilascio del permesso di
soggiorno per motivi di lavoro subordinato, opposto allo straniero
extracomunitario in considerazione della mancanza di un reddito minimo idoneo
al suo sostentamento sul territorio nazionale se, nonostante la sostanziale
natura fittizia del rapporto di lavoro (nella specie, di collaborazione
domestica), sussiste un rapporto di convivenza evidente e dichiarato, che
avrebbe onerato la Questura a valutare, ai sensi dell’art. 5, co. 9, d.lgs. 25
luglio 1998, n. 286, il rilascio, in alternativa, di un permesso di soggiorno
per motivi familiari ai sensi dell’art. 30, co. 1, lett. b), dello stesso
decreto.
La
citata norma, infatti, seppure introdotta per regolare i rapporti sorti da
unioni matrimoniali, non può non applicarsi, in base ad una interpretazione
analogica imposta dall’art. 3, co. secondo, Cost., anche «al partner con cui il cittadino dell’Unione
abbia una relazione stabile debitamente attestata con documentazione
ufficiale», secondo la formula prevista, seppure in riferimento al diritto di
soggiorno di un cittadino di uno Stato membro UE dei suoi familiari in un altro
Stato membro, l’art. 3, co. 2, lett. b), d.lgs. 6 febbraio 2007, n. 30 [37].
3.
L’evoluzione della famiglia di fatto in dottrina e giurisprudenza prima della
novella del 2016.
È
doveroso evidenziare che, in passato, la convivenza come marito e moglie tra
persone non coniugate veniva considerata in senso fortemente negativo ed era
nel contempo individuata con una diversa terminologia [38]. Fino
agli anni Sessanta dello scorso secolo, infatti, con riferimento alle
situazioni in discorso, si discuteva di concubinato [39]. Con
il suddetto termine, impiegato con un’accentuata accezione negativa, si intendeva quel modello familiare
non fondato sul matrimonio e dunque ritenuto non meritevole di tutela da parte
dell’ordinamento giuridico, nell’ottica secondo cui ogni ipotesi di riconoscimento
giuridico concesso alle convivenze di fatto avrebbe importato un’automatica
degradazione dello status della famiglia matrimoniale [40]. Si noti che, curiosamente, in Francia al termine concubinage non viene attribuita alcuna valenza negativa,
al punto che la legge sui «Pacs» (Loi n. 99-944 du 15 novembre 1999, art. 3) ne
ha sancito da tempo l’ingresso nel Code Civil (cfr.
art. 515-8, secondo cui «Le concubinage est une union de
fait, caractérisée par une vie commune présentant un caractère de stabilité et
de continuité, entre deux personnes, de sexe différent ou de même sexe, qui
vivent en couple»).
Successivamente,
il mutamento del costume sociale
ed alcune aperture a livello legislativo e giurisprudenziale [41] hanno consentito di superare i pregiudizi ancorati ad
una concezione tradizionale della famiglia, ravvisando così nella convivenza more uxorio un’autonoma formazione sociale non necessariamente caratterizzata da un
disvalore rispetto alla famiglia fondata sul matrimonio [42]. Successivo ed ulteriore passaggio
dell’affrancamento della famiglia di fatto è stato il nuovo
orientamento giurisprudenziale e, prima ancora, dottrinale, che, soprattutto
facendo leva sull’interpretazione dell’espressione «formazione sociale» di cui
all’art. 2 Cost., ha attenuato in
modo considerevole le differenze legislative intercorrenti tra la famiglia di
fatto e la famiglia matrimoniale [43].
Sempre a livello esegetico è da segnalare il contrasto esistente in dottrina
nella lettura dell’art. 29, 1° co., Cost.,
tra coloro che – in un’ottica giusnaturalista – ravvisano nella citata norma un
mero riconoscimento a livello legislativo della società naturale basata sulla
famiglia matrimoniale e chi, invece, attribuendo alla disposizione in discorso
una funzione costitutiva, vede nella famiglia «una formazione frutto di
aggregazione all’interno della società (...) operante in quanto riconosciuta
dall’ordinamento» [44].
Il
superamento della concezione tradizionale consente oggi di individuare
nell’art. 29 Cost. un favor del Costituente per la famiglia fondata sul matrimonio [45], ma non necessariamente la previsione di un trattamento
di sfavore per la famiglia non fondata sul matrimonio, la cui tutela trova anzi
un fondamento nella stessa Carta Costituzionale all’art. 2, ove si intendono
garantire i diritti inviolabili dell’uomo nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità [46].
Appare dunque ragionevole affermare, con la
migliore dottrina formatasi ben prima della riforma del 2016, che le limitazioni che nel nostro ordinamento
derivano dal riconoscimento costituzionale della famiglia come società naturale
fondata sul matrimonio non possono essere
intese come il segno di un atteggiamento di riprovazione verso i vincoli non
formalizzati [47].
Il riconoscimento del
fenomeno, sul piano costituzionale, è dunque rinvenuto dalla dottrina e dalla
giurisprudenza nell’art. 2 Cost. Come
osserva autorevole dottrina «l’idea secondo la quale anche la famiglia di fatto
rientra tra le “formazioni sociali” previste dalla Costituzione può essere
condivisa. Essa tuttavia non comporta che la famiglia naturale sia
giuridicamente equiparata alla famiglia legittima ma, piuttosto, significa che
l’ordinamento deve tutelare l’interesse essenziale della persona a realizzare
nella famiglia, quale prima forma di convivenza umana, e cioè quale società
naturale» [48].
La
norma in questione, infatti, se considerata come norma in bianco, e non
semplicemente riassuntiva di altre, è in grado di assicurare in via immediata
tutela giuridica a tutte quelle forme associative che si sviluppano nella
realtà sociale in vista dello svolgimento della personalità dei singoli [49].
Ulteriore conferma della possibilità di riconoscere, almeno sotto determinati
aspetti, una rilevanza normativa al fenomeno della famiglia di fatto è
costituita dal complesso di interventi legislativi – che si esporranno nel prosieguo [50] – i
quali, già da epoca ben anteriore alla riforma del 2016, nei settori
ordinamentali più diversi, erano venuti a ricollegare all’esistenza di una
convivenza una qualche conseguenza giuridica [51],
giacché, già diversi anni or sono, si poteva affermare che «l’analisi della
legislazione speciale, nell’arco delle vicende che l’hanno contrassegnata
storicamente, non si presta né ad essere sopravvalutata nella sua portata (fino
a ravvisare in essa una sorta di riconoscimento di famiglia di fatto come fonte
di uno status paraconiugale), né ad essere
relegata sul piano della “eccezionalità” (giudizio che, semmai, era valido in
un diverso quadro storico e costituzionale), né, infine, ad essere ritenuta di
scarso rilievo ai fini di una verifica della linea evolutiva lungo la quale si
viene manifestando la rilevanza giuridica del fenomeno in esame» [52].
Altri interventi del giudice delle leggi
avevano poi, nel corso degli anni, avvicinato maggiormente la famiglia di fatto
alla famiglia matrimoniale, sancendo l’illegittimità costituzionale della norma
che non contemplava tra i successibili nella titolarità del contratto di locazione il convivente more uxorio
del conduttore defunto, nonché dell’affidatario della prole, in caso di rottura
della convivenza [53] e
dichiarando contraria ai principi della carta costituzionale una legge
regionale della Regione Piemonte nella parte in cui non prevedeva la cessazione
della stabile convivenza come causa di successione nella assegnazione di
alloggi di edilizia popolare
ed economica [54]. In
un’altra decisione [55], in
tema di tutela dei minori delle coppie di fatto, si era peraltro affermato che
«la convivenza more uxorio rappresenta l’espressione
di una scelta di libertà dalle regole
che il legislatore ha sancito in dipendenza dal matrimonio, sicché l’estensione
automatica di queste regole alla famiglia di fatto potrebbe costituire una
violazione dei principi di libera determinazione delle parti» [56].
Da
segnalare poi alcune decisioni che, pur non presentandosi come di accoglimento,
avevano dichiarato infondate le relative questioni di costituzionalità,
proponendo ai rispettivi giudici a quibus una lettura costituzionalmente orientata
di alcune norme concernenti in particolare la tutela della prole. Si pensi ad
esempio a Corte Cost. 13 maggio 1998, n. 166, cit., sull’applicabilità
dei principi in tema di diritto di abitazione
sulla casa familiare ex art. 155 c.c.
(nella versione anteriore alla riforma sull’affidamento condiviso) alla
famiglia di fatto, nonché a Corte Cost. 26 ottobre 2005, n. 394, sulla
trascrizione del provvedimento di assegnazione della casa familiare nel caso di
rottura della convivenza more uxorio in presenza di prole minorenne
[57].
Notevole
appariva poi anche, già da epoca ben precedente alla riforma del 2016, la
contiguità tra famiglia matrimoniale e famiglia di fatto nel diritto e nel
processo penale, avuto
riguardo a quelle decisioni che erano venute ad estendere, ad esempio,
l’applicazione del reato di cui all’art. 572 c.p. e dell’aggravante ex art. 61, n. 11, c.p. anche ai rapporti
extramatrimoniali [58].
L’art. 199, 3° co., lett. a), c.p.p., dal canto suo, prevede
fra coloro che possono astenersi a testimoniare anche «chi, pur non essendo
coniuge dell’imputato, come tale conviva o abbia convissuto con esso» [59].
4. La
regolamentazione legislativa della famiglia di fatto prima della novella del
2016.
È
agevole rimarcare che la decisione di regolamentare, o meno, il fenomeno delle
famiglie di fatto è un problema, prima ancora che giuridico, di politica del diritto e di
bilanciamento tra il rispetto della libera autonomia dei privati e l’intervento
delle pubbliche istituzioni [60].
Dinanzi al nostro Parlamento, già da epoca ben anteriore alla riforma del 2016,
erano state presentate svariate proposte volte a
fornire una disciplina organica al fenomeno in esame [61], tutte
rimaste senza esito, sino all’approvazione della novella citata. Occorre
comunque prendere atto della circostanza che, malgrado tale singolare latitanza
legislativa (che ha visto a lungo il nostro Paese relegato nel novero di quelli
più arretrati, nel composito panorama del nostro Continente), non poche
disposizioni erano intervenute a disciplinare, nel corso degli anni, svariati aspetti dei rapporti giuridici
che possono venirsi ad intessere nell’ambito di un faux ménage.
Per
citare solo taluni tra i più significativi e meno remoti esempi, si potrà
ricordare in primo luogo l’equiparazione del convivente al coniuge
per effetto del disposto degli artt. 330, 333, 342-bis
e 342-ter c.c., così come, rispettivamente, modificati e
introdotti dagli artt. 37, l. 28 marzo 2001, n. 149 (Modifiche alla legge 4
maggio 1983, n. 184, recante «Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei
minori», nonché al titolo VIII del libro primo del codice civile) e 2, l. 5
aprile 2001, n. 154 in materia di violenza nelle
relazioni familiari [62].
Un
altro caso che si potrà ricordare attiene all’equiparazione al coniuge della
«persona stabilmente convivente», operata dalla riforma in tema di amministrazione di sostegno (cfr.
artt. 408, 410, 411, 417 e 426 c.c., così come modificati dalla l. 9 gennaio 2004,
n. 6), per effetto della quale alla persona stabilmente convivente compete, ad
esempio, la legittimazione attiva in ordine alla proposizione della domanda di
interdizione, inabilitazione o di nomina di amministratore di sostegno, oltre
che il diritto di essere preferita nella scelta dell’amministratore di sostegno
(si noti poi che, ai sensi del novellato art. 407 c.c., il nominativo del
convivente va comunque indicato nel ricorso per la nomina dell’amministratore
di sostegno). Dovrà aggiungersi al riguardo che il co. 48 della novella del
2016 ha stabilito, in modo del tutto superfluo, che «Il convivente di fatto può
essere nominato tutore, curatore o amministratore di sostegno, qualora l’altra parte
sia dichiarata interdetta o inabilitata ai sensi delle norme vigenti ovvero
ricorrano i presupposti di cui all’articolo 404 del codice civile», mentre il
co. 47 ha aggiunto, all’art. 712, cpv., c.p.c., il «convivente di fatto»
all’elenco delle persone il cui nominativo va indicato nei ricorsi per
interdizione e inabilitazione.
Anche
la disciplina in tema di procreazione medicalmente
assistita (l. 19 febbraio 2004, n. 40) contiene
una disposizione (cfr. l’art. 5) secondo cui «Fermo restando quanto stabilito
dall’articolo 4, 1° co., possono accedere alle tecniche di procreazione
medicalmente assistita coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o
conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi». Al riguardo,
quanto mai significativo appare il fatto che il legislatore si sia sentito in
obbligo di specificare che le coppie conviventi che vengono qui in rilievo
possono essere solo quelle di persone di sesso diverso, temendo che, in caso di
mancato inserimento di siffatto inciso, l’interprete avrebbe potuto arrivare
alla conclusione che le tecniche di procreazione medicalmente assistita
avrebbero potuto ritenersi aperte anche alle coppie omosessuali.
Andranno
poi citate le disposizioni introdotte dalla l. 8 febbraio 2006, n. 54
(Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso
dei figli), che, pur senza mai espressamente citare la famiglia di fatto,
vennero a dettare principi in tema di affidamento
condiviso e, più in generale, per la gestione del rapporto
rispetto alla prole dei coniugi in crisi sicuramente estensibili (cfr. art. 4,
l. cit., secondo cui «Le disposizioni della presente legge si applicano anche
in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del
matrimonio, nonché ai procedimenti relativi ai figli di genitori non
coniugati») alle coppie (già) conviventi more uxorio.
Al riguardo dovrà aggiungersi che i principi introdotti da tale riforma sono
stati successivamente trasposti negli attuali artt. da 337-bis
a 337-octies c.c., nel contesto di un apposito capo, intitolato
«Esercizio della responsabilità genitoriale
a seguito di separazione, scioglimento, cessazione degli effetti civili,
annullamento, nullità del matrimonio ovvero all’esito di procedimenti relativi
ai figli nati fuori del matrimonio», introdotto dal già citato art. 55, 1° co.,
d. legisl. 28 dicembre 2013, n. 154, a decorrere dal 7 febbraio 2014.
Potrà
ancora ricordarsi che l’art. 4, 1° co., d.p.r. 30 maggio 1989, n. 223 definisce
la famiglia ai fini anagrafici come «un
insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità,
adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso comune» [63].
Si
tenga poi presente che l’art. 6, 4° co., l. 4 maggio 1983, n. 184 (al cui
commento si rinvia), così come sostituito dall’art. 6, l. 28 marzo 2001, n.
149, consente l’adozione «anche
quando i coniugi abbiano convissuto in modo stabile e continuativo prima del
matrimonio per un periodo di tre anni, nel caso in cui il tribunale per i
minorenni accerti la continuità e la stabilità della convivenza, avuto riguardo
a tutte le circostanze del caso concreto» [64].
Potrà
poi ancora farsi menzione dell’art. 129, 2° co., d. legisl. 7 settembre 2005,
n. 209, ai sensi del quale non è considerato terzo e non ha diritto ai benefici
derivanti dai contratti di assicurazione obbligatoria,
limitatamente ai danni alle cose, il convivente more uxorio.
Collocandosi
su di un altro piano potrà ancora aggiungersi che, prima della novella del
2016, con la relativa previsione dell’iscrizione anagrafica delle convivenze di
fatto etero- ed omosessuali, nonché dell’introduzione del nuovo istituto
dell’unione civile per le coppie del medesimo sesso, svariati comuni italiani avevano provveduto alla creazione di
appositi registri delle unioni civili riguardanti le coppie di fatto, sia
etero- che omosessuali. Lo scopo di questi registri era quello di certificare
pubblicamente una condizione soggettiva, giuridicamente rilevante, ma che non
determinava la creazione di un nuovo stato giuridico. Gli stessi svolgevano
essenzialmente due funzioni: quella probatoria della relazione personale di
convivenza e quella della estensione alle convivenze di tutti i procedimenti,
benefici ed opportunità di varia natura riconosciuti alle coppie sposate e
assimilate, nei limiti delle competenze comunali [65].
5.
Famiglia di fatto e filiazione.
Il tema
della famiglia di fatto si intreccia, in taluni suoi aspetti, con la disciplina
della filiazione (non toccata, per lo
meno direttamente, dalla novella del 2016). Pur trattandosi di due situazioni
assolutamente distinte, la cui coesistenza è solo eventuale e non necessaria [66], è qui
opportuno svolgere alcune considerazioni in ordine al ruolo che le norme
introdotte a tutela dei figli nati fuori dal matrimonio rivestono nel quadro
dell’evoluzione della convivenza di fatto.
Come si
è già accennato in precedenza, tra gli interventi normativi che hanno
contribuito al graduale riconoscimento della famiglia di fatto assume
particolare importanza la novella del 1975 che ha essenzialmente dissolto le
discriminazioni tra figli (un tempo definiti) naturali
e figli (un tempo definiti) legittimi. In tal modo si è in buona
parte reciso quel collegamento che faceva dipendere i diritti del figlio dal
tipo di relazione, matrimoniale o extramatrimoniale, dei genitori da cui veniva
concepito ed il figlio gode di uno status sostanzialmente unitario a
prescindere dal modo in cui il rapporto di filiazione sia venuto in essere.
Quanto sopra, ovviamente, a maggior ragione, a seguito della riforma della filiazione del
2012/2013, sebbene quest’ultima mantenga ancora una fondamentale differenza nel
modo stesso di costituzione del rapporto, poiché essa continua ad esigere, in
assenza del matrimonio, la presenza del riconoscimento (o, in alternativa,
della dichiarazione giudiziale), laddove per la prole «matrimoniale» la
presenza del vincolo tra i genitori continua ad indurre la secolare, automatica
costituzione del rapporto di filiazione rispetto al marito della madre (pater is est quem nuptiae demonstrant), con conseguente
persistente discriminazione con riferimento alle modalità di contestazione del
rapporto di discendenza.
Va
detto che la giurisprudenza,
anche sulla base del rinvio posto all’epoca dall’art. 261 c.c., aveva precorso
i tempi, ritenendo ad esempio applicabile l’art. 148 c.c. anche
alla famiglia non fondata sul matrimonio [67]: si v.
ora quanto previsto dall’art. 316-bis c.c., inserito
dall’art. 40, 1° co., d. legisl. 28 dicembre 2013, n. 154, a decorrere dal 7
febbraio 2014.
È poi
opportuno ricordare che l’art. 317-bis, 2° co., c.c.,
introdotto dalla riforma del 1975 (oggi di contenuto diverso; la materia è
ora regolata dagli artt. 337 bis ss. c.c.), in tema di potestà
genitoriale, attribuiva la potestà (oggi responsabilità) sul figlio ad entrambi
i genitori, qualora esso fosse stato riconosciuto da entrambi ed a condizione
che essi fossero conviventi. In tal modo l’ordinamento
veniva a riconoscere implicitamente rilevanza alla famiglia di fatto, non
soltanto in relazione alla condizione del figlio – rispetto a cui, nell’ipotesi
in cui i genitori convivessero, la soggezione
alla potestà parentale (oggi responsabilità genitoriale) era già in allora
identica a quella che si configurava nel caso di famiglia matrimoniale – ma
anche nei rapporti tra i genitori conviventi: ad essi si applicavano infatti la
disciplina di cui all’art. 316 c.c. per la risoluzione dei conflitti circa
l’esercizio delle potestà, ma anche le norme in tema di doveri verso i figli
(art. 147 c.c.) e di concorso negli oneri (art. 148 c.c.) previste nel Titolo
VI del Libro I del codice civile, dedicato al matrimonio [68].
Venendo
ai rapporti tra conviventi, il principale interrogativo che si poneva prima
della novella del 2016 atteneva alla questione se e in che misura i diritti ed
i doveri nascenti con la celebrazione delle nozze potessero essere ritenuti
applicabili anche alle convivenze more uxorio. In
rapporto ai rapporti personali,
si osservava in dottrina che gli obblighi legali che il codice civile impone ai
coniugi divengono, all’opposto, degli indici
in base a cui valutare l’esistenza, o meno, di una famiglia di fatto [69]. Il
rilievo vale ancora oggi, nella misura in cui il co. 36 della l. 20 maggio 2016,
n. 76 prevede, per l’appunto, che, per l’esistenza di una convivenza di fatto
rilevante per la novella, la coppia sia unita stabilmente proprio da quei
«legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale» che
per i coniugi formano oggetto di obblighi reciproci, ai sensi dell’art. 143
c.c. (così come accade per i soggetti civilmente uniti, ai sensi del co. 11
della riforma in oggetto).
Il
vigente dato normativo riflette precedenti tentativi di legislazione. Così, ad
es., l’art. 1 del d.d.l. governativo, approvato nella seduta del Consiglio dei
Ministri dell’8 febbraio 2007, dal titolo «Diritti e doveri delle persone
stabilmente conviventi», successivamente accantonato, prevedeva, quale
presupposto per l’operatività delle disposizioni relative, che le due «persone
maggiorenni e capaci, anche dello stesso sesso» che intendessero dare vita ai
rapporti giuridici in questione, dovessero essere «unite da reciproci vincoli
affettivi» e che le stesse, oltre a convivere stabilmente, si prestassero
«assistenza e solidarietà materiale e morale». Ciò non significava, tuttavia, e non significa tutt’ora che i citati rapporti
sociali siano vincolanti, come invece lo sono per i coniugi,
considerato che la mancata osservanza di tali precetti non determina il sorgere
di alcuna sanzione [70],
sebbene tutte le prestazioni rientranti nell’assistenza materiale e nel
soddisfacimento delle comuni esigenze di vita nell’ambito della convivenza more uxorio di certo non costituiscano dazioni indebite,
come si rileverà più avanti [71].
È da
evidenziare, inoltre, che, come si è già avuto modo di dire [72], in
tema di misure contro la violenza nelle relazioni
familiari, nella l. 5 aprile 2001, n. 154, il legislatore ha
sostanzialmente parificato la
condizione del coniuge sposato a quella del partner
extramatrimoniale. In forza di tale riforma risalente al 2001, infatti, sono
stati introdotti nel codice civile gli artt. 342-bis
ss. In particolare l’art. 342-bis c.c. dispone che «quando la
condotta del coniuge o di altro convivente è causa di
grave pregiudizio all’integrità fisica o morale ovvero alla libertà dell’altro
coniuge o convivente, il giudice, su istanza
di parte, può adottare con decreto uno o più dei provvedimenti di cui all’art.
342-ter c.c.».
Tra
siffatti provvedimenti rientra anche quello con cui il giudice dispone (cfr.
art. 343-ter c.c.) «il pagamento
periodico di un assegno a favore delle persone conviventi che, per effetto dei
provvedimenti di cui al primo co., rimangono prive di mezzi adeguati, fissando
modalità e termini di versamento e prescrivendo, se del caso, che la somma sia
versata direttamente all’avente diritto dal datore di lavoro dell’obbligato,
detraendola dalla retribuzione allo stesso spettante». Significativo, dunque,
che l’unica norma la quale prevede l’erogazione di un assegno, sostanzialmente, di mantenimento a carico dell’ex convivente, sia stata inserita, addirittura (e, a
quanto pare, senza lo strepito che normalmente accompagnava siffatto genere di
proposte) nel codice civile.
Con
riguardo a questa osservazione si dovrà pure considerare che la riforma del
2016 ha introdotto (cfr. il co. 65) la possibilità che il giudice imponga ad
uno degli ex conviventi la prestazione di alimenti, a determinate condizioni e
per un tempo limitato [73]. La
riforma ha comunque realizzato una qualche forma di avvicinamento alla
condizione del coniuge separato, o, se si vuole dell’ex coniuge, pur non
avendo, come noto, il divorziato diritto agli alimenti, ma solo, eventualmente,
ad un assegno di divorzio. Da un punto di vista più generale, prima della «riforma
Cirnnà», in dottrina si era pure da alcuni sostenuta, in modo più o meno ampio,
la possibilità di procedere all’applicazione analogica delle
disposizioni che governano i rapporti personali tra i coniugi [74].
Peraltro, la tesi maggioritaria e preferibile propendeva per la soluzione
negativa [75].
Le
conclusioni di cui sopra valevano e continuano a valere, in particolare, anche
per il dovere di contribuzione, che forma oggetto di obbligazione civile
vincolante per i coniugi ed i civilmente uniti, ma costituisce oggetto di
«mera» obbligazione naturale per i conviventi di fatto [76], salva
la possibilità di rendere siffatto rapporto giuridicamente vincolante mercé la
stipula di un contratto di convivenza [77]. La
riforma del 2016, come appena detto (a prescindere da ciò che attiene ad un
possibile contratto di convivenza), si è però comunque limitata a prevedere
limitatissimi effetti sul piano alimentare in caso di rottura (cfr. il co. 65)
e su quello del diritto di abitazione, in caso di recesso unilaterale dal
contratto di convivenza (cfr. il co. 61), così rendendo chiara, a contrariis, l’irriferibilità ai
conviventi di fatto delle norme codicistiche sui rapporti personali e sul
regime primario di contribuzione stabilite per i coniugi (in gran parte estese,
per effetto della novella del 2016, ai civilmente uniti).
Si è
poi sempre escluso, in dottrina, che possano concepirsi tra conviventi di fatto
controversie concernenti i rapporti personali,
rilevandosi come ogni questione ad essi attinente, se non risolta spontaneamente,
determini «una pura e semplice cessazione della convivenza» e l’insorgenza
eventuale di questioni patrimoniali [78].
