ACCORDI PREVENTIVI DI DIVORZIO:

LA PRIMA PICCONATA È DEL TRIBUNALE DI TORINO

di Giacomo Oberto

 

Con questo coraggioso provvedimento il Tribunale di Torino assesta il primo colpo (giurisprudenziale) a quella posizione proclamata e sempre strenuamente difesa dalla Cassazione, secondo cui gli accordi raggiunti tra i coniugi in sede di separazione personale ed in vista del futuro divorzio sarebbero nulli per contrarietà all’ordine pubblico e per violazione dell’art. 160 c.c. Posizione, questa, che l’autore del presente commento da molto tempo definisce invece come inattuale, sempre più isolata nel panorama europeo e mondiale, non conforme alle regole del nostro vigente ordinamento e «diseducativa».

 

Sommario: 1. L’inizio della fine d’una «irragionevole ritrosia»? – 2. Il temuto «mercimonio dello status». – 3. Il tradizionale richiamo all’art. 160 c.c. – 4. Validità della rinunzia agli assegni di separazione e di divorzio. Considerazioni generali. – 5. Segue. Alimenti, mantenimento ed assegno divorzile. – 6. Validità delle rinunzie preventive. – 7. L’inizio della fine o la fine dell’inizio?

 

1. L’inizio della fine d’una «irragionevole ritrosia»?

       Nella sua prefazione ad una recente raccolta collettanea di studi sulla famiglia un autorevole civilista italiano non esita a bollare come «irragionevole» la «ritrosia della giurisprudenza di legittimità ad ammettere la validità dei contratti stipulati dai coniugi in vista del divorzio» [1]. La notazione critica, se letteralmente rivolta alla sola (e ben nota) posizione della Cassazione, ben potrebbe estendersi alla giurisprudenza di merito, che, nelle sue poche manifestazioni edite, non ha certo brillato, fino ad oggi, per la capacità d’individuare percorsi alternativi al solco che, da tanti anni e con mano mai esitante, gli ermellini persistono nel tracciare.

Chi scrive ha da sempre contestato questa conclusione, da ultimo con un articolo comparso proprio sulle colonne di questa rivista all’inizio del presente anno. Sarà pertanto opportuno, anche per evitare di annoiare il paziente lettore, pur rimanendo all’interno del tradizionale «armamentario obertiano» a difesa dei prenups all’italiana, limitare il commento ad alcuni degli argomenti recepiti da questo contributo giurisprudenziale, rinviando (anche per i necessari ulteriori richiami) al predetto lavoro [2].

 

2. Il temuto «mercimonio dello status».

La motivazione del provvedimento in esame dedica la sua prima parte alla reiezione dell’usuale considerazione della nullità delle intese in discorso collegata all’asserito condizionamento che le stesse eserciterebbero sul comportamento delle parti nel futuro giudizio di divorzio e all’asserito commercio dello status di coniuge [3].

La decisione in commento pone in evidenza la contraddittorietà di tale indirizzo rispetto alle decisioni della stessa Cassazione in materia di accordi preventivi su altri significativi mutamenti di status, costituiti dalla separazione personale e dall’annullamento del matrimonio. Per non parlare, poi, della situazione, del tutto speculare rispetto a quella qui considerata, della previsione, mercé la stipula di una convenzione matrimoniale, delle conseguenze patrimoniali di quell’altrettanto significativo futuro cambiamento di status costituito dal passaggio dalla condizione di celibe e di nubile a quella di coniugato/a [4]. Sul punto si sottolinea la volontà del nostro ordinamento diretta a sollecitare il soggetto, all’atto del matrimonio, a «costruire» le proprie prospettive matrimoniali attraverso la stipulazione delle convenzioni (pre)matrimoniali più idonee alla tutela dei suoi interessi in relazione alle circostanze e alle esigenze di vita, stabilendo espressamente che le convenzioni matrimoniali possano essere stipulate in ogni tempo (art. 162, terzo comma, c.c.) [5]. Non si riesce quindi ragionevolmente a spiegare per quale motivo ciò non dovrebbe avvenire in relazione al divorzio.

Il giudice torinese pone poi anche l’accento sul fatto che è lo stesso codice civile, che espressamente configura (cfr. art. 785 c.c.) il matrimonio (e dunque un fatto, per definizione, strettamente attinente alla vita personale oltre che costitutivo di uno status familiae) alla stregua di una condizione sospensiva delle attribuzioni patrimoniali gratuite effettuate (si badi: anche l’un l’altro dai promessi sposi) in vista della celebrazione delle nozze [6]. Chiaro richiamo, questo, alla validità di clausole «premiali» legate ad un comportamento personale di una delle parti, sulla scia, del resto, di un’antichissima tradizione, risalente al diritto romano [7].

Appare pertanto evidente al decidente che altro è dedurre ad oggetto del sinallagma negoziale l’impegno a tenere (o a non tenere) un comportamento personale (sposarsi, divorziare, separarsi, domandare l’annullamento del vincolo, ecc.) e ben altro è prevedere le conseguenze patrimoniali di una scelta di tal genere, laddove il legislatore si preoccupa di scongiurare soltanto il verificarsi della prima situazione, non certo della seconda.

 

3. Il tradizionale richiamo all’art. 160 c.c.

Notevole spicco all’interno del provvedimento viene dato al ribaltamento del tradizionale approccio all’art. 160 c.c. Norma, questa, che, a ben vedere, rappresenta l’unico concreto riferimento normativo cui la tesi giurisprudenziale di legittimità qui combattuta suole fare richiamo. Ora, il giudice torinese ben pone in luce l’irriferibilità della disposizione alla materia della crisi coniugale, correttamente evidenziando la radicale diversità del rapporto coniugale in fase fisiologica, da quello in fase patologica.

Ciò che appare più interessante notare è che la stessa Corte di legittimità sembra essere ben consapevole di ciò, allorquando, ad esempio, si rifiuta (più che condivisibilmente) di applicare l’art. 162 c.c. ai contratti della crisi coniugale, chiarendo che tali ultime intese non sono riconducibili al paradigma delle convenzioni matrimoniali, le quali postulano «il normale svolgimento della convivenza coniugale» ed hanno «riferimento ad una generalità di beni anche di futura acquisizione» e non l’esigenza di assetto dei rapporti personali e patrimoniali dei coniugi separati [8]. Anche per i supremi giudici pare dunque assodato che i contratti della crisi coniugale [9], ed in particolare i negozi traslativi di diritti tra coniugi in crisi, rimangono estranei alla tipologia delle convenzioni matrimoniali [10], ancorché le rationes decidendi s’incentrino talvolta su di un’esaltazione della contrapposizione tra «fase fisiologica» e «fase patologica» del regime legale [11], talvolta sul carattere «programmatico» delle convenzioni matrimoniali, di contro a quello attributivo del contratto postmatrimoniale.

Ma non basta ancora. Non moltissimi anni or sono, una decisione di legittimità, riconducibile alla penna del compianto collega Massimo Bonomo, poneva in evidenza come l’obbligazione di mantenimento in sede di separazione personale costituisca un’obbligazione, a ben vedere, del tutto autonoma ed indipendente rispetto al dovere di contribuzione ex art. 143 c.c., con la conseguenza che essa si deve reputare sorta ex novo nel luogo in cui la separazione legale dei coniugi si è perfezionata, e non già in quello (nella specie, diverso) della celebrazione del matrimonio. La Cassazione ha così deciso che «all’obbligo del coniuge di contribuire ai bisogni della famiglia, sussistente durante la convivenza coniugale, subentra, con la cessazione di tale convivenza conseguente alla separazione personale, ove ricorrano le prescritte condizioni (art. 156, primo comma, cod. civ.), un obbligo di mantenimento, destinato al soddisfacimento dei bisogni individuali dell’altro coniuge. Deve, pertanto, escludersi che, dopo la riforma, l’obbligazione derivante dalla separazione sia la stessa che sussisteva durante la convivenza coniugale» [12].

Questi spunti dimostrano come alla stessa Cassazione non sfugga che (come ricordato da scrive già molti anni or sono) «la crisi coniugale ha le sue leggi». Lo comprova ulteriormente, ad esempio, il fatto che già la semplice proposizione della domanda di separazione (così come di annullamento, di scioglimento o di cessazione degli effetti civili) giustifichi (cfr. art. 146 cpv. c.c.) la violazione del dovere di coabitazione; per non dire, poi, dell’insegnamento della stessa Corte di legittimità, che negli anni Novanta dello scorso secolo, sulla scorta della giurisprudenza di merito e della dottrina prevalente, venne a statuire il principio dell’assoluta insussistenza di un dovere di fedeltà tra separati [13].

