Giacomo Oberto

 

CONTRATTI DI CONVIVENZA

E CONTRATTI TRA CONVIVENTI MORE UXORIO

 

Sommario: 1. La negozialità dei conviventi tra autonomia privata e modelli legislativi. – 2. Contratti di convivenza e obbligazioni naturali tra conviventi more uxorio. – 3. Contratti di convivenza e buon costume. – 4. Contratti di convivenza e ordine pubblico: i rapporti di carattere personale. – 5. Il contenuto dei contratti di convivenza: contribuzione e mantenimento. – 6. Il contenuto dei contratti di convivenza: il regime comunitario dei beni. – 7. Il contenuto dei contratti di convivenza: il regime separatista dei beni; spunti in tema di fondo patrimoniale e trust tra conviventi. – 8. Il contenuto dei contratti di convivenza: pattuizioni in vista di un’eventuale rottura del rapporto. – 9. La manifestazione del consenso. Forma e prova del contratto di convivenza. – 10. Scioglimento del contratto di convivenza e cessazione del ménage di fatto. – 11. Contratti di convivenza ed effetti post mortem.

 

 

1. La negozialità dei conviventi tra autonomia privata e modelli legislativi.

 

Nel corso dell’ultimo ventennio si sono andate facendo sempre più numerose le pubblicazioni stra­niere, di taglio sia teorico che pratico, nelle quali si è suggerito alle coppie conviventi more uxorio di pianificare la vita in comune mediante la stipulazione di apposite convenzioni (cohabi­tation contracts, Partnerschaftsverträge, contrats de ménage) [1], proponendo talora anche veri e propri modelli e «contratti tipo» [2]. La preventiva soluzione per via negoziale dei numerosi e complessi problemi patrimoniali della famiglia di fatto non costituisce neppure una novità assoluta, posto che l’analisi storica evidenzia testimonianze di contrats de concubinat, in Francia, e cartas de mancebía e compañería, in Spagna, risalenti addirittura ai secoli XIII e XIV [3].

Questa via viene del resto espressamente consentita (si direbbe, anzi, quasi caldeggiata) dal legislatore in taluni sistemi di common law, che da almeno un ventennio hanno avvertito la necessità di intervenire al riguardo [4], mentre estremamente significativo appare il fatto che proprio nella direzione della negozialità, e non certo in quella dell’imposizione di effetti giuridici conseguenti alla sola sussistenza del rapporto di fatto, si muovano le soluzioni normative che di recente, in vari paesi dell’Europa continentale, si sono prefissate di affrontare e risolvere i problemi giuridici posti dalle convivenze omosessuali [5]. Proprio con specifico riguardo a tale peculiare aspetto, sia consentito subito aggiungere che, come dimostrato da tempo in altra sede [6], nessun dubbio può sorgere neppure da noi sull’ammissibilità pure in questo caso di contratti di convivenza, negli stessi limiti valevoli per le coppie eterosessuali [7]. Ciò appare tanto più vero alla luce non solo della recente creazione, nel campo del diritto di famiglia, di uno «spazio giudiziario comune europeo» [8], ma anche della costituzione in fieri, nel nostro continente, di un vero e proprio «spazio giuridico comune», con l’avvicinamento delle legislazioni sostanziali envisagé dalle conclusioni del Consiglio Europeo svoltosi a Tampere il 15 e 16 ottobre 1999 [9]: dati, questi, alla luce dei quali l’Italia non può più ostinarsi a rimanere sorda alle voci che da ogni parte (del resto) d’Europa si levano a tutela delle convivenze tra persone del medesimo sesso che desiderino sottoporre i loro rapporti ad effetti giuridici [10].

Di fronte a questo scenario, la dottrina italiana appariva sino a non molti anni fa assai più riluttante. Non è certo questa la sede nella quale si possa sviluppare per esteso l’argomento dei contratti di convivenza e dei contratti tra conviventi more uxorio. Sia consentito in proposito solo un rinvio agli appositi studi dello scrivente [11] su di un tema che oggi come oggi non può più certo dirsi «abbastanza inesplorato in Italia» [12] e sul quale anche nel nostro Paese cominciano a registrarsi significative aperture [13], al punto che persino la giurisprudenza, dopo anni di silenzio [14], ha finito con il recepire tale prospettiva, lasciando definitivamente da parte le remore e i dubbi derivanti da possibili considerazioni d’ordine pubblico o di buon costume [15].

E’ del resto evidente che la via contrattuale consente di superare quella soglia minimale di tutela costituita dal richiamo allo schema delle obbligazioni naturali che, come messo in evidenza in altra sede, evolvendosi da una concezione «indennitaria» e «retributiva», ha portato i Supremi Giudici ad escludere la soluti retentio in relazione a quegli spostamenti patrimoniali attuati in favore del convivente «debole», vuoi di fatto (si pensi alla traditio brevi manu di mobili), vuoi tramite negozi comunque nulli per difetto di forma (per lo più si trattava di donazioni dirette, sovente dissimulate da compravendite, non rispettose della forma solenne) [16]. La considerazione continua a valere anche di fronte al successivo passaggio dalla citata concezione «indennitaria» e «retributiva» dell’obbligazione naturale tra conviventi a quella «contributiva» [17]: radicale mutamento  di prospettiva, quest’ultimo, in forza del quale l’obbligo morale e sociale rilevante ex art. 2034 c.c. nell’ambito della famiglia di fatto è (non più quello di ricompensare la compagna per i servizi ricevuti o di corrispondere l’indennizzo per un supposto pregiudizio riconnesso al rapporto more uxorio, ma) un dovere di solidarietà che impegna entrambi i partners ad una reciproca assistenza morale e materiale, nonché alla effettuazione di contribuzioni, ora in denaro, ora in natura, proporzionate alle proprie capacità di lavoro, sia professionale che casalingo [18]. Invero, a fronte di questa consapevolezza non ha ancora trovato adeguata soluzione, sul piano giurisprudenziale, il caso, tutt’altro che infrequente, nel quale un convivente non adempia (tout court, ovvero adempia, ma non in maniera adeguata) all’obbligazione naturale sullo stesso gravante, allorquando l’altro abbia invece contribuito al ménage familiare, mediante la prestazione della propria attività lavorativa, o la messa a disposizione di propri cespiti patrimoniali [19].

Venendo così al nucleo centrale dell’argomento, vale a dire all’individuazione delle clausole che possono caratterizzare un contratto di convivenza, andrà subito detto che l’espressione «contratto di convivenza» non viene qui assunta a designare l’accordo con cui due persone si impegnano a convivere more uxorio: ogni vincolo di carattere personale sfugge, come si vedrà, alla regolamentazione pattizia. La terminologia abbraccia piuttosto tutte quelle intese di contenuto patrimoniale che i conviventi – indipendentemente dalla presenza o meno di un impegno formale a condividere la futura esistenza, ma comunque sul presupposto di quest’ultima – possono concludere al fine di regolare i rispettivi rapporti economici, sottoponendo a regole prefissate la soluzione degli eventuali problemi che potrebbero insorgere durante il ménage. Poste tali premesse, appare chiaro che eventuali dubbi in punto meritevolezza di tutela (cfr. art. 1322 c.c.) sembrano superabili sulla base della considerazione che degna di protezione appare ogni pattuizione la quale si prefigga di evitare liti future e di fornire un minimo di sicurezza economica al partner «debole» [20].

Secondariamente, può aggiungersi che gli aspetti salienti di tali convenzioni dovrebbero essere costituiti dall’assunzione di un obbligo reciproco di contribuzione nell’interesse della famiglia (ovvero dell’obbligo di mantenimento a carico di uno dei conviventi verso l’altro), con la specificazione delle relative modalità qualitative e quantitative, nonché dall’eventuale regime degli acquisti da operarsi congiuntamente o separatamente. Naturalmente, le intese immaginabili sono svariate, e innumerevoli sono le combinazioni delle medesime, ma, prima ancora di passare in rassegna i possibili contenuti di un cohabitation contract all’italiana, occorrerà fare un breve cenno ad alcuni temi d’ordine generale, quali quelli del riflesso sui contratti di convivenza dell’obbligazione naturale esistente tra le parti, nonché della validità di questi negozi sotto il profilo del buon costume e dell’ordine pubblico.

 

 

2. Contratti di convivenza e obbligazioni naturali tra conviventi more uxorio.

 

Il primo e più serio ostacolo alla configurabilità di un contratto di convivenza deriva dalla pacifica riconduzione dei doveri di reciproca assistenza e contribuzione tra conviventi more uxorio allo schema delle obbligazioni naturali. E’ noto infatti che, a differenza del diritto romano, il quale attribuiva all’obbligazione naturale la natura di un vero e proprio rapporto giuridico obbligatorio (anche se sui generis), riconnettendovi una serie di effetti ulteriori rispetto al fenomeno della soluti retentio [21], il nostro ordinamento non riconosce ai doveri morali e sociali di cui all’art. 2034 c.c. la caratteristica della giuridicità [22]. In quest’ottica, trasformare in qualche modo l’obbligazione naturale in civile appare quanto meno problematico. Una simile operazione, espressamente consentita dalle fonti romane sotto la specie della novazione [23], e ancora ritenuta ammissibile dalla giurisprudenza italiana sotto il codice abrogato [24], sembra oggi urtare irrimediabilmente con il disposto dell’art. 2034 cpv. c.c., il quale (a differenza dell’art. 1237 cpv. c.c. 1865) esplicitamente esclude che i doveri morali e sociali in oggetto producano qualsiasi altro effetto giuridico al di là di quello della non ripetibilità di quanto eventualmente prestato.

Alla luce di tale dato positivo anche la giurisprudenza, dopo l’entrata in vigore del codice attuale, si è venuta orientando in senso decisamente contrario [25], secondo un indirizzo che annovera in dottrina autorevoli sostenitori, i quali non hanno mancato di rimarcare come un contratto avente a oggetto l’assunzione come civile di un’obbligazione naturale costituirebbe, in buona sostanza, un negozio ricognitivo, ovvero novativo, di un debito giuridicamente inesistente e come tale sarebbe inammissibile, perché tanto la ricognizione che la novazione presuppongono la validità del titolo costitutivo dell’originaria obbligazione [26].

Ora, non c’è dubbio che debba escludersi in limine ogni possibilità di novazione di un’obbligazione naturale in civile, posto che il fenomeno disciplinato dagli artt. 1230 ss. c.c. (come del resto qualsiasi istituto concernente la parte generale delle obbligazioni) postula la preesistenza di un rapporto giuridico obbligatorio che nella specie difetta. Del pari è destinato a rimanere privo d’effetti ogni atto unilaterale (confessione stragiudiziale, promessa di pagamento, riconoscimento di debito, promessa contenuta in titolo di credito) meramente «riproduttivo» dell’obbligo naturale [27].

Ma la conclusione non può essere la stessa per quanto concerne la promessa contenuta in un contratto. Quest’ultimo, infatti, ben può avere una sua causa autonoma rispetto all’obbligazione naturale sussistente tra le parti, anche se tramite esso i contraenti raggiungano ugualmente lo scopo di dare esecuzione al dovere morale o sociale [28]. Il risultato può essere ottenuto ponendo la prestazione oggetto dell’obbligazione naturale in corrispondenza biunivoca con un’altra prestazione, di natura reale o obbligatoria, la quale a sua volta può costituire oggetto di un’altra obbligazione naturale (per esempio, Tizio promette a Caio di adempiere nei suoi confronti un’obbligazione prescritta, in cambio dell’impegno di Caio di saldare a Tizio la residua parte di un debito facente parte di un concordato fallimentare). Il negozio viene così ad assumere una sua causa autonoma, consistente nello scambio tra due sacrifici reciproci, mentre, rispetto a tale schema, la volontà di adempiere il preesistente dovere morale o sociale degrada al rango di semplice motivo. Il risultato è solo apparentemente analogo a quello emergente da due distinte e parallele ricognizioni dei rispettivi debiti naturali: ciò che qui spinge i soggetti ad adempiere non è più la «voce della coscienza», ma la certezza nell’assunzione, come civile, dell’impegno reciproco in capo alla controparte.

Queste premesse consentono di superare anche l’ostacolo costituito dalla lettera dell’art. 2034 cpv. c.c. All’uopo si può suggerire una lettura sistematica dello stesso che ne limiti la portata negativa a quei soli effetti legali normalmente riconnessi alle obbligazioni civili, senza estenderla a quelli eventualmente scaturenti da un distinto negozio, dotato di una sua causa autonoma [29]. Se è dunque nello scambio tra le vicendevoli promesse di adempiere i doveri morali e sociali scaturenti dal legame more uxorio che va ricercata la causa dei contratti di convivenza, deve però subito aggiungersi che, nel caso in cui la promessa di adempimento di un obbligo morale o sociale scaturisse da una sola parte determinando l’impoverimento del promittente e l’arricchimento del promissario, il requisito causale dovrebbe essere surrogato dal rispetto della forma solenne prescritta per la donazione [30].

Le considerazioni di cui sopra, già presentate all’attenzione della dottrina diversi anni or sono [31], hanno ricevuto accoglienza generalmente favorevole [32]: significativo appare del resto il fatto che la questione non sia stata neppure sfiorata nel più volte citato leading case della Cassazione in materia di contratti tra conviventi more uxorio [33].