Occorre
dunque concludere sul punto nel senso che i comportamenti da cui si inferisce
l’esistenza di una famiglia di fatto sono caratterizzati dall’assenza del
crisma della giuridicità e, per conseguenza, dalla mancanza di coercibilità [79]. La
doverosità morale che connota detti comportamenti può però costituire il
substrato della fattispecie dell’obbligazione naturale ogniqualvolta il dovere
morale scaturente dalla convivenza sia suscettibile di essere adempiuto
mediante una prestazione di carattere patrimoniale [80].
Sempre
in tema di inestensibilità in via analogica (o per mezzo di altri procedimenti
ermeneutici) alla famiglia di fatto di istituti di carattere generale dettati
per il matrimonio, potrà sottolinearsi che tra conviventi di fatto, a
differenza di quel che accade tra i coniugi, non si fa luogo alla sospensione della prescrizione. La
Consulta, invero, con una decisione risalente al 1998 [81], ha
infatti dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 2941, n. 1 c.c., in relazione agli artt. 2 e 3 Cost., nella parte in
cui non prevede che il termine di prescrizione resti sospeso anche con riguardo,
per l’appunto, al convivente more uxorio. Neppure su questo punto
specifico la novella del 2016 ha ritenuto di dover intervenire.
Altre
questioni attinenti ai rapporti personali dei conviventi di fatto sono state
affrontate ex novo dalla riforma del
2016, per ciò che attiene, in particolare, ai c.d. «profili esterni» del
rapporto more uxorio. Si pensi, in
particolare, ai diritti del coniuge previsti dall’ordinamento penitenziario
(cfr. il co. 38), dalle disposizioni in tema di assistenza ospedaliera (cfr. il
co. 39), o alle situazioni previste in merito alla possibilità di designare il
convivente quale rappresentante per le decisioni in materia di salute, o, per
l’ipotesi di morte, per ciò che attiene alla donazione di organi, ed alle
celebrazioni funerarie [82].
Un tema
strettamente collegato a questi, ma non affrontato dalla novella del 2016,
attiene a quella particolare forma di assistenza familiare costituita dal
permesso mensile retribuito per l’assistenza alla persona con handicap in situazione di gravità. Al
riguardo è intervenuta una decisione della Consulta [83],
stabilendo che la ratio legis di tale
permesso mensile retribuito è quello di favorire l’assistenza alla persona
affetta da handicap grave in ambito
familiare. Per cui, lo scopo primario della relativa legge è quello di
assicurare in via prioritaria la continuità nelle cure e nell’assistenza del
disabile che si realizzino in ambito familiare. Il diritto alla salute
psicofisica, comprensivo della assistenza e della socializzazione, va dunque
garantito alla persona con handicap
in situazione di gravità, sia come singola che in quanto facente parte di una
formazione sociale, per cui, ai sensi dell’art. 2 Cost., deve intendersi anche
la coppia di fatto. Il soggetto da proteggere, ha ricordato in sostanza la
Corte, è il soggetto portatore di handicap,
che non può essere privato della possibilità di ricevere assistenza nell’ambito
della sua comunità di vita, altrimenti il suo diritto alla salute verrebbe ad
essere irragionevolmente compresso, solo a causa della mancanza di un rapporto
di parentela o di coniugio. La Corte ha pertanto dichiarato la illegittimità
costituzionale dell’art. 33, co. 3, l. n. 104/1992, nella parte in cui non
include il convivente e, con ciò, garantendo la possibilità di richiedere il
permesso di lavoro per assistere il convivente con disabilità grave.
Le
disposizioni appena citate della «riforma Cirinnà» ricalcano, come detto, i
diritti dei coniugi, talora peraltro sopravanzandoli, come nel caso delle norme
relative alle c.d. «disposizioni anticipate di trattamento» (o d.a.t.). Sul
tema è però intervenuta successivamente la l. 22 dicembre 2017, n. 219, il cui
art. 4 stabilisce, tra l’altro, che «Ogni persona maggiorenne e capace di
intendere e di volere, in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi
e dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle
sue scelte, può, attraverso le DAT, esprimere le proprie volontà in materia di
trattamenti sanitari, nonchè il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti
diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari. Indica
altresì una persona di sua fiducia, di seguito denominata “fiduciario”, che ne
faccia le veci e la rappresenti nelle relazioni con il medico e con le strutture
sanitarie». Il fiduciario può dunque essere oggi qualunque soggetto, mentre il
convivente viene espressamente citato dalla legge del 2017, agli artt. 1 e 5,
come destinatario del diritto a ricevere informazioni sullo stato di salute del
partner, «sul possibile evolversi della
patologia in atto, su quanto il paziente può realisticamente attendersi in termini
di qualità della vita, sulle possibilità cliniche di intervenire e sulle cure
palliative» [84].
La
riforma del 2016 s’è illusa di poter liquidare la questione dei rapporti
patrimoniali tra conviventi dettando norme in tema di contratti di convivenza;
essa ha peraltro tralasciato di normare tutta una serie di questioni che, a
prescindere dalla sussistenza di rapporti di fonte negoziale, dottrina e
giurisprudenza avevano ampiamente trattato da anni, se non, addirittura, da
secoli, proprio come nel caso dell’obbligazione naturale [85].
La
comunione di vita che contraddistingue la famiglia di fatto determina
inevitabilmente dei riflessi sul piano dei rapporti patrimoniali tra i conviventi more uxorio,
che vengono in rilievo in particolar modo nel momento della cessazione del ménage, palesando le esigenze di tutela della parte
debole della coppia che si ritrova spesso in una posizione sfavorevole a
seguito dell’interruzione del rapporto [86]. È in
tale fase terminale della convivenza, infatti, che sorgono i problemi in ordine
alla ripetibilità di quelle dazioni
precedentemente intercorse tra i membri della coppia, volte al soddisfacimento
delle necessità materiali della vita comune. Tali prestazioni vengono
ricondotte all’adempimento di obbligazioni naturali
ex art. 2034 c.c. sia dalla dottrina [87] che
dalla giurisprudenza [88]. Il
richiamo alla categoria delle obbligazioni naturali non è però scevro dal
necessario riferimento a criteri di proporzionalità, analoghi a quelli valevoli
per i coniugi ai sensi dell’art. 143 c.c. [89].
Prima
della decisione da ultimo citata, una pronunzia di legittimità, fortemente
criticata dalla dottrina [90], aveva
qualificato come donazioni – nulle per difetto di forma – i regali
fatti tra conviventi [91]. Per
la giurisprudenza successiva potrà segnalarsi una sentenza del 2014 [92], che
considera rientranti nel concetto di obbligazione naturale tra conviventi more uxorio non solo le contribuzioni versate per il ménage, bensì anche attribuzioni patrimoniali più ampie
(purché sempre nel rispetto di un rapporto di proporzionalità), quali quella
consistente nella creazione di una disponibilità finanziaria, versata da un
convivente all’altro per compensare la perdita del reddito
(undici milioni mensili delle «vecchie» lire) derivante dall’attività di
dirigente di un’importante società, cui la accipiens
aveva rinunciato per seguire in Cina il compagno.
Un
arresto emesso alla vigilia dell’approvazione della riforma del 2016 [93] ha
invece stabilito che «Le unioni di fatto, quali formazioni sociali rilevanti ex art. 2 Cost., sono caratterizzate da
doveri di natura morale e sociale, di ciascun convivente nei confronti
dell’altro, che si esprimono anche nei rapporti di natura patrimoniale e si
configurano come adempimento di un’obbligazione naturale ove siano rispettati i
principi di proporzionalità ed adeguatezza. Ne consegue che, in un tale
contesto, l’attività lavorativa e di assistenza svolta in favore del convivente
more uxorio assume una siffatta
connotazione quando sia espressione dei vincoli di solidarietà ed affettività
di fatto esistenti, alternativi a quelli tipici di un rapporto a prestazioni
corrispettive, quale il rapporto di lavoro subordinato, benchè non possa
escludersi che, talvolta, essa trovi giustificazione proprio in quest’ultimo,
del quale deve fornirsi prova rigorosa, e la cui configurabilità costituisce
valutazione, riservata al giudice di merito, insindacabile in sede di
legittimità ove adeguatamente motivata. (Nella specie, la S.C. ha confermato la
sentenza impugnata, che aveva negato la natura di obbligazione naturale al
contributo lavorativo della donna all’azienda del convivente, in quanto fonte
di arricchimento esclusivo dello stesso in luogo di quello dell’intera famiglia
cui detto apporto lavorativo era preordinato).
L’approvazione
della «riforma Cirinnà», come detto, non ha inciso in modo alcuno sulla
possibilità di continuare ad individuare la sussistenza tra conviventi di fatto
di obbligazioni naturali, secondo quanto sopra illustrato. La conclusione resta
valida, pur considerando l’introduzione del rimedio degli alimenti, secondo
quanto prescritto dal co. 65 della novella [94].
Altro
tema non affrontato dalla riforma del 2016 è quello della titolarità degli acquisti compiuti durante la convivenza.
Al riguardo si è evidenziato che, se, da una parte, la comunanza di vita può
dar luogo all’idea che tali acquisti siano stati effettuati con l’apporto di
entrambi i membri della coppia, dall’altra in tale contesto si può riproporre
l’esigenza di tutelare il partner debole [95]. Vi è
infatti chi ha ipotizzato in tale caso un’applicazione analogica degli artt.
177 ss. c.c. [96]. La
dottrina maggioritaria ha sempre escluso tuttavia che, in ordine ai rapporti
patrimoniali, potesse trovare applicazione analogica il regime di comunione legale dei beni [97].
Applicazione che, invece, oggi è rimessa alla volontà delle parti mercé la
stipula di un apposito contratto di convivenza (cfr. il co. 53 della legge 20
maggio 2016, n. 76).
Prima
della novella del 2016 era invece discussa l’applicabilità dell’art. 230-bis c.c. al caso dell’attività lavorativa
prestata dal convivente more uxorio, talvolta ammessa con lo
scopo di porre rimedio agli abusi, di cui è vittima il partner
più debole, che spesso caratterizzano la prestazione di lavoro all’interno
delle comunità familiari [98].
La
riforma del 2016, invece di estendere puramente e semplicemente l’art. 230-bis c.c. al convivente, ha dettato una
non perspicua normativa ad hoc
nell’art. 230-ter c.c. [99].
8. Il
rimedio dell’arricchimento ingiustificato: prima e dopo la novella del 2016.
La tesi
dell’ammissibilità dell’azione di arricchimento
ingiustificato a tutela del convivente che abbia
contribuito al ménage della famiglia di fatto, in
assenza di un’adeguata contribuzione da parte partner,
trovò, ormai diversi anni or sono, la sua prima elaborazione in uno studio di
diritto interno e comparato [100]. Essa,
prendendo le mosse dalla critica alla tradizionale impostazione
giurisprudenziale e dottrinale [101]
secondo cui «la volontaria prestazione esclude
l’ingiusto arricchimento», rinveniva la fonte di tale ultimo
principio nella preoccupazione, espressa da autorevole dottrina [102], di
evitare che un’indiscriminata concessione dell’azione di arricchimento in
funzione di recupero di una prestazione di facere
(eseguita in assenza di obblighi legali o contrattuali) si potesse tradurre
nell’imposizione di uno scambio non desiderato dal soggetto arricchito. Riprova
di ciò sta nel fatto che non sono certo mancati i casi in cui, a ben vedere, la
stessa giurisprudenza di legittimità ha dato luogo all’azione ex art. 2041 c.c. pur in presenza di un arricchimento
determinato dalla libera e volontaria ingerenza dell’impoverito nella sfera
patrimoniale dell’arricchito [103].
Come si
è cercato di dimostrare in altra sede, invero, i timori sull’imposizione di uno scambio non desiderato
sono destinati a venir meno allorquando l’attività dell’impoverito si sia
venuta a inserire in un contesto, per così
dire, obiettivamente caratterizzato dall’onerosità;
quando, cioè, per l’arricchito fosse chiaro che la prestazione ricevuta non
poteva intendersi come compiuta gratuitamente. Rilievo determinante è svolto
quindi dalla presenza di un «affidamento»
dell’impoverito nell’onerosità del rapporto, conosciuto, o quanto
meno conoscibile, dalla controparte proprio per effetto delle peculiari
relazioni sussistenti inter partes [104]. L’arricchimento provocato nell’accipiens dall’esecuzione dell’obbligazione naturale non potrà quindi ritenersi
giustificato se non a fronte di un adempimento reciproco del corrispettivo
dovere morale e sociale di contribuzione. In definitiva, deve
dirsi che la contribuzione prestata da uno solo dei conviventi a vantaggio
dell’altro determina in capo all’accipiens un
arricchimento ingiustificato allorquando quest’ultimo sia (in tutto o in parte)
inadempiente all’obbligazione naturale sullo stesso gravante: in tale ipotesi
sarà garantito il diritto della parte adempiente di ottenere una somma
corrispondente all’eccedenza della prestazioni eseguite rispetto a quelle
ricevute, così riportando i partners a una posizione di
sostanziale parità, appianando possibili divari tra le prestazioni eseguite in adempimento delle reciproche obbligazioni
naturali sugli stessi incombenti [105].
La
soluzione proposta dallo scrivente sembra avere rinvenuto accoglienza
favorevole anche dalla più recente giurisprudenza
di legittimità.
In un
caso risolto nel 2009 [106] la
Cassazione ha stabilito che, poiché «l’azione generale di arricchimento ha come
presupposto la locupletazione di un soggetto a danno dell’altro che sia
avvenuta senza giusta causa» non è dato invocare la mancanza o l’ingiustizia
della causa soltanto «qualora l’arricchimento sia conseguenza di un contratto,
di un impoverimento remunerato, di un atto di liberalità o dell’adempimento di
un’obbligazione naturale». Ne consegue, pertanto, che è «possibile configurare
l’ingiustizia dell’arricchimento da parte di un convivente more uxorio
nei confronti dell’altro in presenza di prestazioni a vantaggio del primo
esulanti dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di
convivenza – il cui contenuto va parametrato sulle condizioni sociali e
patrimoniali dei componenti della famiglia di fatto – e travalicanti i limiti
di proporzionalità e di adeguatezza» [107].
Potrà
ancora aggiungersi, concludendo sul punto, che l’approvazione della «riforma
Cirinnà» non ha inciso in modo alcuno sulla possibilità di continuare ad
ammettere l’esperibilità di azioni di arricchimento ingiustificato tra
conviventi, secondo quanto sopra illustrato [108]. In effetti,
una prima decisione del 2018 [109] ha
stabilito che è possibile configurare l’ingiustizia dell’arricchimento da parte di un convivente more uxorio nei confronti dell’altro in presenza di prestazioni a
vantaggio del primo esulanti dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti
dal rapporto di convivenza, il cui contenuto va parametrato sulle condizioni
sociali e patrimoniali dei componenti della famiglia di fatto e travalicanti i
limiti di proporzionalità e di adeguatezza rispetto ai mezzi di ciascuno dei partner. Una successiva sentenza di quel
medesimo anno [110] ha
sancito il diritto per l’ex convivente di recuperare un apporto patrimoniale a
suo tempo effettuato per la ristrutturazione dell’alloggio già destinato a
residenza della convivenza, in considerazione dell’arricchimento ingiustificato
conseguito dalla ex partner,
proprietaria esclusiva dell’immobile; arricchimento che non trovava
giustificazione nell’obbligazione naturale esistente tra conviventi more uxorio, perché l’attribuzione
patrimoniale del valore di cento milioni di lire (all’epoca) era stata
effettuata nel contesto di una vita familiare in comune non connotata da
particolare agiatezza e benessere, peraltro protrattasi per un periodo di tempo
non lungo, sicchè la dazione appare «significativa» e, pertanto, estranea agli
esborsi necessari alla condivisione della vita quotidiana.
Su altro versante la
S.C. ha ribadito che anche per gli ex conviventi, cointestatari di un conto
corrente, vale la presunzione di appartenenza dei titoli appoggiati al detto
conto in parti uguali [111], mentre, in relazione
al rilascio di riconoscimenti di debito, si è precisato [112] che non è sufficiente
che la ex convivente che abbia emesso una dichiarazione ex art. 1988 c.c. (dotata, come noto, dell’astrazione processuale)
affermi che le somme relative fossero state corrisposte dal partner a titolo di adempimento
dell’obbligazione naturale gravante sui conviventi. Sarebbe stato, infatti,
onere della donna dimostrare che gli importi risultanti dal documento dalla stessa
sottoscritto (ed indicati, tra l’altro, come «da dare ad E.»), fossero proprio
quelli corrispondenti, invece, ad attribuzioni compiute dallo stesso in
adempimento degli obblighi nascenti dal rapporto di convivenza.
Sotto un ulteriormente
diverso profilo si è continuata ad ammettere la configurabilità di liberalità
d’uso (ex art. 770, co. 2, c.c.) tra
conviventi, con una decisione che ha confermato la sentenza di merito che aveva
ritenuto configurabile siffatto tipo di liberalità nella sporadica elargizione
di somme di denaro tra soggetti legati da una relazione sentimentale, pur in
mancanza, tra di essi, dell’elemento della convivenza; si è così stabilito che
tale istituto trova fondamento negli usi invalsi a seguito dell’osservanza di
un certo comportamento nel tempo, di regola in occasione di festività,
ricorrenze, ricorrenze celebrative, nelle quali sono comuni le elargizioni,
tenuto in particolare conto dei legami esistenti tra le parti, il cui vaglio,
sotto il profilo della proporzionalità, va operato anche in base alla loro
posizione sociale ed alle condizioni economiche dell’autore dell’atto [113].
9. I
contratti di convivenza: prima e dopo la novella del 2016.
In
mancanza di una disciplina ad hoc, volta a regolamentare i
rapporti patrimoniali nei rapporti more uxorio, la
dottrina precedente alla riforma del 2016 tendeva ad individuare una soluzione
a tale carenza normativa nel ricorso all’autonomia privata attraverso la stipula dei contratti di convivenza, da intendersi come una vera e
propria risorsa per le esigenze delle unioni di fatto [114]. Un
ostacolo al riconoscimento della validità dei contratti di convivenza veniva
peraltro da taluni ravvisato nel fatto che i doveri di reciproca convivenza e
contribuzione tra conviventi si riconducono pacificamente allo schema delle obbligazioni naturali;
l’inammissibilità di una novazione di un’obbligazione naturale in civile –
stante il principio per cui gli artt. 1230 ss. c.c. presuppongo la preesistenza
di un rapporto giuridico obbligatorio – aveva portato a ritenere che il negozio
in discorso trovasse la sua causa nello scambio tra due sacrifici reciproci,
mentre l’adempimento del dovere morale e sociale degradava a mero motivo [115]. Si individuava in tal modo una sorta di corrispondenza biunivoca tra due
obbligazioni, una naturale – l’assolvimento del vincolo morale – ed una civile
– ovvero, per l’appunto, il contratto di convivenza.
Mentre la giurisprudenza
aveva avuto modo molto raramente di soffermarsi sull’argomento, peraltro
chiaramente esprimendosi nel senso dell’ammissibilità [116], in dottrina si era osservato che un
contratto di convivenza non poteva comunque contenere accordi con cui ci si impegnasse a convivere ovvero
che implicassero profili di carattere personale che, oltre ad essere inidonei a
costituire oggetto di prestazioni ai sensi dell’art. 1174 c.c. [117],
avrebbero inevitabilmente violato l’ordine pubblico [118]. Esso
poteva invece legittimamente prevedere una varia serie di contenuti
patrimoniali [119] e, in
relazione a tale profilo, non erano mancate opere di taglio pratico,
esclusivamente dedicate alla predisposizione di modelli e clausole:
l’esperimento più rilevante al riguardo è rappresentato dal vademecum predisposto nel 2013 a cura
del Consiglio Nazionale del Notariato [120], il cui
contenuto continua ad essere in gran parte valido, pur dopo l’approvazione
della novella del 2016.
Tra
siffatti contenuti di carattere patrimoniale rientrava sicuramente l’obbligo
della corresponsione di una determinata somma di denaro in caso di rottura dell’unione [121],
ancorché subordinato alla condizione che la cessazione della convivenza fosse
derivata da determinate circostanze [122]. Le
parti avrebbero però dovuto evitare di formulare la pattuizione sotto forma di
clausola penale per il caso
di abbandono, per evitare eccessive limitazioni della libertà personale [123]. Si
ammetteva dunque, già prima del 2016, che il contratto di convivenza potesse
avere ad oggetto un obbligo di contribuzione
nell’interesse del ménage, così come, in alternativa, il
mantenimento di un convivente a favore
dell’altro, ovvero il mantenimento reciproco in caso di necessità [124]. Lo
strumento contrattuale era altresì ritenuto idoneo a regolamentare il diritto di abitazione del partner che non fosse proprietario dell’appartamento ove
si svolgeva il ménage [125].
Allo
stesso modo il contratto di convivenza poteva regolare il regime degli acquisti introducendo eventualmente un
regolamento lato sensu analogo a quello della
comunione legale dei beni [126], con
il limite – invalicabile, stante il disposto dell’art. 1372 c.c. – dell’inopponibilità nei confronti dei terzi [127]. Si
tenga conto, tuttavia, della necessità di
ancorare l’ipotesi della cessazione della convivenza ad un evento ben
determinato e concretamente accertabile [128].
In tema di forma
del contratto, valevano i principi generali del contratto e
dunque appariva necessario fare riferimento ai caratteri dei negozi che
avrebbero dovuto essere di volta in volta conclusi; per quanto riguardava
invece la forma ad probationem si riteneva prevalentemente
opportuno che i contratti di convivenza risultassero da atto scritto [129].
Una
fattispecie piuttosto singolare era poi stata risolta nel 2009 dalla Cassazione
[130], la
quale aveva statuito che la dichiarazione di rinuncia,
contenuta in una scrittura privata, alla comproprietà di un immobile già
acquistato in comunione tra conviventi more
uxorio, rinunzia rilasciata al momento della cessazione del
rapporto da parte della donna, la quale aveva riconosciuto che il bene era
stato acquistato interamente con denaro del partner,
integrasse un «negozio di natura abdicativa» ex
art. 1104 c.c. in favore del comproprietario che, in virtù del principio di
elasticità della proprietà, importava, ipso iure,
«l’accrescimento della quota rinunciata in favore dell’ex compagno che,
pertanto, data la proporzione delle rispettive quote, è divenuto proprietario
dell’intero immobile» [131].
Uno
strumento cui si sarebbe potuto utilmente ricorso nel contesto di un contratto
di convivenza – e che sicuramente è utilizzabile pur dopo la riforma del 2016
nel contesto di un contratto di convivenza, così come «fuori» da esso – è il vincolo di destinazione ex art. 2645-ter c.c.; strumento
che, secondo molti commentatori, ben potrebbe prestarsi a garantire una serie
di provvidenze in favore della famiglia di fatto: da disposizioni sulla casa
familiare, alla protezione del patrimonio destinato ad alimentare le risorse
del ménage, alla creazione di un vero e proprio fondo
patrimoniale tra conviventi, non essendo discutibile la meritevolezza di tutela
degli scopi perseguiti [132].
Tutta
una serie di altre clausole erano e ancora oggi sono poi immaginabili in base
al raffronto tra contratti di convivenza e
contratti prematrimoniali: dalle intese dirette ad attribuire un
particolare significato ad eventuali attribuzioni «a senso unico» in seno al ménage, agli accordi sulla prole già nata o nascitura,
alla restituzione (o meno) di somme date a mutuo o frutto di arricchimento,
alla previsione di atti traslativi di diritti reali, alla predeterminazione
delle conseguenze patrimoniali di determinati eventi personali, e così via [133]. Tutte
le clausole in questione sono ancora ammissibili (ed anzi, raccomandabili) dopo l’introduzione della riforma del 2016, così come gran parte
delle elaborazioni dottrinali e giurisprudenziali svolte prima di tale novella
in materia di contenuto dei contratti di convivenza conservano la loro validità
oggi.
I
principali problemi che la «Cirinnà»
è venuta a porre ex novo in merito ai
contratti di convivenza possono invece venire indicati riassuntivamente come
segue: a) la forma, con particolare riguardo al tema della sufficienza, o meno,
della forma scritta [134]; b) la
pubblicità, con particolare riguardo al tema dell’opponibilità del regime
patrimoniale ai terzi [135]; c) la
possibilità di invididuare una causa del contratto che, a seconda delle
opinioni, renda o meno «contratto di convivenza» anche pattuizioni che,
isolatamente considerate, potrebbero ricondursi a fattispecie causali autonome e distinte: mutuo,
donazione, mandato, comodato, contratto vitalizio, etc. [136]; d)
l’ammissibilità dell’inserimento di clausole sottoposte a termini o condizioni [137]; e) il
carattere tassativo o (assai preferibilmente, meramente) esemplificativo
dell’elencazione, in tema di contenuti, di cui al co. 53, con inevitabili
ricadute sull’identificazione del perimetro dell’autonomia privata nel
contratto di convivenza [138]; f)
l’esatta individuazione delle cause di invalidità e delle relative conseguenze,
con conseguente impossibilità di riconoscere effetto ai contratti stipulati
senza il rispetto dei requisiti posti dal co. 36 [139]; g) l’esatta
determinazione degli effetti connessi alla risoluzione del contratto e
l’individuazione della possibilità di conciliare le fattispecie normative con
il principio di autonomia contrattuale e con la necessità di consentire allo
stesso di liberamente determinare (e predeterminare) gli effetti della rottura
dell’unione di fatto [140].