Lo scrivente ha avuto modo più volte di ribadire che lo studio dell’art. 160 c.c. non può prescindere dalla considerazione del contesto storico in cui lo stesso è nato, né dalla sua collocazione «topografica» all’interno del sistema delle norme in materia di rapporti familiari.

Ora, la storia dell’art. 160 c.c. insegna che tale norma è erede dell’art. 1379 c.c. 1865 («Gli sposi non possono derogare né ai diritti che appartengono al capo della famiglia, né a quelli che vengono dalle legge attribuiti all’uno o all’altro coniuge, né alle disposizioni proibitive contenute in questo codice»), a sua volta mutuata da quell’art. 1388 code Napoléon che non poche discussioni aveva sollevato in sede di lavori preparatori. Proprio in tale fase, di fronte all’obiezione, secondo cui non sarebbe sembrato opportuno porre limiti eccessivi alla libertà negoziale delle parti in sede di contrat de mariage venne risposto [14] che lo scopo della norma era unicamente quello di «défendre toute stipulation qui rendrait la femme chef de la société conjugale», privando il marito («celui à qui la nature a donné le plus de moyens pour la bien gouverner») del diritto – spettantegli «par la nature même des choses» – di essere di tale unione «le maître et chef».

L’argomento storico sembra dunque sconsigliare la riferibilità della norma in esame alla fase patologica del rapporto coniugale: anche una volta sostituita la «regola del capo» con quella della Gleichberechtigung, l’attenzione del legislatore continua ad essere rivolta, nell’art. 160 c.c., alla fase di normale svolgimento della vita coniugale, ciò che appare confermato – e si viene così alla seconda argomentazione – anche dalla collocazione della norma in oggetto, dettata all’interno di un insieme di disposizioni (quelle in materia di regime patrimoniale della famiglia) miranti a disciplinare gli effetti d’ordine economico dell’unione coniugale nella sua fase fisiologica.

Né d’altro canto sembra possibile seguire la Cassazione nel suo ragionamento tendente ad estendere al «tipo legale di matrimonio» (come tale comprensivo anche delle disposizioni attinenti alla fase patologica) la copertura offerta dall’art. 160 c.c. sulla base della considerazione secondo cui non avrebbe senso prevedere l’intangibilità dei diritti e dei doveri previsti dalla legge per effetto del matrimonio e poi consentirne una deroga in sede di divorzio. Invero, la condizione (personale, sociale, ma anche giuridica) non solo degli ex coniugi, ma anche dei coniugi separati è a tal punto diversa da quella dei coniugi in fase di «normale» svolgimento del rapporto da giustificare (ma forse sarebbe più corretto dire: da pretendere) un trattamento differenziato.

Tale necessità è stata avvertita da sempre: si pensi ad esempio al fatto che già in diritto romano si era ritenuto di dover escludere le donazioni divortii causa dal tradizionale divieto di liberalità inter coniuges [15].

 

4. Validità della rinunzia agli assegni di separazione e di divorzio. Considerazioni generali.

       Nella decisione qui in commento non manca poi un richiamo al tema della possibilità che un soggetto validamente rinunzi ad un diritto futuro. Nella specie, infatti, l’accordo posto all’attenzione del tribunale subalpino era proprio diretto a privare la moglie dell’assegno (già di separazione) di cui la stessa aveva goduto sino all’inizio della procedura divorzile.

Sia consentito qui aggiungere che il problema si collega qui a quello, assai più vasto, della disponibilità delle prestazioni patrimoniali postmatrimoniali inter coniuges. L’argomento è, dunque, quello della disponibilità dei più importanti diritti d’ordine patrimoniale che nascono dalla separazione personale e dallo scioglimento del matrimonio: vale a dire del diritto al mantenimento del coniuge separato (art. 156 c.c.) e dell’assegno di divorzio (art. 5, l.div.). Al tema l’autore del presente commento ha dedicato un’apposita trattazione, cui va fatto ancora una volta rinvio [16], presentando in questa sede una rapida sintesi delle conclusioni in quella sede sviluppate.

Iniziando, dunque, della disponibilità del diritto al mantenimento del coniuge separato, ex art. 156 c.c., occorre ovviamente tenere conto, in primo luogo, del fatto che qui ci si trova di fronte ad un matrimonio ancora esistente. Non stupisce, pertanto, che l’obbligo in discorso sia prevalentemente inteso come una semplice prosecuzione del dovere di contribuzione di cui all’art. 143 c.c., attribuendovi le caratteristiche proprie di quest’ultimo, prima tra tutte quella dell’indisponibilità, con richiamo «obbligato» all’art. 160 c.c. La giurisprudenza – dal canto suo – ha sempre mostrato, per lo meno nelle enunciazioni di principio, una notevole rigidità sul tema in esame, già a partire dalle pronunzie in materia di dovere di mantenimento disciplinato dall’art. 145 c.c. 1942 [17], evidenziando peraltro sul punto una notevole serie di contraddizioni nell’individuazione delle cause dell’invalidità degli accordi di rinunzia e, soprattutto, nelle conseguenze ad esse riconnesse [18].

Ribadita la totale mancanza di elementi normativi che impongano ad validitatem la verifica giudiziale dei contratti conclusi in occasione della crisi coniugale, preme ripetere in questa sede che più d’una sono le ragioni che militano a favore della tesi contraria a qualsiasi possibilità per il giudice di intervenire nel merito degli accordi concernenti il mantenimento tra coniugi separati.

E’ assolutamente pacifico, in primo luogo, che il contributo al mantenimento ex art. 156 c.c. non può essere disposto ex officio, ma va espressamente richiesto dal coniuge interessato [19], senza che alcuna disposizione consenta a chicchessia di superare l’eventuale valutazione negativa operata dall’avente diritto circa l’opportunità di proporre tale domanda [20]. Se si tiene poi ancora conto del contenuto e dei limiti del controllo del tribunale in sede di omologa, in forza dell’art. 158 c.c., che significativamente menziona il solo contributo per il mantenimento della prole [21], il quadro appare in tutta la sua completezza.

Per ciò che attiene poi specificamente all’assegno divorzile, va rimarcato come il dibattito sulla relativa natura disponibile ha caratterizzato la materia in esame sin dall’entrata in vigore della l.div., conoscendo alterne fasi e vicende, tanto in dottrina che in giurisprudenza. L’opinione prevalente è così passata, da un’iniziale posizione piuttosto «possibilista» ad una totale chiusura dopo l’entrata in vigore della l. 74/1987. In effetti tale legge è venuta ad incidere su entrambi gli argomenti usualmente presi in considerazione al fine di risolvere il problema della disponibilità del diritto all’assegno. Da un lato, infatti, essa ha specificato che la corresponsione una tantum può avvenire solo «se ritenuta equa dal tribunale», mentre dall’altro, con il famoso inciso relativo ai «mezzi adeguati», essa ha indubbiamente esaltato (se non addirittura reso esclusivo) il carattere assistenziale dell’assegno [22].

Soffermando ora l’attenzione sulla prima delle due innovazioni sopra segnalate, e cioè sull’introduzione di un controllo, alla stregua del criterio d’equità, della liquidazione una tantum dell’assegno divorzile, notiamo che su di essa ha fatto leva una parte della dottrina per desumere il carattere irrinunciabile del diritto [23]. Anche la giurisprudenza più recente si è dimostrata sensibile a questo particolare argomento [24]. In senso contrario rispetto a quanto sopra osservato, altri Autori hanno affermato che dalla previsione della valutazione d’equità del tribunale si può trarre solo un’indicazione nel senso dell’inammissibilità di una rinunzia preventiva, ma non di una rinunzia tout court [25].

Ma gli argomenti decisivi, in merito alla valutazione d’equità dell’accordo sull’indennità una tantum, sono ben altri. In primo luogo, invero, la predetta valutazione non appare costituire una condizione di validità dell’intesa, bensì solo del conseguente effetto preclusivo [26], come pare confermato dal secondo dei due periodi di cui si compone il comma ottavo dell’art. 5 l.div., che, con il suo incipit («In tal caso…»), sembra volersi collegare all’ipotesi prospettata nella parte finale del primo periodo, cioè appunto quella dell’effettuata valutazione d’equità. Inoltre – e questa sembra la considerazione dirimente – tale valutazione non risulta richiesta nel procedimento di divorzio su domanda congiunta, bensì solo nella procedura contenziosa, nel corso della quale le parti, eventualmente demandata al giudice la decisione sull’an, raggiungano un accordo in punto quantum [27].