 

 

3. Contratti di convivenza e buon costume.

 

Il problema della validità del contratto di convivenza sotto il profilo del buon costume si presenta, in prospettiva storica, come inscindibilmente connesso alla vexata quaestio della validità delle donazioni tra conviventi, posto che queste ultime costituirono per secoli gli strumenti attraverso cui venivano regolati i rapporti economici delle unioni extramatrimoniali. Lo sfavore con cui la donazione alla concubina era vista sotto l’Ancien Régime [34] non poteva non ripercuotersi sulla considerazione della liceità di un contratto diretto alla costituzione di un rapporto di convivenza di fatto. In effetti, proprio quest’ultimo era riportato da molti dei primi commentatori del Code Napoléon come il classico esempio di negozio contra bonos mores [35]. Va peraltro subito aggiunto che in quei tempi la distinzione di questa figura rispetto alla donazione effettuata allo scopo di convincere una donna a intraprendere una relazione concubinaria si prospettava come assai ardua. Il più delle volte, infatti, la donna che si «adattava» a convivere more uxorio altro non aveva da offrire, in cambio del mantenimento promesso dall’uomo, se non il proprio corpo (eccezion fatta per il lavoro domestico, che peraltro non era allora tenuto in alcuna considerazione). Dunque, la disponibilità della convivente a instaurare una relazione concubinaria poteva essere vista tanto come cause (intesa in Francia nel senso di motivo) di una liberalità il cui oggetto era rappresentato dalla contribuzione dell’uomo, quanto come controprestazione di un contratto oneroso di convivenza (laddove la prestazione dell’uomo consisteva, appunto, nell’erogazione del mantenimento).

L’attuale considerazione a livello normativo e sociale del lavoro domestico consente di affermarne l’idoneità a porsi in corrispondenza biunivoca con un eventuale obbligo di mantenimento, nell’ambito di un negozio a titolo oneroso, così facendo necessariamente passare in secondo piano l’aspetto sessuale. L’accordo sull’assetto economico da imprimere al ménage assume dunque una sua piena autonomia rispetto all’impegno a convivere e pertanto neppure un’eventuale immoralità di quest’ultimo potrebbe riverberare i suoi effetti sul primo. D’altro canto, si è già chiarito che la causa del contratto di convivenza risiede non già nel legame more uxorio in sé [36], ma nello scambio delle vicendevoli promesse di adempiere le reciproche obbligazioni naturali: rispetto a questo schema, come già detto, il rapporto pseudo-matrimoniale si viene piuttosto a porre come un motivo.

Trattasi peraltro di motivo comune a entrambi i contraenti, oltre che (almeno per i contratti comunque diretti a favorire l’instaurazione o la prosecuzione del rapporto) esclusivo: pertanto, ai sensi dell’art. 1345 c.c., il problema di un’eventuale illiceità si ripresenta in termini assai simili a quelli che per decenni si sono posti in relazione alla donazione. Ben potranno allora richiamarsi i risultati cui dottrina e giurisprudenza sono pervenute, un po’ ovunque, in quella sede, sottolineando come i contratti di convivenza diretti alla regolamentazione dei rapporti patrimoniali dei partners non possano per ciò solo essere ritenuti immorali, se non nel caso in cui «la contre-prestation est constituée uniquement par le consentement à des relations charnelles». A maggior ragione, dunque, tali negozi non contrastano con il buon costume quando emerga dagli stessi chiaramente l’intento primario dei partners di garantire reciprocamente il proprio futuro, ponendo le basi economiche per la fondazione di una comunità familiare, anche se soltanto di fatto.

In quest’ottica si è posta anche in Italia la giurisprudenza di legittimità, la quale ha affermato che la convivenza more uxorio tra persone in stato libero non costituisce causa di illiceità e, quindi, di nullità di un contratto attributivo di diritti patrimoniali (nella specie, comodato) collegato a detta relazione, in quanto tale convivenza, ancorché non disciplinata dalla legge, non contrasta né con norme imperative, non esistendo norme di tale natura che la vietino, né con l’ordine pubblico, che comprende i principi fondamentali informatori dell’ordinamento giuridico, né con il buon costume, inteso, a norma delle disposizioni del codice civile (vedi artt. 1343, 1354), come il complesso dei principi etici costituenti la morale sociale di un determinato momento storico, bensì ha rilevanza nel vigente ordinamento per l’attribuzione di potestà genitoriali nell’ipotesi disciplinata dall’art. 317-bis c.c., come nella normativa della legge 27 luglio 1978 n. 392 in ordine alla successione nel contratto di locazione [37].

       

 

4. Contratti di convivenza e ordine pubblico: i rapporti di carattere personale.

 

Se è vero che nessun principio d’ordine pubblico sembra opporsi in limine alla stipula di un contratto di convivenza, assai diverso è il discorso allorché si scende alla disamina dei possibili contenuti del negozio. I canoni fondamentali del nostro sistema pongono infatti un ostacolo insuperabile in merito all’inserimento di aspetti di carattere personale.

Anzi, assorbente rispetto a questa considerazione appare quella per cui i doveri di fedeltà, assistenza morale, collaborazione e coabitazione, proprio perché privi del requisito della patrimonialità, si mostrano inidonei, innanzitutto, a costituire «prestazione» ai sensi dell’art. 1174 c.c., e, secondariamente, a essere dedotti in contratto, ex art. 1321 c.c. .[38]. Ma il richiamo alle regole d’ordine pubblico sarebbe inevitabile   Ma il richiamo alle regole d'ordine pubblico sarebbe , nel caso si fosse tentati di imporre il rispetto di tali impegni per via indiretta, mediante la pattuizione di una penale (per es.: ti darò la somma x se ti sarò infedele, oppure se ti abbandonerò prima o dopo una certa data), che non sfuggirebbe alla sanzione della nullità per violazione del principio della libertà personale [39].

Ciò detto, va però subito precisato che la possibilità di attribuire un qualche rilievo sul piano negoziale a taluni aspetti di carattere personale non pare totalmente esclusa. Si è infatti già posto in luce che la deduzione in condizione di un comportamento umano può supplire al divieto di dedurre tale comportamento in obbligazione. Al riguardo, potrebbero astrattamente configurarsi due schemi: a) condizione che subordina una prestazione patrimoniale da un convivente all’altro all’esecuzione di una prestazione non patrimoniale da parte dell’autore della promessa (per esempio: ti prometto che ti darò cento se non ti sarò fedele, se tra dieci anni non coabiterò più con te, se tra cinque anni non ti avrò dato un figlio, ecc.); b) condizione che subordina una prestazione patrimoniale all’effettuazione di una non patrimoniale da parte, questa volta, del destinatario della promessa (ti prometto che ti darò cento se mi sarai fedele, se tra dieci anni coabiterai ancora con me, se tra cinque anni mi avrai dato un figlio, ecc.). Ora, la prima delle due clausole, che costituisce certamente una penale, è nulla poiché in essa la deduzione in condizione finisce con il mascherare l’assunzione di un vero e proprio obbligo alla prestazione non patrimoniale, sanzionato con la corresponsione dell’importo di cui alla promessa. D’altro canto, l’impegno sottoscritto dal promittente appare vincolato alla mera volontà di quest’ultimo e pertanto in contrasto con il disposto dell’art. 1355 c.c. Al contrario, la clausola sub b), che potrebbe definirsi come «premiale», in quanto diretta ad attribuire una sorta di compenso per l’effettuazione di una prestazione (non patrimoniale) da parte del promissario, non sembra in grado di suscitare obiezioni [40].

Riprendendo l’esame dei vari aspetti in ordine ai quali l’assunzione di un impegno deve ritenersi vietata, occorre soffermarsi in primo luogo sull’impegno a convivere. Già si è illustrata l’invalidità di qualsiasi penale correlata al venir meno della coabitazione. Un corollario di tale conclusione è rappresentato dalla illiceità di una condizione apposta a un eventuale mutuo concesso da un convivente all’altro, che sottoponesse sospensivamente l’esigibilità del credito del mutuante all’evento della cessazione della convivenza, sempre che l’importo in questione, specie se rapportato alle condizioni patrimoniali del mutuatario, fosse tale da restringere in maniera intollerabile la libertà di quest’ultimo di porre fine in ogni tempo al rapporto [41].

La contrarietà rispetto all’ordine pubblico risulterebbe poi particolarmente evidente non soltanto nell’impegno che vincolasse la libertà dei conviventi esplicitamente imponendo un obbligo di fedeltà, ma anche in un’espressa rinuncia al diritto di porre fine in qualsiasi momento al ménage [42]. Lo stesso è a dirsi (e sul punto in Germania si annovera già un precedente) circa la promessa dei partners (o di uno di essi) avente a oggetto la prosecuzione della coabitazione, vuoi per un periodo illimitato, vuoi per una «durata garantita minima» [43], così come qualsiasi vincolo relativo alla fissazione della residenza (comune o meno) in un determinato luogo piuttosto che in un altro. Con speciale riguardo a questi ultimi aspetti va ricordato che la giurisprudenza italiana ha conosciuto fino a oggi fattispecie del genere in relazione a quei contratti di mantenimento vitalizio con i quali il vitaliziante si era impegnato, tra l’altro, a convivere con il vitaliziato o comunque a fornire presso quest’ultimo assistenza materiale e morale in ore sia diurne che notturne, anche se poi lo specifico aspetto della contrarietà all’ordine pubblico per violazione della libertà personale del vitaliziante non è stato affrontato [44]. Ma la soluzione non sembra possa essere diversa da quella che afferma la nullità delle clausole testamentarie che sottopongono l’istituzione d’erede o il legato alla condizione che il beneficiario conviva (o non conviva) con un altro soggetto [45], e ciò in considerazione del fatto che la libertà di scelta dei soggetti con cui condividere la propria esistenza, così come quella di muoversi a proprio talento, e di soggiornare in luogo anziché in un altro a seconda del proprio interesse o del proprio diletto, costituisce innegabilmente un aspetto di quel diritto alla libertà personale che non tollera restrizioni di sorta [46].

Di una certa utilità potrebbe invece rivelarsi la dichiarazione, da inserirsi in un eventuale contratto scritto, circa il fatto che i contraenti attualmente convivono e hanno fissato la propria residenza in comune in un certo luogo, soprattutto al fine di evitare future contestazioni circa possibili effetti collegati all’inizio dell’effettiva convivenza o comunque all’individuazione della residenza dell’uno o dell’altro (si pensi a una dichiarazione recettizia prevista in contratto come necessaria al fine della produzione di certi effetti giuridici, o alla notifica di atti giudiziari), in presenza di divergenti risultanze anagrafiche. L’accorgimento appare consigliabile anche alla luce di quella giurisprudenza che attribuisce a queste risultanze un valore meramente presuntivo, consentendo all’interessato di superarle semplicemente mediante la produzione di un contratto in cui la controparte abbia dichiarato di risiedere in un altro luogo [47].

Venendo ora a temi quali la procreazione e la prole deve affermarsi la nullità di ogni impegno che preveda l’esecuzione di prestazioni di carattere sessuale – in relazione al quale emergerebbe anche l’aspetto della contrarietà al buon costume [48] – o, ancora, l’assunzione di un determinato cognome [49], la procreazione (eventualmente mediante il ricorso a metodi di fecondazione artificiale), o la non procreazione, per mezzo dell’imposizione dell’obbligo di far uso di sistemi contraccettivi [50].

Nella monografia sui regimi patrimoniali della famiglia di fatto lo scrivente aveva espresso l’opinione secondo cui sarebbe stato impossibile regolare sotto qualsiasi forma gli aspetti involgenti i rapporti di filiazione e l’esercizio della potestà dei genitori, che risultano già disciplinati da norme di carattere imperativo [51]. La conclusione va sicuramente ribadita per tutto quanto attiene al momento costitutivo del rapporto di filiazione (o comunque di un rapporto para-familiare). Pertanto, oltre alla già illustrata nullità di ogni promessa avente a oggetto la procreazione ovvero l’astensione dalla procreazione, va affermata l’invalidità dell’obbligo che i conviventi eventualmente assumessero di manifestare la propria disponibilità all’affidamento familiare, o al compimento di un’eventuale adozione, nei limiti in cui, ovviamente, essa possa ritenersi consentita ai soggetti non coniugati. Lo stesso è a dirsi per l’impegno, da parte di uno o di entrambi, a effettuare, o ad astenersi dall’effettuare, il riconoscimento della prole generata dall’unione, o, ancora, a far precedere uno dei due riconoscimenti all’altro, strumento che altrimenti potrebbe servire (con le limitazioni, beninteso, fissate dall’art. 262 c.c.) a conseguire lo scopo di far assumere ai figli il cognome di uno piuttosto che dell’altro dei genitori.

Diverse appaiono invece le conclusioni per ciò che attiene agli aspetti attinenti all’esercizio della potestà sui figli comuni. Invero, come dimostrato in dottrina [52], dall’art. 317-bis c.c. sembra potersi ricavare per implicito il riconoscimento da parte del legislatore della validità di intese dirette a regolare tale aspetto, sia in relazione alla coppia in situazione «fisiologica» (mercé il rinvio all’art. 316 c.c.), sia a quella in situazione «patologica» (in cui l’intervento del giudice è previsto in funzione meramente suppletiva). La giurisprudenza sembra del resto secondare questa interpretazione, ammettendo la validità di accordi aventi ad oggetto l’affidamento della prole naturale [53]. Nessun dubbio dovrebbe poi porsi sull’ammissibilità dell’eventuale regolamentazione pattizia della misura in cui ciascuno dei conviventi contribuirà al mantenimento dei figli (eventualmente anche non minorenni) [54].