Pare
invece sussistere concordia d’opinioni sul carattere tipico del contratto di
convivenza disciplinato dalla novella [141] e
sulla sua non riconducibilità, neppure per via d’analogia, al novero delle convenzioni
matrimoniali [142].
10.
Convivenza e diritto all’abitazione: prima e dopo la novella del 2016.
In tema
di diritto all’abitazione va detto
che già diversi anni or sono, ben prima della riforma del 2016, si era ammessa
in giurisprudenza l’applicabilità alla famiglia di fatto della norma che
consente al locatore di opporsi alla proroga del contratto,
qualora abbia necessità di destinare l’immobile ad abitazione del proprio
nucleo familiare [143]. In
argomento era stato poi il giudice delle leggi, nella già ricordata decisione
del 1988 [144] a
dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 6, l. equo canone, nella
parte in cui non prevedeva che, in caso di morte del conduttore di un immobile adibito ad uso
abitativo, gli succedesse nel contratto il convivente superstite [145]; per
l’ipotesi della successione nel contratto del convivente in caso di
allontanamento del partner dall’alloggio comune ponendo
termine alla convivenza era intervenuta la stessa Consulta [146]. La
giurisprudenza successiva aveva rilevato che la convivenza, ai fini
dell’applicazione della citata norma della l. equo canone, doveva essere
accertata alla data del decesso
del conduttore, a nulla rilevando che gli aventi diritto alla successione nel
contratto fossero o meno rimasti nell’alloggio locato dopo la morte del dante
causa, giacché la successione mortis causa nel contratto di
locazione è fatto giuridico istantaneo, che si realizza all’atto stesso della
morte del conduttore, restando insensibile agli accadimenti successivi [147].
La
soluzione è stata ripresa dalla riforma del 2016, il cui co. 44 stabilisce che
«Nei casi di morte del conduttore o di suo recesso dal contratto di locazione
della casa di comune residenza, il convivente di fatto ha facoltà di
succedergli nel contratto» [148].
La
giurisprudenza, nel sottolineare la necessità di un accertamento circa l’effettività della convivenza, aveva peraltro posto significativamente
in luce come la speciale norma di cui all’art. 6 della l. n. 392/1978
precludesse l’applicabilità della disciplina generale (art. 1614 c.c.), da
ritenersi implicitamente abrogata, e dunque la successione nel contratto degli
eredi [149]. Il
convivente more uxorio, dunque, in virtù della
disciplina di cui all’art. 6, l. equo canone, così come risultante
dall’intervento del giudice delle leggi, succedeva e succede nel contratto
indipendentemente dalla circostanza che manchino eredi del conduttore e dunque
anche in presenza di figli legittimi del conduttore convivente [150].
In tema
di edilizia residenziale pubblica
l’art. 17, legge 17 febbraio 1992, n. 179, dopo aver disposto che in caso di
decesso del socio di una cooperativa edilizia, assegnatario di un alloggio di
edilizia economica e popolare, gli succedono il coniuge e i figli, prevede che
«in mancanza del coniuge e dei figli minorenni, uguale diritto è riservato ai
conviventi more uxorio e agli altri componenti
del nucleo familiare, purché conviventi alla data del decesso e purché in
possesso dei requisiti in vigore per l’assegnazione degli alloggi. La
convivenza, alla data del decesso, deve essere instaurata da almeno due anni ed
essere documentata da apposita certificazione anagrafica od essere dichiarata
in forma pubblica con atto di notorietà da parte della persona convivente con
il socio defunto».
Naturalmente,
la sorte della abitazione nella casa familiare,
una volta intervenuta la cessazione del rapporto (per morte, ma anche per
rottura tra le parti e per il venir meno dell’affectio),
può essere predeterminata mercé l’attribuzione, da parte del convivente
proprietario, di un diritto al partner, in forza
di comodato, o di un contratto costitutivo di un diritto reale di abitazione, o
di usufrutto, come confermato sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza [151], fermo
restando che la volontà delle parti potrà, in alternativa, legare la cessazione
del diritto al venir meno del rapporto affettivo, ovvero conferire al titolare
un diritto (eventualmente anche solo personale) «vita natural durante».
La
soluzione conserva tutta la sua validità anche alla luce della riforma del 2016
[152]. Da
notare che per quanto attiene, invece, al comodato concesso da terzi (ad es. dai genitori di uno dei due
conviventi) sulla casa familiare, la S.C. ha stabilito che se l’immobile è ad
uso familiare il comodante non può sempre esigere la restituzione immediata. La
facoltà di chiedere la restituzione immediata dell’immobile in comodato,
specialmente quando questo è connotato da destinazione a casa familiare, è
disciplinata dall’art. 1809, co. 2, c.c. In esso viene specificata la necessità
di sopravvenienza di un urgente e imprevisto bisogno, perché il comodante possa
riacquistare la detenzione del bene, prima che la destinazione sia cessata [153].
11. Cessazione
della convivenza, questioni possessorie e (pre)determinazione del diritto di
abitazione dell’ex partner prima
della novella del 2016.
Il
discorso finora svolto sulla rilevanza giuridica della famiglia di fatto assume
primaria importanza qualora la convivenza di fatto venga a cessare per volontà dei partners
o per morte di uno di essi [154]: è in
tale fase terminale che la validità di determinate regole di diritto viene in
rilievo, poiché fino ad allora difficilmente i membri della famiglia di fatto
(o i loro possibili eredi) avranno invocato la tutela dell’ordinamento
giuridico al fine di veder accolte le proprie pretese. Al riguardo taluno [155] ha
ipotizzato la configurabilità di un danno
risarcibile in caso di cessazione della convivenza per volontà di uno dei
membri della coppia, non nella forma di un assegno periodico,
bensì tramite la corresponsione di una somma una tantum;
tuttavia sia la dottrina [156], che
la giurisprudenza [157]
escludono siffatta possibilità. Infatti, più in generale, «l’interruzione di
una sia pure prolungata relazione amorosa [...] non è fonte di obbligazioni nel
senso proprio del partner che l’abbia voluta e a favore
dell’altro. L’ordinamento positivo, invero, non conferisce a quella relazione
idoneità a produrre fra le parti diritti di alcun genere né collega al fatto
interruttivo una qualsiasi giuridica responsabilità» [158]. Prima
dell’abrogazione dell’art. 526 c.p. (ad opera della legge 15 febbraio 1966, n.
66) si riteneva che la rottura della relazione extramatrimoniale potesse
senz’altro costituire un illecito civile risarcibile, qualora integrasse gli
estremi del reato di seduzione con promessa di matrimonio [159].
Le
conclusioni di cui sopra conservano validità pur dopo la riforma del 2016, la
quale non ha certo abrogato quello che Oltralpe si chiama «droit de rompre» il
rapporto di fatto: la rottura della convivenza non costituisce, dunque, di per
sé, fattispecie idonea a dar luogo a responsabilità contrattuale o aquiliana.
Premesso
quanto sopra, va però subito aggiunto che, prima della riforma del 2016, la
giurisprudenza era arrivata a tutelare, almeno in parte, il convivente
«vittima» della rottura, riconoscendogli una tutela possessoria, in forza del fatto
che la sua posizione dovrebbe essere intesa come qualificata e non assimilabile
a quella dell’ospite. Più esattamente, si era posto in luce [160] che
occorreva distinguere: a) il caso in cui ad invocare la
tutela possessoria fosse il partner estromesso dall’abitazione
che, pur non vantando alcun diritto reale od obbligatorio, voleva recuperarne
la disponibilità e continuare a goderne; b)
il caso in cui il partner titolare del diritto di
proprietà, o di altro diritto reale o personale di godimento sull’immobile,
intendesse allontanare l’altro in ragione degli intervenuti dissidi.
Per
quanto attiene alla prima delle due ipotesi appena indicate, cioè allorquando ad invocare la tutela possessoria fosse il partner estromesso dall’abitazione, secondo un orientamento
consolidato, il convivente more uxorio era da qualificare detentore autonomo, in quanto tale
legittimato all’azione di spoglio nei
confronti del partner che lo avesse cacciato di
casa [161].
In una
prospettiva opposta (secondo l’ipotesi sopra individuata sub
b occorreva poi analizzare
l’ipotesi in cui fosse l’effettivo titolare di un diritto sull’immobile ad agire
in reintegrazione contro il convivente more uxorio
che pretendesse di continuare ad occuparlo nonostante il venir meno
dell’unione. Ora, se si considera la posizione del convivente, non titolare di
alcun diritto, in termini di detenzione qualificata, appare difficile concedere
al proprietario l’azione possessoria nell’ipotesi in cui il partner,
nonostante il venir meno dell’unione, rifiuti di lasciare l’immobile [162]. Si
era peraltro esattamente rimarcato che la negazione della tutela possessoria
non comporta la privazione di qualsivoglia tutela e, dunque, l’impossibilità di
recuperare la disponibilità esclusiva dell’immobile a seguito della rottura
della convivenza more uxorio [163]. Si
era poi anche affermato che, al fine di dirimere le controversie insorte al
momento della dissoluzione dell’unione ed aventi ad oggetto il godimento in
comune dell’immobile, poteva essere avviato un giudizio ordinario di
accertamento del venir meno del titolo giustificativo con
conseguente richiesta di condanna al rilascio. Ciò in quanto il convivente
titolare del diritto sull’immobile, mettendo a disposizione dell’altro la
propria abitazione, darebbe vita ad un rapporto negoziale di fatto rientrante
nello schema della causa comodati [164].
In ogni
caso, si ammetteva che il convivente titolare di un diritto reale o personale
di godimento potesse agire in via d’urgenza,
al fine di ottenere un ordine a carico dell’altro di abbandono dell’immobile,
ogniqualvolta la situazione, così come determinatasi a seguito della crisi
dell’unione, fosse divenuta insopportabile [165]. Da
segnalare poi anche quella decisione di merito [166] che
aveva riconosciuto il diritto al risarcimento del
danno, in base all’art. 2043 c.c., alla ex
convivente e ai suoi genitori nei confronti dell’ex
partner che aveva continuato ad abitare nell’appartamento
anche dopo l’ordine giudiziale di allontanamento; il tribunale aveva in
particolare riconosciuto il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale,
per la violazione del diritto al riserbo dell’intimità della vita domestica
privata delle parti attrici.
È da
ricordare inoltre che, in un’altra fattispecie, la S.C. aveva escluso la
nullità del contratto di comodato
di un appartamento concesso da un uomo in favore della convivente e soggetto
alla condizione risolutiva di cessazione della convivenza per volontà della
donna in virtù del principio per cui «la convivenza more uxorio
tra persone in stato libero non costituisce causa di illiceità e, quindi, di
nullità di un contratto attributivo di diritti patrimoniali collegato a detta
relazione, in quanto tale convivenza, ancorché non disciplinata dalla legge,
non contrasta né con norme imperative, non esistendo norme di tale natura che la vietino, né con l’ordine pubblico, che
comprende i principi fondamentali informatori dell’ordinamento giuridico, né
con il buon costume, inteso, a norma delle disposizioni del codice civile, come
il complesso dei principi etici costituenti la morale sociale di un
determinato momento storico, bensì ha rilevanza nel vigente ordinamento» [167].
Potrà
aggiungersi che in tempi più recenti la stessa Corte era stata chiamata a
nuovamente a pronunziarsi su di un comodato «vita natural durante» tra conviventi [168],
stabilendo che «La concessione in comodato di un immobile per tutta la vita del
comodatario è un contratto a termine,
di cui è certo l’an ed incerto il quando,
atteso che, con l’inserimento di un elemento accidentale per l’individuazione
della precisa durata (nella specie, la massima possibile, ossia per tutta la
durata della vita del beneficiario), il comodante ha limitato la possibilità di
recuperare, quando voglia, la disponibilità materiale dell’immobile,
rafforzando, al contempo, la posizione del comodatario, a cui viene garantito
il godimento per tutto il tempo individuato. Ne consegue che, in tale
evenienza, il comodante o i suoi eredi possono sciogliersi dal contratto
soltanto nelle ipotesi di cui agli artt. 1804, terzo co., 1809 e 1811 cod. civ.
e non liberamente come avviene nel comodato precario». Ora, il fatto che nella
specie si fosse discusso solo sul carattere precario o meno del rapporto
evidenziava come il profilo dell’eventuale nullità per il pregresso rapporto more uxorio delle parti fosse ormai da considerarsi
completamente (e sacrosantamente!) inconferente [169].
In
relazione, poi, al caso della morte di uno dei
membri della coppia di fatto, si era affermato che non sussistono gli estremi
dello spoglio e quindi non si può
ricorrere alla tutela possessoria nel caso in cui il convivente more uxorio, dopo la morte del partner,
impedisca all’erede l’accesso nell’immobile
già abitazione della coppia [170].
12.
Cessazione della convivenza, questioni possessorie e (pre)determinazione del
diritto di abitazione dell’ex partner dopo la
novella del 2016.
Tutte le considerazioni e conclusioni di cui al §
precedente sembrano mantenere, almeno in linea di principio, validità pur dopo
l’approvazione della «riforma Cirinnà».
Così, ad es., la S.C. ha ribadito che «La convivenza more uxorio, quale formazione sociale
che dà vita ad un autentico consorzio familiare, determina, sulla casa di
abitazione ove si svolge il programma di vita in comune, un potere di fatto del
convivente tale da assumere i contorni tipici di una detenzione qualificata,
avente titolo in un negozio giuridico di tipo familiare»; si è peraltro
aggiunto che tale situazione «non incide, salvo diversa disposizione di legge,
sul legittimo esercizio dei diritti spettanti ai terzi sull’immobile, sicchè
tale detenzione del convivente non proprietario, nè possessore, é esercitabile
ed opponibile ai terzi fin quando perduri la convivenza, mentre, una volta
venuta meno la stessa, in conseguenza del decesso del convivente
proprietario-possessore, si estingue anche il relativo diritto; ne deriva che,
in assenza di una istituzione testamentaria, ovvero della costituzione di un
nuovo e diverso titolo di detenzione da parte degli eredi del convivente
proprietario, non può ritenersi legittima la protrazione della relazione di
fatto tra il bene ed il convivente superstite (già detentore qualificato),
restando a carico del soggetto, che legittimamente intende rientrare nel
possesso del bene, il dovere di concedere a quest’ultimo un termine congruo per
la ricerca di una nuova sistemazione abitativa, in virtù dei principi di buona
fede e correttezza» [171].
Va poi ulteriormente precisato che la novella del 2016
ha introdotto, nel caso di decesso del convivente proprietario della casa di
comune residenza il diritto per il convivente superstite di «continuare ad
abitare nella stessa per due anni o per un periodo pari alla convivenza se
superiore a due anni e comunque non oltre i cinque anni». La norma prosegue
stabilendo che «Ove nella stessa coabitino figli minori o figli disabili del
convivente superstite, il medesimo ha diritto di continuare ad abitare nella
casa di comune residenza per un periodo non inferiore a tre anni». Il
successivo co. 43 stabilisce poi che «Il diritto di cui al co. 42 viene meno nel
caso in cui il convivente superstite cessi di abitare stabilmente nella casa di
comune residenza o in caso di matrimonio, di unione civile o di nuova
convivenza di fatto». Da notare che la soluzione, in questo punto specifico,
diverge rispetto a quello che era lo «stato dell’arte» alla vigilia
dell’entrata in vigore della «riforma Cirinnà», posto che la già ricordata
decisione della Consulta risalente al 1988 si riferiva al solo caso del decesso
del convivente conduttore della casa di comune residenza, laddove per il caso
del decesso del convivente proprietario, analoga questione era stata rigettata
dalla Corte nel 1989 [172].
Altra novità introdotta dalla riforma del 2016 è
contenuta nel co. 61, in tema di recesso unilaterale dal contratto di
convivenza, a mente del quale «Nel caso in cui la casa familiare sia nella
disponibilità esclusiva del recedente, la dichiarazione di recesso, a pena di
nullità, deve contenere il termine, non inferiore a novanta giorni, concesso al
convivente per lasciare l’abitazione». La disposizione appare dettata dalla
preoccupazione di tutelare il «convivente debole», lasciandogli un tempo minimo
di permanenza nella casa familiare, in attesa del reperimento di una soluzione
alternativa, ma si riferisce alla sola ipotesi in cui inter partes sia stato stipulato, per l’appunto, un contratto di
convivenza, laddove nulla è stabilito in assenza di siffatto negozio. Sarà qui
interessante vedere quale «uso» verrà fatto di tale disposizione dalla
giurisprudenza che sarà chiamata ad esprimersi su azioni possessorie a seguito
di «espulsioni» operate brevi manu
dal partner titolare della proprietà
dell’immobile, una volta decorso il termine di cui sopra. Potrebbe infatti
ritenersi che, una volta scaduto tale termine, la legge stessa non consente più
di considerare come «detenzione qualificata» la situazione dell’ex convivente,
«degradato» al rango di indesiderato (e dalla legge non più tutelato) ospite.
Il diritto previsto dal citato co. 61 sembra comunque
derogabile, vuoi per effetto di accordo assunto in sede di crisi del ménage, vuoi in via preventiva, in sede
di stipula del contratto di convivenza. Il contrario avviso [173] non tiene conto del fatto che il contratto di
convivenza si colloca optimo iure
nell’area di influenza del principio scolpito dall’art. 1322 c.c., laddove
nessuna disposizione della novella contiene regole dalle quali si possa anche
solo in via indiretta desumere che i diritti attribuiti alle parti dalla legge
non siano disponibili.
Naturalmente, come già detto, la sorte della abitazione
nella casa familiare, una volta intervenuta la cessazione del rapporto (per
morte, ma anche per rottura tra le parti e per il venir meno dell’affectio) può essere predeterminata
mercé l’attribuzione, da parte del convivente proprietario, di un diritto al partner, in forza di comodato, o di un
contratto costitutivo di un diritto reale di abitazione, o di usufrutto, come
confermato sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza [174], fermo restando che la volontà delle parti potrà, in
alternativa, legare la cessazione del diritto al venir meno del rapporto
affettivo, ovvero conferire al titolare un diritto (eventualmente anche solo
personale) «vita natural durante».
13. La
morte del convivente more uxorio:
problemi di carattere successorio.
In caso
di morte di uno dei membri della
coppia di fatto, pur dopo la «riforma Cirinnà» – se si esclude quanto stabilito
dal già citato [175] co. 42
in tema di diritto di abitazione – l’ordinamento non prevede alcuna tutela per
il partner superstite [176],
atteso che quest’ultimo non è (e continua a non essere anche dopo il 2016)
erede legittimo (e tanto meno legittimario) del de cuius [177]. Da
ciò deriva che soltanto gli strumenti dell’autonomia privata,
nei limiti in cui, ovviamente sono ammessi in situazioni del genere (e qui il
riferimento al divieto dei patti successori è d’obbligo), possono venire
incontro alle esigenze del superstite [178].
Al
riguardo, oltre alla possibilità di disporre tramite testamento o donazione
[179], si è
ipotizzato il ricorso al contratto a favore di terzo
con prestazione da effettuarsi dopo la morte dello stipulante,
all’assicurazione sulla vita a favore di un terzo, al contratto di mantenimento vitalizio [180],
ovvero l’utilizzo dell’istituto del trust
[181]. Si è
da altri prospettata la possibilità di ricorrere all’adozione del convivente more uxorio,
ma in tal modo i partners si vedrebbero condannati,
paradossalmente, a restare uniti per il futuro da un rapporto addirittura
indissolubile [182].
È
infine opportuno evidenziare che molti dei commentatori dell’art. 2645-ter c.c. (introdotto dall’art. 39 novies,
legge 23 febbraio 2006, n. 51, di conversione con modifiche del d.l. 30
dicembre 2005, n. 273), hanno ravvisato in esso la possibilità di creare
vincoli in favore della famiglia di fatto: da disposizioni sulla casa
familiare, alla protezione del patrimonio destinato ad alimentare le risorse
del ménage, alla creazione di una sorta di «fondo
patrimoniale» tra conviventi [183].
Nessuno
dei citati negozi inter vivos può
ritenersi vietato dalla riforma del 2016 [184];
occorrerà però considerare che, ove i citati rimedi vengano a far parte di un
contratto di convivenza [185], sarà
allora necessario rispettare i requisiti di forma e sostanza per tali negozi
prescritti dai commi 51 ss.
14. La
morte del convivente more uxorio a
seguito dell’illecito compiuto da un terzo.
Diverso
da quello sopra affrontato è il tema della configurabilità di un diritto al risarcimento del danno subito dal
convivente a seguito dell’uccisione del partner. Se inizialmente
la giurisprudenza escludeva siffatta possibilità [186],
successivamente era stato riconosciuto il risarcimento prima del danno morale e
poi del danno patrimoniale (nei limiti in cui quest’ultimo sia provato) in caso
di morte del convivente more uxorio [187]. La giurisprudenza formatasi a partire
dagli anni Novanta dello scorso
secolo riteneva dunque che «il diritto al risarcimento da fatto illecito
concretatosi in un evento mortale va riconosciuto – con riguardo sia al danno
morale, sia a quello patrimoniale, che presuppone, peraltro, la prova di uno
stabile contributo economico apportato, in vita, dal defunto al danneggiato –
anche al convivente more uxorio del defunto stesso,
quando risulti concretamente dimostrata siffatta relazione caratterizzata da
tendenziale stabilità e da mutua assistenza morale e materiale» [188].
Sarà
opportuno considerare che, per ciò che attiene alla dottrina, quest’ultima sin dagli anni Sessanta dello scorso
secolo aveva posto in luce la contraddittorietà della posizione dell’«antica»
giurisprudenza nella misura in cui altre decisioni, per contro, ritenevano
ammissibile il risarcimento del danno patrimoniale sofferto per effetto della
morte di un congiunto nella forma del danno potenziale, consistendo il danno,
pur nell’assenza di un obbligo alimentare attuale, nell’aspettativa di una
futura prestazione alimentare [189], nel revirement del 1994 i giudici di legittimità hanno
affermato che, sussistendo un rapporto diretto fra il danno e il fatto lesivo,
tutti coloro che abbiano subito un danno, siano essi legati al soggetto leso da
un rapporto di natura familiare o parafamiliare,
hanno diritto al risarcimento [190].
Invero, per quanto attiene al danno morale, anche
il convivente more uxorio patisce una sofferenza a
seguito della perdita del partner in termini analoghi a quanto
accade nella famiglia legittima; con riferimento invece al danno patrimoniale,
questo non discende automaticamente dalla morte del convivente, né può
identificarsi nel venir meno di elargizioni occasionali, né con una mera
aspettativa: sarà dunque l’attore a dover fornire la prova del carattere
stabile del contributo patrimoniale e personale che il partner
deceduto apportava. Del resto, sostiene la Suprema Corte, anche il decesso di
un coniuge comporta un danno patrimoniale solo nei limiti in cui esso determini
il venire meno di un contributo al soddisfacimento dei bisogni della famiglia.
Osserva poi anche la dottrina [191] che la
giurisprudenza successiva non si è
attestata su posizioni univoche, posto che a fronte di una serie di decisioni
di merito che hanno riconosciuto il diritto al risarcimento del danno
patrimoniale e non patrimoniale [192], si
sono contrapposte altre pronunce che, facendo leva sul tradizionale
orientamento che ravvisava l’ingiustizia del danno unicamente nella violazione
di un diritto soggettivo, hanno negato qualsiasi tutela al convivente della
vittima di un altrui fatto illecito [193].
Peraltro
andrà aggiunto che la giurisprudenza di legittimità
ha invece ritenuto di dover confermare nel 2008
il precedente del 1994, stabilendo che «Il diritto al risarcimento del danno da
fatto illecito concretatosi in un evento mortale va riconosciuto – con riguardo
sia al danno morale, sia a quello patrimoniale, che presuppone, peraltro, la
prova di uno stabile contributo economico apportato, in vita, dal defunto al
danneggiato – anche al convivente more uxorio del
defunto stesso, quando risulti dimostrata tale relazione caratterizzata da
tendenziale stabilità e da mutua assistenza morale e materiale; a tal fine non
sono sufficienti né le dichiarazioni rese dagli interessati per la formazione
di un atto di notorietà, né le indicazioni dai medesimi fornite alla P.A. per
fini anagrafici. (Nella specie la S.C. ha confermato sul punto la sentenza
impugnata nella parte in cui aveva, appunto, escluso che la ricorrente, che
aveva contratto matrimonio canonico privo di effetti civili con la vittima,
potesse vantare diritti risarcitori per la morte dell’uomo, essendo mancata la
prova dell’esistenza di una relazione tendenzialmente stabile e di una mutua
assistenza morale e materiale tra i due)» [194]. La
dottrina più attenta, dunque, già da epoca anteriore alla riforma del 2016,
osservava correttamente [195] come
non potesse in alcun modo dubitarsi che la tendenza in atto fosse nel senso di attribuire rilevanza, ai fini risarcitori, anche ai legami di fatto
[196].