Sull’altra novità della riforma del 1987, consistente nell’accentuato rilievo che è venuta assumendo la componente assistenziale dell’assegno di divorzio, si è invece basata altra parte della dottrina, sempre per giungere alla conclusione della non disponibilità dell’assegno medesimo [28]. La tesi è stata immediatamente utilizzata dalla giurisprudenza di legittimità per giungere ad affermare l’assoluta indisponibilità del relativo diritto [29]. La conclusione che fonda il carattere indisponibile dell’assegno di divorzio sulla natura assistenziale del medesimo solleva però svariate perplessità.

Tanto per cominciare, il carattere assistenziale della prestazione in discorso non esonera certo l’avente diritto dall’onere della proposizione di un’apposita domanda, posto che tra coniugi, a differenza che per i figli, l’assegno non è determinato d’ufficio, ciò che già di per sé appare incompatibile con la tesi che vorrebbe l’assegno medesimo indisponibile. A questo s’aggiunga che la tesi qui criticata cozza con la considerazione per cui comunque il beneficiario potrebbe, per i più svariati motivi, accontentarsi di un assegno inferiore rispetto a quello spettantegli per legge, senza che al riguardo il tribunale – né il pubblico ministero – possano avere alcunché a ridire [30].

 

5. Segue. Alimenti, mantenimento ed assegno divorzile.

Alimenti e mantenimento sono – come noto – concetti ben distinti tra di loro, al punto da non consentire una trasposizione (quanto meno: una trasposizione meccanica e acritica) dei principi governanti ciascuna di queste realtà giuridiche all’altra e viceversa [31]. In estrema sintesi, a parte i dati sistematici testé evidenziati, rimane il fatto che gli innumerevoli, innegabili caratteri differenziali della prestazione alimentare rispetto all’assegno di divorzio ed al mantenimento del coniuge separato non consentono alcuna forma di estensione – né per via di interpretazione estensiva, né per via di analogia – ai secondi delle disposizioni dettate per la prima e tra queste, in maniera particolare, di quella consacrata nell’art. 447 c.c., norma che si pone in netto contrasto con un principio fondamentale dell’ordinamento, quale quello della libertà contrattuale [32].

Sia poi concesso ribadire, in questa sede, che proprio sul complesso di argomentazioni storiche, letterali e sistematiche testé esposte [33] si fonda il convincimento della piena disponibilità del contributo al mantenimento del coniuge separato e dell’assegno di divorzio. E’ il potere concesso al giudice dall’art. 158 c.c. di rifiutare l’omologazione nei soli casi di contrarietà degli accordi all’interesse dei minori ad evidenziare che là dove il legislatore ha individuato – in questo particolare tipo di rapporti – un diritto indisponibile, lo stesso legislatore ha concesso al tribunale il potere di intervenire sulle intese delle parti, impedendo la produzione dei relativi effetti. Il problema, dunque, non è certo solo [34] quello di concedere o negare l’ «azione pubblica» [35], bensì quello di comprendere che i poteri del giudice non possono invadere la sfera degli accordi delle parti se non nei casi tassativamente indicati dalla legge; casi tra i quali non rientra la mancata previsione del contributo di mantenimento al coniuge separato o dell’assegno di divorzio, così come non rientrano in tali fattispecie quantificazioni di siffatte prestazioni in misura eventualmente non conforme a quella che sarebbe stata la determinazione giudiziale in caso di procedimento contenzioso.

Tornando dunque all’art. 160 c.c. dovrà constatarsi come il richiamo a tale disposizione con riguardo al mantenimento del coniuge separato, e sovente anche all’assegno di divorzio, costituisca un vero e proprio Leitmotiv in dottrina e giurisprudenza [36]. Eppure non vi è dubbio che la norma in esame, riferita ai diritti e ai doveri «previsti dalla legge per effetto del matrimonio» (corsivo dell’autore), non possa essere in alcun modo invocata nel campo del divorzio, che del matrimonio rappresenta – se ci si passa l’espressione – l’esatto rovescio [37]. Per quanto attiene invece più specificamente la situazione di separazione, sembra che anche in questo caso l’art. 160 c.c. non possa trovare applicazione per ragioni di carattere sia storico che sistematico, che si sono sopra individuate [38].

La conclusione di cui sopra è avvalorata dal fatto che gli stessi Autori che negano la disponibilità dell’assegno ammettono poi che le parti possono invece determinarne di comune accordo l’ammontare e dunque compiere su di esso quello che è un vero e proprio atto dispositivo [39]; atto dispositivo che – si badi – avviene al di fuori di ogni tipo di controllo da parte dell’autorità giudiziaria, sia per quanto attiene all’ammontare dell’assegno [40], sia per ciò che riguarda la determinazione della sua decorrenza [41].

Quanto detto sembra tra l’altro smentire un altro assunto caro ai fautori della natura indisponibile dell’assegno, secondo cui il titolo dell’attribuzione andrebbe individuato nella legge [42]. Se, infatti, così veramente fosse, al giudice competerebbe sempre il potere/dovere di controllare la rispondenza del quantum concordato ai criteri predeterminati, ciò che invece non è. In quest’ottica va dunque valutata l’introduzione della procedura di divorzio su domanda congiunta ad opera del riformatore del 1987, vera e propria «spia» dell’accresciuto rilievo dell’autonomia privata dei coniugi nella fase della crisi coniugale, alla quale sono costretti a rendere atto di omaggio pure i sostenitori della tesi della indisponibilità dell’assegno [43], posto che alla base di esso si colloca, quale imprescindibile presupposto, un accordo di carattere transattivo che può addirittura sottrarsi alla clausola rebus sic stantibus.

Per completezza dovrà aggiungersi che ad alcuni degli argomenti sopra sviluppati in senso favorevole alla disponibilità dei diritti qui in discussione non sembra essere rimasta insensibile neppure la Corte di cassazione. Nella già ricordata sentenza del 2001, ad esempio, si è addirittura espressamente contestato che l’obbligazione di cui all’art. 156, comma primo, c.c. «sia la stessa che sussistenza durante la convivenza coniugale» [44], cioè a dire che essa sia null’altro che l’obbligazione di contribuzione ex art. 143 c.c. Rilievo, questo, che dovrebbe far sorgere più di un dubbio sulla meccanica riferibilità dell’art. 160 c.c. alla materia della crisi coniugale.

In maniera ancora più chiara, poi, diverse volte la stessa Corte ha affermato, vuoi che «i rapporti patrimoniali tra i coniugi separati hanno rilevanza solo per le parti, non essendovi coinvolto alcun pubblico interesse, per cui essi sono pienamente disponibi­li e rientrano nella loro autonomia privata» [45], vuoi che l’assegno di divorzio «costituisce oggetto di un diritto disponibile», con la conseguenza che «il detto coniuge è gravato dall’onere – non intaccato dai poteri officiosi spettanti al giudice – di dedurre e dimostrare, con idonei mezzi di prova, riguardo all’an debeatur, quale fosse il tenore di vita e quale deterioramento ne sia conseguito a seguito del divorzio, nonché, riguardo al quantum debeatur, tutte le circostanze suscettibili di essere valutate dal giudice alla luce dei criteri legislativi stabiliti ai fini della determinazione dell’assegno, senza che la sussistenza di un deterioramento siffatto possa desumersi dalla mera circostanza di un sensibile divario di condizioni reddituali in danno del coniuge richiedente» [46].

E’ più che evidente, poi, che le rinunce di cui qui si è discusso non potranno invece dispiegare effetti nei confronti dell’obbligo alimentare, caratterizzato, come noto, dall’indisponibilità [47], ma esistente soltanto tra coniugi e dunque destinato a morire con la fine del vincolo matrimoniale.

 

6. Validità delle rinunzie preventive.

       Si accennava in apertura del § precedente al fatto che la decisione in commento non trascura di farsi carico della possibile obbiezione fondata sul carattere futuro del diritto cui, nell’accordo in contemplation of divorce, una parte rinunzia.