 

 

5. Il contenuto dei contratti di convivenza: contribuzione e mantenimento.

 

Una volta esaurito – nell’ambito del § dedicato all’ordine pubblico – l’esame dei possibili contenuti di carattere non patrimoniale, c’è da chiedersi quali siano in concreto i singoli rapporti patrimoniali della famiglia di fatto che possano formare oggetto di regolamentazione negoziale.

In primo piano si pone l’impegno reciproco di contribuire alle necessità del ménage mediante la corresponsione (periodicamente o una tantum) di somme di denaro, ovvero tramite la messa a disposizione di propri beni o della propria attività lavorativa, eventualmente anche soltanto domestica [55]. La validità di tale impegno, che dovrebbe fissare altresì misura e modalità della contribuzione di ciascuno, non sembra possa contestarsi [56], così come quella di una promessa avente a oggetto la reciproca assistenza materiale per il caso di necessità [57]. Al riguardo potrebbe rivelarsi di una certa utilità la previsione di eventuali situazioni alla stregua di «cause di giustificazione» per il mancato adempimento dell’obbligo contributivo, come per esempio nel caso in cui una delle parti dovesse trovarsi senza sua colpa nell’impossibilità di ricevere reddito (si pensi alla disoccupazione involontaria).

La dottrina italiana pare orientata a individuare quale contenuto dei contratti di convivenza l’obbligo di corresponsione di somme di denaro a titolo di mantenimento da parte del partner più abbiente in favore di quello più bisognoso [58]. Ma c’è da chiedersi se invece non convenga optare per forme negoziali più collaudate, quali per esempio il contratto di mantenimento vitalizio [59]. Si tratta della convenzione con la quale una parte attribuisce all’altra il diritto di esigere, vita natural durante, di essere mantenuta, quale corrispettivo dell’alienazione di un bene mobile o immobile o della cessione di un capitale [60]. Più precisamente, l’obbligo del vitaliziante consiste non già nel versamento di somme di denaro, ma nella corresponsione, in natura, di vitto, alloggio vestiario e assistenza medica, anche se la prassi conosce altre pattuizioni di carattere accessorio [61].

Proprio l’appartenenza di tali prestazioni al novero di quelle di fare, anziché di dare, ha da sempre indotto la dottrina maggioritaria a evidenziare l’atipicità del contratto in esame rispetto alla rendita vitalizia, secondo una tesi che riscuote ora anche il consenso della Suprema Corte, e che pare senz’altro preferibile, anche in considerazione del cospicuo numero di altri elementi differenziatori nei riguardi della figura regolata dall’art. 1872 ss. c.c. [62]. Nell’ambito dei rapporti tra conviventi more uxorio il contratto di mantenimento vitalizio potrebbe però assumere un ulteriore connotato caratterizzante, idoneo ad allontanarlo definitivamente dalla rendita vitalizia. Nello schema negoziale potrebbe infatti mancare la cessione della proprietà di determinati beni dal vitaliziato al vitaliziante, (specie quando uno dei due difettasse dei mezzi necessari per un’operazione del genere). In tal caso la controprestazione, a fronte dell’impegno del vitaliziante, potrebbe essere costituita da un obbligo reciproco di assistenza materiale, oppure potrebbe mancare del tutto. Ma a questo punto occorre ammettere che il primo caso non sembra differire di molto dal contratto di contribuzione che si è cercato di enucleare in precedenza, mentre nel secondo appare inevitabile riconoscere la presenza di una donazione. Proprio per questo, la previsione dell’obbligo di mantenimento a carico di una soltanto delle parti, senza alcuna controprestazione, richiede necessariamente il rispetto della forma solenne, ex art. 782 c.c. [63].

Non va trascurato poi che un accordo del genere potrebbe dar luogo a sospetti di contrarietà al buon costume, inducendo a ritenere che la controprestazione per l’impegno a mantenere sia in realtà costituita dal consenso alle relazioni sessuali; appare quindi consigliabile che nel contratto di convivenza l’eventuale obbligo di mantenimento assunto da uno dei contraenti a vantaggio dell’altro venga posto in corrispondenza biunivoca con un reciproco dovere di contribuzione, ovvero con un’altra prestazione a carico del beneficiario, che potrà essere costituita dalla cessione di un capitale, ovvero dalla prestazione di lavoro domestico, o ancora dalla messa a disposizione di certi beni [64], usando peraltro l’accortezza, qualora vi sia sproporzione tra le prestazioni, di osservare la forma solenne prevista per la donazione.

Un problema legato a siffatto tipo di negozi riguarda la possibilità della previsione di eventuali limiti d’ordine temporale all’obbligo di contribuzione così fissato. In proposito, si può innanzitutto ritenere valida anche un’espressa subordinazione degli effetti del vincolo obbligatorio alla durata del rapporto di fatto, in quanto una clausola del genere verrebbe a concretare una condizione risolutiva ordinariamente (e non meramente) potestativa. Inutile dire che una siffatta cautela appare consigliabile per il partner che figuri quale unico (o prevalente) obbligato e voglia porsi al riparo dal rischio di dover continuare ad adempiere anche dopo la rottura del legame. Come si è invero dimostrato in altra sede, la presupposizione non sembra poter giocare alcun ruolo nel contesto dei rapporti tra conviventi. Assai più delicato appare invece l’aspetto della possibilità di pattuire una durata minima del periodo di corresponsione della contribuzione (consistente eventualmente anche nella prestazione lavorativa, specie se domestica) o del mantenimento, indipendentemente dalla durata del ménage. Una simile clausola – una delle poche in grado di costituire una vera garanzia per il convivente «debole» – potrebbe infatti venirsi a scontrare con quel principio generale d’ordine pubblico che fa divieto ai soggetti di assumere vincoli giuridici di durata eccessiva. L’ammissibilità di un impegno del genere apparirebbe dunque a prima vista collegata al rispetto di convenienti limiti di tempo, la cui concreta estensione dovrebbe essere di volta in volta accertata, tenute in considerazione le particolarità del caso concreto. Peraltro, proprio l’indiscussa validità del contratto vitalizio di mantenimento induce ad affermare che una prestazione di tipo contributivo-assistenziale possa essere efficacemente assunta anche per un numero considerevole di anni, ovvero per tutta l’esistenza del beneficiario; l’unico limite sarà dunque costituito dalla durata della vita del creditore della prestazione.

 

 

6. Il contenuto dei contratti di convivenza: il regime comunitario dei beni.

 

Il contenuto più importante di un contratto di convivenza, in grado di predisporre uno strumento veramente incisivo a vantaggio del partner «debole» potrebbe essere costituito dalla riproduzione per via negoziale di quello che nella famiglia legittima è il regime legale. Al riguardo va subito detto che, pur non sussistendo in linea di principio nel nostro ordinamento ragioni per ritenere vietata tale operazione [65], l’effetto non potrebbe comunque mai essere quello di un’applicazione dell’istituto della comunione coniugale nella sua interezza. Invero, è evidente che, per il principio della privity of contract (art. 1372 c.c.), non potrebbero comunque mai essere imitati gli effetti «esterni» tipici della comunione, che pure di tale regime costituiscono uno dei punti più qualificanti. Si pensi, in particolare, all’opponibilità ex lege della proprietà comune ex art. 177, lett. a), c.c., anche in difetto di trascrizione dell’acquisto in favore di entrambi [66], con il connesso rimedio dell’annullabilità degli atti di disposizione relativi ai beni immobili o mobili registrati compiuti da un coniuge senza il necessario consenso dell’altro, ai sensi dell’art. 184, primo e secondo comma, c.c. Quanto sopra era già stato chiaramente espresso, in termini identici, dall’autore di questo studio diversi anni or sono [67]: sbalorditive appaiono dunque le asserzioni di chi, probabilmente senza aver letto il contributo citato, vorrebbe (impropriamente) imputare allo scrivente l’intento di… perseguire la «possibilità di fruire degli effetti cc.dd. esterni della comunione legale, quale l’automatica opponibilità del coacquisto, anche se trascritto in favore di un solo coniuge» [68].

Gioverà dunque ribadire – a scanso d’equivoci – che ciò che si può prevedere è, invece, un regime di comunione (ordinaria) in relazione a tutti (o eventualmente ad alcuni) i beni da acquistarsi durante la convivenza, anche da parte di uno solo dei conviventi. L’effetto potrebbe essere conseguito mediante la pattuizione di una versione contrattuale dell’«acquisto automatico» di cui all’art. 177 lett. a), c.c. e, dunque, di un effetto reale di trasferimento di una quota ideale dei diritti acquisiti (non necessariamente pari al 50%) [69] che si dovrebbe verificare automaticamente all’atto stesso del perfezionamento di ogni negozio acquisitivo da parte di uno dei partners. Un’altra possibilità sarebbe costituita da un impegno di natura meramente obbligatoria a trasferire la titolarità di una quota del diritto acquistato, con un meccanismo analogo a quello di cui all’art. 1706 c.c. [70].

Nessuna obiezione sembra sollevabile circa la determinabilità dell’oggetto di un simile contratto. E’ infatti noto che tale requisito può ritenersi soddisfatto anche quando, una volta individuati nel titolo gli elementi necessari e sufficienti per compiere la determinazione, quest’ultima avvenga sulla base di eventi esteriori, quali comportamenti o dichiarazioni delle stesse parti o di terzi: basti pensare alla nota teoria giurisprudenziale della «determinabilità ex post» .[71]. L’impostazione sembra del resto ricevere un conforto legislativo dalla disciplina normativa della cessione dei crediti d’impresa, che ammette, per l’appunto, tale cessione «anche prima che siano stipulati i contratti dai quali [i crediti stessi] sorgeranno» (cfr. art. 3, l. 21 febbraio 1991, n. 52). A tale proposito, al fine di  In ogni caso sarebbe di somma utilità, allo scopo di prevenire liti future, sarà opportuno identificare con estrema precisione tanto il dies a quo che quello ad quem per l’operatività dell’effetto acquisitivo (per l’individuazione di quest’ultimo si potrebbe, per esempio, richiedere l’invio di una lettera raccomandata).

Come già anticipato, il limite principale dell’istituto che si è tentato di delineare è costituito dai rapporti con i terzi. Invero, l’opponibilità a questi ultimi della comproprietà sui beni acquistati nel corso della convivenza non potrebbe essere riprodotto nemmeno mediante il ricorso al meccanismo della trascrizione del contratto di convivenza. Tale contratto, tanto nella sua versione a effetti reali differiti, che in quella a effetti meramente obbligatori, non potrebbe certo operare all’atto della sua conclusione il trasferimento di alcun diritto reale immobiliare, ma si configurerebbe come una sorta di mero «accordo programmatico». Conseguentemente, non soltanto si esulerebbe dalle ipotesi per le quali l’istituto della trascrizione è (tassativamente) previsto, ma verrebbe anche a mancare quella specifica indicazione dei singoli beni oggetto dell’atto, che, sola, può rendere tecnicamente sottoponibile il negozio a pubblicità (cfr. artt. 2659, n. 4, 2665 c.c.) [72]. L’unico rimedio di natura reale competente al partner «pretermesso» sarebbe allora quello della proposizione contro l’altro di un’azione di rivendica (nel caso di effetto reale differito), ovvero di una domanda ex art. 2932 c.c. (nel caso di semplice obbligo a trasferire) con immediata trascrizione dell’atto di citazione, ai sensi e per gli effetti, rispettivamente, degli artt. 2653, n. 1 o 2652, n. 2, c.c.

Quel fenomeno tipico del regime comunitario tra coniugi rappresentato dall’indisponibilità della quota, se non con il consenso di entrambi [73], potrebbe essere conseguito mediante un vincolo pattizio di inalienabilità sulle rispettive porzioni dei beni acquistati, vincolo la cui previsione, in considerazione dei particolari rapporti esistenti tra le parti, potrebbe ritenersi determinata da un interesse «apprezzabile» ex art. 1379 c.c. Proprio per via di questa norma, però, esso andrebbe contenuto entro convenienti limiti di tempo, né potrebbe essere opposto ai terzi, nemmeno mediante il meccanismo della trascrizione [74]. L’unico rimedio prevedibile in sede di stipula del contratto di convivenza sembra dunque costituito da una penale a vantaggio del convivente «pretermesso», che sarebbe così liberato dall’onere di fornire la dimostrazione (per il vero tutt’altro che agevole) di aver subito un danno per effetto della alienazione della sola quota di comproprietà del partner.

Per quanto concerne l’amministrazione dei beni in comunione l’art. 1100 c.c. lascia alle parti la massima discrezionalità, espressamente enunciando il carattere dispositivo delle norme di cui al capo I del titolo VII: potranno quindi fissarsi a piacimento regole sull’amministrazione straordinaria ovvero ordinaria prevedendo la congiuntività o disgiuntività delle stesse, così come enucleando singoli atti in relazione ai quali venga imposto l’agire congiunto piuttosto che disgiunto [75]. Sarà appena il caso di aggiungere che un eventuale patto di indivisione sarà soggetto alle disposizioni di cui all’art. 1111 cpv. c.c., mentre i rimedi da applicarsi in caso di «blocco» nell’amministrazione o di decisioni pregiudizievoli per le cose comuni saranno quelli ex artt. 1105 e 1109 c.c. e non già quelli di cui agli artt. 181, 182 e 183 c.c.