Quanto
alla concreta determinazione del danno patrimoniale, è stato stabilito [197] che
«Non può ritenersi in re ipsa
esistente la prova di una perdita patrimoniale derivante dal venire meno della
contribuzione economica e, soprattutto, materiale allo svolgimento del ménage familiare, e quindi alla
organizzazione della casa ed alla pulizia di essa, prestata dal convivente che
viene a mancare qualora il compagno svolga una attività lavorativa esterna». La
Corte ha osservato al riguardo che in un regime di normale convivenza, sia essa
fondata sul matrimonio o meno, l’apporto economicamente apprezzabile sotto
forma di danno patrimoniale, in caso di perdita del congiunto o convivente, alla
gestione familiare, sotto forma di lavoro domestico e di organizzazione della
vita familiare, può presumersi infatti qualora il convivente si dedichi
esclusivamente alla cura della casa [198]. Nel
caso invece in cui questi svolga una attività lavorativa esterna, il danno non
può reputarsi in re ipsa, né la prova
può desumersi in via presuntiva dal solo fatto della convivenza, ma é
necessario che sia fornita la prova, positiva, che questi, oltre ad essere
impegnato in una attività lavorativa esterna, dedicasse parte delle sue energie
residue, in modo significativo ed economicamente apprezzabile tanto da
costituire una possibile posta di danno per equivalente, alla cura della casa.
La
«riforma Cirinnà», recependo (peraltro solo in parte ed in modo non chiaro: si
pensi al fatto che non si distingue tra danno patrimoniale e non patrimoniale,
né si prendono in considerazione i danni derivanti non da morte, ma da lesioni
subite dal convivente) la giurisprudenza di cui si è dato conto, è venuta a
stabilire, al co. 49, che «In caso di decesso del convivente di fatto,
derivante da fatto illecito di un terzo, nell’individuazione del danno
risarcibile alla parte superstite si applicano i medesimi criteri individuati
per il risarcimento del danno al coniuge superstite» [199].
15. La
cessazione della convivenza in presenza di figli minorenni.
Si è
esattamente rilevato in dottrina [200] che la
dissoluzione della convivenza, con riguardo
ai figli, pone praticamente gli stessi problemi che si
prospettano in occasione della separazione del divorzio. Proprio
in ragione di tali considerazioni, la legge 8 febbraio 2006, n. 54 – che
introdusse la disciplina sull’affidamento condiviso – statuì che le relative disposizioni
si sarebbero applicate anche ai procedimenti relativi ai figli di genitori non
coniugati (art. 4, 2° co.). Ora gli artt. 337-bis ss. c.c. collocano su di un perfetto
piede di parità tutti i figli, a prescindere dalla nascita all’interno o al di
fuori del matrimonio. Le predette norme (come del resto quelle da cui discendono)
pongono più volte l’accento sugli accordi tra i
genitori [201]. Resta
dunque confermato che, anche nel caso della famiglia di fatto, l’intervento del
giudice è meramente eventuale e successivo [202].
Si è
peraltro correttamente rilevato che la conflittualità
che sovente caratterizza la dissoluzione della coppia imporrà il più delle
volte ricorso al giudice [203]. I
Tribunali per i minorenni (competenti sul punto prima della riforma della
filiazione), di fronte al contenzioso in discorso, avevano sempre seguito i criteri elaborati dai tribunali ordinari nei casi
di separazione e di divorzio
[204].
D’altro
canto, già da epoca precedente alla riforma del 2006 sull’affidamento
condiviso, si era riconosciuta la possibilità di estendere istituti che, come
nel caso dell’affidamento congiunto, erano
esplicitamente previsti solo dalla disciplina sul divorzio [205], anche
nel caso di conflittualità tra i genitori [206]. L’accordo dei conviventi, quando vi
sia, considerata l’immediata operatività dei criteri di legge, è produttivo di
effetti senza la necessità di un preventivo vaglio giudiziario: [207]. Tuttavia,
l’esigenza di attribuire a siffatti accordi efficacia vincolante, spinge
sovente i conviventi a richiederne la «ratifica»,
di modo che si è posto il problema in merito all’accoglimento del ricorso
presentato dai coniugi congiuntamente e volto ad ottenere una sorta di omologa
o ratifica dell’accordo già raggiunto. Si è dunque instaurata una prassi presso
i Tribunali per i minorenni (ed ora presso quelli ordinari) che prevede
l’emissione di un provvedimento che, pur non essendo un’omologazione in senso
formale, è volto ad assolvere la medesima funzione. Si osserva, in particolare,
che sussiste un interesse all’adozione di un provvedimento che recepisca l’accordo raggiunto da
ravvisarsi, essenzialmente, nella prevenzione di future conflittualità [208].
I
provvedimenti del tribunale vengono assunti mutuando gli istituti previsti per la separazione ed il divorzio,
così da assicurare ai figli naturali un trattamento paritario rispetto a quello
dei figli legittimi [209].
Peraltro
non si è ritenuto applicabile alla crisi della famiglia di fatto l’istituto
della negoziazione assistita ex art.
6, d.l. n. 132/2014, «previsto per le sole coppie coniugate, separande o
divorziande», così come quello «generale» di cui all’art. 2, d.l. cit.,
asseritamente «incompatibile con i principi generali dell’ordinamento in
presenza di figli minori» [210]. La
decisione sembra però trascurare la possibilità di una lettura
costituzionalmente orientata della
normativa, già auspicata in dottrina con riguardo all’applicabilità degli
strumenti processuali della crisi coniugale, con particolare riferimento
all’omologazione del verbale di separazione consensuale [211].
Prima
della riforma del 2006 sull’affidamento condiviso la giurisprudenza si era
divisa sull’applicabilità analogica dell’istituto dell’assegnazione della casa coniugale (per l’ipotesi, per l’appunto, di
cessazione della convivenza inter vivos
in presenza di prole minorenne). Secondo un primo orientamento si era ritenuto
che «in applicazione analogica dell’art. 155, 4° co., c.c., in caso di
cessazione della convivenza more uxorio la casa familiare di
proprietà comune dei genitori può essere assegnata a quello che sia affidatario
dei figli minori» [212]. In
senso contrario, escludendo implicitamente che la disposizione in questione
fosse applicabile alla famiglia di fatto – neppure in forza di interpretazione
analogica o estensiva – si era invece affermato che: «non è manifestamente
infondata la q.l.c. dell’art. 155, 4° co., c.c., nella parte in cui non prevede
la possibilità di assegnazione in godimento della casa familiare al genitore
naturale affidatario di un figlio minore nato da un rapporto di convivenza more uxorio cessato» [213].
Al
riguardo il giudice delle leggi, con sentenza interpretativa di rigetto, aveva
ritenuto che, considerato il fatto «che l’obbligo di mantenimento della prole, sancito dall’art. 147 c.c.,
comprende in via primaria il soddisfacimento delle esigenze materiali,
connesse inscindibilmente alla prestazione dei mezzi necessari per garantire un
corretto sviluppo psicologico e fisico del figlio, e segnatamente, tra queste,
la predisposizione e la conservazione dell’ambiente domestico, considerato
quale centro di affetti, di interessi e di consuetudini di vita, che
contribuisce in misura fondamentale alla formazione armonica della personalità
del figlio – l’interpretazione sistematica dell’art. 30 Cost. in correlazione
agli artt. 261, 146 e 148 c.c. impone che l’assegnazione della casa familiare
nell’ipotesi di cessazione di un rapporto di convivenza more uxorio,
allorché vi siano figli minori o maggiorenni non economicamente
autosufficienti, deve regolarsi mediante l’applicazione del principio di
responsabilità genitoriale, il quale postula che sia data tempestiva ed
efficace soddisfazione alle esigenze di mantenimento del figlio, a prescindere
dalla qualificazione dello status» [214].
La
questione è stata legislativamente risolta
dal già citato art. 4, legge 8 febbraio 2006, n. 54, che ha reso applicabile
anche ai genitori non coniugati le disposizioni di cui all’art. 155-quater c.c. Dopo la riforma della filiazione (a partire
dal 7 febbraio 2014) trova applicazione il già ricordato art. 337-sexies c.c.: norma, quest’ultima, che, come già detto, è
ora espressamente fatta salva dal co. 42 della legge 20 maggio 2016, n. 76 [215].
16. Le
convivenze omosessuali.
Come
noto, la «riforma Cirinnà» è venuta ad introdurre, da un lato, l’istituto
dell’unione civile, per le coppie omosessuali desiderose di vedersi
riconosciuti diritti analoghi a quelli concessi ai coniugi e, dall’altro, la
disciplina delle convivenze di fatto, tra cui rientrano senza alcun dubbio
anche le convivenze same sex che non
aspirino ad uno status
para-matrimoniale. Prima della legge 20 maggio 2016, n. 76, in assenza di
disposizioni ad hoc, era sul piano
dei rimedi di diritto comune che si era cercato di individuare la soluzione,
per lo meno, di alcuni dei problemi posti dalla convivenza tra due persone
dello stesso sesso. La via era, dunque, la stessa percorsa per le coppie
eterosessuali: obbligazioni naturali, arricchimento ingiustificato, ripetizione
dell’indebito, donazioni dirette e indirette, negozi trans mortem, contratti di convivenza, etc. [216].
Va
precisato, però, che fino a non moltissimi anni fa,
tanto la dottrina che la giurisprudenza di legittimità apparivano compattamente
schierate nel senso che per convivenza more uxorio
potesse intendersi soltanto quella tra persone di sesso diverso [217]. Così,
per esempio, in una pronunzia di legittimità ormai risalente, si legge che la
fattispecie in esame «si concreta in quella consuetudine di vita fra due
persone di sesso diverso, che abbia il requisito subiettivo del trattamento
reciproco delle persone analogo, per contenuto e forma, a quella normalmente
nascente dal vincolo coniugale e che abbia, altresì, il requisito oggettivo
della notorietà esterna del rapporto stesso quale rapporto coniugale, inteso
non in senso assoluto, ma in relazione alle condizioni sociali e al cerchio di
relazioni dei conviventi, anche se sempre con un certo carattere di stabilità» [218].
Ancora
il non così risalente leading case già ricordato in materia
di risarcimento del danno da
uccisione del convivente [219]
contiene l’affermazione secondo cui «il diritto non può ignorare l’esistenza e
la (ancora relativa) diffusione della cosiddetta famiglia di fatto, derivante
dalla convivenza di due soggetti di sesso diverso al di fuori del matrimonio» [220].
Peraltro,
già prima che iniziasse in gran parte del nostro continente la «stagione della contrattualità» della
famiglia di fatto (e, segnatamente, di quella omosessuale), che diversi segnali
d’apertura comincia a registrare anche al di qua delle Alpi [221],
qualche voce isolata si era levata da parte di alcuni giudici di merito. Così
il Tribunale di Roma [222] aveva
ritenuto la convivenza – espressamente qualificata come more uxorio
– tra persone dello stesso sesso idonea a escludere la presunzione di sublocazione di cui all’art.
59, legge 27 luglio 1978, n. 392 e comunque non costituente abuso della cosa
locata, mentre il Tribunale di Firenze [223], dopo
aver qualificato senz’altro come more uxorio una
convivenza omosessuale, aveva rigettato la domanda proposta da uno dei
conviventi avverso gli eredi dell’altro e avente ad oggetto il pagamento delle
spese sopportate dall’attore per l’ospitalità offerta al defunto per un periodo
di circa tre anni, nonché quelle mediche e per l’assistenza del defunto stesso
durante tutta la durata della malattia, ritenendo tali prestazioni rientranti
nella obbligazione naturale tra i partners.
Già
diversi anni fa si rimarcava in dottrina come l’abbandono della via del diritto
di famiglia costringesse l’interprete a concentrare la propria attenzione sui
singoli atti posti in essere dai conviventi, a prescindere dal loro compimento
nell’ambito, o meno, di una cornice para-matrimoniale [224]. In
quest’ottica il problema viene inevitabilmente a spostarsi sulla possibilità
del riconoscimento di un’obbligazione naturale
tra conviventi omosessuali, argomento sul quale si registra già da tempo la
segnalata presa di posizione del Tribunale di Firenze. A favore di una simile
soluzione può anche invocarsi l’evoluzione nel concetto di obbligazione
naturale che è intervenuta a livello sia dottrinale che giurisprudenziale, per
cui il dovere morale e sociale di assistenza e di contribuzione reciproca viene
oggi a poggiare, più che altro, sull’«affidamento» ingenerato nella controparte
[225].
Ma, ben
al di là dei dati surriferiti, s’impone la considerazione per cui ogni
differenza di trattamento tra convivenza eterosessuale e convivenza omosessuale
si tradurrebbe in una illegittima discriminazione
fondata sull’orientamento sessuale, vietata dall’art. 21 della
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea [226],
nonché – prima ancora – in modo implicito, ma sicuro, dall’art. 3 Cost. [227].
Giustamente, quindi, nessuna delle disposizioni della novella del 2016 in tema
di convivenze di fatto pone discriminazioni di sorta tra convivenza omosessuale
e convivenza eterosessuale.
Nessun
dubbio può del resto sorgere sull’ammissibilità di contratti di convivenza tra omosessuali, negli stessi
limiti valevoli per le coppie eterosessuali, tanto più che proprio nella
direzione della negozialità, e non certo in quella dell’imposizione di effetti
giuridici conseguenti alla sola sussistenza del rapporto di fatto, si muovono
le soluzioni normative che in vari paesi europei si sono prefissate di
affrontare e risolvere i problemi in esame [228] e
oggi, anche in Italia, la soluzione additata dai commi 50 ss. della più volte
citata «riforma Cirinnà».
17.
Convivenze omosessuali e questioni legate all’omogenitorialità.
Un tema
su cui invece debbono ancora registrarsi divergenze (per lo meno a livello di
difformità di lettura della normativa) tra coppie (sia «legittime» che «di
fatto») omosessuali ed eterosessuali attiene al profilo della c.d. omogenitorialità: materia, questa, che
a sua volta appare strettamente legata ai temi della procreazione medicalmente
assistita, nonché dell’adozione e dell’affido familiare [229].
Per ciò
che attiene, più specificamente, all’incidenza che, nell’ambito della crisi del rapporto di coppia,
l’orientamento sessuale dei genitori può dispiegare sulle relazioni con i figli
minori, vanno tenuti distinti i due versanti seguenti: (a)
quello delle conseguenze per la prole della crisi di una coppia eterosessuale,
allorquando uno dei due genitori abbia dato vita ad una relazione omosessuale
con un nuovo partner;
(b) quello delle conseguenze per la prole della fine un
rapporto di coppia omosessuale, nel corso del quale (nei modi più vari) sia
sorto un rapporto di filiazione, o si siano sviluppate relazioni privilegiate
tra il/la compagno/a e il figlio dell’altro/a.
Il
primo caso da prendere in considerazione è dunque quello di una coppia
eterosessuale – coniugata o meno, ma convivente e con prole minorenne – la
quale si venga a trovare in una situazione di crisi, mentre uno dei suoi componenti inizia un rapporto di tipo
omosessuale, che magari sfocia anche in una convivenza con il
nuovo/la nuova partner. Al riguardo si dovrà tenere
presente in primo luogo la regola del divieto, sul piano sovranazionale, di
discriminazioni basate sull’orientamento sessuale. Sul punto rilievo dirimente
assumono regole quale quelle di non discriminazione sulla base
dell’orientamento sessuale consacrate nella già più volte ricordata Carta di Nizza (art. 21, 1° co.) e di
rispetto della vita privata e familiare di cui alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo
(art. 8). È noto che il Parlamento europeo
ha indirizzato, già da molto tempo, raccomandazioni agli Stati membri sulla
parità di diritti degli omosessuali nella Comunità, nonché sul rispetto dei
diritti umani nell’Unione Europea, affinché si garantiscano alle coppie non
sposate e a quelle omosessuali la parità di diritti rispetto alle coppie e alle
famiglie tradizionali, in particolare in materia di legislazione fiscale,
regime patrimoniale e diritti sociali. Ha inoltre sollecitato i Paesi che non vi
abbiano ancora provveduto a modificare i propri ordinamenti in modo da
introdurre la convivenza registrata e riconoscere giuridicamente le unioni di
fatto, senza discriminazioni basate sul sesso.
Per
quanto attiene alla Corte europea dei diritti
dell’uomo, una notevole evoluzione ha avuto luogo nel corso degli
ultimi anni. La stessa, infatti, in un primo tempo si era rifiutata di
estendere alle coppie omosessuali i principi attinenti alla legislazione
matrimoniale, con le conseguenti norme «di favore» verso i nubendi, peraltro
prendendo posizione in senso contrario all’applicazione di principi «di
sfavore» (e dunque discriminatori) verso genitori omosessuali. Potrà citarsi al
riguardo la sentenza del 21 dicembre 1999, nel caso Salgueiro da
Silva Mouta v. Portugal. Sul punto la Corte europea ritenne che
una decisione della Corte d’appello di Lisbona, la quale aveva negato l’affidamento della figlia minorenne al padre, motivando
sulla base dell’omosessualità di quest’ultimo e della sua convivenza con un
altro uomo, costituisse violazione degli artt. 8 e 14 della
Convenzione [230].
Sarà
interessante notare che il riscontro della medesima violazione dell’art. 14
della Convenzione cit. «combiné avec l’article 8» si pone alla base del
successivo arresto del 22 gennaio 2008, con il quale i giudici di Strasburgo
hanno condannato la Francia nel caso E.B. v. France,
dichiarando contrario alla Convenzione il diniego dell’idoneità all’adozione deciso dalle autorità di
uno Stato membro che consente per legge al singolo di adottare, qualora tale
diniego sia motivato con la mancanza di un riferimento genitoriale del sesso
opposto a quello dell’aspirante genitore adottivo celibe o nubile. Decisione,
quest’ultima, che costituisce un’importante novità, atteso che, nel precedente caso
Fretté v. France, la medesima Corte europea dei diritti
dell’uomo aveva ritenuto, con una maggioranza di soli quattro voti contro tre,
che il rifiuto al ricorrente dell’idoneità all’adozione non integrasse un
trattamento ingiustificatamente discriminatorio [231].
Principi
analoghi a quelli del caso Salgueiro da Silva Mouta v. Portugal sono
stati affermati anche dalla giurisprudenza italiana,
che ha in diverse occasioni ritenuto di per sé irrilevante l’orientamento
sessuale del genitore (e la situazione di eventuale convivenza con una persona
del medesimo sesso) ai fini dei provvedimenti che il giudice deve assumere
relativamente alla concreta gestione del rapporto genitoriale [232]. Le
citate decisioni di Strasburgo hanno
segnato una vistosa svolta, che ha portato la Corte europea a includere
«l’orientamento sessuale» tra le ragioni che non possono di per sé determinare
una differenza di trattamento ai sensi dell’art. 14 CEDU, essendo le differenze
di trattamento fondate sull’orientamento sessuale conformi alla Convenzione,
solo se se ne dimostra la necessità per il perseguimento di un fine legittimo.
E dunque, mentre già nel 2003, nel caso Karner v Austria, lo Stato convenuto era stato condannato per
violazione degli artt. 8 (che garantisce tra l’altro il rispetto al proprio
«domicilio») e 14 della Convenzione, poiché non aveva dimostrato che l’esclusione
dei conviventi more uxorio
omosessuali dalla successione di diritto nel contratto di locazione dopo la
morte del convivente conduttore fosse «necessaria» per raggiungere il fine
legittimo della «protezione della famiglia intesa in senso tradizionale», nella
successiva pronuncia Schalk e Kopf v Austria, emanata nel
2010, la Corte di Strasburgo ha affermato che l’esclusione delle coppie omosessuali dal matrimonio non integra un
trattamento discriminatorio contrario alla CEDU, ma ciò solo in quanto in
Austria è oggi riconosciuta la possibilità di registrare la convivenza, con
attribuzione di alcuni diritti e doveri simili, sia pur più limitati, a quelli
coniugali [233].
Ancora,
per quel che riguarda le conseguenze per la prole della
fine un rapporto di coppia omosessuale, nel corso del quale (nei
modi più vari) sia sorto un rapporto di filiazione, o si siano sviluppate
relazioni privilegiate tra il/la compagno/a e il figlio dell’altro/a, dovrà
tenersi presente che un rapporto di filiazione
bilaterale rispetto ad entrambi i membri della coppia omosessuale
potrebbe darsi soltanto qualora si trattasse di prole adottiva di entrambi,
ovvero di prole biologica di uno di essi (ovviamente vuoi legittima, in quanto
derivante da precedente unione matrimoniale, vuoi naturale riconosciuta o
dichiarata), successivamente adottata dall’altro; ciò sempre a condizione,
beninteso, che la creazione di questo secondo vincolo non avesse «cancellato»
il preesistente rapporto, ma vi avesse aggiunto, per così dire, il secondo al
primo, come avviene, ad es., in base all’art. 44, lett. b),
l. n. 184 del 1983.
Ora,
proprio sull’applicabilità della cennata disposizione alle coppie omosessuali è
intervenuto negli ultimi anni un radicale mutamento di prospettiva, che si è
adeguatamente riflesso nella giurisprudenza, tanto di merito che di
legittimità. 9 Così, già nel 2014, il Tribunale per i Minorenni di Roma [234] aveva
accolto nell’«interesse della minore» la richiesta di adozione presentata da una donna convivente della mamma biologica della
bambina. Il concepimento era avvenuto a seguito di un
procedimento di procreazione assistita portato avanti in Spagna. Si tratta del
primo caso in Italia di «stepchild adoption».
Nella specie il tribunale aveva fatto applicazione dell’istituto dell’«adozione
in casi particolari» prevista dalla lett. d)
dell’art. 44 della l. n. 184 del 1983, come modificata dalla l. n. 149 del
2001, che, chiarisce la sentenza, «risponde all’intenzione del Legislatore di
voler favorire il consolidamento dei rapporti tra il minore e i parenti o le persone che già si prendono cura del minore
stesso», prevedendo un’adozione con effetti più limitati, rispetto a quella
legittimante, ma con presupposti meno rigorosi. Soprattutto, la norma
non prevede la necessità di un «rapporto di coniugio» e dunque «può essere
disposta a favore del convivente del genitore dell’adottando». E siccome «non
discrimina tra coppie conviventi eterosessuali od omosessuali», essa «non può
non applicarsi anche a conviventi del medesimo sesso». Del resto, una lettura
diversa, precisa il Collegio, «sarebbe contraria alla ratio legis,
al dato costituzionale nonché ai principi di cui alla Cedu di cui l’Italia è
parte».
La
decisione, sicuramente condivisibile per ciò che attiene al risultato ottenuto,
non appare esente da critiche sotto il profilo tecnico. Ed invero, l’ipotesi
dell’«impossibilità di affidamento preadottivo»,
nel contesto della legge sull’adozione, non può riferirsi che alle due
circostanze seguenti: a) che vi sia una situazione di
fatto, in cui il minore, pur in stato di abbandono, non riesca ad essere
affidato ad una famiglia adottiva, per ragioni contingenti quali l’età, il
difficile contesto sociale in cui è nato, la presenza di situazioni di
disabilità fisica o psichica, ecc. Conseguentemente, anziché collocarlo in
istituti, si preferisce darlo in adozione a persone singole o anziane con cui
il minore abbia instaurato rapporti affettivi; b)
che, in alternativa, vi sia l’impossibilità giuridica di disporre l’affidamento
preadottivo, perché, ad esempio, manca lo «stato di abbandono». Quest’ultima
situazione, tuttavia, non può coincidere con quella evidente mancanza dello
stato di abbandono che deriva dal semplice fatto che il minore è inserito in
una famiglia ricostituita, creata dalla convivenza del proprio genitore con un
altro soggetto. Questo caso è, infatti, già preso in esame da un’altra
disposizione del citato art. 44: quella, per l’appunto, che richiede la
presenza di uno stato di coniugio tra genitore biologico e adottante. È
evidente, quindi, che se il legislatore avesse voluto ricondurre la situazione
qui in esame all’art. 44 cit., non avrebbe preteso lo stato di coniugio
dell’adottante con il genitore biologico del minore [235].
Occorre tenere presente che le uniche adozioni legittimanti, in relazione ad un
minore abbandonato, da parte di un single ammesse oggi dal nostro ordinamento
sono quella della separazione personale tra i coniugi aspiranti adottanti nel
corso dell’affidamento preadottivo (art. 25, 5° co., l. n. 184 del 1983) e
quella dell’adozione pronunciata in un Paese straniero che consente ai singolo
l’adozione, a istanza di un cittadino italiano, il quale dimostri al momento
della pronuncia di aver soggiornato continuativamente e risieduto da almeno due
anni in tale Paese, ai sensi dell’art. 36, 4° co., l. n. 184 del 1983.
In
assenza, dunque, di adozione o di riconoscimento (e pertanto di un qualsiasi
rapporto giuridico con uno dei membri della coppia di fatto) è comunque
innegabile che un rapporto di «genitorialità de facto» della coppia omosessuale
possa darsi. Basti pensare al caso dell’unico genitore biologico (o adottivo, o al genitore biologico o adottivo
affidatario a seguito di allentamento o scioglimento di un precedente legame di
coppia eterosessuale) che inizi uno stabile rapporto di coppia con una persona
del medesimo sesso, la quale di fatto
venga ad assumere, agli occhi della prole, un ruolo «co-genitoriale» (si usa al
riguardo talora il termine «genitore intenzionale», o, più frequentemente, di «genitore
sociale», proprio per designare il convivente del genitore biologico e/o legale). Il tutto con
l’ulteriore particolarità costituita dalla circostanza che il minore in questione
ben può aver sviluppato un rapporto affettivo verso entrambi i partners omosessuali, assolutamente identico a quello che
i suoi coetanei nutrono verso i propri genitori (biologici o adottivi)
eterosessuali. Anche in relazione a questa peculiare situazione sono ipotizzabili svariati rimedi sia per
il caso di rottura conflittuale, che nell’ipotesi di accordi tra gli ex partners [236].