In proposito è noto che parte della dottrina nega che un soggetto possa abdicare in via preventiva ad un diritto che non sia ancora entrato nel suo patrimonio [48]. Si tenga presente che, più correttamente, dovrebbe parlarsi nel caso di specie di «rifiuto», anziché di «rinunzia», atteso che, secondo un orientamento piuttosto accreditato, mentre il primo attiene al procedimento acquisitivo, la seconda si specifica come atto abdicativo di un diritto in precedenza acquisito al patrimonio del soggetto [49]. La questione viene però usualmente posta nella materia in esame in termini di «rinunzia»: sarà pertanto opportuno seguire questa terminologia, al fine di evitare ulteriori confusioni in un campo già di per sé quanto mai complesso.

Ora, il dubbio sull’ammissibilità della rinunzia ad un diritto futuro è stato prospettato proprio in relazione al caso delle rinunzie preventive all’assegno di divorzio, ma il discorso vale, ovviamente, con riguardo ad ogni possibile diritto patrimoniale nascente dalla crisi coniugale a beneficio dell’uno o dell’altro coniuge [50]. Su questo punto specifico la Cassazione non ha ancora preso posizione, potendosi al riguardo annoverare solo un inciso nel quale la Corte, dopo avere esposto i propri dubbi in proposito, ha espressamente dichiarato di ... non volersi pronunciare [51].

Anche a prescindere dal tema specifico della rinunzia all’assegno divorzile, le voci a sostegno della tesi della non configurabilità, in generale, di rinunzie rispetto a diritti futuri prendono solitamente le mosse dalla constatazione secondo cui, «stante la mancanza attuale del diritto nel patrimonio del rinunziante, questi non è legittimato all’atto», aggiungendo, a contorno di tale argomento logico, il richiamo agli artt. 458 e 2937 cpv. c.c. [52]. Ma i riferimenti normativi appaiono poco probanti, in quanto fondati su disposizioni dotate di sicuro carattere eccezionale rispetto al principio generale sancito in materia contrattuale dall’art. 1348 c.c., secondo cui «La prestazione di cose future può essere dedotta in contratto, salvi i particolari divieti della legge». Ora, la norma in esame, facendo espressamente salvi «i particolari divieti della legge» rende chiaro, nella maniera più esplicita, il fatto che dagli artt. 458 e 2937 cpv. c.c. non può certo ricavarsi un principio d’ordine generale. Lo stesso argomento logico, poi, si scontra con il citato art. 1348 c.c., avente sicuramente una valenza generale, specie in materia contrattuale, come ulteriormente confermato dagli artt. 1472 e 1938 c.c. Una volta venuti meno i richiami normativi, la semplice enunciazione del principio secondo cui «presupposto necessario della rinuncia dovrebbe essere l’appartenenza al patrimonio del rinunciante del diritto al quale egli dichiara di abdicare» si risolve nell’imposizione d’un postulato assolutamente indimostrato.

A ciò s’aggiunga che, come acutamente rilevato in dottrina, la rinunzia ad un diritto di cui ancora non si è titolari assume, a ben vedere, la natura di rifiuto del diritto medesimo: non cioè come esercizio del diritto di cui non si è titolari, ma come opposizione a che quel diritto possa entrare nel patrimonio del dichiarante, ovvero come esercizio del diritto attuale a mantenere il proprio patrimonio nella situazione in cui si trova [53], non dissimilmente, del resto, a ciò che avviene nel caso di rinunzia all’eredità, ex artt. 519 ss. c.c.

La giurisprudenza dal canto suo non offre appigli sicuri, non solo perché risulta divisa [54], ma soprattutto perché il suo fondamento – come pure rilevato – «non appare chiaro», posto che l’affermazione della non rinunziabilità dei diritti futuri «trova il suo sostegno in sentenze emesse in casi in cui era futura la norma (e non già la fattispecie costitutiva del diritto), in cui si trattava di diritti limitatamente disponibili, e via dicendo» [55], al punto da far ritenere le predette massime «più appariscenti che probanti, perché utilizzate sempre per casi di specie» [56]. D’altro canto, che il predetto principio sia in via di superamento anche da parte dei giudici di legittimità è confermato dal fatto che le decisioni di carattere negativo appaiono per lo più assai più risalenti rispetto a quelle di segno opposto, oltre che dalla circostanza che – come si è visto – proprio sullo specifico problema qui in esame la Cassazione ha preferito non pronunziarsi.

       Miglior partito appare dunque, ancora una volta, quello che aderisce ad una posizione che trae alimento da una solida tradizione storica.

Nella più rilevante trattazione dell’epoca del diritto comune specialmente dedicata al tema delle rinunzie [57] la renuntiatio juris futuri veniva infatti presentata come ammissibile e, di fronte alle critiche secondo cui lo jus futurum non sarebbe negoziabile perché non ancora in rerum natura, si ribatteva che «in jure futuro duo considerantur nempe ipsum jus futurum, & spes». Ora, a differenza del primo elemento, «ipsa spes, sive illud incertum praesens est, proindeque recte deducitur in contractum». Da ciò derivava che «Expectatio quippe illa, quae pendet ex quopiam futuro eventu, quae proprie dicitur spes, cum sit res quaedam prasens distincta a jure ipso futuro certe ea deduci potest in contractum». Conseguentemente, «Constat (…) jus futurum deduci posse in contractu proindeque remitti posse. Sane renuntians juri futuro, sive potius spei non videtur se privare jure futuro quod non habet, sed privat se expectatione, & spe quam habet, ac videtur remittere rem aliquam praesentem (...). Et qui renuntiat spei remittit id quod est in jure suo, & competit de praesenti, nempe spei praesenti. Hinc remittens spem, ut aliquid detur, dicitur implevisse, atque dicitur dare rem. Hoc est spem atque ideo pro ea remissione juste accipit».

Sin dai tempi di Baldo era del resto chiaro che una netta distinzione andava compiuta tra i diritti futuri dipendenti ex mera voluntate alterius e quelli semplicemente dipendenti ex futuro eventu. In questo secondo caso siffatta spes avrebbe potuto essere dedotta in contratto, possedendo la stessa una certa causa. Per tale ragione, mentre non si sarebbe potuto disporre del patrimonio di un terzo vivente, in relazione al quale il disponente ha solo una spes succedendi legata alla mera voluntas del terzo, si sarebbe potuto disporre di tutti i propri beni presenti e futuri: «quod intelligitur de spe causata de praeterito, non de causanda de futuro» [58].

La conclusione si fondava a sua volta sull’autorità di Bartolo [59], che, sulla validità di un accordo con cui un soggetto avrebbe rinunziato ad un diritto quod habet, vel habere sperat, o habere potest, aveva chiarito che ciò che rilevava per la validità dell’intesa era che il soggetto disponesse di un diritto «quod quis habere sperat ex aliqua causa subsistente de praesenti», portando ad esempio proprio un passo del Digesto [60], che ammetteva la validità di accordi tra fidanzati sulla dote, pur nel caso in cui tali soggetti non avessero avuto l’età per contrarre le nozze, proprio perché in tal caso «spes est fieri matrimonium» [61]. Già agli antichi era pertanto ben chiaro che, di regola (laddove una situazione futura non si presenti come ab initio impossibile) le posizioni giuridiche soggettive patrimoniali legate ad eventi (anche personali o personalissimi) futuri ed incerti, ma possibili, quali il matrimonio, l’acquisto di beni, o (perché no?) il divorzio erano pienamente disponibili.

In definitiva, assolutamente preferibile appare il parere della dottrina contemporanea più autorevole, secondo cui – in via generale – «oggetto della rinuncia può essere in genere ogni diritto o ragione anche futuri od eventuali, purché non siano assolutamente indeterminabili» [62], con ulteriore conferma della conseguente ammissibilità di una rinunzia preventiva ai diritti spettanti all’uno e/o all’altro dei coniugi per effetto di un’eventuale crisi coniugale.

 

7. L’inizio della fine o la fine dell’inizio?

In conclusione non potrà farsi a meno di evidenziare l’accento posto dal tribunale sui concetti di correttezza e di buona fede. Canoni, questi, che significano in primo luogo rispetto della parola data e dell’affidamento sul carattere (evidentemente!) tombale dell’accordo stipulato già nella fase di crisi dell’unione ed anzi, a ben vedere, nel momento supremo di questa crisi, suggellato dal raggiungimento dell’intesa di separazione consensuale (o, come nella specie, dell’intesa sulla presentazione di conclusioni congiunte in sede di decisione con sentenza della causa di separazione giudiziale).