Relativamente allo scioglimento della comunione convenzionale tra conviventi occorrerà fare richiamo innanzitutto alla già illustrata necessità di legare il dies ad quem a un evento ben preciso, quale, per esempio, l’invio di una lettera raccomandata con avviso di ricevimento. Per il resto, sarà d’uopo rinviare a un apposito § nel quale verranno passati in rassegna i problemi ricollegati alla cessazione del ménage. In questa sede si potrà ricordare soltanto che è stata suggerita la redazione di una lista dei beni mobili apportati da ciascuno dei conviventi, sottoscritta da entrambi, che avrebbe carattere di negozio ricognitivo e servirebbe, in caso di rottura, a risolvere possibili conflitti relativi alla rivendica di singoli beni [76], in tal modo supplendo alla mancanza tra conviventi di una regola analoga a quella di cui all’art. 219 c.c. Peraltro l’utilità di tale espediente appare assai dubbia, essendo controversa, come noto, l’estensibilità dell’effetto di cui all’art. 1988 c.c. (astrazione processuale) ai rapporti di carattere reale [77]. Si potrebbe allora consigliare di specificare accanto a ognuno dei singoli beni il rispettivo titolo d’acquisto: la sottoscrizione apposta dal partner assumerebbe così valore confessorio non solo in ordine alla proprietà (ed è noto che sotto questo profilo la dichiarazione sarebbe irrilevante, risolvendosi in un giudizio), ma anche sulle vicende (e dunque su meri fatti) che giustificano l’acquisto singolarmente in capo a ciascuno dei conviventi. In ogni caso potrebbe anche essere utile convenire una presunzione (iuris tantum) di comproprietà di determinati beni [78] (per esempio, tutti i mobili che si troveranno nell’immobile destinato a residenza comune al momento della cessazione del rapporto), che non sembra, almeno come tale, porsi in contrasto con l’art. 2698 c.c.

 

 

7. Il contenuto dei contratti di convivenza: il regime separatista dei beni; spunti in tema di fondo patrimoniale e trust tra conviventi.

 

L’ipotesi comunitaria sopra delineata costituisce sicuramente, come si diceva, quella in grado di predisporre uno strumento a vantaggio del convivente «debole». Ciò non esclude, ovviamente, che l’interesse delle parti sia invece diretto all’attuazione di una rigida separazione dei patrimoni, magari seguendo qualcosa di simile a quella tendenza che pare delinearsi con sempre maggior vigore nell’ambito della stessa famiglia fondata sul matrimonio [79]. Chi scrive ha già avuto modo di chiarire che l’espressa previsione, da parte dei conviventi, di un regime di separazione, lasciando del tutto invariati i rapporti reciproci, esporrebbe il contratto al rischio di una declaratoria di nullità per assenza di causa [80]. Peraltro, un’esplicita esclusione del regime comunitario [81] potrebbe rivelarsi utile al solo fine di superare quella praesumptio hominis di comproprietà dei beni acquisiti durante la convivenza che una parte, seppure minoritaria, della dottrina vorrebbe ritenere operante (quasi a imitazione della teoria dell’implied cohabitation contract) tra conviventi in merito agli acquisti effettuati durante il rapporto. Ad una coppia che avesse l’intenzione di .[82] Si potrà ancora aggiungere che, a una coppia che avesse mantenere un regime rigorosamente separatista andrebbe comunque consigliato di pattuire in maniera espressa il diritto alla restituzione di quegli importi eventualmente versati da ciascuno dei conviventi a titolo di contributo per gli acquisti  di beni effettuati a nome dell’altro.  

 Per quanto riguarda il fondo patrimoniale, a prescindere dalle corali considerazioni della dottrina sulla scarsa utilità dell’istituto, che ha trovato concreta e rigogliosa applicazione praticamente al solo fine di frodare i creditori  [83], va detto che uno degli aspetti più qualificanti dello stesso, cioè il vincolo di inalienabilità e di inespropriabilità sui beni che ne formano oggetto, non potrebbe in ogni caso essere riprodotto, neppure per via indiretta, in quanto effetto di norme (cfr. artt. 169 e 170 c.c.) dirette a regolare i rapporti verso i terzi e dunque non riproducibili a mezzo di uno strumento, quale quello contrattuale, destinato a generare effetti esclusivamente inter partes (cfr. art. 1372 cpv., c.c.). E’ chiaro del resto che una diretta applicazione degli artt. 167 ss. c.c. sarebbe comunque esclusa dal fatto che l’istituto in oggetto non può prescindere dalla presenza di una famiglia legittima.

Proprio tale ultimo ostacolo potrebbe forse essere aggirato mediante il ricorso allo strumento del trust, istituto che tanta fortuna ha avuto nella regolamentazione dei rapporti patrimoniali tra conviventi nei paesi di Common Law. Si noti peraltro che in quei sistemi il richiamo alla figura in esame ha avuto luogo proprio al fine di superare – nei casi sottoposti all’esame dei giudici – l’assenza di esplicite pattuizioni, mediante l’applicazione di procedimenti induttivi, se non addirittura di vere e proprie finzioni (implied, resulting o constructive trust), che, attingendo a piene mani dall’equity, hanno finito con il riconoscere ad un partner diritti dominicali su cespiti patrimoniali acquistati dall’altro in costanza di rapporto [84].

La costituzione in Italia per via negoziale di un trust a beneficio di una famiglia di fatto, pur in assenza di un qualsiasi elemento di estraneità, sarebbe immaginabile solo a condizione che si fornisse alla convenzione dell’Aja del 1985, ratificata con l. 16 ottobre 1989, n. 364 (entrata in vigore il 1 gennaio 1992), una lettura tale da consentire di ritenere autorizzata la creazione di trusts «interni», superando le pur numerose e gravi perplessità sollevate, relative – a tacer d’altro – al disposto dell’art. 2740 c.c., al principio del numerus clausus dei diritti reali, a quello della tassatività delle ipotesi in cui è consentito creare enti dotati di autonomia patrimoniale, a quello della tassatività delle fattispecie soggette a trascrizione, e, prima ancora, alla difficoltà di estrapolare da norme tipicamente di conflitto, quali quelle di cui alla citata convenzione dell’Aja, una regola di diritto interno, applicabile ai casi in cui non siano prospettabili collisioni tra diversi ordinamenti. Il tema ha, come noto, scatenato furibondi dibattiti dottrinali, sui quali non è possibile in questa sede soffermarsi [85]. Basti solo dire che, nello specifico settore dei rapporti tra coniugi, un ipotetico trust «familiare» dovrebbe superare l’ulteriore esame di compatibilità con le norme imperative dettate dal codice in tema di convenzioni matrimoniali [86] e, tra queste, in particolare, con quella che pone il divieto di costituzione, sotto ogni forma, di beni in dote (art. 166-bis c.c.); è evidente, peraltro, che questo specifico discorso non varrebbe comunque per la famiglia di fatto [87].

Ciò posto, se si riconoscesse cittadinanza all’istituto nel nostro ordinamento, il costituente (uno dei conviventi, o entrambi, ovvero anche un terzo), potrebbe avvalersene per separare (o, secondo l’orrida terminologia in voga, «segregare») parte del proprio patrimonio, dettando al trustee norme a beneficio dell’unione di fatto e magari provvedere anche in ordine all’eventuale scioglimento di quest’ultima. Proprio in vista di tale ipotesi si dovrebbero inserire apposite previsioni volte a disciplinare la sorte dei cespiti patrimoniali, magari prevedendo una qualche forma di «ultrattività» del trust a tutela della parte debole e/o della prole. In ogni caso – a scanso di pericolosi equivoci – sarebbe opportuno (e la regola vale anche per i temi che saranno trattati nel prossimo §) individuare in maniera esplicita e certa le situazioni nelle quali la convivenza si dovrebbe considerare come venuta meno (invio di una lettera, fissazione di residenze anagrafiche distinte, ecc.) [88].

 

 

8. Il contenuto dei contratti di convivenza: pattuizioni in vista di un’eventuale rottura del rapporto.

 

La promessa dell’effettuazione di prestazioni di carattere economico per il periodo successivo alla rottura viene generalmente ritenuta valida [89]. Ma, a ben vedere, occorre ancora distinguere due ipotesi. Si profila infatti la necessità di evitare che la pattuizione possa essere qualificata come clausola penale per il caso di abbandono (giustificato o ingiustificato: come si è visto non fa differenza): ché, in tale fattispecie, la disposizione sarebbe nulla in quanto eccessivamente limitativa della libertà del contraente.

Diverso è il discorso ogni qual volta sia possibile appurare che l’intento delle parti non era diretto a configurare uno strumento di dissuasione per il convivente intenzionato a por fine al ménage, bensì a predisporre una forma di «soccorso» per le necessità del soggetto destinato a trovarsi sprovvisto della fonte di reddito su cui prima poteva contare [90].

Si è da parte di taluno suggerito di effettuare un richiamo alla normativa in tema di assegno di separazione o di divorzio .[91]. Ora, se pure non esistono ostacoli in linea di  Ora, se pure non paiono sussistere ostacoli in linea di principio a riconoscere la validità di un accordo del genere, va subito precisato che non appaiono riproducibili per via negoziale tutti quegli strumenti tecnici approntati dal legislatore a tutela dei rapporti giuridici sussistenti tra separati o divorziati (obbligo di prestare garanzia, sequestro, ordine di pagamento al terzo debitore del coniuge, o ex coniuge, obbligato: cfr. artt. 156, commi quarto e ss. c.c.; 211, l. 19 maggio 1975, n. 151; art. 8, l. 1 dicembre 1970, n. 898, così come sostituito dall’art. 13, l. 6 marzo 1987, n. 74) [92]. Allo stesso modo, non sarà possibile attribuire alcun rilievo a un ipotetico «addebito» della rottura, per le già esposte ragioni d’ordine pubblico. Piuttosto, sarà più opportuno fissare nello stesso contratto di convivenza l’an e il quantum dell’assegno o, quanto meno, parametri certi per la sua determinazione (per esempio, una percentuale del reddito annuo risultante dall’ultima dichiarazione ai fini IRPEF), così come la durata e le cause di estinzione dello stesso (per esempio, passaggio a nuova convivenza o celebrazione di matrimonio da parte dell’avente diritto e/o dell’obbligato) [93].

Un’apposita clausola potrebbe concernere l’attribuzione del diritto di abitazione sulla casa in cui si svolgeva la convivenza per il periodo successivo alla rottura del ménage. Al riguardo, occorre distinguere a seconda che l’immobile sia in proprietà di uno dei conviventi (o di entrambi), ovvero formi oggetto di un rapporto locatizio. Nella prima ipotesi, la relativa pattuizione potrebbe configurare, in alternativa, un diritto reale di abitazione, ovvero un comodato, in ogni caso sotto condizione sospensiva della rottura del rapporto [94]. Se invece l’immobile fosse semplicemente detenuto in conduzione, l’accordo sortirebbe l’effetto di una cessione condizionata del rapporto locatizio, avente anche un valore «esterno», nei confronti del locatore [95]. Siffatto accordo potrebbe pure essere concluso, ad avviso dello scrivente, in via preventiva. Un analogo patto, diretto ad attribuire il diritto di abitazione sulla ex residenza comune, di proprietà di uno dei conviventi (o di entrambi), per il caso di cessazione del rapporto determinata dalla morte di quest’ultimo [96], se da un lato potrebbe in un certo senso «porre rimedio» al mancato riconoscimento di un diritto del convivente superstite, verrebbe dall’altro a scontrarsi irrimediabilmente con il divieto dei patti successori.

 

 

9. La manifestazione del consenso. Forma e prova del contratto di convivenza.

 

Qualsiasi accordo tra i conviventi diretto a regolare gli aspetti della vita in comune deve risultare da un’esplicita manifestazione di volontà delle parti, non potendosi condividere la tesi (isolata) di chi vorrebbe ammettere la possibilità di desumere la conclusione di un contratto di convivenza dal comportamento dei partners, «come espressione di una loro concorde volontà attuosa» [97].

In altri termini, secondo la teoria qui criticata, la semplice instaurazione di una convivenza more uxorio dovrebbe indurre a ritenere l’esistenza di un accordo implicito diretto, quanto meno, alla prestazione della contribuzione reciproca, se non alla ripartizione in misura uguale degli incrementi di ricchezza accumulati durante il rapporto. La proposta riecheggia assai da vicino la tesi dell’implied cohabitation contract, che tanta fortuna ha avuto oltre Oceano. Nata molti anni or sono per risolvere i problemi posti dalla collaborazione spontaneamente prestata da alcuni appartenenti a comunità familiari agricole [98], la teoria in oggetto trovò la sua consacrazione nel celebre caso Marvin v. Marvin (1976) [99], con riguardo alla domanda svolta dalla ex convivente del noto attore Lee Marvin, la quale aveva preteso una qualche forma di partecipazione agli incrementi patrimoniali conseguiti da quest’ultimo durante il ménage. La Corte Suprema della California decretò in proposito la possibilità per il giudice di «inquire into the conduct of the parties to determine whether that conduct demonstrates an implied contract or implied agreement of partnership or joint venture, or some other tacit understanding between the parties», anche se poi, nel caso di specie, negò che un simile accordo potesse essere desunto sulla base del comportamento tenuto dalla coppia. Sulla scia di questo precedente l’applicazione dell’implied contract alla famiglia di fatto ha portato all’accoglimento di numerose domande proposte da ex conviventi «deboli» a titolo di compenso per la collaborazione prestata.