18. Segue. La giurisprudenza più recente in tema di omogenitorialità.
Posto
quanto sopra, occorre però dare atto del fatto che l’evoluzione
giurisprudenziale successiva alla decisione del Tribunale per i minorenni di
Roma del 2014 si è andata rapidamente conformando al precedente di merito
appena citato: così ad es. una decisione di merito del 2017 [237] ha
stabilito che, «In virtù della clausola di
salvaguardia di cui all’art. 1, co. 20, L. n. 76 del 2016, l’ipotesi di
adozione in casi particolari ex art.
44, lett. d), L. 4 maggio 1983, n. 184 può trovare applicazione anche in caso
di impossibilità giuridica di affidamento preadottivo per non essere il minore
dichiarato in stato di abbandono sussistendo un genitore biologico che ne ha
cura; la norma può pertanto trovare applicazione anche nel caso in cui sussista
l’interesse concreto del minore al riconoscimento del rapporto genitoriale di
fatto instauratosi con l’altra figura genitoriale sociale, seppure dello stesso
sesso».
La stessa giurisprudenza di legittimità, dopo una presa
di posizione in senso contrario [238], è passata ad affermare l’ammissibilità dell’adozione ex art. 44 cit. da parte del compagno o
della compagna dello stesso sesso del genitore biologico. Così, nel 2016, la
Cassazione [239] ha stabilito che «In tema di adozione in casi
particolari, l’art. 44, co. 1, lett. d), della l. n. 183 del 1994, integra una
clausola di chiusura del sistema, intesa a consentire l’adozione tutte le volte
in cui è necessario salvaguardare la continuità affettiva ed educativa della
relazione tra adottante ed adottando, come elemento caratterizzante del
concreto interesse del minore a vedere riconosciuti i legami sviluppatisi con
altri soggetti che se ne prendono cura, con l’unica previsione della condicio legis della “constatata
impossibilità di affidamento preadottivo”, che va intesa, in coerenza con lo
stato dell’evoluzione del sistema della tutela dei minori e dei rapporti di
filiazione biologica ed adottiva, come impossibilità “di diritto” di procedere
all’affidamento preadottivo e non di impossibilità “di fatto”, derivante da una
situazione di abbandono (o di semi abbandono) del minore in senso
tecnico-giuridico. La mancata specificazione di requisiti soggettivi di
adottante ed adottando, inoltre, implica che l’accesso a tale forma di adozione
non legittimante è consentito alle persone singole ed alle coppie di fatto,
senza che l’esame delle condizioni e dei requisiti imposti dalla legge, sia in
astratto (l’impossibilità dell’affidamento preadottivo) che in concreto
(l’indagine sull’interesse del minore), possa svolgersi dando rilievo, anche
indirettamente, all’orientamento sessuale del richiedente ed alla conseguente
relazione da questo stabilita con il proprio partner».
Quanto ai rapporti di diritto internazionale privato,
nello stesso anno si è deciso [240] che «È riconoscibile in Italia un atto di nascita
straniero, validamente formato, dal quale risulti che il nato è figlio di due
donne (una che l’ha partorito e l’altra che ha donato l’ovulo), atteso che non
esiste, a livello di principi costituzionali primari, come tali di ordine
pubblico ed immodificabili dal legislatore ordinario, alcun divieto, per le
coppie omosessuali, di accogliere e generare figli, venendo in rilievo la
fondamentale e generale libertà delle persone di autodeterminarsi e di formare
una famiglia a condizioni non discriminatorie rispetto a quelle consentite dalla
legge alle coppie eterosessuali».
Ancora, nel 2018, la stessa Corte [241] ha stabilito che «Non è contraria all’ordine pubblico ed
è quindi trascrivibile nei registri dello stato civile italiano la sentenza
straniera che abbia pronunciato l’adozione
piena dei rispettivi figli biologici, da parte di due donne di cittadinanza
francese coniugate in Francia e residenti in Italia, poiché, ai sensi dell’art.
24 della Convenzione dell’Aja sulla protezione dei minori e la cooperazione in
materia di adozione internazionale del 1993, il riconoscimento dell’adozione
può essere rifiutato da uno Stato contraente solo se, tenuto conto
dell’interesse superiore del minore, essa sia manifestamente contraria
all’ordine pubblico. Tale interesse, nella specie già vagliato dal giudice
straniero, coincide con il diritto del minore al mantenimento della stabilità
della vita familiare consolidatasi con entrambe le figure genitoriali, senza
che abbia rilievo la circostanza che le stesse siano rappresentate da una
coppia dello stesso sesso, non incidendo l’orientamento sessuale sull’idoneità
dell’individuo all’assunzione della responsabilità genitoriale».
In quel medesimo anno, la S.C. [242] si è anche occupata dei rapporti tra minore e convivente
del nonno, stabilendo che «Alla luce dei principi desumibili dall’art. 8 CEDU,
dall’art. 24, co. 2, della Carta di Nizza e dagli artt. 2 e 30 Cost., il
diritto degli ascendenti, azionabile anche in giudizio, di instaurare e
mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni, previsto dall’art.
317-bis c.c., cui corrisponde lo
speculare diritto del minore di crescere in famiglia e di mantenere rapporti
significativi con i parenti, ai sensi dell’art. 315-bis c.c., non va riconosciuto ai soli soggetti legati al minore da
un rapporto di parentela in linea retta ascendente, ma anche ad ogni altra
persona che affianchi il nonno biologico del minore, sia esso il coniuge o il convivente
di fatto, e che si sia dimostrato idoneo ad instaurare con il minore medesimo
una relazione affettiva stabile, dalla quale quest’ultimo possa trarre un
beneficio sul piano della sua formazione e del suo equilibrio psico-fisico» [243].
Peraltro, va detto, in conclusione della presente
disamina, che l’ «ultima frontiera» della problematica legata
all’omogenitorialità ed alla procreazione nel contesto della famiglia same sex
è costituita dalla possibilità, pubblicamente annunciata da taluni sindaci, di
procedere direttamente alla formazione dell’atto di nascita con menzione, quali
genitori, di entrambi i conviventi di fatto dello stesso sesso (o civilmente
uniti) [244].
[2] Cfr., ex multis, Gazzoni, Dal concubinato alla famiglia di fatto, Milano, 1983, p. 60; Roppo, Voce Famiglia. III) Famiglia di fatto, in Enc. giur. Treccani, XIV, Roma, 1989, p. 1 ss.; Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, Milano, 1991, p. 21 ss.; Id., I diritti dei conviventi. Realtà e prospettive tra Italia ed Europa, Padova, 2012, p. 1 ss.
[3] Cfr. Sesta, Diritto di famiglia2, Padova, 2005, p. 402.
[4] Ferrando, Convivere senza matrimonio: rapporti personali e patrimoniali nella famiglia di fatto, in Fam. e dir., 1998, p. 183.
[5] Cass., 4 aprile 1998, in Foro. it., 1998, I, c. 2154; sulla definizione della famiglia di fatto prima della riforma del 2016 cfr. inoltre D’Angeli, La famiglia di fatto, Milano, 1989, p. 1 ss., 153 ss.
[6]
Cfr. per tutti Oberto, I rapporti
patrimoniali nelle unioni civili e nelle convivenze di fatto, in Aa. Vv.,
La nuova regolamentazione
delle unioni civili e delle convivenze – Legge 20 maggio 2016, n. 76,
Torino, 2016, p. 60 s.; Id., I contratti di convivenza, Commento all’art. 1, commi 50-63, Legge 20
maggio 2016, n.
[7] Cfr. ad es. S. Rossi, La legge “Cirinnà” tra love rights e politica del diritto, in Studium iuris, 2016, p. 986, nt. 48; nella stessa ottica sembra volersi collocare Ruscello, op. loc. ultt. citt., secondo cui «c’era una volta la c.d. famiglia di fatto»: in realtà, come dimostrano queste note, pur dopo l’approvazione della Cirinnà, la famiglia di fatto è ancora … alive and kicking!
[8] Franceschelli, I rapporti di fatto. Ricostruzione della fattispecie e teoria generale, Milano, 1984, p. 8 ss.; Sacco, Voce Autonomia nel diritto privato, in Dig. disc. priv., Sez. civ., II, Torino, 1984, p. 521 s.; p. 521s.; Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 4 ss.
[9] Savatier, Le droit, l’amour et la liberté, Paris, 1963, p. 137; Furgiuele, Libertà e famiglia, Milano, 1979, p. 277 s.; Grassetti, Voce Famiglia (diritto privato), in Noviss. Dig. it., Appendice, III, Torino, 1982, p. 639; Oberto, op. loc. ultt. citt.
[10] Oberto, op. loc. ultt. citt.; Id., I contratti di convivenza, Commento all’art. 1, commi 50-63, Legge 20 maggio 2016, n. 76, cit., p. 1337 ss.; in senso conforme v. anche Mazzariol, Convivenze di fatto e autonomia privata: il contratto di convivenza, Napoli, 2018, p. 144 ss., 161, che, condivisibilmente, parla di un «fatto qualificato».
[11] Si usa al riguardo l’espressione: «convivenza non Cirinnà» (cfr. ad es. Consiglio Nazionale del Notariato, Comunione legale, contratto di convivenza e circolazione dei beni dopo la legge Cirinnà, Studio Civilistico n. 196-2017/C, Approvato dalla Commissione Studi Civilistici il 24 gennaio 2018, http://www.upel.va.it/wp-content/uploads/2018_StudioCNN196_Conv.pdf).
[12] Per approfondimenti si fa rinvio a Oberto, I contratti di convivenza, Commento all’art. 1, commi 50-63, Legge 20 maggio 2016, n. 76, cit., p. 1347 ss.
[13] Su cui cfr. Marella, Il diritto di famiglia fra status e contratto: il caso delle convivenze non fondate sul matrimonio, in Aa. Vv., I contratti di convivenza, a cura di Moscati e Zoppini, Torino, 2002, p. 94 ss.
[14] Su cui v. per tutti Vercellone, Più di due. Verso uno statuto giuridico della famiglia poliamore, in Riv. crit. dir. priv., 2017, p. 607 ss., spec. 635 ss.
[15] Cfr. Vercellone, Oltre le obbligazioni naturali: le unioni di fatto come rapporto contrattuale, in The Cardozo el. law bull., Fall 2018, p. 22 ss., 25 ss.
[16] Cfr. Falzea, Problemi attuali della famiglia di fatto, in Aa. Vv., Una legislazione per la famiglia di fatto?, Napoli, 1988, p. 52.
[17] Cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 216 ss.; Id. I diritti dei conviventi. Realtà e prospettive tra Italia ed Europa, cit., p. 103 ss.
[18] Sul tema per approfondimenti cfr. Oberto, I contratti di convivenza, Commento all’art. 1, commi 50-63, Legge 20 maggio 2016, n. 76, cit., p. 1343 s.
[19] Come sottolinea Roppo, op. loc. ultt. citt.
[20]
Cfr. Oberto, La
promessa di matrimonio tra passato e presente, Padova, 1996, p. 5 ss.; per
la giurisprudenza che attribuisce rilievo alla convivenza prematrimoniale v. da
ultimo Cass., 5 luglio 2017, n. 16602, in tema di ripartizione della pensione
di reversibilità.
[21] Su cui v. per tutti Balestra, La famiglia di fatto, in Aa. Vv., Il nuovo diritto di famiglia, Trattato diretto da Ferrando, II, Rapporti personali e patrimoniali, Bologna, 2008, p. 1037 ss.; Id., La convivenza di fatto. Nozione, presupposti, costituzione e cessazione, cit., p. 919 ss.
[22] Cfr. Gazzoni, op. cit., p. 69.
[23] Cfr. Dogliotti, Voce Famiglia di fatto, in Dig. disc. priv., Sez. civ., VIII, Torino, 1992, p. 194.
[24]
Cfr. ad es. Buffone, L’elemento
costitutivo passa per l’iscrizione agli uffici anagrafici, in Guida dir., 2016, n. 26, p. 22 ss.; Luiso, La convivenza di fatto dopo la
L. 2016/76, http://www.judicium.it/wp-content/uploads/2016/11/F.P.-Luiso.pdf,
2016, p. 2 s.; Greco, Il contratto di convivenza, in Aa.
Vv., Unioni civili e convivenze di fatto. L. 20 maggio 2016, n. 76,
[25] Cfr. Blasi, La disciplina delle convivenze omo e etero affettive, in Aa. Vv., La nuova regolamentazione delle unioni civili e delle convivenze – Legge 20 maggio 2016, n. 76, cit., p. 192, ad avviso della quale tale accertamento «ha semplicemente valore dichiarativo e di prova esterna della convivenza»; v. inoltre Mecenate, Unioni civili e convivenze. Successioni, forma e pubblicità, diiritto internazionale privato, ibidem, p. 151, secondo cui si tratta di pubblicità notizia; De Filippis, Unioni civili e contratti di convivenza, Padova, 2016, p. 254 s.; Patti, Le convivenze «di fatto» tra normativa di tutela e regime opzionale, Nota a Cass., 21 aprile 2016, n. 8037, in Foro. it., 2017, I, c. 303 ss.; Mazzariol, Coabitazione e registrazione anagrafica: due requisiti non essenziali per la configurabilità di una “convivenza di fatto”, Nota a Cass., 13 aprile 2018, n. 9178, in Nuova giur. civ. comm., 2018, p. 1246 ss.; Id., Convivenze di fatto e autonomia privata: il contratto di convivenza, cit., p. 158 ss.; Oberto, I contratti di convivenza, Commento all’art. 1, commi 50-63, Legge 20 maggio 2016, n. 76, cit., p. 1338 ss.
[26] Più esattamente, Cass., 13 aprile 2018, n. 9178, in Nuova giur. civ. comm., 2018, 1242, con nota di Mazzariol, ha stabilito che, anche sotto la vigenza della «Cirinnà», il requisito della coabitazione non è elemento necessario, né sufficiente per la riconduzione di un rapporto di coppia al modello legale della convivenza di fatto. Ciò che conta è l’esistenza di un legame affettivo stabile e duraturo tra le parti e la spontanea assunzione di reciproci impegni di assistenza morale e materiale. Per l’accertamento di questi elementi il giudice deve verificare la presenza di un complesso di indizi – quali, ad esempio, un progetto di vita in comune, la compartecipazione di ciascuno dei conviventi alle spese familiari, l’esistenza di un conto corrente comune, la coabitazione – da valutare nel loro insieme e non atomisticamente. Con la conseguenza che la mancanza di una casa comune (e della registrazione anagrafica) non preclude al rapporto affettivo di essere considerato una convivenza di fatto.
[27] Cfr. Rescigno, Manuale del diritto privato italiano, ed. a cura di Cirillo, Milano, 2000, p. 309; v. inoltre per ulteriori rinvii Balestra, Rapporti di convivenza, in Aa. Vv., Codice della famiglia, a cura di Sesta, 3a ed., Milano, 2015, p. 2637 ss.; Id., I contratti di convivenza, Commento all’art. 1, commi 50-63, Legge 20 maggio 2016, n. 76, cit., p. 1221 ss.
[28] Cfr. Busnelli e Santilli, La famiglia di fatto, in Commentario al diritto italiano della famiglia, a cura di Cian, Oppo e Trabucchi, VI, Padova, 1992, p. 760.
[29] Cfr., anche per i richiami, Quadri, Rilevanza attuale della famiglia di fatto ed esigenze di regolamentazione, in Dir. fam. pers., 1994, p. 291 s.; Balestra, Rapporti di convivenza, in Aa. Vv., Codice della famiglia, a cura di Sesta, 3a ed., cit., p. 2639.
[30] Cfr. Balestra, La famiglia di fatto, 2008, cit., p. 1039 s.; v. inoltre Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 209 ss.; Id., I diritti dei conviventi. Realtà e prospettive tra Italia ed Europa, cit., p. 4 ss.
[31] Su cui v. per tutti Oberto, I rapporti patrimoniali nelle unioni civili e nelle convivenze di fatto, cit., p. 59 ss., 88 ss.; Id., I contratti di convivenza, Commento all’art. 1, commi 50-63, Legge 20 maggio 2016, n. 76, cit., p. 1337 ss.
[32] Sul tema v. per tutti Oberto, I contratti di convivenza, Commento all’art. 1, commi 50-63, Legge 20 maggio 2016, n. 76, cit., p. 1342 s.
[33] Per la trattazione dei profili comparatistici e sovranazionali della famiglia di fatto si rimanda a Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 3 ss., 114 ss., 130 ss., 215 ss.; Id., Famiglia e rapporti patrimoniali. Questioni d’attualità, Milano, 2002, p. 961 ss.; Id., I diritti dei conviventi. Realtà e prospettive tra Italia ed Europa, cit., p. 13 ss.; Asprea, La famiglia di fatto in Italia e in Europa, Milano, 2003, p. 29; Dogliotti, op. cit., p. 199 ss.; Busnelli e Santilli, op. cit., p. 760 ss.; Giaimo, I contratti di convivenza nell’ordinamento giuridico inglese, in Aa. Vv., I contratti di convivenza, a cura di Moscati e Zoppini, Torino, 2002, p. 205 ss.; Bonini Baraldi, Le nuove convivenze tra discipline straniere e diritto interno, Milano, 2005, passim; Pescara, Le convivenze non matrimoniali nelle legislazioni dei principali paesi europei, in Aa. Vv., Il nuovo diritto di famiglia, Trattato diretto da Ferrando, II, cit., p. 967 ss.; Viglione, I rapporti di convivenza: esperienze europee, in Nuova giur. civ. comm., 2016, p. 1723 ss.
[34] Sul punto sarà utile evocare la vicenda risolta dalla Corte d’appello di Firenze nel 2006, secondo cui, poiché il nostro ordinamento subordina il rilascio del permesso di soggiorno per motivi familiari alla qualità di «familiare» del soggetto richiedente, il provvedimento dell’autorità neozelandese che riconosce a due persone del medesimo sesso la qualifica di partners di fatto, cioè di conviventi, e non di familiari, non costituisce titolo idoneo perché possa essere rilasciato il permesso di soggiorno ai sensi del d. legisl. n. 286/1998 (cfr. App. Firenze, 6 dicembre 2006, in Fam. e dir., 2007, p. 1040. La predetta decisione è stata confermata dalla Suprema Corte (Cass., 17 marzo 2009, n. 6441, in Fam. e dir. 2009, p. 454). Secondo, invero, la Cassazione, «In tema di diritto dello straniero al ricongiungimento familiare, il cittadino extracomunitario legato ad un cittadino italiano ivi dimorante da un’unione di fatto debitamente attestata nel paese d’origine del richiedente, non può essere qualificato come “familiare” ai sensi dell’art. 30, 1° co., lett. c), del d. legisl. n. 286 del 1998, in quanto tale nozione, delineata dal legislatore in via autonoma, agli specifici fini della disciplina del fenomeno migratorio, non è suscettibile di estensione in via analogica a situazioni diverse da quelle contemplate, non essendo tale interpretazione imposta da alcuna norma costituzionale. Né tale più ampia nozione può desumersi dagli artt. 8 e 12 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo o dall’art. 9 della Carta di Nizza (...) in quanto tali disposizioni escludono il riconoscimento automatico di unioni diverse da quelle previste dagli ordinamenti interni, salvaguardando l’autonomia dei singoli Stati nell’ambito dei modelli familiari. Infine, non può trovare applicazione la più recente normativa di derivazione comunitaria, in quanto il d. legisl. n. 5 del 2007 si applica soltanto ai familiari di soggiornanti provenienti da paesi terzi e il d. legisl. n. 30 del 2007 tutela la libertà di circolazione e di soggiorno dei cittadini UE e dei loro familiari nel territorio di uno stato membro diverso da quello di appartenenza, e non il diritto al ricongiungimento familiare con un cittadino di uno Stato membro regolarmente residente e dimorante nel suo paese d’origine». Al riguardo si è rilevato (Oberto, I diritti dei conviventi. Realtà e prospettive tra Italia ed Europa, cit., p. 214 ss.) che questa soluzione risulta quanto mai deludente, con riguardo al contenuto ed agli effetti della Carta di Nizza. Secondo la Cassazione, infatti, al fine di accedere ad una nozione di «familiare» comprensiva anche del convivente omosessuale, non varrebbero le disposizioni dell’art. 9 del predetto documento sovranazionale («Il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio»), posto che, «Se è vero che la formulazione del citato art. 9 da un lato conferma l’apertura verso forme di relazioni affettive di tipo familiare diverse da quelle fondate sul matrimonio e, dall’altro, non richiede più come requisito necessario per invocare la garanzia dalla norma stessa prevista la diversità di sesso dei soggetti del rapporto, resta fermo che anche tale disposizione, così come l’art. 12 CEDU, rinvia alle leggi nazionali per la determinazione delle condizioni per l’esercizio del diritto, con ciò escludendo sia il riconoscimento automatico di unioni di tipo familiare diverse da quelle previste dagli ordinamenti interni che l’obbligo degli stati membri di adeguarsi al pluralismo delle relazioni familiari, non necessariamente eterosessuali». Del tutto ignorato era rimasto nella decisione (che precede, è il caso di ricordarlo, l’introduzione in Italia dell’istituto dell’unione civile per persone dello stesso sesso), invece, l’art. 21 della predetta Carta, che, come noto, fonda un chiaro divieto di trattamenti discriminatori, a ragione, tra l’altro, delle «tendenze sessuali». Quest’ultimo profilo viene, invece, velocemente sfiorato dalla Cassazione con riguardo agli artt. 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in relazione alla (dai ricorrenti) lamentata «arbitraria ingerenza nelle scelte del modello familiare, avente anche portata discriminatoria sulla base degli orientamenti sessuali». Ma siffatto peculiare aspetto viene invece espressamente scartato dalla Corte, «in quanto la mancata equiparazione al coniuge è prevista in relazione a qualsiasi tipo di convivenza non matrimoniale, e non soltanto per quelle tra persone dello stesso sesso». Sulla questione delle convivenze di fatto omosessuali si fa rinvio a quanto verrà osservato infra, §§ 16, 17 e 18.
[35] Cass., 23 settembre 2010, n. 20134.
[36] Cons. Stato, 31 ottobre 2017, n. 5040.
[37] Così sempre Cons. Stato, 31 ottobre 2017, n. 5040.
[38] Cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 21 ss.; Sesta, Diritto di famiglia2, cit., p. 400.
[39] Per un’analisi approfondita della genesi storica del fenomeno cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 21 ss.; Busnelli e Santilli, op. loc. ultt. citt.
[40] Cfr. Roppo, op. cit., p. 2.
[41] Ci si riferisce, in particolare, alla quasi integrale parificazione della condizione dei figli, a prescindere dalla nascita dentro o fuori del matrimonio, avutasi con la riforma del diritto di famiglia del 1975 – sul punto v. quanto si osserverà infra, §§ 5 e 15, nonché Asprea, op. cit., p. 115 ss. – ed alla precedente Corte cost., 3 dicembre 1969, n. 147, in Foro. it. 70, I, c. 2017, che sancì l’illegittimità costituzionale del reato di concubinato previsto dal codice penale all’art. 560 c.p.; cfr. altresì Dogliotti, op. cit., p. 190.
[42] Cfr. Sesta, op. loc. ultt. citt.
[43] Cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 43 ss., 53 ss.; Asprea, op. cit., p. 20.
[44] Cfr. Asprea, op. cit., p. 11 e 12 ss., sulla genesi dell’art. 29 Cost.
[45] Cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 53 ss.; Sesta, Diritto di famiglia2, cit., p. 402; in giurisprudenza cfr. Corte cost., 26 maggio 1989, n. 310, secondo cui «l’art. 29 Cost., pur non negando dignità a forme naturali del rapporto di coppia diverse dalla struttura giuridica del matrimonio, riconosce alla famiglia legittima una dignità superiore in ragione dei caratteri di stabilità e certezza e della reciprocità e corrispettività di diritti e doveri che nascono solo dal matrimonio».
[46] Cfr. Roppo, op. loc. ultt. citt.; Oberto, op. loc. ultt. citt., p. 53 ss.; Dogliotti, op. cit., p. 192 s.; in giurisprudenza v. Cass., 8 giugno 1993, n. 6381, su cui cfr. infra, §§ 9, 11 e 16.
[47] Cfr. ad es. Corasaniti, Famiglia di fatto e formazioni sociali, in Aa.Vv., La famiglia di fatto. Atti del convegno nazionale di Pontremoli (27-30 maggio 1976), Montereggio, s.d., ma 1977, p. 143 s.; Prosperi, La famiglia non fondata sul matrimonio, Napoli, 1980, p. 84 ss.; Perlingieri, La famiglia senza matrimonio tra l’irrilevanza giuridica e l’equiparazione alla famiglia legittima, in Aa. Vv., Una legislazione per la famiglia di fatto?, cit., p. 136 s; Falzea, Problemi attuali della famiglia di fatto, ivi, p. 51 ss.; Dogliotti, op. cit., p. 192 s.; Tommasini, La famiglia di fatto, in Aa. Vv., Il diritto di famiglia, I, in Trattato di diritto privato, diretto da Bessone, IV, Torino, 1999, I, p. 503 s.; Franceschelli, voce Famiglia di fatto, in Enc. dir., Aggiornamento, VI, Milano, 2002, p. 370.