Dopo il richiamo di rito al clamoroso revirement della giurisprudenza d’oltre Manica sul tema dei prenuptial agreements in contemplation of divorce [63] il provvedimento qui commentato sottolinea esattamente come la posizione giurisprudenziale dominante in Italia appaia sostanzialmente inadeguata all’evoluzione socio-culturale della concezione del matrimonio e delle sue fasi, per così dire, di crisi irreversibile e conclusive.

Interessante, in questo contesto, l’accostamento all’evoluzione di tutta la recente normativa nei più svariati settori – dalla materia contrattuale al diritto bancario – ove la buona fede e la correttezza costituiscono sempre più cardini inderogabili e principi per così dire di rango superiore, laddove ritenere che, nell’ambito del diritto familiare, al contrario, l’affidamento sulla parola data in sede di separazione non possa esser minimamente preso in considerazione determina l’insopportabile conseguenza (più volte stigmatizzata da chi scrive) secondo cui un accordo di separazione, faticosamente concordato dopo mesi (o anni) di trattative e obiettivamente inteso come solutorio dell’intero complesso dei rapporti nati da un’unione sbagliata, possa essere accettato da una delle parti con la «riserva mentale» di porre tutto nuovamente in discussione al momento del divorzio. Ciò che, tra l’altro, determina l’assurda conseguenza di spingere la prassi a rinvenire soluzioni al limite del lecito e comunque inutili o facilmente frustrabili, quali, ad esempio, il rilascio di garanzie, o la stipula di simulati contratti di mutuo, risolubili solo all’atto della conclusione della futura procedura di scioglimento del vincolo.

Più che condivisibile, quindi, la conclusione del ragionamento del giudice torinese, secondo cui: «Pare quindi possibile e corretto affermare che ben possa essere ritenuto valido, anche alla luce della vigente normativa e con una interpretazione aderente a quei canoni di correttezza e di buona fede che, come detto, caratterizzano in modo stabile i più recenti impianti normativi, un accordo quale quello stipulato nel caso di specie dai coniugi in cui entrambe le parti, in piena autonomia e libertà, convennero la cessazione della contribuzione da parte del marito al momento del deposito della richiesta di divorzio».

Non rimane dunque se non chiudere queste brevi note con l’auspicio che il granito di cui la giurisprudenza di legittimità pare comporsi si sgretoli come neve al sole, sotto le picconate che altri giudici di merito vorranno assestare, seguendo questo primo coraggioso esempio. Riprendendo l’incipit di questo commento, alla luce di una famosa battuta churchilliana, si deve sperare che, per l’errato e diseducativo indirizzo giurisprudenziale oggi dominante, questa decisione, se non l’inizio della fine, rappresenti quanto meno… la fine dell’inizio.

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SOMMARIO

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[1] Così Busnelli, Prefazione ad Aa. Vv., La famiglia e il diritto fra diversità nazionali ed iniziative dell’Unione Europea, a cura di Amram e A. D’Angelo, Padova, 2011, p. XIX.

[2] Cfr. Oberto, Contratti prematrimoniali e accordi preventivi sulla crisi coniugale, in Fam. dir., 2012, p. 69 ss.

[3] Per i richiami cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, Milano, 1999, p. 483 ss.; Id., «Prenuptial agreements in contemplation of divorce» e disponibilità in via preventiva dei diritti connessi alla crisi coniugale, in Riv. dir. civ., 1999, II, p. 171 ss.; Id., Contratto e famiglia, in Aa.Vv., Trattato del contratto, a cura di Roppo, VI, Interferenze, a cura di Roppo, Milano, 2006, p. 253 ss.; Id., Gli accordi preventivi sulla crisi coniugale, in Familia, 2008, p. 25 ss.; Id., Contratti prematrimoniali e accordi preventivi sulla crisi coniugale, cit.

[4] Sul tema v. per tutti Oberto, opp. locc. ultt. citt.

[5] Cfr. Oberto, Contratti prematrimoniali e accordi preventivi sulla crisi coniugale, cit., p. 83. Cfr. inoltre Doria, Autonomia privata e «causa» familiare. Gli accordi traslativi tra i coniugi in occasione della separazione personale e del divorzio, Milano, 1996, p. 178, nota 230; le conclusioni tratte al riguardo da tale ultimo Autore sono limitate alla materia degli atti traslativi; esse peraltro ben possono essere estese, più in generale, ad ogni tipo di contratto concluso in occasione – o anche solo in vista – della crisi coniugale.

[6] Così Oberto, Contratti prematrimoniali e accordi preventivi sulla crisi coniugale, cit., p. 84.

[7] Siffatte clausole non sembrano in grado di suscitare obiezioni, posto che con esse l’esecuzione della prestazione di carattere personale (la prosecuzione della convivenza more uxorio oltre un certo limite temporale, la celebrazione delle nozze, la prosecuzione della convivenza matrimoniale, la prestazione del consenso per il divorzio su domanda congiunta, ecc.) non viene «garantita» dalla presenza di una forma di coazione giuridica o dalla assicurazione del pagamento di una penale da parte del soggetto eventualmente inadempiente, ma viene piuttosto incoraggiata mediante la promessa di un premio da parte di colui che ha interesse a che il beneficiario tenga quel certo comportamento, secondo una regola che non sembra sconosciuta neppure al diritto romano: «Titio centum relicta sunt ita, ut Maeviam uxorem, quae viduam est, ducat: conditio non remittetur; et ideo nec cautio remittenda est. Huic sententiae non refgragatur, quod si quis pecuniam promittat, si Maeviam uxorem non ducat, Praetor actionem denegat: aliud est enim eligendi matrimonii poenae metu libertatem auferri, aliud ad matrimonium certa lege invitari» (D. 35, 1, 71, 1). La tesi qui esposta, proposta anche all’attenzione della dottrina tedesca (cfr. Oberto, Partnerverträge in rechtsvergleichender Sicht unter besonderer Berücksichtigung des italienischen Rechts, in FamRZ, 1993, p. 7), sembra avere riscosso consenso presso quest’ultima: cfr. Grziwotz, Partnerschaftsvertrag, für die nichteheliche Lebensgemeinschaft, München, 1994, p. 31; per una valutazione di tale impostazione «in termini problematici» in Italia, cfr. Franzoni, I contratti tra conviventi more uxorio, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1994, p. 749 s.; in senso decisamente adesivo v. Ruggiero, Gli accordi prematrimoniali, Napoli, 2005, p. 157 ss. Per ulteriori approfondimenti cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, Milano, 1991, p. 197 s.; Id., Partnerverträge in rechtsvergleichender Sicht unter besonderer Berücksichtigung des italienischen Rechts, cit., p. 7. V. inoltre Id., La promessa di matrimonio tra passato e presente, Padova, 1996, p. 99.

[8] Cfr. Cass., 11 maggio 1984, n. 2887; Cass., 11 novembre 1992, n. 12110; Cass., 12 settembre 1997, n. 9034; per la giurisprudenza di merito v. App. Bologna, 29 gennaio 1980, in C.E.D. – Corte di cassazione, Arch. MERITO, pd. 820052; per l’esclusione del carattere di convenzione matrimoniale in relazione ai trasferimenti di diritti tra coniugi in sede di separazione e divorzio v. anche Zoppini, Contratto, autonomia contrattuale, ordine pubblico familiare nella separazione personale dei coniugi, Nota a Cass., 23 dicembre 1988, n. 7044, in Giur. it., 1990, I, 1, c. 1321.

[9] Su questo concetto e per gli approfondimenti cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale, I e II, cit., passim.

[10] Condivide la conclusione (già prospettata ed argomentata in Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 683 ss.) Ieva, Le convenzioni matrimoniali, in Trattato di diritto di famiglia, diretto da Zatti, III, Regime patrimoniale della famiglia, Milano, 2002, p. 30.

[11] Questa è anche l’opinione di Morelli, Il nuovo regime patrimoniale della famiglia, Padova, 1996, p. 61.

[12] Cass., 22 marzo 2001, n. 4099. V. inoltre Cass., 5 settembre 2008, n. 22394, secondo cui «Ai giudizi di modifica delle condizioni economiche stabilite nella separazione, si applicano gli ordinari criteri di competenza e, quindi, oltre al foro generale delle persone fisiche, è competente anche il foro concorrente relativo alle obbligazioni; pertanto, sussiste la competenza del tribunale che ha pronunziato o ha omologato la separazione, nel cui circondario sono sorte le obbligazioni di cui si tratta».