Le conclusioni dei giudici d’oltre Oceano, favorite da quella labilità di confini tra contract e quasi-contract caratteristica dei sistemi di common law [100], non possono però essere trasposte nei sistemi di matrice romanistica, nei quali si suole pretendere che la manifestazione dell’intento negoziale sia chiara ed inequivocabile [101]. Ora, proprio l’originario rifiuto dei conviventi more uxorio di sottoporre i reciproci rapporti a effetti giuridici di sorta impedisce di desumere dal loro comportamento una volontà negoziale. L’assunto è del resto suffragato anche dalla constatazione che non risulterebbero comunque in alcun modo determinate, né determinabili, la natura e la misura della controprestazione dovuta in cambio dei servizi prestati dal convivente «debole» e dunque verrebbe meno uno degli elementi essenziali di quel contratto la cui conclusione si vorrebbe argomentare dall’instaurazione dell’unione extramatrimoniale.

Come la teoria del contratto implicito, così quella del contratto di fatto si prefigge di superare l’ostacolo rappresentato dall’assenza di un esplicito accordo tra le parti interessate, in tutte le situazioni in cui la «coscienza sociale» avverte la necessità di far insorgere tra di esse dei rapporti giuridici. Con tale espressione si suole infatti indicare quel rapporto negoziale instaurato non già mercé lo scambio dei consensi, bensì per mezzo dell’esecuzione di una delle due prestazioni (o di entrambe) non qualificata da una precedente proposta della controparte. Lo schema sembrerebbe quindi calzare a pennello, specie ponendo mente al caso della prestazione di lavoro domestico da parte di un convivente, non preceduta da alcuna manifestazione di volontà, ma di cui l’altro si sia concretamente avvantaggiato: a carico di quest’ultimo si potrebbe dunque affermare l’esistenza di un’obbligazione ex contractu di corrispondere una «retribuzione», vuoi in denaro, vuoi mediante qualche altra forma di contribuzione.

Ma nemmeno tale conclusione può accogliersi. A parte infatti il rilievo che la teoria dei faktischen Vertragsverhältnisse sembra ormai abbandonata anche in Germania, ove pure aveva visto la luce, va rilevato come la nostra dottrina abbia sempre manifestato la propria propensione a risolvere le situazioni solitamente ricondotte alla figura del rapporto contrattuale di fatto mediante un approccio di tipo «tradizionale», vale a dire facendo leva sulla concludenza o meno del comportamento posto in essere dagli interessati.

Non solo. Come è stato messo in evidenza in altra sede, nel nostro codice non mancano certo istituti che rispondono allo schema del contratto di fatto, sostanziandosi in rapporti che, pur non sorgendo dallo scambio di contrapposte dichiarazioni, vengono ciò non di meno disciplinati alla stregua di contratti, come la mediazione, o i fenomeni di cui agli artt. 2126 e 2332 c.c. in materia, rispettivamente, di lavoro subordinato e società, o, ancora, come nel caso dell’attuazione unilaterale di un rapporto locativo dopo la sua scadenza, ai sensi dell’art. 1591 c.c. A ben vedere, si tratta di fattispecie di natura quasi-contrattuale, cui però il legislatore ha ritenuto di ricollegare la disciplina di singoli contratti tipici. Ora, proprio per il già evidenziato carattere eccezionale delle ipotesi quasi-contrattuali, non sembra lecito ammettere, al di fuori di tali schemi, che un contratto si formi sulla base della sola attuazione, vuoi unilaterale, vuoi bilaterale, non preceduta da una proposta. Un contratto di fatto tra conviventi potrebbe dunque apparire astrattamente configurabile soltanto laddove si volesse invocare una di quelle ipotesi normative testé enunciate: società o lavoro subordinato: ma di questo argomento si è già discorso in altra sede [102]. Per il resto valgano le lapidarie conclusioni di uno studioso tedesco: «Die Unsicherheiten, die mit einem angeblich geschlossenen Zusammenlebens- Vertrag verbunden sind, lassen diese Konstruktion zudem auch nicht im Interesse der beteiligten Personen als ratsam erscheinen» [103].

In linea generale non è richiesto, per la manifestazione di volontà in esame, il rispetto di speciali regole di forma. Così non è necessario l’atto pubblico, proprio perché, almeno di regola, con tale negozio i conviventi intendono disciplinare i reciproci rapporti a prescindere da ogni spirito di liberalità .[104].

Il rispetto della forma solenne appare poi consigliabile, al fine di evitare successive contestazioni, anche nel caso di un semplice squilibrio tra il valore delle prestazioni poste in corrispondenza biunivoca nell’ambito del contratto di convivenza (per esempio: la corresponsione da parte dell’uomo di una somma a titolo di contribuzione per le necessità della donna superiore al valore del lavoro domestico che la stessa si impegna a prestare), anche se, stricto iure, le formalità della donazione non andrebbero ritenute necessarie in ossequio alla teoria che configura il negotium mixtum cum donatione alla stregua di una donazione indiretta [105]. In ogni caso, la redazione di un documento scritto appare raccomandabile per evidenti ragioni d’ordine probatorio.

Proprio in ordine a quest’ultimo aspetto, va rilevato come la dottrina e la giurisprudenza, tanto in Italia che in Francia, tendano a ravvisare nella convivenza more uxorio, anche se in concorso con altri elementi, una situazione di «impossibilità morale (...) di procurarsi una prova scritta» tale da consentire, ai sensi dell’art. 2724, n. 2 c.c. (e dell’art. 1348 del Code), la dimostrazione per testi o presunzioni di qualsiasi contratto [106] concluso tra i conviventi e dunque anche di un negozio diretto a regolare ex novo i rispettivi rapporti patrimoniali o a modificare i preesistenti, pur se conclusi per iscritto [107]. Non sembra dunque inopportuno suggerire, a chi volesse evitare di doversi trovare un giorno ad affrontare l’infido terreno della prova testimoniale, di inserire nel documento contenente il contratto di convivenza una clausola che vincoli le parti al rispetto della forma scritta (ex art. 1352 c.c.) nel caso le stesse decidessero di apportare modifiche di sorta agli accordi raggiunti.

 

 

10. Scioglimento del contratto di convivenza e cessazione del ménage di fatto.

 

Passando all’esame dei problemi posti dallo scioglimento del contratto di convivenza, a parte l’ipotesi del mutuo dissenso [108], v’è da chiedersi se sia opportuno legare espressamente la cessazione degli effetti dell’accordo anche a situazioni diverse, che avessero a verificarsi durante l’unione e in particolare alla rottura del ménage.

Molti dei modelli stranieri sembrano porre una certa enfasi sul punto, senza peraltro indicare un rimedio di carattere unitario. Secondo taluni, infatti, la soluzione andrebbe cercata in una espressa condizione risolutiva, legata al semplice abbandono della vita comune (che comunque deve ritenersi verificabile in qualsiasi momento e senza restrizioni di sorta) [109], mentre per altri occorrerebbe invece attribuire un diritto di recesso ad nutum in capo a ciascuno dei contraenti, che sarebbe così tenuto a informare l’altro secondo modalità stabilite [110]. La risposta a tale interrogativo non può che essere data caso per caso. Invero, se il rapporto è strutturato come a prestazioni corrispettive (si pensi all’obbligo reciproco di contribuzione), un’adeguata soluzione sembra già rinvenibile nell’ambito dei rimedi sinallagmatici [111], tra cui, in particolare, l’exceptio inadimpleti contractus e la facoltà di sospensione dell’esecuzione, ex artt. 1460 e 1461 c.c. Nelle altre ipotesi (si pensi a un impegno di mantenimento unilaterale, o a un contratto diretto all’instaurazione di un regime analogo a quello della comunione legale), appare invece opportuno legare lo scioglimento del contratto all’esercizio di uno ius poenitendi rimesso a ciascun convivente da esercitarsi mediante atto scritto da comunicare alla controparte e con effetto (per evitare pericolose incertezze) dalla data della comunicazione stessa .[112].  

Nessuna obiezione sembra possa muoversi alla pattuizione di una clausola compromissoria, ovvero di deroga alla competenza territoriale dell’autorità giudiziaria, nonché all’inserimento (consigliabile laddove il negozio venga perfezionato dopo che si sia già iniziato a convivere) di un accordo di carattere transattivo in relazione ai rapporti pregressi [113].

Nel caso le parti non abbiano previsto l’ipotesi di cessazione del ménage, c’è da chiedersi se in qualche modo si possano interrompere gli eventuali rapporti di durata a titolo gratuito, specie qualora il soggetto cui è imputabile la rottura sia nel contempo il beneficiario delle attribuzioni. L’unico strumento astrattamente ipotizzabile, soprattutto in relazione a quegli impegni di lunga durata (o addirittura di carattere vitalizio) la cui originaria previsione abbia tratto la propria ragion d’essere da un legame affettivo ormai cessato, sarebbe quello della presupposizione. Ma la soluzione deve essere scartata, per effetto dell’impossibilità di ravvisare il fondamento negoziale degli atti in oggetto nell’affidamento (fallace) delle parti su di un (improbabile) carattere durevole dell’unione [114].

Sempre nel campo delle donazioni si pone il problema di un’eventuale revocabilità per ingratitudine nei confronti del partner responsabile del naufragio del rapporto. Con riguardo alle donazioni tra coniugi, dottrina e giurisprudenza tendono a ravvisare la presenza di un’«ingiuria grave» ex art. 801 c.c. nella violazione di quel dovere giuridico di fedeltà [115], che invece, nell’ambito della relazione more uxorio, non ha (né può avere, nemmeno ex contractu) cittadinanza. Ciò peraltro non esclude ancora che un obbligo di tal genere si instauri tra i conviventi sul piano morale. Ne consegue che – fermo restando il diritto di por fine in ogni momento all’unione – non può negarsi rilievo al comportamento del soggetto che durante il ménage intrattenga relazioni con terze persone all’insaputa del partner.

 

 

11. Contratti di convivenza ed effetti post mortem.

 

Una delle clausole di cui all’estero viene con maggior frequenza raccomandato l’inserimento nei contratti di convivenza concerne la previsione di effetti giuridici destinati a prodursi dopo la morte di uno dei contraenti e a beneficio dell’altro, quale strumento al fine di assicurare la tranquillità economica del partner superstite [116]. Nel nostro ordinamento, però, la proposta viene inevitabilmente a scontrarsi con il divieto dei patti successori [117] il quale, come noto, investe non soltanto i negozi con cui un soggetto dispone della propria successione, bensì anche quelli con i quali ci si obbliga a istituire erede taluno [118], come in quei casi, su cui la giurisprudenza ha già avuto modo di pronunziarsi, che vedevano la promessa di istituzione di erede scambiarsi con l’impegno della controparte di accudire alle faccende domestiche del de cuius [119], ovvero di fornire a quest’ultimo alloggio e assistenza per il resto dei suoi giorni [120].

Ma non basta. La dottrina e la giurisprudenza dominanti vanno da tempo affermando la nullità non solo del patto successorio, ma anche del testamento che vi abbia dato esecuzione, dal momento che la presenza di un impegno a testare in un determinato modo escluderebbe la spontaneità dell’atto di ultima volontà, pur restando salva la possibilità (per il vero assai remota) di una convalida ex art. 590 c.c. [121]. La gravità di tali conseguenze deve indurre dunque alla massima attenzione circa l’eventuale predisposizione nel contratto in esame di effetti destinati a operare sul patrimonio di uno dei conviventi dopo la sua morte. Al riguardo, c’è da chiedersi quale sia l’interesse dei partners a concludere un patto successorio e in quale modo lo stesso possa essere soddisfatto mediante negozi che non siano vietati, né direttamente, né mediante la regola della frode alla legge.

Sul primo interrogativo va detto che l’interesse in discorso sembra essere quello di operare trasferimenti di diritti che godano, a un tempo, delle due caratteristiche dell’irrevocabilità, da un lato, e della operatività dal momento della morte del dante causa dall’altro [122]. E’ chiaro che il primo dei due obiettivi potrebbe essere agevolmente raggiunto mercé il contratto (si pensi soprattutto alla donazione), che presenta però anche l’«inconveniente» di determinare la perdita immediata dei diritti trasferiti, mentre il secondo potrebbe essere conseguito con il testamento, che peraltro è un atto per sua natura revocabile usque ad vitae supremum exitum.

I requisiti comunemente indicati come caratteristici dei patti successori istitutivi (o confermativi) sono, come noto, i seguenti: a) che la convenzione sia stipulata prima dell’apertura della successione; b) che con essa il promittente abbia inteso provvedere in tutto o in parte alla propria successione, privandosi così dello ius poenitendi; c) che l’acquirente abbia contrattato o stipulato come avente diritto alla successione stessa; d) che i diritti oggetto del patto facciano parte di una successione ancora da aprirsi; e) che l’acquisto avvenga successionis causa, e non ad altro titolo [123]. Di particolare importanza appare dunque quest’ultimo elemento, posto che i contratti di cui si discute sono sicuramente stipulati prima dell’apertura della successione e (almeno generalmente) su diritti destinati a far parte della stessa. Occorre perciò chiedersi se vi siano atti destinati a produrre effetti (o, quanto meno, taluni effetti) solo dopo la morte del titolare dei diritti alienati, ma che possano ciò non di meno qualificarsi come inter vivos.

Al riguardo è stata individuata una nuova categoria di negozi tra vivi, definiti post mortem, nei quali l’evento del decesso di uno dei contraenti non è considerato o elevato dalle parti a causa dell’attribuzione, bensì è ritenuto un mero requisito condizionante la produzione degli effetti definitivi propri del negozio, senza escludere la produzione di effetti limitati o prodromici, peculiari al contratto sottoposto a condizione sospensiva, consistenti nell’aspettativa tutelata dalla legge (art. 1356 c.c.) dell’acquisto del diritto. Non è questa la sede per una disamina dei singoli istituti: sarà sufficiente, ai fini della presente indagine, un richiamo a quelli che maggiormente si prestano a soddisfare le esigenze di tipo successorio proprie della coppia di fatto.