[48] Così C.M. Bianca, La famiglia, Milano, 2005, p. 27; v. anche anche Furgiuele, Libertà e famiglia, cit., p. 282 ss.; Ferrando, Il matrimonio2, nel Trattato di diritto civile e commerciale, già diretto da Cicu, Messineo e Mengoni, continuato da Schlesinger, Milano, 2002, p. 206 ss.; Terranova, Convivenza e rilevanza delle unioni cc.dd. di fatto, in Aa. Vv., Trattato di diritto di famiglia, diretto da Zatti, I, Famiglia e matrimonio, 1, Milano, 2002, p. 806 s.
[49] Cfr. Perlingieri, Sulla famiglia come formazione sociale, in Aa. Vv., Rapporti personali nella famiglia, a cura di Perlingieri, Napoli, 1982, p. 39; Gazzoni, op. cit., p. 146 ss.
[51] Per una ricognizione di tali disposizioni v. anche Dogliotti, op. cit., p. 192 s.; Busnelli e Santilli, op. cit., p. 760 ss.
[52] Cfr. Busnelli e Santilli, op. cit., p. 778.
[53] Art. 6, l. 27 luglio 1978, n. 392 (c.d. “legge sull’equo canone”): cfr. Corte cost., 7 aprile 1988, n. 404.
[54] Corte cost., 20 dicembre 1989, n. 559.
[56] Per altri riferimenti di giurisprudenza costituzionale cfr. Asprea, op. cit., p. 80 ss.
[57] Si noti che le questioni in oggetto sono state successivamente risolte dall’art. 155-quater c.c., applicabile anche ai figli di genitori non coniugati, in base all’art. 4, l. 8 febbraio 2006, n. 54 e trovano ora sistemazione nell’art. 337 sexies c.c., inserito dall’art. 55, 1° co., d. legisl. 28 dicembre 2013, n. 154, a decorrere dal 7 febbraio 2014.
[58] Cfr. Roppo, op. cit., p. 3; da notare che l’art. 572 cit. reca ora l’inciso «o comunque convivente», a seguito della l. 1 ottobre 2012, n. 172.
[59] Sull’applicabilità al convivente dell’esimente di cui all’art. 384, 1° co., c.p. cfr. Corte cost., 18 gennaio 1996, n. 8, in Fam. e dir., 1996, p. 107. In epoca successiva la Consulta (cfr. Corte cost., 16 marzo 2018, n. 57) ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale – sollevata in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost. – dell’art. 649, co. 1, c.p., nella parte in cui non prevede «la non punibilità anche dei fatti criminosi di cui al Titolo XIII, Libro II del codice penale, commessi in danno di un convivente more uxorio»; sugli effetti penalistici e processualpenalistici della «legge Cirinnà» cfr. Pittaro, I profili penali della L. n.76 del 2016, in Fam. e dir., 2016, p. 1007 ss.; Riondato, L’unione familiare di matrimoni, unioni civili e convivenze, dopo la riforma penale 2016-2017, in Dir. pen. e proc., 2017, p. 997 ss.; Barbati, Maltrattamenti in famiglia e nuovi contesti familiari. (Delitti contro l’assistenza familiare), in Dir. pen. e proc., 2018, p. 1201 ss.
[60] Cfr. Roppo, op. cit., p. 2.
[61] Su alcuni dei progetti presentati nel corso della XIV legislatura cfr. per tutti Oberto, I contratti di convivenza tra autonomia privata e modelli legislativi, in Contratto e impresa/Europa, 2004, p. 87 ss.; per una panoramica più ampia v. anche Id., La comunione legale tra coniugi, nel Trattato di diritto civile e commerciale, già diretto da Cicu, Messineo e Mengoni, continuato da Schlesinger, I, Milano, 2010, p. 305 ss.; Id., I diritti dei conviventi. Realtà e prospettive tra Italia ed Europa, cit., p. 66 ss.; Id., I contratti di convivenza nei progetti di legge (ovvero sull’imprescindibilità di un raffronto tra contratti di convivenza e contratti prematrimoniali), in Fam. e dir., 2015, p. 165 ss.; per ulteriori commenti di alcune iniziative legislative v. inoltre Dogliotti e Figone, Famiglia di fatto e DICO: un’analisi del progetto governativo, in Fam. e dir., 2007, p. 416 ss.; Lipari, Rapporti coniugali di fatto e rapporti di convivenza (Note a margine di un iter legislativo), in Riv. trim. dir. proc. civ., 2007, p. 1025; Galuppi, Brevi note sulla proposta di legge relativa ai diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi, in Dir. fam. pers., 2008, p. 1930.
[63] Per l’applicazione di questa norma anche alle convivenze omosessuali cfr. D’Angeli, Il fenomeno delle convivenze omosessuali: quale tutela giuridica?, in I quaderni della Riv. dir. civ., Padova, 2003, p. 25; sul coordinamento di tale disposizione con la riforma del 2016 cfr. Campione, Commento agli artt. 4 e 13, d.p.r. 30 maggio 1989, n. 223, in Aa. Vv., Codice dell’unione civile e delle convivenze, a cura di Sesta, cit., p. 1263 ss.; Oberto, I contratti di convivenza, Commento all’art. 1, commi 50-63, Legge 20 maggio 2016, n. 76, cit., p. 1398 ss.
[64] Prima che intervenisse la modifica legislativa, la Corte costituzionale aveva dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, 1° co., l. 4 maggio 1983, n. 184, vecchia formulazione: cfr. Corte cost., 6 luglio 1994, n. 281, in Fam. e dir., 1994, p. 485; la decisione è stata definita un’«occasione mancata» da Astone, Ancora sulla famiglia di fatto: evoluzione e prospettive, in Dir. fam. pers., 1999, p. 1466.
[65] Cfr. Di Maio, I registri delle unioni civili, in Fam., pers. e succ., 2007, p. 59 ss. Le questioni qui trattate sono, ovviamente, diverse (ancorché in qualche modo correlate) rispetto a quelle attinenti al dibattito sulla possibilità di ammettere al matrimonio persone dello stesso sesso e di eventualmente trascrivere nei registri di stato civile matrimoni tra queste persone celebrati all’estero (sul punto cfr. per qualche cenno supra, § 2).
[66] Come precisa Paladini, La filiazione nella famiglia di fatto, in Familia, 2002, p. 609.
[67] In particolare Cass., 23 marzo 1995, n. 3402, in Dir. fam. pers., 1995, p. 1409, aveva stabilito che «lo speciale provvedimento per decreto disciplinato dal 2° co. dell’art. 148 c.c. è utilizzabile al fine di ottenere la condanna degli ascendenti dei genitori, privi di mezzi economici, a fornire a questi ultimi i mezzi necessari ad adempiere i loro doveri nei confronti dei figli, sia legittimi che naturali». Analogamente la giurisprudenza di merito aveva statuito che «il procedimento di cui all’art. 148, 3°, 4° e 5° co., c.c. è da ritenersi pertinente ed applicabile anche qualora il contributo richiesto e non versato per il mantenimento, l’educazione e la istruzione della prole sia destinato, non sussistendo tra i genitori vincolo matrimoniale, a figli naturali» (Trib. Roma, 13 dicembre 1993, in Dir. fam. pers., 1994, p. 1059; nello stesso senso anche Trib. Messina, 10 maggio 1991, in Giust. civ., 1992, I, p. 2899; in dottrina v., ex multis, Asprea, op. cit., p. 121 ss.).
[68] Sull’argomento Roppo, op. cit., p. 3; sulla vexata quaestio circa il fatto che l’art. 317-bis c.c. riconoscesse o meno la famiglia di fatto, cfr. per tutti Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 52 s. Per ciò che attiene ai rapporti con la prole a seguito di cessazione della convivenza si fa rinvio a quanto verrà illustrato infra, § 15.
[69] Cfr. Dogliotti, op. cit., p. 195; Balestra, La famiglia di fatto, Padova, 2004, p. 57, che ravvisava in tali comportamenti una doverosità sociale; sul dibattito circa l’applicabilità degli artt. 143 ss. c.c. cfr. Asprea, op. cit., p. 93 ss.
[70] Cfr. Sesta, Diritto di famiglia2, cit., p. 403.
[73] Su cui v. l’approfondita analisi di Mattucci, Gli alimenti in favore del “convivente di fatto”, in Fam. e dir., 2017, p. 705 ss.; cfr. inoltre De Filippis, op. cit., p. 283 ss.; Lenti, La nuova disciplina della convivenza di fatto: osservazioni a prima lettura, http://www.juscivile.it/contributi/2016/08_Lenti.pdf, 2016, p. 109; Ferrando, Libertà e solidarietà nella crisi delle convivenze, in Familia, 2017, p. 299 ss.; Paradiso, La comunità familiare, p. 287 ss.; Parini, Presupposti e contenuto del diritto agli alimenti a favore convivente di fatto, in Nuova giur. civ. comm., 2018, p. 1522 ss.; Emiliozzi, I diritti patrimoniali nella crisi della famiglia di fatto, in Riv. dir. civ., 2018, p. 1324 ss.; Mazzariol, Convivenze di fatto e autonomia privata: il contratto di convivenza, cit., p. 254 ss., 266 ss.; per la derogabilità in via convenzionale di siffatta regola si veda l’opinione, rimasta sostanzialmente isolata, dello scrivente (Oberto, I contratti di convivenza, Commento all’art. 1, commi 50-63, Legge 20 maggio 2016, n. 76, cit., p. 1349 s.), fondata sulla necessità di una lettura costituzionalmente orientata della disposizione in oggetto.
[74] V. ad es. Furgiuele, Libertà e famiglia, cit., p. 288, che esclude l’applicabilità soltanto degli artt. 143-bis, 143-ter – articolo, quest’ultimo, peraltro abrogato dall’art. 26, l. 5 febbraio 1992, n. 91 – e 145 c.c.; v. anche Alagna, Famiglia e rapporti tra coniugi nel nuovo diritto, Milano, 1983, p. 414 ss.; Prosperi, op. cit., p. 256 ss., pur ammettendo il ricorso all’analogia, escludeva l’applicabilità degli artt. 143, 143-bis, 145, 146, ultimo cpv., 156; in giurisprudenza v. Trib. Savona, 29 giugno 2002, in Fam. e dir., 2003, p. 596, a proposito dell’applicazione analogica dell’art. 143, 3° co., c.c.; cfr. inoltre Pret. Genova, 21 maggio 1981, in Foro. it., 1982, I, c. 1459, che ha esteso alla famiglia di fatto la norma di cui all’art. 145 c.c. in considerazione dei fini che caratterizzano la relativa procedura.
[75] Per una critica al ricorso al procedimento analogico in subiecta materia e per ulteriori approfondimenti cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 43 ss.; per analoghe conclusioni cfr. anche Monteverde, La convivenza more uxorio, in Aa. Vv., Il diritto di famiglia, Trattato diretto da Bonilini e Cattaneo, I, Famiglia e matrimonio, 2, Torino, 2007, p. 942; per la doverosità morale e sociale, e non giuridica, di comportamenti tra conviventi analoghi a quelli previsti dall’art. 143 c.c. si esprimono anche Paradiso, op. cit., p. 106; Santilli, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1980, p. 842; Bernardini, La convivenza fuori del matrimonio tra contratto e relazione sentimentale, Padova, 1992, p. 113; D’Angeli, La tutela delle convivenze senza matrimonio, Torino, 1995, p. 68 ss.; Ferrando, Il matrimonio2, cit., p. 239 ss.; Tommasini, op. cit., p. 508; Polidori, Convivenza e situazioni di fatto (i rapporti personali), in Aa. Vv., Trattato di diritto di famiglia, diretto da Zatti, I, Famiglia e matrimonio, 1, cit., p. 824; Sesta, Diritto di famiglia2, cit., p. 403 ss.
[76] Cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 86 ss.; Id., I rapporti patrimoniali nelle unioni civili e nelle convivenze di fatto, cit., p. 109 ss.
[77] Cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 241 ss. e, ora, il co. 53 della l. 20 maggio 2016, n. 76.
[78] Cfr. Gazzoni, op. cit., p. 116 s.; Pret. Milano, 8 febbraio 1990, in Foro. it., 1991, I, c. 329, ove si afferma che la situazione di convivenza more uxorio non implica alcun diritto al mantenimento di ciascuno dei conviventi nei confronti dell’altro; ugualmente Trib. Napoli, 8 luglio 1999, in Fam. e dir., 1999, p. 501.
[79] Elemento, quest’ultimo, peraltro già difficile da ipotizzare in seno ai rapporti scaturenti nell’ambito della famiglia legittima: cfr. Balestra, Rapporti di convivenza, in Aa. Vv., Codice della famiglia, a cura di Sesta, 3a ed., cit., p. 2643.
[80] Si pensi al dovere di contribuzione e a quello di assistenza materiale; sulla tematica si rinvia a Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 83 ss.; Id., I diritti dei conviventi. Realtà e prospettive tra Italia ed Europa, cit., p. 33 ss.; Balestra, Le obbligazioni naturali, nel Trattato di diritto civile e commerciale, già diretto da Cicu, Messineo e Mengoni, continuato da Schlesinger, Milano, 2004, p. 59 ss., nonché p. 233 ss.; cfr. inoltre quanto verrà detto infra, § 7.
[81] Cfr. Corte cost., 29 gennaio 1998, n. 2, in Fam. e dir. 98, p. 214.
[82] Cfr. il co. 40 s., su cui v. per tutti Mezzanotte, Commento ai co. 40-41, in Aa. Vv., Le unioni civili e le convivenze, a cura di C.M. Bianca, p. 523 ss.
[83] Cfr. Corte cost., 28 settembre 2016, n. 213.
[84] Sui temi della riforma in materia di d.a.t. cfr. per tutti Di Sapio, Muritano e Pischetola, DAT: tempo di comunicazione, tempo di cura (Notarella a margine del parere del Consiglio di Stato 31 luglio 2018, n. 01991), in www.academia.edu, 2018, p. 1 ss.; sui poteri assistenziali del convivente di fatto in caso di malattia o ricovero del partner cfr. Navone, Poteri assistenziali del convivente di fatto in caso di malattia o ricovero del partner, in Jus civ., 2017, p. 553 ss.
[85] Sul tema della prospettiva storica dell’obbligazione naturale tra conviventi cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 83 ss., Id., I diritti dei conviventi. Realtà e prospettive tra Italia ed Europa, cit., p. 33 ss.
[86] Cfr. Balestra, Le obbligazioni naturali, cit., p. 63.
[87] Cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 83 ss.; Id., I diritti dei conviventi. Realtà e prospettive tra Italia ed Europa, cit., p. 33 ss.; Balestra, Le obbligazioni naturali, cit., p. 233.
[88] Cass., 15 gennaio 1969, n. 60, in Foro. it., 1969, I, c. 1511 e Riv. dir. comm., 1969, p. 403; v. inoltre Trib. Roma, 13 maggio 1995, riportata da Balestra, La famiglia di fatto, 2004, cit., p. 74; Cass., 20 gennaio 1989, n. 285, in Arch. civ., 1982, p. 498; Cass., 3 febbraio 1975, n. 389; nel senso che si tratti di un’obbligazione naturale di natura indennitaria: Cass., 17 gennaio 1958, n. 84, in Foro. it., 1959, I, c. 470 e Cass., 25 gennaio 1960, n. 68, ivi., 1961, I, c. 2017; contra, nel senso che si tratti invece di donazioni rimuneratorie, Cass., 7 ottobre 1954, n. 3389, ivi, 1955, I, c. 847; sull’evoluzione della qualifica giuridica delle dazioni in discorso cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 83 ss.; Id., Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, Padova, 2003, p. 1 ss., e, successivamente, Spadafora, in, Aa. Vv., I contratti di convivenza, a cura di Moscati e Zoppini, cit., p. 157 ss.
[89] Sul tema cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 90 ss., nonché Cass., 13 marzo 2003, n. 3713, in Giur. it., 2004, p. 530, secondo cui è necessario che «che la prestazione risulti adeguata alle circostanze e proporzionata all’entità del patrimonio e alle condizioni sociali del solvens».
[90] Come un «ritorno al medioevo»: cfr. V. Carbone, Terminata la convivenza vanno restituiti i regali: la cassazione “ripiomba” nel Medioevo, in Corr. giur., 1999, p. 54.
[91] Cass., 24 novembre 1998, n. 11894, in Giust. civ., 1999, I, p. 686; Cass., 8 febbraio 1994, n. 1260, in Giur. it., 1995, I, 1, c. 684; per altri riferimenti cfr. Balestra, La famiglia di fatto, 2004, cit., p. 107 ss.
[92] Cass., 22 gennaio 2014, n. 1277, in Fam. e dir., 2014, p. 892, con nota di Bortolu e in Giur. it., 2015, p. 1092, con nota di Rocchio.
[93] Cass., 25 gennaio 2016, n. 1266, in Guida dir., 2016, n. 12, p. 64, con nota di Maglietta.
[94] L’argomento è trattato in Oberto, I contratti di convivenza, Commento all’art. 1, commi 50-63, Legge 20 maggio 2016, n. 76, cit., p. 1349 s.
[95] Cfr. Balestra, La famiglia di fatto, 2004, cit., p. 142.
[96] Cfr. Prosperi, op. cit., p. 287 ss.
[97] Cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 59 ss.; Id., La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 298 ss.; Sesta, Diritto di famiglia2, cit., p. 405; Cocuccio, Convivenza e famiglia di fatto: problematiche e prospettive, in Dir. fam. pers., 2009, p. 908 ss.; v. anche Ferrando, Il matrimonio2, cit., p. 242 ss.; Busnelli e Santilli, op. cit., p. 785 ss.; in giurisprudenza Trib. Napoli, 8 luglio 1999, in Fam. e dir., 2000, p. 502, ha escluso la sussistenza di un diritto al mantenimento o agli alimenti nei confronti del convivente more uxorio, a cui non si collegano diritti e doveri se non di carattere morale; per una pronunzia di merito che negò l’applicabilità in via analogica del regime di comunione legale cfr. App. Firenze, 12 febbraio 1991, in Dir. fam. pers., 1992, p. 633; per ulteriori riferimenti giurisprudenziali sul tema in oggetto cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 71 ss.; Balestra, op. loc. ultt. citt.
[98] Per la tesi affermativa cfr., ex multis, Balestra, Unioni civili e convivenze di fatto: la legge - Unioni civili, convivenze di fatto e “modello” matrimoniale: prime riflessioni, in Giur. it., 1995, I, 1, p. 845 ss.; in senso negativo e per ulteriori riferimenti cfr. Oberto, Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, cit., p. 14 ss., secondo cui l’ipotesi della convivenza – considerato il rifiuto da parte dei membri della coppia di fatto di sottoporre il ménage alle regole dettate dall’ordinamento per l’unione matrimoniale – non costituiva un «caso simile» ai sensi dell’art. 12 cpv., disp. prel.; era pertanto preferibile ricorrere, sussistenti determinate condizioni, al principio dell’ingiustificato arricchimento, su cui v. infra, il § seguente; per altri riferimenti cfr. altresì Asprea, op. cit., p. 233 ss.; Ferrando, Il matrimonio2, cit., p. 242 ss. In giurisprudenza Cass., 2 maggio 1994, n. 4204, in Fam. e dir., 1994, p. 514, aveva escluso l’applicazione analogica dell’art. 230-bis c.c. sulla base del carattere eccezionale della norma (analogamente Cass., 18 ottobre 1976, n. 3585, in Giur. it., 1977, I, 1, c. 1949; Cass., 31 gennaio 1967, n. 276, in Foro. it., 1967, I, c. 491; per la giurisprudenza di merito: cfr. in senso negativo cfr. Trib. Milano, 5 ottobre 1988; Trib. Milano, 10 gennaio 1985; Trib. Roma, 10 luglio 1980, decisioni riportate in Balestra, La famiglia di fatto, 2004, cit., p. 202 ss.; nel senso di un’apertura verso l’estensibilità dell’art. 230-bis c.c. v. Trib. Ivrea, 30 settembre 1981, in Vita notar., 1982, p. 802). Da notare che, anche successivamente ai precedenti appena ricordati, la Suprema Corte aveva ribadito il medesimo principio (cfr. Cass., 29 novembre 2004, n. 22405), stabilendo che «Presupposto per l’applicabilità della disciplina in materia di impresa familiare è l’esistenza di una famiglia legittima e, pertanto, l’art. 230-bis c.c. non è applicabile nel caso di mera convivenza, ovvero alla famiglia cosiddetta “di fatto”, trattandosi di norma eccezionale, insuscettibile di interpretazione analogica».
[99] Per un’analisi dei non pochi problemi creati da questa nuova disposizione si fa rinvio al commento a tale articolo; v. inoltre Oberto, Ancora sulla pretesa gratuità delle prestazioni lavorative subordinate rese dal convivente more uxorio, Nota a Cass., 19 settembre 2015, n. 19304, in Fam. e dir., 2016, p. 149 ss.; Guerrieri, Convivenza di fatto e impresa familiare, in Nuove leggi. civ. comm., 2018, p. 1007 ss.; Romeo, Impresa familiare e rapporti di convivenza: art. 230-bis c.c. versus art. 230-ter c.c., in Studium iuris, 2018, p. 289 ss.
[100] Cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 105 ss.; cfr. inoltre Id., Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, cit., p. 49 ss., 92 ss.
[101] Cfr. ad es. Cass., 27 febbraio 1978, n. 1024; Cass., 26 ottobre 1968, n. 3592; Cass., 6 marzo 1986, n. 1456; Cass., 11 febbraio 1989, n. 862; Cass., 21 novembre 1996, n. 10251; Bile, La famiglia di fatto nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, in Riv. dir. civ., 1996, p. 646.
[102] P. Trimarchi, L’arricchimento senza causa, Milano, 1962, p. 11 ss.; Id., Istituzioni di diritto privato, Milano, 1975, p. 377.
[103] Cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 117 ss.; cfr. inoltre Id., Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, cit., p. 54 ss.; Id., I diritti dei conviventi. Realtà e prospettive tra Italia ed Europa, cit., p. 41 ss.
[104] La conclusione riceve conforto dal raffronto con il parallelo regime dell’indebito oggettivo, nel quale il solo compimento di una prestazione di dare, non giustificato dalla presenza di un’obbligazione legale o contrattuale, dà sempre luogo alla ripetizione. Un’ulteriore dimostrazione della fondatezza della tesi qui sostenuta è ricavabile da una serie di norme che si preoccupano di riconoscere al soggetto che si è ingerito nella sfera patrimoniale altrui, eseguendovi delle prestazioni di facere, il diritto di «recuperare» l’impoverimento subito per effetto di tale attività. Si tratta, più precisamente, dei principi in tema di miglioramenti eseguiti su beni di proprietà altrui (cfr. artt. 975, 985, 1150, 1592, 2152 c.c.), o che successivamente divengano di proprietà altrui, ma con effetto retroattivo (cfr. artt. 748, 1° e 2° co., 749, 1502 c.c.), cui sono assimilabili anche i miglioramenti eseguiti dal terzo acquirente del bene ipotecato (art. 2864 cpv., c.c.). Orbene, se vi è un presupposto comune a tutte le ipotesi è proprio l’assenza di un intento liberale: l’impoverito è infatti sempre vuoi (almeno temporaneamente) proprietario, vuoi possessore, vuoi detentore qualificato; in queste situazioni si deve dunque presumere che chi esegue un miglioramento lo faccia esclusivamente nell’interesse proprio, senza il minimo intento di locupletare la controparte. Se quindi il legislatore ha ritenuto di dover individuare le fattispecie in cui l’ingerenza nel patrimonio di un altro soggetto dà luogo a un’azione restitutoria e lo ha fatto proprio in relazione a quei casi in cui manca ogni intento di arricchire la controparte, sembra logico desumerne, a contrariis, che la presenza dell’intenzione di impoverirsi sia, almeno di norma, sufficiente a giustificare l’arricchimento. Viceversa, l’assenza di un’intenzione di impoverirsi, e quindi l’eventuale «affidamento» su di una controprestazione, potrà dar luogo all’actio de in rem verso. Peraltro, per evitare all’arricchito l’imposizione di uno scambio indesiderato, ciò avverrà solo quando tale «affidamento» dell’impoverito sia conosciuto dalla controparte, o quanto meno conoscibile per via dell’obiettiva onerosità del contesto in cui l’attività si è venuta a inserire (cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 121 ss.; cfr. inoltre Id., Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, cit., p. 58 ss.). Ora, posto che l’animus con il quale il convivente «debole» pone in essere la propria attività domestica non è quello di impoverirsi, ma è collegato all’«affidamento» non già in una retribuzione (intesa nel senso tradizionale del termine), bensì nell’adempimento ex adverso di quei doveri morali e sociali (assistenza morale e materiale, contribuzione, ecc.) che caratterizzano oggi il rapporto more uxorio, ne discende che la reciprocità delle obbligazioni naturali tra conviventi, in quanto scaturente da una situazione certamente nota a entrambi, fonda in colui che ha dato spontanea esecuzione ai doveri morali e sociali su di lui gravanti proprio quell’«affidamento» nell’onerosità dell’operazione che è il presupposto del rimedio ex art. 2041 c.c. per le prestazioni di facere.