[13] Sul punto v. per tutti D’Angeli, Il mutamento del titolo della separazione personale dei coniugi, Torino, 1994, p. 38 ss.; Lenti, Un addio senza rimpianti al mutamento di titolo della separazione, nota a Cass., 17 marzo 1995, n. 3098, in Giur. it., 1996, I, 1, c. 67 ss.; per un riepilogo anteriore delle posizioni di dottrina e giurisprudenza sulla sopravvivenza dei doveri coniugali in fase di separazione cfr. Id., Modelli di separazione e mutamento del titolo, Milano, 1984, passim; Lagomarsino, Sopravvivenza dell’obbligo della mutua assistenza fra coniugi dopo i provvedimenti presidenziali, nota a Cass., 14 luglio 1994, n. 6612, in Fam. e dir., 1994, p. 629 ss.; per una rassegna giurisprudenziale al riguardo v. anche Moglia, La separazione personale dei coniugi: panorama di giurisprudenza, in Nuova giur. civ. comm., 1997, p. 372 ss.

[14] V. il resoconto della relativa seduta del Consiglio di Stato in Jouanneau e Solon, Discussions du code civil dans le Conseil d’Etat, II, Paris, 1805, p. 357.

[15] Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, Milano, 1999, p. 74 ss.

[16] Cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 387 ss.; Id., Sulla natura disponibile degli assegni di separazione e divorzio: tra autonomia privata e intervento giudiziale, in Fam. dir., 2003, p. 389 ss. (parte I), 495 ss. (parte II); v. inoltre Al Mureden, Le rinunce nell’interesse della famiglia e la tutela del coniuge debole tra legge e autonomia privata, in Familia, 2002, p. 990 ss.

[17] Per una completa ed attenta rassegna v. anche Zatti e Mantovani, La separazione personale dei coniugi, Padova, 1983, p. 310.

[18] Basti dire, a titolo d’esempio, che in molti casi la Corte Suprema, pur riconoscendo al coniuge che avesse acconsentito, dopo la pronuncia di separazione, all’erogazione di un assegno in misura inferiore rispetto a quella giudizialmente fissata, il diritto di richiedere in ogni tempo la prestazione stabilita dalla sentenza, riconosciuta la nullità della rinunzia per violazione dell’art. 160 c.c., ha poi preteso che la parte interessata richiedesse la prestazione patrimoniale proponendo domanda per modifica delle condizioni della separazione (art. 710 c.p.c.) o del divorzio (art. 9 l.div.), con richiamo, quindi alla regola rebus sic stantibus (nel senso che l’ex coniuge possa domandare l’assegno non richiesto, o non ottenuto in sede di sentenza che abbia pronunziato lo scioglimento del matrimonio, solo una volta che sia riuscito a dimostrare il sopraggiungere di nuove circostanze v. Cass., 24 settembre 2002, n. 13860; Cass., 24 settembre 2002, n. 13863; Cass., 25 agosto 2005, n. 17320). Il ragionamento appare ictu oculi incongruente rispetto alla lamentata violazione di regole d’ordine pubblico, atteso che, in tal modo, viene attribuito valore alla rinunzia sino all’intervenuto verificarsi di un mutamento nelle circostanze di fatto, mutamento che, tra l’altro, potrebbe anche non verificarsi mai (cfr. Cass., 7 marzo 1978, n. 1116, in Foro it., 1978, I, c. 1143; v. inoltre la giurisprudenza citata da Zatti e Mantovani, La separazione personale dei coniugi, cit., p. 340 s.; per un’analoga posizione dottrinale cfr. F. Finocchiaro, Del matrimonio, II, Art. 84-158, in Commentario del codice civile a cura di Scialoja e Branca, Bologna – Roma, 1993, p. 469). Altrettanto incompatibile con la tesi della nullità del patto di rinunzia al diritto al mantenimento del coniuge separato appare poi quella tesi giurisprudenziale che attribuisce efficacia al riconoscimento, da parte di uno dei coniugi, di non avere diritto alla prestazione ex art. 156 c.c. Anche qui, invero, si postula il necessario intervento di un mutamento delle condizioni economiche, quale condizione indispensabile al fine di permettere l’attribuzione dell’assegno (Cass., 26 maggio 1967, n. 1146; nello stesso senso cfr. Cass., 26 ottobre 1968, n. 3564; in precedenza v. anche Cass., 5 ottobre 1956, n. 3363, in Rep. Foro it., 1956, voce «Separazione di coniugi», n. 130; Cass., 13 aprile 1960, n. 860; Cass., 30 gennaio 1961, n. 173; in dottrina cfr. Zatti, I diritti e i doveri che nascono dal matrimonio e la separazione dei coniugi, in Trattato di diritto privato, diretto da Rescigno, 3, Torino, 1982, p. 252 s.; anche Andrioli, Commento al codice di procedura civile, IV, Napoli, 1964, p. 341, rileva che è difficile conciliare le due proposizioni su cui si fonda questa giurisprudenza, vale a dire la nullità della rinunzia al mantenimento e l’effetto meramente ex nunc della relativa revoca). Un ragionamento identico a quello illustrato è poi rinvenibile anche in dottrina, ove non è raro riscontrare solenni affermazioni circa la nullità di ogni rinunzia, «appaiate» alla dichiarazione di piena validità del riconoscimento dell’autosufficienza economica, atto che dovrebbe impedire la proposizione di ogni domanda patrimoniale sino all’(eventuale) intervento di un mutamento delle circostanze di fatto: cfr. per esempio De Paola, Il diritto patrimoniale della famiglia coniugale, I, Milano, 1991, p. 191, 193. Secondo le opinioni qui esposte l’accordo ricognitivo della situazione di autosufficienza economica e di insussistenza delle condizioni per la concessione dell’assegno è dunque valido, con il solo limite dell’errore e della violenza, ciò che ne esclude l’impugnabilità ogni qual volta la dichiarazione di autosufficienza economica sia falsa, ma comunque liberamente voluta, al fine, magari, di costituire la «contropartita» di un’utilità data o promessa dall’altra parte. In questo caso, tutt’altro che infrequente, non si riesce però a comprendere quale sarebbe allora la differenza tra «dichiarazione di autosufficienza» e rinunzia, cui viene – nel pensiero qui esposto – attribuito l’effetto di paralizzare rebus sic stantibus (e dunque potenzialmente anche per tutta la durata della vita «da separati») ogni pretesa economica, ancora una volta in palese contrasto con la tesi della nullità per contrasto con norme imperative. In verità, la ragione ultima delle contraddizioni testé evidenziate risiede nel fatto che attribuire efficacia al riconoscimento dell’inesistenza dei presupposti di un diritto implica pur sempre la piena disponibilità di quest’ultimo, come appare del resto desumibile dall’art. 2733 c.c.

[19] Cfr. per tutti De Paola, Il diritto patrimoniale della famiglia coniugale, I, cit., p. 191 s.; in giurisprudenza cfr. Cass., 18 ottobre 1984, n. 5267; Cass., 23 luglio 1987, n. 6424. Sull’assegno di divorzio v. Cass., 5 luglio 2001, n. 9058. Sul tema v. anche Cass., 22 novembre 2000, n. 15065, secondo cui il potere di disporre d’ufficio provvedimenti anche diversi rispetto alle domande delle parti o al loro accordo vale esclusivamente in relazione ai rapporti con la prole minorenne e costituisce pertanto «una deroga alle regole generali sull’onere della prova, attribuendo al giudice poteri istruttori d’ufficio per finalità di natura pubblicistica»; in senso analogo a tale ultima pronuncia v. inoltre Cass., 23 marzo 2004, n. 5719.

[20] A quanto sopra detto s’aggiunga che, nella stessa separazione contenziosa, il coniuge che ha ottenuto la dichiarazione d’addebito contro l’altro non ha in alcun modo un diritto condizionato al mantenimento, dovendo provare di non essere in grado di provvedere da sé al raggiungimento di un tenore di vita identico a quello goduto durante la convivenza coniugale. Ciò significa, dunque, che persino nella separazione con addebito, il diritto al mantenimento è subordinato al suo effettivo esercizio – potendo mancare una domanda formulata in tal senso – e alla prova che se ne fornisce (in questo senso cfr. anche Pollice, Autonomia dei coniugi e controllo giudiziale nella separazione consensuale: il problema degli accordi di contenuto patrimoniale non omologati, in Dir. giur., 1988, p. 116).

[21] Cfr., anche per gli ulteriori richiami, Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 246 ss.

[22] Per i richiami cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 421 ss.

[23] A. e M. Finocchiaro, Diritto di famiglia, III, Il divorzio, Milan, 1988, p. 448.