Si è già avuto modo di dire che la donazione pura e semplice è (problemi di riduzione a parte) l’istituto destinato a realizzare nel migliore dei modi l’interesse del beneficiario, in quanto atto, a differenza del testamento, essenzialmente irrevocabile (se non nelle circoscritte ipotesi dell’ingratitudine e della sopravvenienza di figli); essa presenta peraltro la già segnalata controindicazione di privare immediatamente il donante della disponibilità dei beni donati, cui il disponente in vita non intende invece rinunziare. Quest’effetto indesiderato può essere, almeno in parte, evitato per mezzo della donazione con riserva di usufrutto a vantaggio del donante (art. 796 c.c.), la cui validità è fuori discussione, in quanto in essa il trasferimento della proprietà è immediato .[124]. Assai dibattuta è, invece, la questione della possibilità di sottoporre gli effetti di una donazione alla morte del disponente, che deve essere però negata, tanto con riguardo alla cosiddetta donatio mortis causa, la quale non si distingue da un patto successorio istitutivo a titolo gratuito [125], quanto con riferimento alla liberalità sottoposta alla condizione della morte (si moriar) o della premorienza (si praemoriar) del donante [126], la cui invalidità andrebbe comunque affermata sotto il profilo della frode alla legge [127].

Uno strumento che può consentire di raggiungere lecitamente risultati sostanzialmente analoghi a quelli di un patto successorio è costituito dal contratto a favore di terzo con prestazione da effettuarsi dopo la morte dello stipulante (art. 1412 c.c.), e – in particolare – dall’assicurazione sulla vita a favore di un terzo (art. 1920 ss. c.c.). In entrambi i casi, infatti, la causa dell’acquisto da parte del terzo (cioè il convivente superstite) è rappresentata non già dalla morte dello stipulante, ma dal contratto. Inoltre, ogni dubbio in punto frode alla legge è eliminato dall’evidente diversità di «risultati giuridici» rispetto al patto successorio, posto che il rapporto contrattuale intercorre non già fra il beneficiario e lo stipulante, ma tra quest’ultimo e il promittente. Per giunta, il diritto acquistato, stando almeno all’opinione prevalente, non proviene dal patrimonio dello stipulante, ma è un rapporto autonomo che trae la sua origine dal contratto e che si trasmette al terzo inter vivos [128]. La tranquillità del convivente «debole» ben potrà, dunque, essere garantita anche per il periodo successivo alla morte del partner per mezzo di un contratto di assicurazione sulla vita di quest’ultimo, l’impegno a sottoscrivere (magari reciprocamente) il quale può essere assunto nel contratto stesso di convivenza [129]. Con riferimento a quest’ultima clausola andrà osservato che un eventuale inadempimento rispetto a tale obbligo esporrebbe gli eredi del soggetto inadempiente al risarcimento dei danni verso il superstite, che potrebbe così richiedere a essi il pagamento della somma che avrebbe ottenuto qualora il de cuius avesse concluso l’assicurazione.

Sempre in relazione al contratto a favore di terzi e a quello di assicurazione sulla vita, si potrebbe suggerire di inserire nello stesso contratto di convivenza (per iscritto) quella rinunzia al potere di revoca del beneficio attribuito al terzo prevista dagli artt. 1412 e 1921, comma secondo, c.c. per il caso la prestazione debba essere effettuata dopo la morte dello stipulante, e che, secondo taluni, costituirebbe un’eccezione al divieto dei patti successori [130]; ad essa dovrebbe accompagnarsi, nell’atto medesimo, la dichiarazione del beneficiario di voler profittare del beneficio, dichiarazione che, ai sensi delle disposizioni testé citate, produce l’effetto di paralizzare un’eventuale revoca [131].

Un’ulteriore applicazione del contratto a favore di terzi può essere ravvisata nella costituzione di una rendita vitalizia a vantaggio del convivente, oppure di un vitalizio alimentare, in relazione ai quali occorrerà però avere l’accortezza di pattuire espressamente l’intrasmissibilità del potere di revoca agli eredi dello stipulante [132]. Non va però trascurato che i negozi in questione – come del resto ogni disposizione a favore di terzi compiuta animo donandi – assumono il carattere di donazioni indirette e sono quindi assoggettabili a riduzione [133].

Abbandonando invece la figura del negozio a favore di terzo, ci si imbatte subito in due rimedi suggeriti in Francia, ma che non sembrano avere ancora suscitato interesse da noi. Il primo concerne il cosiddetto acquisto en tontine, con cui si pattuisce, all’atto della stipula di un contratto di acquisto da parte di entrambi i conviventi, che il primo di essi a morire si considererà come non fosse mai stato titolare del diritto, che si riterrà invece come sin ab initio trasferito in capo al solo superstite. Un medesimo avvenimento, cioè la morte di uno dei due partners, fungerebbe così, al contempo, da condizione risolutiva dell’acquisto in capo al premorto e sospensiva del trasferimento in capo all’altro. La clausola, non prevedendo (a differenza di quella detta daccroissement, colpita da nullità), un trasferimento mortis causa, sfugge al divieto dei patti successori [134]. L’altro espediente suggerito dalla pratica d’Oltralpe è costituito dall’acquisto «incrociato» in capo, rispettivamente, all’uno e all’altro dei conviventi, della nuda proprietà su di una metà del bene e dell’usufrutto sulla rimanente metà. Ne consegue che, alla morte del primo degli acquirenti, il superstite acquista la proprietà piena della quota di cui era nudo proprietario, mentre rimane usufruttuario dell’altra quota, così evitando di perdere la disponibilità del bene stesso [135].

        Un’ultima via per eludere in qualche modo le aspettative dei legittimari può essere costituita dalla… trasformazione del convivente in legittimario mediante adozione, ovviamente a condizione che di tale atto sussistano i presupposti. Il rimedio è però sconsigliabile per il suo carattere intimamente irreversibile: in caso di rottura, invero, i partners si vedrebbero condannati, paradossalmente, a restare uniti per il futuro da un rapporto indissolubile [136].

 

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[1] E’ impossibile in questa sede fornire un’esauriente elencazione dei contributi stranieri sull’argomento. L’autore si permette pertanto, premesso qualche cenno bibliografico essenziale, di fare richiamo a Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, Torino, 1991, p. 8 ss., 151 ss. (per alcuni spunti in tema di rilievo delle prestazioni di lavoro nell’ambito dei contratti di convivenza cfr. ora anche Id., Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, Padova, 2003, in corso di stampa). Il rinvio vale non soltanto per un’integrazione dei riferimenti dottrinali e giurisprudenziali, ma anche per l’approfondimento di quelle considerazioni teoriche che, in seno ad un lavoro prevalentemente rivolto all’esame della contrattualistica, non possono trovare un’esaustiva trattazione.

La maggiore attenzione al fenomeno dei contratti di convivenza è stata dedicata dagli studiosi di common law. Per quanto concerne la dottrina statunitense v. per tutti Weitzman, Legal Regulation of Marriage: Tradition and Change, in California Law Review, 62, 1974, p. 1249 ss.; Glendon, State, Law and Family - Family Law in transition in the United States and Western Europe, Amsterdam, 1977; Weitzman e Lenou, The marriage contract, spouses, lovers and the law, New York, 1981; Weyrauch e Katz, American Family Law in Transition, Washington, 1983, p. 171 ss.; Bruch, Nonmarital Cohabitation in the Common Law Countries: A Study in Judicial-Legislative Interaction, in The American Journal of Comparative Law, 1981, p. 221; Smith, Property Rights arising from Relationship of Couple Cohabiting without Marriage, in American Law Review, 3, 4th 13, p. 20.

[2] Cfr. in particolare, Barton, Cohabitation Contracts. Extra-marital partnership and law reform, Aldershot, 1985, p. 37 ss., 59 ss.; Weitzman, Legal Regulation of Marriage, cit., p. 1250 ss. In Belgio e nei Paesi Bassi la tematica ha ricevuto consistenti contributi da parte delle associazioni notarili. Nel primo paese, infatti, è stata addirittura l’associazione nazionale del notariato a provvedere alla redazione di un formulario-tipo (v. Feitelijke scheiding, Feitelijk samenleven, Koninklijke Federatie van Belgische notarissen - Notariele dagen, Gent, 1978; il testo in francese è allegato alla pubblicazione dell’Union Internationale Du Notariat Latin, Problèmes juridiques du couple non marié, Amsterdam, 1987, p. 20; successivamente cfr. la relazione belga di Casman e De Wynter presentata dalla suddetta associazione al XVIII congresso dell’Unione Internazionale del Notariato latino, tenuto a Montréal dal 21 al 26 settembre 1986 sul tema «Influenza del diritto pubblico sul diritto di famiglia» di cui riferisce Mazzocca, La famiglia di fatto. Realtà attuale e prospettive, Roma, 1989, p. 8 ss.), mentre in Olanda risulta che, ad esempio, già tra il 1981 e il 1983 ben dodicimila contratti di convivenza vennero rogati dai notai (v. i riferimenti in Van De Wiel, Cohabitation outside Marriage in Dutch Law, in Eekelaar e Katz, Marriage and Cohabitation in Contemporary Societies, Toronto, 1980, p. 226, nota 21). In Germania Kunigk, Die Lebensgemeinschaft, Rechtliche Gestaltung von ehelichem und eheähnlichem Zusammenleben, Stuttgart, 1978, pp. 128 ss. ha proposto un modello di contratto destinato a regolare la vita in comune dei conviventi, da redigersi per iscritto e con l’assistenza di un legale. In esso l’autore suggerisce di menzionare chiaramente la meritevolezza degli scopi perseguiti, che non dovrebbero concernere (per fugare sospetti di illegittimità per contrarietà al buon costume) soltanto la creazione e il mantenimento di una relazione di tipo sessuale. L’accordo potrebbe regolare aspetti quali eventuali apporti reciproci, il regime dei beni, rimborsi spese, modalità di un’eventuale rottura, ecc. Sempre nello stesso paese, più di recente, Langenfeld, Die nichteheliche Lebensgemeinschaft, in Münchener Vertragshandbuch, 4, Bürgerliches Recht, München, 1986, p. 927 ss., ha prospettato addirittura due varianti del Partnerschaftsvertrag, di cui una destinata alla convivenza prodromica al matrimonio (Ehe auf Probe) e l’altra rivolta invece a regolamentare un’unione avente un carattere più stabile; ancora più di recente cfr. ampiamente Grziwotz, Partnerschaftsvertrag, für die nichteheliche Lebensgemeinschaft, München, 1994, passim.

[3] Cfr. Aubenas, Cours dhistoire du droit privé, VI, Aix en Provence, 1958, p. 35, che riferisce di un contrat de concubinat predisposto in Bonifacio (Corsica) dal notaio genovese De Porta nel 1287. La cosiddetta Carta de Avila del 1361, sotto il titolo «carta de mancebía e compañería», costituisce poi un eloquente esempio di contratto tra un uomo e la sua barragana, con cui il primo concedeva a quest’ultima determinati diritti sulle sue rendite, oltre che quelli di spartire con lui «pan e mesa e cuchiello por todos los días que (...) visquiéredes» (v. Fosar Bennloch, Las uniones libres, in Estudios de derecho de familia, III, Barcelona, 1985, p. 15).

[4] Cfr. il De Facto Relationships Act (1984) del Nuovo Galles del Sud, in Australia (il testo normativo, variamente rimaneggiato, si chiama ora Property [Relationships] Act - 1984), nonché il Family Law Reform Act, entrato in vigore il 31 marzo 1978 nello stato dell’Ontario (Canada), su cui cfr. in dettaglio Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 11 s.