[105] Cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 127 ss.; cfr. inoltre Id., Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, cit., p. 65 ss.; Id., I diritti dei conviventi. Realtà e prospettive tra Italia ed Europa, cit., p. 51 ss. L’idea ha ricevuto consensi in dottrina (cfr. ad es. Ferrando, Il matrimonio2, cit., p. 245 ss.; Tommasini, op. cit., p. 509 s.; Di Gregorio, Programmazione dei rapporti familiari e libertà di contrarre, Milano, 2003, p. 186 ss.; Cocuccio, op. cit., p. 908 ss.; contra Panico, Sull’esperibilità dell’azione di ingiustificato arricchimento nel caso di cessazione della convivenza more uxorio, in Giur. it., 1997, IV, p. 263 ss., secondo cui «discutere di prestazioni, controprestazioni, affidamenti ed onerosità appare, in costanza di convivenza more uxorio, abbastanza ozioso»; Quadri, Famiglia e ordinamento civile, Torino, 1997, p. 40; nel senso dell’ammissibilità del rimedio soltanto in relazione alle prestazioni che eccedono la normale contribuzione Balestra, Rapporti di convivenza, in Aa. Vv., Codice della famiglia, a cura di Sesta, 3a ed., cit., p. 2648; Id., La famiglia di fatto, 2008, cit., p. 1060 ss.
[106] Cass., 15 maggio 2009, n. 11330, in Corr. giur., 2010, p. 72, con nota di Ruvolo; in Dir. giur., 2010, p. 75, con nota di Catalano; in Fam. dir., 2010, p. 384, con nota di Gelli; in Immobili e proprietà, 2010, p. 225, con nota di Sonnessa.
[107] Dovrà considerarsi che, nel caso di specie, risultava, dalla decisione di merito, che la provvista per una serie di acquisti immobiliari operati dal partner «forte» durante l’unione paramatrimoniale era stata fornita «anche e soprattutto» dai proventi del lavoro della convivente e l’assenza di una giusta causa del «rilevante contributo economico e lavorativo» fornito dalla donna per gli acquisti effettuati dal convivente (nel frattempo deceduto) durante tutto il periodo di ultratrentennale convivenza. Si è pertanto ritenuto che l’arricchimento di quest’ultimo fosse conseguente alla conversione a suo esclusivo profitto, mediante l’acquisto di proprietà immobiliari ad esso solo intestate, di contributi economici e lavorativi della convivente, resi in assenza di un titolo (neppure gratuito) che giustificasse lo spostamento patrimoniale e tali – per rilevanza, continuità ed unilateralità degli apporti – da non costituire adempimento dei doveri morali, conseguenti all’instaurazione del rapporto di convivenza. In motivazione è altresì dato leggere che l’art. 2041 c.c., costituisce una norma di chiusura della disciplina delle obbligazioni, che costituisce uno strumento di tutela, esperibile in tutti i casi in cui tra due soggetti si verifica uno spostamento patrimoniale (c.d. utiliter versum), tale che uno subisca danno e l’altro si arricchisca, «senza una giusta causa» e, cioè, senza che sussista una ragione che, secondo l’ordinamento, giustifichi il profitto o il vantaggio dell’arricchito. Si rileva inoltre esattamente che l’azione ex art. 2041 c.c. ha carattere generale (perché è esperibile in una serie indeterminata di casi, in quanto espressione del principio per cui non è ammissibile l’altrui pregiudizio patrimoniale senza una ragione giustificativa) e natura sussidiaria (perché è esercitabile solo quando al depauperato non spetti nessun’altra azione, basata su un contratto, su un fatto illecito o su altro atto o fatto produttivo dell’obbligazione restitutoria o risarcitoria: cfr. art. 2042 c.c.). L’arricchimento risulterà pertanto senza una giusta causa quando è correlato ad un impoverimento non remunerato, né conseguente ad un atto liberalità e neppure all’adempimento di un’obbligazione naturale; e ciò in quanto l’ordinamento esige che ogni arricchimento dipenda dalla realizzazione di un interesse meritevole di tutela. Con riguardo al caso dell’obbligazione naturale, evidentemente rilevante in relazione al caso della convivenza more uxorio oggetto del giudizio, la Suprema Corte evidenzia che il riferimento ad esigenze di tipo solidaristico non è di per sé sufficiente a prefigurare una «giusta causa» dello spostamento patrimoniale, giacché ai fini dell’art. 2034 c.c., 1° co., occorre allegare e dimostrare non solo l’esistenza di un dovere morale o sociale in rapporto alla valutazione corrente nella società, ma anche che tale dovere sia stato spontaneamente adempiuto con una prestazione avente carattere di proporzionalità e adeguatezza in relazione a tutte le circostanze del caso. Ne deriva che, con particolare riguardo alla convivenza more uxorio, si precisa, a questo punto, che è possibile configurare l’ingiustizia dell’arricchimento da parte di un convivente nei confronti dell’altro in presenza di prestazioni a vantaggio del primo esulanti dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza – il cui contenuto va parametrato in relazione alle condizioni sociali e patrimoniali dei componenti della famiglia di fatto – e travalicanti i limiti di proporzionalità e di adeguatezza (sul tema cfr. anche Cass., 30 novembre 2011, n. 25554, in Foro it., 2012, I, c. 1097 e Cass. 20 dicembre 2011, n. 27773, illustrate e commentate in Oberto, I diritti dei conviventi. Realtà e prospettive tra Italia ed Europa, cit., p. 52 ss.).
[108] L’argomento è ora sviluppato in Oberto, I contratti di convivenza, Commento all’art. 1, commi 50-63, Legge 20 maggio 2016, n. 76, cit., p. 1352 s.
[109] Cass., 7 giugno 2018, n. 14732.
[110] Cass., 31 agosto 2018, n. 21479.
[111] Cass., 30 luglio 2018, n. 20135.
[112] Cass., 15 maggio 2018, n. 11766.
[113] Cass., 12 giugno 2018, n. 15334; nello stesso senso v. anche una decisione precedente (Cass., 19 settembre 2016, n. 18280, in Riv. notar., 2017, p. 510, con nota di Musolino; ivi, 2017, p. 123, con nota di Cicero e in Fam. e dir., 2017, p. 424, con nota di Ambanelli), in cui la Corte ha altresì affermato che il valore dell’oggetto, in sé, non è ostativo alla configurazione della liberalità d’uso, in quanto tale valore deve essere rapportato ai rapporti esistenti fra le parti e alla loro posizione sociale (nella specie un facoltoso signore aveva donato alla sua compagna dei quadri di Klimt, Picasso, Klee e Man Ray, nonché alcuni gioielli, tra cui, uno in particolare, con 13 carati di diamanti).
[114] Cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, p. 7 ss., 151 ss.; Id., I contratti di convivenza tra autonomia privata e modelli legislativi, cit., p. 17 ss.; Id., I diritti dei conviventi. Realtà e prospettive tra Italia ed Europa, cit., p. 81 ss.; cfr. inoltre Asprea, op. cit., p. 149; Balestra, Le obbligazioni naturali, cit., p. 220; Astiggiano, La possibilità di contrattualizzazione dei rapporti patrimoniali tra i partners che compongono la famiglia di fatto, in Fam. e dir., 2009, p. 385 ss.; Annunziata e Iannone, Dal concubinato alla famiglia di fatto: evoluzione del fenomeno, in Fam., pers. e succ., 2010, p. 131 ss.; sui limiti di tale strumento cfr. Ferrando, Il matrimonio2, cit., p. 246 ss.
[115] Cfr. Oberto, Famiglia e rapporti patrimoniali. Questioni d’attualità, cit., p. 977; in senso parzialmente difforme cfr. Spadafora, op. cit., p. 199, che individuava la causa dei negozi in discorso nei doveri morali e sociali caratterizzanti il rapporto di convivenza; sul tema v. altresì Del Prato, Patti di convivenza, in Familia, 2002, p. 959.
[116]
Per un esempio di contratto di
convivenza sottoposto al giudizio della S.C. cfr Cass., 8 giugno 1993, n.
[117] Cfr. Sesta, Diritto di famiglia2, cit., p. 415.
[118] Cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 193 ss.; Id., I contratti di convivenza tra autonomia privata e modelli legislativi, cit., p. 42; sul tema v. anche Franzoni, Le convenzioni patrimoniali tra conviventi more uxorio, in Il diritto di famiglia, Trattato diretto da G. Bonilini e G. Cattaneo, II, 1997, p. 470 ss.
[119] Per una completa trattazione cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 151 ss.; Id., I contratti di convivenza tra autonomia privata e modelli legislativi, cit., p. 17 ss.; Id., I diritti dei conviventi. Realtà e prospettive tra Italia ed Europa, cit., p. 81 ss.
[120] Cfr. Consiglio Nazionale del Notariato, Guida operativa in tema di convivenza. Vademecum sulla tutela patrimoniale del convivente more uxorio in sede di esplicazione dell’autonomia negoziale. Contratti di convivenza open day, 30 novembre 2013, Roma, 2013.
[121] Cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 282 ss.; Id., Famiglia di fatto e convivenze: tutela dei soggetti interessati e regolamentazione dei rapporti patrimoniali in vista della successione, in Fam. e dir., 2006, p. 661 ss.; Balestra, I contratti di convivenza, in Fam., pers. e succ. 2006, p. 1.
[122] Cfr. Gazzoni, op. cit., p. 165; Bernardini, op. cit., p. 205; Oberto, op. loc. ultt. citt.
[123] Cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 72.
[124] Cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 241 ss.; Sesta, op. loc. ultt. citt.; Franzoni, op. cit., p. 474.
[125] Come è accaduto nella già citata ipotesi di Cass., 8 giugno 1993, n. 6381, cit.; sul tema cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 285 ss.; Id., Famiglia di fatto e convivenze: tutela dei soggetti interessati e regolamentazione dei rapporti patrimoniali in vista della successione, cit., p. 661 ss.; Asprea, L’assegnazione della casa familiare nella separazione, nel divorzio e nella convivenza, Torino, 2003, p.104 ss.
[126]
Cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 260 ss.; Balestra,
op. loc. ultt. citt.; Franzoni, op. cit., p. 476 ss.; sugli strumenti utilizzabili a tale
fine cfr. anche Del Prato, op. loc. ultt.
citt.
[127] Cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 268 ss.; Id., Famiglia e rapporti patrimoniali. Questioni d’attualità, cit., p. 993 ss.
[128] Cfr. Oberto, I contratti di convivenza tra autonomia privata e modelli legislativi, cit., p. 57.
[129] Cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 77; v. anche Franzoni, op. cit., p. 474.
[130] Cass., 9 novembre 2009, n. 23691.
[131] Nella specie, in seno ad una coppia di fatto poi separatasi, la convivente aveva sottoscritto una dichiarazione di rinuncia alla proprietà della casa all’uomo insieme al quale aveva formalmente acquistato il bene, ma di fatto comprato soltanto con i soldi di lui. La proprietà esclusiva in capo all’uomo, poi deceduto, era stata fatta valere dal figlio di questi che aveva invocato la caduta in successione dell’intero immobile facendo valere la rinunzia della ex convivente. Sul punto si era esattamente obiettato in dottrina che alla decisione si poteva rimproverare di aver applicato l’istituto di cui all’art. 1104 c.c. senza tener conto che la rinuncia abdicativa effettuata con la scrittura in oggetto era stata posta in essere nell’ambito di una più complessa operazione negoziale, mediante la quale i conviventi avevano inteso disciplinare i reciproci diritti e doveri al momento della rottura del rapporto di convivenza (così Annunziata, La rinuncia alla comproprietà dell’immobile da parte del convivente more uxorio è un modo di estinzione della proprietà?, Nota a Cass., 9 novembre 2009, n. 23691, in Fam., pers. e succ., 2010, p. 414). Del resto andrà tenuto conto del fatto che l’art. 1104 c.c. tratta della rinunzia come unicamente finalizzata alla liberazione del comunista dall’obbligo di contribuire nelle spese necessarie per la conservazione e per il godimento della cosa comune. La disposizione non sembrava quindi, nella specie, invocata a proposito.
[132] Sul tema, anche per i necessari richiami, cfr. Oberto, I diritti dei conviventi. Realtà e prospettive tra Italia ed Europa, cit., p. 133 ss.; Id., Le destinazioni patrimoniali nell’intreccio dei rapporti familiari, in Aa. Vv., Trattato dei contratti, diretto da Pietro Rescigno ed Enrico Gabrielli, 19, I contratti di destinazione patrimoniale, a cura di Calvo e Ciatti, Torino, 2014, p. 140 ss.; Perfetti, Autonomia privata e famiglia di fatto. Il nuovo contratto di convivenza, in Nuova giur. civ. comm., 2016, p. 1762; Fusaro, L’atto di destinazione nella concorrenza tra strumenti giuridici, in Contr. e impr., 2018, p. 1004 ss.; Corradi, Vincolo di destinazione ex art. 2645 ter e fondo patrimoniale, in Fam. e dir., 2018, p. 1174 s.
[133] Sul punto cfr. Oberto, I contratti di convivenza nei progetti di legge (ovvero sull’imprescindibilità di un raffronto tra contratti di convivenza e contratti prematrimoniali), in Fam. e dir. 2015, p. 165 ss.; Id., Per un’intervento normativo in tema di accordi preventivi sulla crisi della famiglia, in Aa. Vv., Accordi in vista della crisi dei rapporti familiari, a cura Landini e Palazzo, Milano, 2018, p. 52 ss.
[134] Su cui cfr. l’approfondita analisi di Benedetti, Il controllo sull’autonomia: la forma dei contratti di convivenza nella legge n. 76/2016, in Familia, 2017, p. 17 ss.; v. inoltre Villa, Il contratto di convivenza nella legge sulle unioni civili, in Riv. dir. civ., 2016, p. 1339 ss.; Cimmino, Questioni in tema di forma del contratto di convivenza, in Familia, 2017, p. 603 ss.; Oberto, I contratti di convivenza, Commento all’art. 1, commi 50-63, Legge 20 maggio 2016, n. 76, cit., p. 1357 ss.
[135] Su cui cfr., anche per i necessari rinvii, Oberto, I contratti di convivenza, Commento all’art. 1, commi 50-63, Legge 20 maggio 2016, n. 76, cit., p. 1398 ss.
[136] Su cui cfr., anche per i necessari rinvii, Mazzariol, Convivenze di fatto e autonomia privata: il contratto di convivenza, cit., p. 171 ss.; Oberto, I contratti di convivenza, Commento all’art. 1, commi 50-63, Legge 20 maggio 2016, n. 76, cit., p. 1363 s.
[137] Su cui cfr., anche per i necessari rinvii, Oberto, I contratti di convivenza, Commento all’art. 1, commi 50-63, Legge 20 maggio 2016, n. 76, cit., p. 1403 ss.
[138] Su cui cfr., anche per i necessari rinvii, Gatt, Autonomia privata e convenzioni familiari nella dialettica tra tipicità e atipicità negoziale, in Aa. Vv., Le unioni civili e le convivenze, a cura di C.M. Bianca, cit., p. 616 ss.; Mazzariol, Convivenze di fatto e autonomia privata: il contratto di convivenza, cit., p. 188 ss.; Oberto, I contratti di convivenza, Commento all’art. 1, commi 50-63, Legge 20 maggio 2016, n. 76, cit., p. 1384 ss.; Id., La modifica del regime patrimoniale scelto nel contratto di convivenza, in www.giacomooberto.com, 2018, p. 1 ss.
[139] Su cui cfr., anche per i necessari rinvii, Sirena, L’invalidità del contratto di convivenza, in Nuova giur. civ. comm., 2017, p. 1071 ss.; Oberto, I contratti di convivenza, Commento all’art. 1, commi 50-63, Legge 20 maggio 2016, n. 76, cit., p. 1406 ss.
[140] Su cui cfr., anche per i necessari rinvii, la attenta ed approfondita analisi di Mattucci, op. cit., p. 705 ss.; cfr. poi anche Achille, Il contenuto dei contratti di convivenza tra tipico ed atipico, in Nuova giur. civ. comm., 2017, p. 1579 s.; Macario, I contratti di convivenza tra forma e sostanza, in Contratti, 2017, p. 7 ss.; Nonne, Commento ai co. 59-60, in Aa. Vv., Le unioni civili e le convivenze, a cura di C.M. Bianca, cit., p. 696 ss.; Oberto, Per un intervento normativo in tema di accordi preventivi sulla crisi della famiglia, cit., p. 66 ss.
[141] Sul tema v. per tutti Oberto, I contratti di convivenza, Commento all’art. 1, commi 50-63, Legge 20 maggio 2016, n. 76, cit., p. 1344 ss.; cfr. inoltre Di Rosa, I contratti di convivenza $ (art. 1, commi 50° ss., l. 20 maggio 2016, n. 76) in Nuove leggi civ. comm., 2016, p. 694 ss.; Achille, Contratto di convivenza e autonomia privata familiare, in Aa. Vv., Le unioni civili e le convivenze, a cura di C.M. Bianca, cit., p. 623 ss.; Perfetti, op. cit., 2017, p. 1756 ss.; Romeo, Note sui contratti di convivenza, in Familia, 2017, p. 353 ss.; Mazzariol, Convivenze di fatto e autonomia privata: il contratto di convivenza, cit., p. 168 ss.
[142] Cfr. Mazzariol, Convivenze di fatto e autonomia privata: il contratto di convivenza, cit., p. 176 ss.
[143] Pret. Pordenone, 7 dicembre 1950, in Foro. it., 1951, I, c. 800; non diversamente, ma dal lato del conduttore, Pret. Sampierdarena, 20 ottobre 1979, in Foro. it., 1980, I, c. 1214; Pret. Bassano del Grappa, 26 giugno 1978, in Giur. it., 1978, I, 2, c. 446; Trib. Firenze, 13 gennaio 1951, in Foro. it., 1951, I, c. 800.
[144] Corte cost., 7 aprile 1988, n. 404, in Foro. it., 1988, I, c. 2525; cfr. anche – nel senso dell’infondatezza della sollevata questione di legittimità costituzionale – Corte cost., 14 aprile 1980, n. 45.
[145] Sul tema, amplius, Coppola, La successione del convivente more uxorio, in Aa. Vv., Il diritto delle successioni, diretto da Bonilini, Torino, s.d. ma 2004, p. 385 ss.; Busnelli e Santilli, op. cit., p. 789 s.
[146] Cfr. Corte cost., 7 aprile 1988, n. 423, in Foro. it., 1988, I, c. 2514; principio esteso da Cass., 10 ottobre 1997, n. 9868, in Fam. e dir., 1998, p. 175, quand’anche lo stato di convivenza non fosse conosciuto dal locatore.
[147] Cass., 1° agosto 2000, n. 10034, in Giur. it., 2001, p. 902.
[148] Sul tema, dopo la riforma del 2016, v. per tutti Mastroberardino, Il diritto di godimento, della casa di comune abitazione locata dall’altro convivente, alla luce della l. n. 76/2016, in Fam. e dir., 2017, p. 396 ss.
[149] Cass., 23 novembre 1990, n. 11328, in Giur. it., 1992, I, 1, p. 341; Cass., 21 aprile 1992, n. 4767, in Arch. civ., 1992, p. 778; Cass., 22 luglio 1991, n. 8155, ivi, 1992, p. 54; App. Roma, 14 marzo 1990, ivi, 1991, p. 573; Trib. Roma, 8 giugno 1992, in Giust. civ., 1982, I, p. 2195; Pret. Genova, 24 settembre 1994, in Arch. civ., 1994, p. 845; Pret. Capri, 31 dicembre 1990, ivi, 1991, p. 350; contra G. Gabrielli e Padovini, La locazione di immobili urbani, Padova, 1994, p. 753 s.
[150] Cfr. Cass., 8 giugno 1994, n. 5544, in Foro. it., 1994, I, c. 3438.
[151] Per i richiami cfr. Oberto, I diritti dei conviventi. Realtà e prospettive tra Italia ed Europa, cit., p. 89 ss., 171 ss.
[152] Sul tema cfr. Oberto, I contratti di convivenza, Commento all’art. 1, commi 50-63, Legge 20 maggio 2016, n. 76, cit., p. 1387 ss., 1419 s.
[153] Cass., 10 febbraio 2017, n. 3553. Da notare che la soluzione è in tutto e per tutto analoga al comodato familiare concesso da un genitore ad un figlio o ad una figlia in vista del matrimonio (sul tema v. per tutti Quadri, Il nuovo intervento delle sezioni unite in tema di comodato e assegnazione della “casa familiare”, Nota a Cass., Sez. Un., 29 settembre 2014, n. 20448, in Corr. giur., 2015, p. 14 ss.).
[154] Cfr. Ferrando, Il matrimonio2, cit., p. 251 ss.
[155] Cfr. Dogliotti, op. cit., p. 196.
[156] Cfr. Gazzoni, op. cit., p. 132; Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 282 ss.; Balestra, Gli effetti della dissoluzione della convivenza, in Riv. dir. priv., 2000, p. 468.
[157] Cfr. Cass., 29 novembre 1986, n. 7064, in Foro. it., 1987, I, c. 805.
[158] Cass., 29 novembre 1986, n. 7064, cit.; più in generale, in tema di responsabilità contrattuale nella famiglia di fatto, Oberto, La responsabilità contrattuale nei rapporti familiari, Milano, 2006, p. 64 ss.
[159] Sul tema cfr. Oberto, Famiglia e rapporti patrimoniali. Questioni d’attualità, cit., p. 1049 s.
[160] Cfr. Balestra, La famiglia di fatto, 2004, cit., p. 253 ss.; Id., Rapporti di convivenza, in Aa. Vv., Codice della famiglia, a cura di Sesta, 3a ed., cit., p. 2654 s.
[161] Pret. Roma, 22 novembre 1975, riportata da Balestra, La famiglia di fatto, 2004, cit., p. 448, ove, tra l’altro, si afferma che «la mancanza di un vincolo coniugale e quindi di un diritto a detenere, non può in alcun modo incidere sul contenuto e sulla essenza stessa della detenzione»; Pret. Perugia, 29 settembre 1994, in Rass. giur. umbra, 1994, p. 725; Pret. Firenze, 27 febbraio 1992, in Foro. it., 1993, I, c. 1712; Trib. Perugia, 22 settembre 1997, in Foro. it., 1997, I, c. 3686; cfr. per altri riferimenti giurisprudenziali Sesta, Diritto di famiglia2, cit., p. 407). L’orientamento evidenziato non appariva in un primo momento univoco, in quanto si erano registrate alcune pronunce di segno opposto (cfr. ad es. Pret. Pietrasanta, 19 aprile 1988, in Foro. it., 1989, I, c. 1662, ove, pur rifiutando la qualifica di ospite al convivente more uxorio, piuttosto da considerare alla stregua di un detentore qualificato, si è giunti comunque a negare il rimedio possessorio al convivente, poiché riconoscere la legittimazione attiva ex art. 1168 c.c. «contrasterebbe con l’impossibilità di configurare situazioni di vantaggio da farsi valere dopo la fine del rapporto e, prima ancora, con l’assenza, nel nostro ordinamento, di un giudice della dissoluzione del ménage di fatto»; Pret. Vigevano, 10 giugno 1996, Nuova giur. civ. comm., 1997, I, p. 240; in dottrina cfr. Monteverde, op. cit., p. 961 ss.). Da ultimo, peraltro, la Corte di legittimità aveva stabilito che «La convivenza more uxorio, quale formazione sociale che dà vita ad un autentico consorzio familiare, determina, sulla casa di abitazione ove si svolge e si attua il programma di vita in comune, un potere di fatto basato su di un interesse proprio del convivente ben diverso da quello derivante da ragioni di mera ospitalità, tale da assumere i connotati tipici di una detenzione qualificata, che ha titolo in un negozio giuridico di tipo familiare. Ne consegue che l’estromissione violenta o clandestina dall’unità abitativa, compiuta dal convivente proprietario in danno del convivente non proprietario, legittima quest’ultimo alla tutela possessoria, consentendogli di esperire l’azione di spoglio» (Cass., 21 marzo 2013, n. 7214; sul tema della famiglia di fatto come «formazione sociale» v., anche per i rinvii, Ruscello, op. cit., p. 1163 s.).
[162] Nello specifico, aveva invece concesso l’azione possessoria Pret. Firenze, 26 ottobre 1990, in Giur. merito, 1992, p. 861, anche in considerazione delle seguenti concrete circostanze: a) la convivenza era durata non più di due anni; b) l’appartamento era stato concesso al ricorrente quale corrispettivo di un contratto d’opera stipulato con terzi; c) il resistente aveva inizialmente lasciato l’immobile, ma poi vi si era reintrodotto con violenza (contra Pret. Pordenone, 9 maggio 1995, in Nuova giur. civ. comm., 1997, I, p. 240; sul tema cfr. Balestra, Rapporti di convivenza, in Aa. Vv., Codice della famiglia, a cura di Sesta, 3a ed., cit., p. 2654 s.).
[163] Cfr. Balestra, Rapporti di convivenza, in Aa. Vv., Codice della famiglia, a cura di Sesta, 3a ed., cit., p. 2654 s.
[164] Pret. Monza, 30 aprile 1988, in Giur. merito., 1990, p. 74; Pret. Pordenone, 9 maggio 1995, cit.; Pret. Pordenone, 18 marzo 1997, in Arch. locaz., 1997, p. 664; osserva tuttavia Lepre, Abitazione «parafamiliare» e problemi possessori, in Nuova giur. civ. comm., 1997, I, p. 247, che «la riportata ricostruzione, pur nel lodevole sforzo di razionalizzare un fenomeno così sfuggente, quale quello della convivenza more uxorio, sembra, però, peccare di un’eccessiva artificiosità, laddove attribuisce alla coppia la volontà di stipulare un contratto che, nella sostanza, altro non sarebbe se non un negozio riconducibile a quello regolato dalle disposizioni di cui agli artt. 1803 ss., c.c.».