[24] Cass., 6 dicembre 1991, n. 13128, in Giust. civ., 1992, I, p. 1239, con nota di L. Cavallo; Cass., 7 settembre 1995, n. 9416, in Dir. fam. pers, 1996, p. 931.

[25] Cfr. V. Carbone, L’assegno di divorzio tra disponibilità ed indisponibilità, Nota a Cass., 4 giugno 1992, n. 6857, in Corr. giur., 1992, p. 866; Id., Autonomia privata e rapporti patrimoniali tra coniugi (in crisi), Nota a Cass., 22 gennaio 1994, n. 657, in Fam. dir., 1994, p. 148 ss.

[26] In questo senso cfr. A. e M. Finocchiaro, Diritto di famiglia, III, cit., p. 450; in giurisprudenza v. Trib. Perugia, 5 dicembre 1994, in Rass. giur. umbra, 1996, p. 46; Trib. Terni, 6 marzo 1995, ibidem, p. 47, con nota di Canonico.

[27] Sul tema v. amplius Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 439 e II, cit., p. 826 s.; Id., Prestazioni «una tantum» e trasferimenti tra coniugi in occasione di separazione e divorzio, Milano, 2000, p. 20; nello stesso senso v. anche De Marzo, Divorzio su domanda congiunta e equità degli accordi patrimoniali, in Fam. dir., 2000, p. 263; Rabitti, La prestazione una tantum nella separazione dei coniugi, in Familia, 2001, p. 601; contra E. Quadri, Autonomia dei coniugi e intervento giudiziale nella disciplina della crisi familiare, in Familia, 2005, p. 13.

[28] Cfr. per esempio Barbiera, Il divorzio dopo la seconda riforma, Bologna, 1988, p. 108.

[29] Cass., 4 giugno 1992, n. 6857, in Corr. giur., 1992, p. 863, con nota di V. Carbone; in Giur. it., 1993, I, 1, c. 340, con nota di Dalmotto; Cass., 16 novembre 1994, n. 9645, in Fam. dir., 1995, p. 239, con nota di Padovini; negli stessi termini cfr. inoltre Cass., 6 dicembre 1991, n. 13128, cit., nonché Cass., 7 settembre 1995, n. 9416, cit., entrambe relative a casi di rinunzia preventiva.

[30] In questo senso cfr. anche V. Carbone, L’assegno di divorzio tra disponibilità ed indisponibilità, Nota a Cass., 4 giugno 1992, n. 6857, in Corr. giur., 1992, p. p. 865 s.; Id., Autonomia privata e rapporti patrimoniali tra coniugi (in crisi), in Fam. dir., 1994, p. 149.

[31] Proprio di questo vizio sembrano invece soffrire le citate decisioni di legittimità (cfr. Cass., 6 dicembre 1991, n. 13128, cit.; Cass., 4 giugno 1992, n. 6857, cit.; Cass., 16 novembre 1994, n. 9645; Cass., 7 settembre 1995, n. 9416, cit.; per la giurisprudenza di merito nel medesimo senso v. per esempio Trib. Napoli, 16 marzo 1990, in Dir. giur., 1990, p. 483; ivi, 1992, p. 286, con nota di Metafora), nel momento in cui enfatizzano l’opzione del legislatore per un assegno dai caratteri più marcatamente assistenziali. Del resto, non fanno difetto nel nostro ordinamento disposizioni che consentono la disponibilità di diritti patrimoniali strettamente legati al mantenimento di un soggetto, al di là della soglia alimentare, come risulta, ad esempio, dall’ammissibilità del sequestro o del pignoramento delle retribuzioni dei lavora­tori dipendenti privati e pubblici nella misura del quinto, ex art. 545 c.p.c., e dalla compensabilità di tali somme sempre nella stessa misura, ex art. 1246, n. 3, c.c. (Comporti, Autonomia privata e convenzioni preventive di separazione, di divorzio e di annullamento del matrimonio, in Foro it., 1995, I, c. 116; alla lettura di tale contributo si fa rinvio anche per la trattazione della questione relativa alla distinzione tra mantenimento ed alimenti, distinzione contestata da E. Russo, Le convenzioni matrimoniali. Artt. 159-166-bis, in Codice civile, Commentario diretto da Schlesinger, Milano, 2004, p. 381 ss.). Sulla distinzione tra mantenimento ed alimenti si veda anche Cass., 14 giugno 1999, n. 5862, che nega alle cause attinenti al primo l’applicabilità dell’esclusione dalla sospensione dei termini durante il periodo feriale, prevista dall’art. 3, l. 742/1969.

[32] Le argomentazioni espresse dalla Cassazione in alcune delle pronunce ricordate, tese ad esaltare il rilievo del carattere assistenziale dell’assegno in ordine all’esclusione di ogni potere di disposizione delle parti, si rifanno expressis verbis alla teoria dottrinale della «solidarietà postconiugale». Autorevole impostazione, quest’ultima, secondo cui sarebbe l’estinzione stessa del legame a generare, alla stregua della coscienza sociale – che rifiuterebbe l’idea che il divorzio «lasci abbandonato alla sua sorte il coniuge che sull’impegno assunto col matrimonio ha fon­dato la propria famiglia e la propria vita» – il «dovere giuridico di aiutare economicamente l’ex coniuge incapace di mantenere il livello di vita matrimoniale» (Bianca, Commento all’art. 5, l. 1°.12.1970, n. 898, in Commentario al diritto italiano della famiglia, a Cura di Cian, Oppo e Trabucchi, VI, 1, Padova, 1993, p. 344 s.; in questa stessa ottica v. anche, più di recente, Auletta, Gli accordi sulla crisi coniugale, in Familia, 2003, p. 65). La nozione di «solidarietà postconiugale» è stata però anche criticata come un’espressione che non offrirebbe «nient’altro che un colorito espediente verbale per tentare di conciliare l’inconciliabile» (E. Quadri, La Cassazione «rimedita» l’assegno di divorzio, Nota a Cass., 2 marzo 1990, n. 1652, in Foro it., 1990, I, c. 1168; per approfondimenti cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 448 ss.).

[33] E non certo solo – come vorrebbe E. Russo, Le convenzioni matrimoniali, cit., p. 333 ss. – su di una pretesa «commistione di argomenti sostanziali e processuali».

[34] Come vorrebbe E. Russo, Le convenzioni matrimoniali, cit., p. 335, sulla base di una parziale lettura dei lavori dello scrivente.

[35] Ma sul punto basterebbe già osservare che la nullità di un contratto può essere dichiarata, con buona pace del prefato Autore (E. Russo, Le convenzioni matrimoniali, locc. ultt. citt.), anche in assenza di un’apposita domanda e ciò – si insegna – proprio a tutela del carattere indisponibile di determinati rapporti: cfr., tra l’altro, ex multis, Cass., 30 ottobre 1973, n. 2841, in Giur. it., 1974, I, 1, c. 1941; arg. inoltre ex art. 2969 c.c.

[36] Per i richiami cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 452 ss. Per una successiva pronunzia di merito cfr. Trib. Piacenza, 6 febbraio 2003, in Arch. civ., 2004, p. 494, secondo cui «In tema di patti modificativi degli accordi di separazione tra coniugi, è nullo per contrasto con l’art. 160 c.c., applicabile anche ai contratti della crisi familiare, l’accordo con il quale gli stessi decidano, con rinuncia ad ulteriori pretese da parte di un solo soggetto, di definitivamente esonerare per il futuro il coniuge onerato dalla corresponsione dell’assegno di mantenimento a favore del coniuge più debole a fronte di un unico versamento una tantum».