[5] Come rilevato da Sesta, Diritto di famiglia, Padova, 2003, p. 350 ss. «La prima legge che si è occupata del fenomeno è stata quella danese, del 1989; essa ha istituito il modello della registered partnership, per cui la registrazione dell’unione produce i medesimi effetti giuridici del matrimonio, salvo quanto previsto in materia di adozione e di potestà dei genitori. Tale modello è stato seguito negli anni successivi anche da Norvegia (1993), Svezia (1994), Islanda (1996), Olanda (1998), e Germania (2001). Tali ordinamenti hanno quindi optato per una tendenziale equiparazione tra le unioni familiari eterosessuali e quelle omosessuali. Una siffatta evoluzione delle normative nazionali è stata condivisa dal Parlamento europeo, le cui risoluzioni dell’8 febbraio 1994 e del 16 marzo 2000, finalizzate alla rimozione di ogni forma di discriminazione verso le persone omosessuali, richiedono un maggiore impegno della Commissione e degli Stati membri nella tutela delle relazioni familiari fra persone dello stesso sesso, attraverso l’apertura del matrimonio civile o di uno ‘strumento giuridico equivalente’. Invero, altri Paesi non hanno seguito la via dell’equiparazione, preferendo forme di tutela autonome e settoriali. Si tratta delle normative introdotte in Belgio (1998), Catalogna (1998) e Francia (1999). Queste si basano, generalmente, sulla parificazione delle coppie di conviventi; in tal modo, senza alcuna equiparazione all’istituto del matrimonio, viene offerta alle coppie di persone dello stesso sesso la medesima tutela prevista per i conviventi (…). Recentemente, nei Paesi Bassi, è stata attuata una radicale riforma della normativa del matrimonio civile, che ammette alla celebrazione dell’atto anche due persone dello stesso sesso. Nell’ordinamento olandese, dunque, l’istituto ha perso la sua tradizionale funzione di fondamento della famiglia legittima, essendo ora basato sulla assoluta irrilevanza del sesso dei nubendi. Le nuove norme dimostrano che l’ordinamento ha privilegiato le scelte inerenti alla parità di trattamento, già anticipate, ma non compiutamente realizzate, dalla figura della registered partnership». Sul tema delle convivenze omosessuali e delle relative soluzioni legislative all’estero cfr. Quadri, Problemi giuridici attuali della famiglia di fatto, in Fam. e dir., p. 502 ss.; Calo’, Le convivenze registrate in Europa, Milano, 2000, passim; Caricato, La legge tedesca sulle convivenze registrate, in Familia, 2002, p. 501 ss.; Aa. Vv., Matrimonio, Matrimonii, a cura di F. Brunetta d’Usseaux e A. D’Angelo, Milano, 2000, passim; Ieva, I contratti di convivenza. Dalla legge francese alle proposte italiane, in Riv. notar., 2001, p. 37 ss.; del Prato, Patti di convivenza, in Familia, 2002, p. 970 ss. Per un’ampia panoramica delle questioni sul tappeto cfr. inoltre Busnelli, La famiglia e l’arcipelago familiare, in Riv. dir. civ., 2002, p. 509 ss.; cfr. inoltre Vitucci, Dal dì che nozze… Contratto e diritto della famiglia nel pacte civil de solidarité, in Familia, 2001, p. 713 ss.; Ferrando, Il matrimonio, Milano, 2002, p. 192 ss.; Sesta, Diritto di famiglia, cit., p. 349 ss.

[6] Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 6 ss., nota 9; Id., Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, cit.

[7] Weitzman, Legal Regulation of Marriage, cit., p. 1255, 1273 ss.; in generale sui problemi giuridici delle convivenze tra persone del medesimo sesso negli Stati Uniti v. Shapiro e Schultz, Single-sex Families: The Impact of Birth Innovations upon traditional Family Notions, in Journal of Family Law, 24 (1985-86), p. 271 ss.

[8] Sul tema, per la dottrina italiana, cfr. M. Finocchiaro, Dopo l’entrata in vigore prevista il 1° marzo 2001 cadono i precedenti accordi internazionali, in Guida al Diritto, Il Sole-24 ore, 5 agosto 2000, p. 113 ss.; Bonomi, La nuova disciplina europea della competenza e del riconoscimento in materia matrimoniale e di potestà dei genitori, in Riv. dir. int., 2001, p. 298 ss.; Giacalone, Le conclusioni del Consiglio europeo di Tampere in vista della semplificazione e dell’accelerazione processuale: il punto sui lavori in tema di cooperazione giudiziaria civile nell’Unione europea, relazione presentata all’incontro di studio sul tema «I procedimenti semplificati ed accelerati nelle controversie civili ed amministrative nei paesi dell’U.E.», organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura e svoltosi a Roma dal 15 al 17 aprile 2002; Uccella, La prima pietra per la costruzione di un diritto europeo delle relazioni familiari: il regolamento n. 1347 del 2000 relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di potestà dei genitori sui figli di entrambi i coniugi, in Giust. civ., 2001, p. 2005 ss.; Figone, Brevi note sul Regolamento del Consiglio CE n. 1347/2000, in Fam. e dir., 2002, p. 101ss.; Oberto, Il Regolamento del Consiglio (Ce) n. 1347/2000 del 29 maggio 2000 relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e di responsabilità parentale nei confronti dei figli comuni, in Contratto e impresa / Europa, 2002, p. 361 ss.; Id., Schema ipertestuale di una relazione sul tema: Il Regolamento del Consiglio (Ce) n. 1347/2000 del 29 maggio 2000 relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e di responsabilità parentale nei confronti dei figli comuni, dal 26 aprile 2002 al seguente sito web

https://www.giacomooberto.com/regolamentouetorino/schema.htm; Id., Schema ipertestuale di una relazione sul tema: La cooperazione giudiziaria in materia civile nell’ambito dei paesi dell’Unione Europea. La rete europea di formazione giudiziaria, dal 4 luglio 2002 al seguente sito web:

https://www.giacomooberto.com/csm/uditori/cooperazionecivile.htm (a questi scritti si fa rinvio anche per i richiami alla dottrina straniera).

[9] «VII. Maggiore convergenza nel settore del diritto civile

38. Il Consiglio europeo invita il Consiglio e la Commissione a predisporre una nuova legislazione procedurale nelle cause transnazionali, in particolare sugli elementi funzionali ad una cooperazione agevole e ad un migliore accesso alla legislazione, ad esempio misure preliminari, raccolta delle prove, ordini di pagamento e scadenze.

39. Per quanto concerne il diritto materiale, occorre procedere ad uno studio globale sulla necessità di ravvicinare le legislazioni degli Stati membri in materia civile per eliminare gli ostacoli al corretto svolgimento dei procedimenti civili. Il Consiglio dovrebbe riferire in merito entro il 2001»

(cfr. http://europa.eu.int/council/off/conclu/oct99/oct99_it.htm#justice).

[10] Sulle varie proposte di legge in materia si fa rinvio a Oberto, Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, cit.

[11] Oberto, La famiglia di fatto nel diritto comparato, in Giur. it., 1986, c. 110; Id., I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 7 ss., 151 ss.; Id., Contratti di convivenza e contratti tra conviventi «more uxorio», in Contratto e impresa, 1991, p. 369 ss.; Id., Partnerverträge in rechtsvergleichender Sicht unter besonderer Berücksichtigung des italienischen Rechts, in FamRZ, 1993, p. 1 ss.

[12] Così invece Franzoni, I contratti tra conviventi «more uxorio», in Riv. trim. dir. proc. civ., 1994, p. 737 ss.; Id., Le convenzioni patrimoniali tra conviventi more uxorio, in Il diritto di famiglia, Trattato diretto da G. Bonilini e G. Cattaneo, II, Il regime patrimoniale della famiglia, Torino, 1997, p. 461 ss.

[13] Per la precisione andrà aggiunto che, nella dottrina italiana, i primi spunti in senso favorevole alla soluzione negoziale dei problemi legati alla famiglia di fatto si trovano già in Gazzoni, Dal concubinato alla famiglia di fatto, Milano, 1983, p. 150 ss., 156 ss.; dopo lo sviluppo di questa prospettiva nelle analisi sopra citate dello scrivente, v., per una valutazione in senso positivo di quest’ottica, M. Bernardini, La convivenza fuori del matrimonio tra contratto e relazione sentimentale, Padova, 1992, p. 204 ss.; Dogliotti, Famiglia di fatto, in Digesto disc. priv., Sez. civile, VIII, Torino, 1992, p. 195 s.; Busnelli e Santilli, La famiglia di fatto, in Commentario al diritto italiano della famiglia, a cura di Cian, Oppo e Trabucchi, VI, Padova, p. 779 ss.; V. Carbone, Autonomia privata e rapporti patrimoniali tra coniugi (in crisi), nota a Cass., 22 gennaio 1994, n. 657, in Fam. e dir., 1994, p. 146 ss.; Franzoni, I contratti tra conviventi «more uxorio», loc. cit.; Quadri, Rilevanza attuale della famiglia di fatto ed esigenze di autoregolamentazione, in Dir. fam. pers., 1994, p. 301 ss.; D’Angeli, La tutela delle convivenze senza matrimonio, Torino, 1995, p. 86; Gigliotti, Rottura della convivenza more uxorio e affidamento del figlio naturale: rilevanza dell’accordo parentale sulle condizioni della «separazione», in Dir. fam. pers., 1995, I, p. 611 ss.; Morelli, Il nuovo regime patrimoniale della famiglia, Padova, 1996, p. 65 s.; Angeloni, Autonomia privata e potere di disposizione nei rapporti familiari, Padova, 1997, p. 509 ss.; V. Franceschelli , Rapporto di fatto, in Digesto disc. priv., Sez. civile, XVI, Torino, 1997, p. 283; Franzoni, Le convenzioni patrimoniali tra conviventi more uxorio, loc. cit.; A. Fuccillo, Accordi di convivenza: alcuni aspetti problematici, in Famiglia e circolazione giuridica, a cura di G. Fuccillo, Milano, 1997, p. 68 ss., 79 ss.; Ferrando, Convivere senza matrimonio: rapporti personali e patrimoniali nella famiglia di fatto, in Fam. e dir., 1998, p. 183 ss.; Quadri, Problemi giuridici attuali della famiglia di fatto, cit., p. 503 ss.; Tommasini, La famiglia di fatto, in Aa. Vv., Il diritto di famiglia, I, in Trattato di diritto privato, diretto da Mario Bessone, vol. IV, Torino, 1999, p. 499 ss.; Aa. Vv., Matrimonio, Matrimonii, a cura di F. Brunetta d’Usseaux e A. D’Angelo, Milano, 2000, passim; Balestra, Gli effetti della dissoluzione della convivenza, in Riv. dir. priv., 2000, p. 468 ss.; Calo’, Le convivenze registrate in Europa, Milano, 2000, passim; Solaini, La famiglia di fatto, in La famiglia, in Il diritto privato nella giurisprudenza, a cura di Cendon, I, Torino, 2000, p. 493 ss.; Alagna, Famiglia di fatto e famiglia di diritto a confronto: spunti in tema di rapporti bancari, in Dir. fam. pers., 2001, p. 281 ss.; Dogliotti, La forza della famiglia di fatto e la forza del contratto. Convivenza more uxorio e presupposizione, nota a Trib. Savona, 7 marzo 2001, in Fam. e dir., 2001, p. 529 ss.; Ieva, I contratti di convivenza. Dalle legge francese alle proposte italiane, cit., p. 37 ss.; Pinori e Traverso, Finisce l’amore, si va dal giudice, Milano, 2001, passim; Spadafora, Rapporto di convivenza more uxorio e autonomia privata, Milano, 2001, passim; Vitucci, Dal dì che nozze… Contratto e diritto della famiglia nel pacte civil de solidarité, cit., p. 713 ss.; Aa. Vv., Convivenza e situazioni di fatto, in Trattato di diritto di famiglia diretto da Paolo Zatti, I, Famiglia e matrimonio, Milano, 2002, p. 803 ss.; Balestra, Un recente convegno francese sulle convivenze fuori dal matrimonio, in Familia, 2002, p. 439 ss.; Busnelli, La famiglia e l’arcipelago familiare, cit., p. 509 ss.; Caricato, La legge tedesca sulle convivenze registrate, in Familia, 2002, p. 501 ss.; del Prato, op. cit., p. 975 ss.; Marella, Il diritto di famiglia fra status e contratto: il caso delle convivenze non fondate sul matrimonio, in Aa. Vv., I contratti di convivenza, a cura di Moscati e Zoppini, Torino, 2002, p. 71 ss.; Zoppini, Tentativo d’inventario per il «nuovo» diritto di famiglia: il contratto di convivenza, in Aa. Vv., I contratti di convivenza, a cura di Moscati e Zoppini, cit., p. 26 ss.; Ferrando, Il matrimonio, cit., p. 230; Zatti, Familia, familiae – Declinazione di un’idea, in Familia, 2002, p. 9 ss., p. 337 ss.; Asprea, La famiglia di fatto in Italia e in Europa, Milano, 2003, p. 143 ss.; Sesta, Diritto di famiglia, cit., p. 347 ss.

Contra Trabucchi, Pas par cette voie s’il vous plaît!, in Riv. dir. civ., 1981, I, p. 349 ss.; Prosperi, A proposito di una recente monografia in tema di «famiglia di fatto», in Rass. dir. civ., 1984, p. 203 ss.; difficilmente valutabile è, invece, la posizione di Caravaglios, La comunione legale, Milano, 1995, p. 1246 ss., che, da un lato, sembra voler rigettare la soluzione contrattuale (peraltro identificandola tout court con la proposta dello scrivente di adozione di un regime di comunione di fonte convenzionale, proposta che dell’opzione negoziale non costituisce se non una delle molteplici, ed ampiamente illustrate, alternative) e dall’altro presenta lo schema di un articolato contratto di convivenza.

Il riferimento al ricorso agli strumenti dell’autonomia negoziale compare poi in alcuni degli interventi e delle relazioni al (e delle conclusioni del) XXXIII Congresso Nazionale del Notariato (v. Consiglio Nazionale Del Notariato, La famiglia di fatto ed i rapporti patrimoniali tra conviventi, Atti del XXXIII Congresso Nazionale del Notariato, Napoli, 29 settembre - 2 ottobre 1993, Roma, 1994, p. 102, 107, 302), similmente, del resto, a quanto già avvenuto nel corso della riunione di Oslo (18 e 19 giugno 1985) della seconda commissione di studi dell’Unione Internazionale Magistrati (su cui v. Oberto, La famiglia di fatto nel diritto comparato, cit., c. 110).

[14] Anche se, come si è cercato di dimostrare in altra sede (cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 152), non è da escludere che alcuni contratti di convivenza siano, in realtà, effettivamente giunti all’esame dei giudici, celati, però, sotto le apparenze di contratti di mantenimento vitalizio, come risulta confermato dalla presenza in talune ipotesi di un impegno, assunto dal vitaliziante, di assistere non soltanto materialmente, ma anche moralmente il vitaliziato per tutta la vita. Sul tema cfr. anche infra, § 4.