[165] Pret. Milano, 31 marzo 1990, in Foro. pad., 1990, I, p. 363; Trib. Messina, 10 settembre 1997, in Fam. e dir., 1998, p. 255; Pret. Pisa, 30 marzo 1990, in Foro. it., 1991, I, c. 329.
[166] Trib. Bologna, 12 ottobre 2005, in Resp. civ. prev., 2006, p. 913.
[167] Cass., 8 giugno 1993, n. 6381, cit.
[168] Cass., 18 marzo 2014, n. 6203.
[170] Pret. Venezia, 16 aprile 1996, in Giur. it., 1997, I, 2, p. 330; sempre in tema di tutela possessoria a favore del convivente cfr. Asprea, La famiglia di fatto in Italia e in Europa, cit., p. 289 ss.; Ferrando, op. loc. ultt. citt.
[171] Cass., 27 aprile 2017, n. 10377.
[172] Cfr. Corte cost., 26 maggio 1989, n. 310, che aveva respinto «la questione di legittimità costituzionale degli artt. 565 e 582 c.c., nella parte in cui non parificano il convivente non unito in matrimonio al coniuge».
[173] Così, almeno, parrebbe orientato Luiso, op. cit., p. 8, secondo cui «Gli effetti che la legge ricollega alla cessazione della convivenza (…) non possono essere esclusi dalla volontà dei conviventi, perché non rientrano fra i possibili contenuti del contratto di convivenza».
[174] Per la situazione anteriore alla novella del 2016 cfr. Oberto, I diritti dei conviventi. Realtà e prospettive tra Italia ed Europa, cit., p. 116 ss., 188 ss.; per la situazione successiva cfr. Id., I rapporti patrimoniali nelle unioni civili e nelle convivenze di fatto, cit., p. 82 ss., 125 ss.
[176] V. la già ricordata Corte cost., 26 maggio 1989, n. 310, che respinge la sollevata questione di illegittimità costituzionale degli artt. 565 e 582 c.c. nella parte in cui non parificano il convivente non unito in matrimonio al coniuge; in tema di trattamento successorio della famiglia di fatto cfr. anche Corte cost., 12 maggio 1977, n. 76; Corte cost., 8 aprile 1976, n. 71.
[177] Cfr. ex multis, per la situazione precedente al 2016, Oberto, Famiglia di fatto e convivenze: tutela dei soggetti interessati e regolamentazione dei rapporti patrimoniali in vista della successione, cit., p. 661 ss. e, per quella successiva, Bonilini, La successione mortis causa del convivente di fatto superstite, in Studium iuris, 2017, p. 836 ss.
[178] In dottrina cfr., ex multis, Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 295 ss.; Id., Famiglia e rapporti patrimoniali. Questioni d’attualità, cit., p. 1004 ss.; Id., Famiglia di fatto e convivenze: tutela dei soggetti interessati e regolamentazione dei rapporti patrimoniali in vista della successione, cit., p. 661 ss.; v. inoltre Asprea, op. cit., p. 172 ss.; Moscati, Rapporti di convivenza e diritto successorio, in Aa. Vv., I contratti di convivenza, a cura di Moscati e Zoppini, cit., p. 140 ss.; Coppola, op. cit., p. 379 ss.; Franzoni, op. cit., p. 485 ss.
[179] Cfr. Sesta, Diritto di famiglia2, cit., p. 407; Coppola, op. cit., p. 399 ss.
[180] Sul tema, v., amplius, Oberto, Famiglia di fatto e convivenze: tutela dei soggetti interessati e regolamentazione dei rapporti patrimoniali in vista della successione, cit., p. 661; Coppola, op. cit., p. 413 ss.
[181] Cfr. Oberto, Trust e autonomia negoziale nella famiglia, in Fam. e dir., 2004, p. 310; Coppola, op. cit., p. 420 ss.; Annunziata e Iannone, op. cit., p. 131 ss.; per altri possibili strumenti utilizzabili cfr. Del Prato, op. loc. ultt. citt.
[182] Cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 316 ss.
[183] Cfr. Fanticini, L’articolo 2645 ter del codice civile, in Aa.Vv., La tutela dei patrimoni, a cura di Montefameglio, Santarcangelo di Romagna, 2006, p. 343; Oberto, Vincoli di destinazione ex art. 2645-ter c.c. e rapporti patrimoniali tra coniugi, in Fam. e dir. 2007, p. 202 ss.; Id., Le destinazioni patrimoniali nell’intreccio dei rapporti familiari, cit., p. 232 ss.; Muritano, Trust e atto di destinazione negli accordi fra conviventi more uxorio, in Trusts att. fid., 2007, p. 199 ss.; Cinque, L’atto di destinazione per i bisogni della famiglia di fatto: ancora sulla meritevolezza degli interessi ex art. 2645 ter cod. civ., in Nuova giur. civ. comm., 2008, p. 692 ss.; G.A.M. Trimarchi, Negozio di destinazione nell’ambito familiare e nella famiglia di fatto, in Notariato, 2009, p. 426 ss.
[184] Cfr. Oberto, I contratti di convivenza, Commento all’art. 1, commi 50-63, Legge 20 maggio 2016, n. 76, cit., p. 1381 ss.; in senso conforme v. anche Mazzariol, Convivenze di fatto e autonomia privata: il contratto di convivenza, cit., p. 202 ss.
[185] Ovvero possano, anche se singolarmente presi, venire considerati alla stregua di contratti di convivenza: sul tema v. per tutti Oberto, I contratti di convivenza, Commento all’art. 1, commi 50-63, Legge 20 maggio 2016, n. 76, cit., p. 1344 ss., 1363 s.
[186] Cfr., ex multis, Cass. pen., 21 settembre 1981, n. 8209, in Dir. e prat. ass., 1982, p. 716; Cass. pen., 7 giugno 1983, n. 5410.
[187] Cfr. Trib. Verona, 3 dicembre 1980, in Resp. civ. prev., 1981, p. 74; Cass. pen., 31 marzo 1994, n. 3790, in Riv. pen., 1995, p. 921.
[188] Cass., 28 marzo 1994, n. 2988, in Giust. civ., 1994, I, p. 1849 e in Giur. it., 1995, p. 1366; dell’avvenuta equiparazione mediante tale pronuncia della posizione del convivente a quella dei congiunti della vittima dà atto Cass., 31 maggio 2003, n. 8828, in Foro. it., 2003, I, c. 2272. Sul tema, per i richiami alla dottrina, cfr. altresì Asprea, op. cit., p. 311 ss., mentre Fraccon, Relazioni familiari e responsabilità civile, Milano, 2003, p. 397, ricollega le aperture della giurisprudenza ai «cambiamenti paralleli del costume sociale e della dogmatica della responsabilità civile»; su questo argomento, in generale, v. anche Ambanelli, Convivenza more uxorio: il risarcimento dei danni per la morte del convivente, in Fam., pers. e succ., 2006, p. 251 ss.
[189] Cfr. Sbisà, Risarcimento di danni in seguito a morte di un familiare di fatto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1965, p. 1256.
[190] Cfr. Balestra, Rapporti di convivenza, in Aa. Vv., Codice della famiglia, a cura di Sesta, 3a ed., cit., p. 2657 s.
[191] Cfr. Balestra, op. loc. ultt. citt.
[192] App. Perugia, 15 maggio 1998, in Rass. giur. umbra, 1998, p. 473; Trib. Milano, 21 luglio 1998, in Resp. civ. prev., 2000, p. 763; App. Milano, 14 agosto 1998, ivi; Ass. app. Ancona, 31 maggio 2002, in Giur. merito, 2002, p. 1351, ove il riferimento è al diritto di libertà, nascente direttamente dalla Costituzione, alla continuazione del rapporto.
[193] Ass. Milano, 20 maggio 1998, in Resp. civ. prev., 2000, p. 764. V. inoltre Trib. Perugia, 30 ottobre 1996, in Rass. giur. umbra, 1997, p. 747 (la pronuncia è stata riformata da App. Perugia, 15 maggio 1998, cit.).
[194] Cass., 16 settembre 2008, n. 23725, in Nuova giur. civ. comm., 2009, p. 446, con nota di Barbanera.
[195] Cfr. sempre Balestra, op. loc. ultt. citt.; v. inoltre Barbanera, in Nuova giur. civ. comm., 2009, p. 450 ss.
[196] Si riportava al riguardo il caso risolto da Trib. Milano, 21 febbraio 2007, in Fam. e dir., 2007, p. 938, ove il riferimento era alla convivenza indipendentemente dal fatto che essa fosse more uxorio: il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale «è già stato riconosciuto dalla giurisprudenza, in casi analoghi, al convivente more uxorio a seguito del decesso dell’altro convivente, e non vi è astrattamente alcun motivo per negare il diritto, a determinate condizioni, al risarcimento del danno non patrimoniale allorché la convivenza riguarda, oltre alla coppia, anche il figlio di uno dei conviventi, con il quale il convivente non genitore abbia instaurato un solido legame affettivo». Particolare menzione meritava poi Trib. Venezia, 31 luglio 2006, in Nuova giur. civ. comm., 2007, I, p. 864, che aveva riconosciuto il diritto al risarcimento del danno, patrimoniale e non patrimoniale, alla sorella della vittima di un altrui illecito sul presupposto che tra l’ucciso e l’anzidetta sorella esisteva una convivenza more uxorio. In proposito si era affermato (Balestra, Rapporti di convivenza, in Aa. Vv., Codice della famiglia, a cura di Sesta, 2a ed., II, Milano, 2009, p. 3792) che la decisione in questione rappresentava per l’osservatore attento un documento interessante poiché testimoniava la sensibilità ormai maturata dalla magistratura in ordine al rilievo che, nel contesto sociale, rivestivano i rapporti affettivi, e ciò a prescindere da ogni atto formale che ne sancisse la rilevanza esplicita al cospetto dell’ordinamento e, anzi, come nel caso di specie, anche quando l’ordinamento esprimesse una valutazione di contrarietà (per una completa disamina delle varie questioni si fa rinvio anche a Bardaro, Il convivente della vittima, in Aa. Vv., Trattato dei nuovi danni, diretto Cendon, III, Uccisione del congiunto. Responsabilità familiare. Affido, Adozione, Padova, 2011, p. 216 ss.). Si noti che, con specifico riguardo a quest’ipotesi, la novella del 2016 è venuta a privare di effetti giuridici (per lo meno di quelli previsti dalla legge in questione, tra cui rientra oggi anche il risarcimento del danno da uccisione del convivente) la convivenza di fatto tra parenti (e dunque, a maggior ragione, tra soggetti viventi in rapporto incestuoso).
[197] Cfr. Cass., 14 marzo 2017, n. 6477
[198] V. anche Cass., 13 dicembre 2012, n. 22909 e Cass., 12 settembre 2005, n. 18092, in Danno e resp., 2006, p. 753, con nota di Giazzi.
[199] Per un commento alla disposizione cfr. Lenti, op. cit., p. 108; Scarano, Commento al co. 49, in Aa. Vv., Le unioni civili e le convivenze, a cura di C.M. Bianca, cit., p. 591 ss.; Ippoliti Martini, Commento al comma 49, in Aa. Vv., Codice dell’unione civile e delle convivenze, a cura di Sesta, cit., p. 1323 ss.
[200] Cfr. per tutti Balestra, Rapporti di convivenza, in Aa. Vv., Codice della famiglia, a cura di Sesta, 3a ed., cit., p. 2655 s.
[201] Cfr. art. 337-bis c.c.: «…Prende atto, se non contrari all’interesse dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori… Le decisioni di maggiore interesse per i figli relative all’istruzione, all’educazione, alla salute e alla scelta della residenza abituale del minore sono assunte di comune accordo… Salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti…».
[202] Cfr., in relazione alla versione dell’art. 317-bis, 2° co., c.c., vigente prima della riforma della filiazione, Cass., 3 aprile 2007, n. 8362, in Fam. e dir., 2007, p. 446, ove si legge che «l’art. 317-bis cod. civ., resta il referente normativo della potestà e dell’affidamento nella filiazione naturale, con finalità essenzialmente correttive dei criteri previsti dalla stessa norma»; sul punto cfr. anche Oberto, Accordi tra conviventi e diritti del minore, alla luce della riforma sull’affidamento condiviso, in Aa. Vv., Il nuovo rito del contenzioso familiare e l’affidamento condiviso – Le riforme del diritto di famiglia viste dagli avvocati – Commenti, formulari e documenti, Padova, 2007, a cura di Oberto, p. 271 ss.
[203] Cfr. Paladini, in Familia, 2002, p. 612.
[204] Così, ad es., una decisione del 1997 (Trib. min. Perugia, 25 agosto 1997, Rass. giur. umbra, 1998, p. 349) ha stabilito che «Poiché la norma costituzionale non distingue tra la potestà del genitore naturale e quella del genitore legittimo, deve essere analogicamente estesa alle norme che attribuiscono un controllo del giudice sulla potestà dei genitori naturali in caso di cessata convivenza, la disciplina prevista per il controllo del giudice sulla potestà dei genitori divorziati (al divorzio infatti, più che alla separazione, consegue una situazione analoga a quella dei genitori non conviventi rispetto al residuo rapporto di ciascuno di essi con la prole). Rientra di conseguenza nella competenza del tribunale per i minorenni il potere di prendere tutti i provvedimenti in ordine alla potestà sui figli naturali, adottando gli omologhi provvedimenti di competenza del giudice del divorzio, fermo restando che, in caso di accordo – sopravvenuto al ricorso di uno dei genitori – sulle condizioni inerenti all’affidamento e al mantenimento della prole, il giudice “deve tener conto” di esso anche se i suoi provvedimenti possono essere diversi rispetto all’accordo medesimo».
[205] V. Trib. min. L’Aquila, 22 aprile 1998, in Giust. civ., 1999, I, p. 596.
[206] Trib. min. Perugia, 16 gennaio 1998, in Fam. e dir., 1998, p. 376.
[207] Cfr. Balestra, Rapporti di convivenza, in Aa. Vv., Codice della famiglia, a cura di Sesta, 2a ed., II, cit., p. 3787; Id., Rapporti di convivenza, in Aa. Vv., Codice della famiglia, a cura di Sesta, 3a ed., cit., p. 2656; cfr. inoltre Oberto, Accordi tra conviventi e diritti del minore, alla luce della riforma sull’affidamento condiviso, cit., p. 271 ss.
[208] Così Trib. min. Reggio Calabria, 17 ottobre 1994, in Dir. fam. pers., 1995, p. 611, secondo cui: «allorché i partners di una famiglia di fatto cessino dal convivere e, nell’interesse della prole da essi concepita e generata, raggiungano un accordo extragiudiziale sull’affidamento della prole stessa [...] è ammissibile e legittimo l’intervento, a richiesta dei genitori, del tribunale per i minorenni che, constatata la conformità dell’accordo agli interessi della prole, ne omologhi il contenuto»; analogamente, si è sostenuto che «poiché la norma costituzionale non distingue tra la potestà del genitore naturale e quella del genitore legittimo, deve essere analogicamente estesa alle norme che attribuiscono un controllo del giudice sulla potestà dei genitori naturali in caso di cessata convivenza, la disciplina prevista per il controllo del giudice sulla potestà dei genitori divorziati del tribunale per i minorenni, che, nell’interesse della prole, potrebbe adottare provvedimenti diversi», in tal senso Trib. min. Perugia, 25 agosto 1997, in Rass. giur. umbra, 1998, p. 349; in precedenza v. Trib. min. L’Aquila, 31 gennaio 1994, in Dir. fam. pers., 1995, I, p. 1039; favorevole in dottrina Ferrando, Il matrimonio2, cit., p. 237; per una critica, cfr. Galizia Danovi, Sui limiti dell’intervento del giudice nella soluzione dei conflitti familiari, in Dir. fam. pers., 1995, p. 1044; sul tema v. anche Fiorini, Autonomia privata e affidamento condiviso, in Riv. notar., 2007, p. 47 ss.
[209] Sul tema cfr. Paladini, ibidem; per una critica dell’ammissibilità di un’omologazione di tali accordi da parte del tribunale dei minorenni cfr. Sesta, Diritto di famiglia2, cit., p. 413 s.; in argomento v. anche Oberto, Contratti di convivenza e diritti del minore, in Dir. fam. pers., 2006, p. 240.
[210] Così Trib. Como, 13 gennaio 2016, in Giur. it., 2016, p. 2643.
[211] Cfr. Oberto, Contratti di convivenza e diritti del minore, cit., p. 240 ss.; per uno studio che evidenzia il contrasto tra l’unicità dello status di figlio e la pluralità dei riti della crisi genitoriale cfr. Sesta, La crisi genitoriale tra pluralità di modelli di coppia e di regole processuali, in Fam. e dir., 2017, p. 1145 ss.
[212] Trib. Palermo, 20 luglio 1993, in Foro. it., 1996, I, c. 122; Trib. Milano, 23 gennaio 1997, in Fam. e dir., 1997, p. 560; Trib. Bari, 11 giugno 1982, in Foro. it., 1982, I, c. 2032.
[213] Trib. Cagliari, 24 febbraio 1998, in Riv. giur. sar., 1999, p. 137.
[214] Corte cost., 13 maggio 1998, n. 166, in Giust. civ., 1998, I, p. 1759; in dottrina Sesta, Diritto di famiglia2, cit., p. 412 ss.; Paladini, op. cit., p. 609 ss.
[215] Sul tema v. per tutti De Filippis, op. cit., p. 260 ss.
[216] Cfr. per tutti Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 8, nt. 9; Quadri, Problemi giuridici attuali della famiglia di fatto, in Fam. e dir., 1999, p. 502 ss.; Calò, Le convivenze registrate in Europa, Milano, 2000, passim; Caricato, La legge tedesca sulle convivenze registrate, in Familia, 2002, p. 501 ss.; Aa.Vv., Matrimonio, Matrimonii, a cura di F. Brunetta d’Usseaux e A. D’Angelo, Milano, 2000, passim; Sesta, Diritto di famiglia2, cit., p. 417 ss.; Balestra, La famiglia di fatto, 2008, cit., p. 1040 ss.; Pescara, op. cit., p. 979 ss.; Winkler, Il nuovo istituto dell’unione civile tra persone dello stesso sesso, in Buffone, Gattuso e Winkler, Unione civile e convivenza, Milano, 2017, p. 21 ss.
[217] Cfr. D’Angeli, La famiglia di fatto, cit., p. 250.
[218] Cass., 23 aprile 1966, n. 1041, in Giur. it., 1967, I, 1, c. 67.
[219] Cass., 28 marzo 1994, n. 2988, cit.
[220] All’incirca negli stessi termini cfr. anche Cass., 8 giugno 1993, n. 6381, cit., che parla di «convivenza more uxorio tra un uomo ed una donna in stato libero».
[221] Sul tema cfr. per tutti Bonini Baraldi, Le nuove convivenze tra discipline straniere e diritto interno, cit., p. 1 ss.; Id., Le nuove convivenze: profili internazional-privatistici, in Aa. Vv., Il nuovo diritto di famiglia, Trattato diretto da Ferrando, II, Rapporti personali e patrimoniali, cit., p. 1109 ss.
[222] Trib. Roma, 20 novembre 1982, in Riv. giur. edil., 1983, I, p. 959.
[223] Trib. Firenze, 11 agosto 1986, in Nuovo dir., 1988, p. 321.
[224] Cfr. Oberto, op. loc. ultt. citt.
[225] Si noti peraltro che, in tempi neppure troppo remoti, la Corte Suprema aveva ritenuto congruamente motivata una decisione d’appello che aveva qualificato come donazioni remuneratorie (e non come atti di adempimento di obbligazioni naturali) alcune compravendite simulate con le quali, nell’ambito di una convivenza omosessuale, uno dei partners aveva trasferito all’altro la titolarità di beni immobili (con conseguente declaratoria di nullità dei trasferimenti: cfr. Cass., 22 febbraio 1995, n. 1989, in Arch. civ., 1996, I, p. 484). La lettura della motivazione dimostra come la Corte abbia sostanzialmente eluso il problema posto alla base del motivo di ricorso, vale a dire, non già il carattere remuneratorio o meno della donazione (irrilevante nel caso di specie, posto che la forma solenne non era stata rispettata), bensì la presenza – in forza del rapporto di convivenza more uxorio – di quel dovere morale e sociale più elevato della gratitudine, che induce ad ascrivere l’attribuzione alla categoria degli atti di adempimento di un’obbligazione morale, come tale esente dai requisiti di forma imposti alla donazione, «semplice» o remuneratoria che sia (cfr. su tali argomenti Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 90 ss.).
[226] Sul punto cfr. Sesta, op. loc. ultt. citt.
[227] Cfr. Oberto, Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, cit., p. 125 ss.; Id., I diritti dei conviventi. Realtà e prospettive tra Italia ed Europa, cit., p. 211 ss.; sul tema v. inoltre, in senso adesivo, Cordiano, Tutela delle coppie omosessuali ed esigenza di regolamentazione, in Familia, 2004, p. 107; Long, Il diritto italiano della famiglia alla prova delle fonti internazionali, Milano, 2006, p. 226.
[228] Sul tema, e per ulteriori richiami cfr. Oberto, Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, cit., p. 125 ss.
[229] Per i richiami alla letteratura, sterminata in materia, si fa rinvio a Oberto, Problemi di coppia, omosessualità e filiazione, in Dir. fam. pers., 2010,, p. 802 ss.; Pirrone, Commento agli artt. 8, 12 e 14 CEDU, in Aa. Vv., Codice dell’unione civile e delle convivenze, a cura di Sesta, cit., p. 126 ss.; Gattuso e Winkler, La clausola generale di equivalenza, in Buffone, Gattuso e Winkler, Unione civile e convivenza, cit., p. 238 ss.
[230] Per rilievi al riguardo si fa rinvio a Oberto, op. loc. ultt. citt.
[231] Per i richiami e ulteriori commenti v. Oberto, op. loc. ultt. citt.
[232] Per i richiami e ulteriori commenti v. Oberto, op. loc. ultt. citt; Balestra, Affidamento dei figli e convivenza omosessuale tra “pregiudizio” e interesse del minore, in Corr. giur., 2013, p. 893 ss.
[233] Su questa decisione e su altre che, nel medesimo torno di tempo, sono intervenute sul tema cfr. Oberto, I diritti dei conviventi. Realtà e prospettive tra Italia ed Europa, cit., p. 236 ss.; per l’evoluzione successiva si fa rinvio a Meli, Il matrimonio tra persone dello stesso sesso. L’incidenza sul sistema interno delle fonti sovranazionali, in Nuova giur. civ. comm., 2012, p. 451 ss.; Rescigno, Il matrimonio same sex al giudizio di tre corti, in Corr. giur., 2012, p. 861 ss.; Venuti, Nuova giur. civ. comm., 2018, p. 351 ss.
[234] Trib. min. Roma, 30 luglio 2014, in Nuova giur. civ. comm., 2015, p. 109, con nota di Long.
[235] Piuttosto deve osservarsi che la citata decisione aveva omesso di dare rilievo al matrimonio celebrato tra le parti (genitrice biologica e adottante) in Spagna: questo è, invece, un punto che avrebbe meritato di essere posto adeguatamente in rilievo, tanto più che persino la Corte di cassazione italiana nega oggi che il matrimonio celebrato all’estero da persone del medesimo sesso sia contrario all’ordine pubblico internazionale italiano (cfr. Cass., 15 marzo 2012, n. 4184, in Fam. e dir., 2012, con nota di Gattuso).
[236] Per una dettagliata disamina delle possibili soluzioni cfr. Oberto, op. loc. ultt. citt.
[237] Trib. min. Bologna, 6 luglio 2017, in Corr. giur., 2018, p. 1396, con richiami in nota all’ampia giurisprudenza di merito in senso conforme.
[238] Cass., 27 settembre 2013, n. 22292, in Guida dir., 2013, n. 46, p. 34, con nota di Fiorini.
[239] Cass., 22 giugno 2016, n. 12962, in Giur. it., 2016, p. 2573, con nota di Spadafora; in Nuova giur. civ. comm., 2016, p. 1213, con nota di Ferrando.
[240] Cfr. Cass., 30 settembre 2016, n. 19599, in Dir. fam. pers., 2017, p. 298, con nota di Di Marzio.
[241] Cfr. Cass., 31 maggio 2018, n. 14007.
[242] Cass., 25 luglio 2018, n. 19780, in Guida dir., 2018, n. 35-36, p. 36, con nota di M. Finocchiaro.
[243] Quanto alla dottrina sui temi in oggetto si v. per tutti Cinque, Quale statuto per il “genitore sociale”?, in Riv. dir. civ., 2017, p. 1475 ss.; I. Barone, La legge n. 40 del 2004 al vaglio della corte costituzionale per l’accesso alla PMA da parte di una coppia formata da due donne, in Fam. e dir., 2018, p. 1091 ss.; Carota, La tutela del rapporto con il genitore sociale nelle coppie dello stesso sesso e l’orientamento della corte costituzionale sulle modalità di conservazione del rapporto una volta cessata la convivenza (Corte cost. 20 ottobre 2016, n. 225), in Nuove leggi civ. comm., 2018, p. 270 ss.; Giorgi, Adozione in casi particolari e rapporti familiari di fatto: l’interesse concreto del minore, in Corr. giur., 2018, p. 1396 ss.
[244] Cfr. ad es. Piola, Figlio di due mamme: una “nuova” denuncia di nascita a Torino, in www.anusca.it, 2018, p. 1.