[37] L’unico modo di far vivere tale disposizione in questo settore si risolve infatti nel paradosso di chi, prospettando addirittura un’estensione analogica dell’art. cit. (Dalmotto, Indisponibilità sostanziale e disponibilità processuale dell’assegno di divorzio, Nota a Cass., 4 giugno 1992, n. 6857, in Giur. it., I, 1, c. 345), finisce con l’avvilupparsi in una vera e propria contradictio in adiecto, postulando una «similitudine di casi» (v. art. 12 cpv. prel.) tra la materia degli effetti del matrimonio e quella degli effetti del suo… venir meno. L’assunto in esame appare, oltre che illogico (nel senso che, nel caso in esame, la norma di cui all’art. 160 c.c. «non sembra bene invocata» si esprime anche Comporti, Autonomia privata e convenzioni preventive di separazione, di divorzio e di annullamento del matrimonio, cit., c. 113; per un’interpretazione restrittiva dell’art. 160 c.c. come limitato a quei soli diritti fondamentali di cui gode il coniuge come persona cfr. G. Ceccherini, Separazione consensuale e contratti tra coniugi, in Giust. civ., 1996, II, p. 398; contrario all’estensione analogica della disposizione in esame è anche G. Gabrielli, Indisponibilità preventiva degli effetti patrimoniali del divorzio: in difesa dell’orientamento adottato dalla giurisprudenza, in Riv. dir. civ., 1996, I, p. 699 s., che pure afferma la nullità degli accordi preventivi di divorzio), del tutto in contrasto con la concezione contemporanea dell’istituto matrimoniale. Del resto, ritenere che il dovere di contribuzione rimanga inalterato addirittura nonostante la pronuncia di divorzio, significa conservare, per quanto si può, la mistica dell’indissolubilità, favorendo il ritorno alla tesi del carattere pubblicistico del matrimonio.

[38] Cfr. supra, § 3; per lo sviluppo delle questioni cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 457 ss.

[39] Cfr. per esempio Scardulla, La separazione personale tra i coniugi e il divorzio, Milano, 1996, p. 547.

[40] Sulla possibilità, da parte dei coniugi, di stabilire liberamente l’ammontare dell’assegno di divorzio cfr., tra i tanti, Bianca, Commento all’art. 5, l. 1°.12.1970, n. 898, cit., p. 358; Scardulla, La separazione personale tra i coniugi e il divorzio, cit., p. 538; Bonilini, L’assegno post-matrimoniale, in Bonilini e Tommaseo, Lo scioglimento del matrimonio, Art. 149, in Comm. Schlesinger, Milano, 1997, p. 516; Cass., 18 maggio 1983, n. 3427.

[41] Bianca, Commento all’art. 5, l. 1°.12.1970, n. 898, cit., p. 359; Bonilini, L’assegno post-matrimoniale, cit., p. 517.

[42] In questo senso cfr. Scardulla, La separazione personale tra i coniugi e il divorzio, cit., p. 547.

[43] Cfr. per esempio Bonilini, L’assegno post-matrimoniale, cit., p. 530 s.

[44] Cass., 22 marzo 2001, n. 4099, cit.

[45] Così Cass., 23 luglio 1987, n. 6424, cit.

[46] Cfr. Cass., 1 dicembre 1993, n. 11860; Cass., 3 novembre 2004, n. 21080; Cass., 10 giugno 2005, n. 12283.

[47] La precisazione (lo si chiarisce per non offendere l’intelligenza del paziente lettore) si rende necessaria a seguito del fraintendimento in cui cade Bargelli, L’autonomia privata nella famiglia legittima: il caso degli accordi in occasione o in vista del divorzio, in Riv. crit. dir. priv., 2001, p. 303 ss., la quale (forse per tener fede al titolo della rivista su cui lo scritto compare…) critica lo scrivente, attribuendogli impropriamente l’intento di «considerare risolto il problema dei patti sulle conseguenze del divorzio in base alla semplice constatazione del carattere patrimoniale della prestazione», rimproverandolo altresì di non aver svolto un’analisi sufficientemente attenta dell’indisponibilità dell’obbligazione alimentare tra separati e divorziati (cfr. Ead., op. cit., p. 313, nota 37). Ora, per i precedenti lavori dello scrivente in cui si richiama la necessità del rispetto, nei contratti della crisi coniugale, delle regole d’ordine pubblico e dei principi inderogabili cfr., a mero titolo d’esempio, Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 32, 249 ss.; II, cit., p. 1085 ss. Per un dettagliato approfondimento delle questioni poste, in relazione ai contratti della crisi coniugale, dalle norme in tema di alimenti v. Id., I contratti della crisi coniugale, II, cit., p. 798 ss., 844 ss. Per la trattazione dello specifico tema degli accordi sull’obbligazione alimentare tra separati cfr. Id., I contratti della crisi coniugale, II, cit., da p. 844 a 851. Per la trattazione della questione circa l’ammissibilità della costituzione ex contractu tra divorziati di un obbligo alimentare (obbligo inesistente, invece, ex lege, ciò che alla prefata Autrice sembra essere sfuggito) cfr. Id., I contratti della crisi coniugale, II, cit., da p. 851 a p. 861.

[48] Sul punto v. per tutti A. Bozzi, voce Rinunzia (Diritto pubblico e privato), in Noviss. dig. it., XV, Torino, 1968, p. 1141 s.; con posizione più sfumata cfr. anche Macioce, voce Rinuncia (Diritto privato), in Enc. dir., XL, Milano, 1989, p. 941; contra, per l’ammissibilità di tale rinunzia, Sacco e De Nova, Il contratto, nel Trattato di diritto civile diretto da Sacco, I, Torino, 1993, p. 288; Sicchiero, voce Rinuncia, in Dig. disc. priv., Sez.civile, XVII, Torino, 1998, p. 658 s.

[49] Così L. Ferri, Rinunzia e rifiuto nel diritto privato, Milano, 1960, p. 43; Santoro-Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1978, p. 218 s.; Macioce, op. cit., p. 927 ss.

[50] Cfr. Bonilini, L’assegno post-matrimoniale, cit., p. 531 s.; nel medesimo senso sembra anche orientata G. Ceccherini, op. cit., p. 402 s.

[51] V. Cass., 11 giugno 1981, n. 3777, in Foro it., 1981, I, c. 184; Giur it., 1981, I, 1, c. 1553, con nota di Trabucchi; Dir. fam. pers., 1981, p. 1025; Giust. civ., 1982, I, p. 724.

[52] Così testualmente A. Bozzi, op. cit., p. 1142, cui si fa rinvio anche per i  richiami ai precedenti dottrinali.

[53] Così Sicchiero, op. cit., p. 659.

[54] Per una rassegna cfr. Macioce, op. cit., p. 941, nota 93; v. inoltre Sacco, Il contratto, Torino, 1975, p. 484, nota 9.

[55] Sacco, Il contratto, cit., p. 484.

[56] Sacco, Il contratto, cit., p. 507.

[57] Cfr. Gallerati, Tractatus de renuntiationibus, II, Genevae, 1678, p. 47 ss.

[58] «Qaedam est spes, quae dependet ex futuro eventu, non ex mera voluntate alterius, & ista proprie appellatur spes: & ista potest in contractum deduci (…). Proprie spes appellatur illa, quae proprie habet certam causam: sed illa, quae non habet certam: ut spes succedendi homini viventi, non appellatur proprie spes (…) & hoc facit ad quaestionem de obligante omnia bona, quae habet, & sperat habere, quod intelligitur de spe causata de praeterito, non de causanda de futuro»: Baldo degli Ubaldi, In Primum, Secundum, & Tertium Cod. Lib. Com., Venetiis, 1599, f. 116.

[59] Cfr. Bartolo da Sassoferrato, In Secundam ff. novi Partem, Venetiis, 1575, f. 46.

[60] Cfr. D., 12, 4, 8.

[61] Cfr. Bartolo da Sassoferrato, op. loc. ultt. citt.: «Probatur supra de condictio. ob causam. l. quod Servius, ubi donec matrimonium contrahi potest, intelligitur ex causa subsistente de praesenti, ut ex sponsalibus iam contractis»; v. inoltre la glossa in margine alla l. Quod Servius, D., De condictione causa data, causa non secuta, in Digestum vetus seu pandectarum iuris civilis Tomus Primus, cum lectionum florentinarum varietatibus, Venetiis, 1592, c. 1518.

[62] Così Barbero, Sistema istituzionale del diritto privato italiano, I, 1955, p. 325; nello stesso senso De Ruggiero e Maroi, Istituzioni di diritto civile, I, Milano-Messina, 1965, p. 89. L’opinione appare inoltre conforme alla tesi della più approfondita monografia in tema di rinunzie sotto il vigore del codice abrogato: cfr. Atzeri (Vacca), Delle rinunzie secondo il codice civile italiano, Torino, 1910, p. 315 ss., 321 ss., che evidenziava come anche i diritti sottoposti a condizione potessero formare oggetto di rinunzia, mentre, per quelli eventuali, la rinunzia era vietata esclusivamente in relazione a quelli «pei quali la legge ne ha espressamente vietata l’antecipata rinunzia».

[63] Sul caso Radmacher v Granatino cfr. Oberto, Contratti prematrimoniali e accordi preventivi sulla crisi coniugale, cit., p. 73 s.