[15] Cfr. Cass., 8 giugno 1993, n. 6381, in Nuova giur. civ. comm., 1994, I, p. 339, con nota di Bernardini; per la giurisprudenza di merito cfr. Trib. Min. Reggio Calabria, 17 ottobre 1994, in Dir. fam. pers., 1995, p. 611, con nota di Gigliotti; App. Milano, 4 dicembre 1995, in Fam. e dir. 1996, p. 247, con nota di Moretti; Trib. Savona, 7 marzo 2001, in Fam. e dir., 2001, p. 529, con nota di Dogliotti.

[16] Cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 86 ss.

[17] Sul punto si fa rinvio a Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 87 ss.

[18] Cfr. Cass., 3 febbraio 1975, n. 389, in Foro it., 1975, I, c. 2301, con nota di Florino. Sottolinea la posizione di assoluta parità tra i conviventi in relazione alle obbligazioni naturali di reciproca assistenza su di essi gravanti anche Cass., 26 gennaio 1980, n. 651, in Rep. Foro it., 1980, voce Indebito, n. 6. In dottrina sottolineano il passaggio dall’aspetto risarcitorio a quello assistenziale-contributivo anche Gazzoni, Dal concubinato alla famiglia di fatto, cit., p. 134 s. e Mazzocca, op. cit., p. 101.

Questa soluzione era stata da tempo auspicata in dottrina: v. De Cupis, Il concubinato nel diritto privato, in Foro pad., 1961, III, c. 78, secondo cui «se il concubinato ha carattere di stabilità, e ancor più se è integrato da un costume di vita coniugale (more uxorio), il dovere morale non si esaurisce in quello della riparazione a favore della donna: vi è anche un più esteso dovere di reciproca assistenza, corrispondente, sul piano morale, all’obbligo giuridico dell’assistenza, esistente tra i coniugi (art. 143)». Sull’esistenza di un dovere morale di «prestare i mezzi di sussistenza alla convivente» cfr. inoltre Oppo, Adempimento e liberalità, Padova, 1947, p. 264; Id., Sulla definizione di donazione rimuneratoria, in Giur. it., 1955, I, 1, c. 872 ss.; Balbi, Liberalità e donazione, in Riv. dir. comm., 1948, I, p. 181; Gangi, Le obbligazioni, Milano, 1951, p. 98; Brusco, nota a Cass., 15 gennaio 1969, n. 60, in Foro it., 1969, I, c. 1512; Provera, Degli alimenti, nel Commentario del codice civile Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1972, p. 35 s. (che accomuna – sulla scia di App. Torino, 20 marzo 1944, in Giur. tor., 1945, p. 87 – tale obbligazione naturale a quella del patrigno di corrispondere gli alimenti alla figliastra da quello ricevuta in casa e sempre considerata alla stregua di una figlia); Piret, Le ménage de fait en droit civil belge, in Aa. Vv., Les situations de fait, Travaux de l’Association Henri Capitant pour la culture juridique française, vol. XI, Paris, 1960, p. 76 ss., 80. Contra, nel senso dell’inesistenza, a carico dei conviventi, di doveri morali di assistenza e mantenimento v. Carresi, L’obbligazione naturale nella più recente letteratura giuridica italiana, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1948, p. 555 s.; Rodiere, Le ménage de fait devant la loi française, in Les situations de fait, cit., p. 72; Torrente, La donazione, Milano, 1956, p. 199; G. Stella Richter, Aspetti civilistici del concubinato, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1965, p. 1123 s. Barassi, La famiglia legittima, Milano, 1947, p. 25, ammette l’esistenza di un’obbligazione naturale soltanto tra conviventi legati da matrimonio canonico non trascritto.

Sulla dottrina più recente circa l’applicazione dell’art. 2034 c.c. alla famiglia di fatto v. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 83 ss.; Spadafora, L’obbligazione naturale tra conviventi ed il problema della sua trasformazione in obbligazione civile attraverso lo strumento negoziale, in Aa. Vv., I contratti di convivenza, a cura di Moscati e Zoppini, cit., p. 157 ss.; Sesta, Diritto di famiglia, cit., p. 337 s. Per quanto attiene, poi, all’evoluzione giurisprudenziale successiva alle decisioni appena citate va detto che, almeno in un caso, la Corte di cassazione sembra essere andata addirittura al di là della posizione di cui s’è dato conto sopra, affermando la presenza di un’obbligazione naturale anche tra due persone legate da una semplice «relazione sentimentale» (cfr. Cass., 20 gennaio 1989, n. 285, in Arch. civ., 1989, p. 498: «Nella dazione di una somma di danaro da parte dell’uomo alla donna in occasione della cessazione della loro relazione sentimentale può ravvisarsi l’adempimento di una obbligazione naturale, con la conseguenza che la suddetta somma non può essere chiesta in restituzione, né dedotta in compensazione da parte del solvens»). Peraltro, neppure la lettura della motivazione consente di comprendere se a tale relazione affettiva si fosse accompagnata o meno una convivenza more uxorio (il richiamo della motivazione alla precedente pronunzia n. 60 del 1969 – concernente un caso di sicura convivenza more uxorio – farebbe propendere per l’affermativa; resta però il fatto che il principio è enunciato in termini assolutamente generali). Più di recente, invece, la Corte Suprema sembra essersi puramente e semplicemente… scordata dell’esistenza stessa dell’obbligazione naturale tra conviventi, risolvendo un caso di attribuzioni patrimoniali di gioielli alla stregua dei soli principi in tema di donazione (cfr. Cass., 24 novembre 1998, n. 11894, in Corr. giur., 1999, p. 54, con nota di V. Carbone). Analoghe conclusioni possono trarsi in relazione ad alcune decisioni della giurisprudenza di merito (cfr. Trib. Palermo, 3 settembre 1999, in Fam. e dir., 2000, p. 284, con nota di Ferrando; Trib. Bolzano, 20 gennaio 2000, in Giur. merito, 2000, I, p. 818). E’ da notare che, in tutti i cennati casi, proprio il richiamo al concetto di obbligazione naturale, così come elaborato dalla pronunzia del 1975, avrebbe consentito di escludere da tale nozione quelle attribuzioni patrimoniali «sproporzionate» rispetto alle «capacità di lavoro, sia professionale che casalingo» del convivente. Sui rapporti tra i concetti di obbligazione naturale, donazione e donazione remuneratoria cfr. da ultimo Balestra, Obbligazioni naturali e donazione, in Familia, 2002, p. 591 ss.; sulle relazioni tra gli istituti in esame nella particolare ipotesi delle prestazioni tra conviventi more uxorio si fa rinvio a Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 90 ss., anche per ulteriori rinvii.

[19] Sulla prospettiva, che pure non può essere sviluppata in questa sede, del ricorso a rimedi quali l’impresa familiare, il rapporto di lavoro subordinato o parasubordinato, la società di fatto, l’arricchimento ingiustificato, si fa rinvio per tutti a Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 105 ss.; Id., Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, cit., passim.

[20] Sul richiamo all’art. 1322 c.c. v., anche per i necessari rinvii, Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 151 ss.; per la dottrina successiva, in senso conforme, cfr. Angeloni, Autonomia privata e potere di disposizione nei rapporti familiari, cit., p. 509 ss.; del Prato, op. cit., p. 978 s.; per un cenno in giurisprudenza cfr. Cass., 8 giugno 1993, n. 6381, cit.; Trib. Min. Reggio Calabria, 17 ottobre 1994, cit.

[21] Sulla natura delle obbligazioni naturali in diritto romano v. per tutti Pothier, Traité des obligations, in Traités de droit civil et de jurisprudence françoise, I, Paris, 1781, p. 82 ss.; Windscheid, Lehrbuch des Pandektenrechts, II, Frankfurt a. M., 1882, p. 113; Arangio-Ruiz, Istituzioni di diritto romano, Napoli, 1974, pp. 409 ss. La giuridicità delle obbligazioni naturali in diritto romano era confermata dal fatto che quest’ultimo ne ammetteva la possibilità di garanzia tramite fideiussione, di compensazione, di novazione (v., rispettivamente, D. 46. 1. 16. 3.; D. 16. 2. 6.; D. 46. 2. 1. 1.).

[22] Cfr. Pothier, op. loc. citt.; Carnelutti, Rapporto giuridico naturale, in Scritti in memoria di E. Massari, Napoli, 1938, p. 323 ss.; Salv. Romano, Note sulle obbligazioni naturali, Firenze, 1953, p. 110 ss.; Giorgianni, Lobbligazione (la parte generale delle obbligazioni), I, Catania, 1945, p. 111 ss.

[23] D. 46. 2. 1. 1.: «Novatio est prioris debiti in aliam obligationem vel civilem vel naturalem transfusio atque translatio».

[24] Cass., 4 luglio 1938, in Foro it., 1938, I, c. 1547.

[25] Cass., 15 marzo 1943, n. 606, in Rep. Foro it., 1943-45, voce Successione, n. 28; Cass., 7 giugno 1943, n. 1391, ivi, voce Obbligazioni e contratti, n. 397; Cass., 4 febbraio 1959, n. 329, in Foro it., 1959, I, c. 354; Cass., 22 maggio 1963, n. 1351, in Foro it., 1963, I, c. 2356; Cass., 25 ottobre 1974, n. 3120, in Giur. it., 1975,I, 1, c. 2004; Cass., 29 novembre 1986, n. 7064, in Foro it., 1987, I, c. 805.

[26] Nicolo’, Esecuzione indiretta di obbligazioni naturali, in Foro it., 1939, I, c. 39; Betti, Teoria generale del negozio giuridico, Torino, 1950, p. 186 s., nota 2; Montel, Obbligazione naturale come causa di obbligazione civile, in Riv. dir. comm.,1941, II, p. 332 s.; Bianca, Obbligazione naturale e forma, in La forma degli atti nel diritto privato. Studi in onore di Michele Giorgianni, Napoli, 1988, p. 20.

[27] Invero, in un sistema come il nostro in cui la promessa unilaterale non è, di regola, fonte di obbligazioni, l’autore della dichiarazione non potrebbe certo ritenersi vincolato per il solo fatto di aver espresso una simile dichiarazione. Del resto, nemmeno gli effetti che – sul solo piano processuale – gli artt. 2735 e 1988 c.c. ricollegano, rispettivamente, alla confessione stragiudiziale e alla promessa di pagamento (o ricognizione di debito), appaiono qui applicabili, in quanto previsti in relazione a un rapporto giuridico che nella specie manca.

[28] Oppo, Adempimento indiretto di obbligazione naturale, in Riv. dir. comm., 1945, I, p. 186; Id., Adempimento e liberalità, cit., p. 360 ss.

[29] A ciò si aggiunga ancora che nel nostro sistema nulla autorizza a escludere la validità di un contratto avente a oggetto l’assunzione a livello di obbligazione civile di un rapporto di mera cortesia (si pensi, per esempio, al contratto con cui, dietro corrispettivo, la mia vicina si impegna a curare le piante di casa mia quando io sono assente): a maggior ragione, dunque, dovrà ritenersi consentita un’analoga operazione con riguardo alle obbligazioni naturali. Inoltre, la cennata interpretazione restrittiva dell’espressione «altri effetti» si giustifica anche sulla base del principio generale della libertà contrattuale, che verrebbe altrimenti compresso ove tra i predetti effetti venissero anche ricompresi quelli di origine negoziale.

[30] Ciò, almeno, stando alla teoria che attribuisce al rispetto di simili formalità l’effetto di giustificare uno spostamento patrimoniale non controbilanciato da un reciproco sacrificio (v. Sacco, Il contratto, Torino, 1975, p. 574 ss. Secondo Bianca, Obbligazione naturale e forma, cit., p. 24, il rispetto delle forme della donazione consentirebbe sempre di «novare» un’obbligazione naturale in civile, in quanto esso produrrebbe l’effetto di rendere consapevole il dichiarante che ciò che egli promette non è giuridicamente dovuto). A identiche conclusioni dovrà pervenirsi nell’ipotesi in cui il contratto prevedesse un assetto, per così dire, «sbilanciato» dei rapporti reciproci, tale da indurre a ritenere presente una causa donandi: si pensi alla corresponsione della contribuzione in misura «aggravata» a carico di uno solo dei conviventi, o alla creazione di un determinato regime degli acquisti da operarsi durante la convivenza a tutto vantaggio di uno solo dei partners.

[31] Cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 156 ss., cui si fa richiamo per ulteriori approfondimenti e rinvii.

[32] Cfr. per esempio Spadafora, L’obbligazione naturale tra conviventi ed il problema della sua trasformazione in obbligazione civile attraverso lo strumento negoziale, cit., p. 157 ss.; Id., Rapporto di convivenza more uxorio e autonomia privata, cit., p. 111 ss.; del Prato, op. cit., p. 979 s.; de Scrilli, I patti di convivenza. Considerazioni generali, in Aa. Vv., Convivenza e situazioni di fatto, in Trattato di diritto di famiglia diretto da Paolo Zatti, I, Famiglia e matrimonio, cit., p. 854 ss.; contra Angeloni, Autonomia privata e potere di disposizione nei rapporti familiari, cit., p. 528.

[33] Cass., 8 giugno 1993, n. 6381, cit.

[34] Per un’illustrazione dello sviluppo storico del tema si fa rinvio a Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 169 ss.; cfr. inoltre Id., Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, cit.

[35] Cfr. Duranton, Corso di diritto civile secondo il codice francese, ed. italiana, VI, Torino, 1843, p. 176; Demolombe, Cours de droit civil, XII, Bruxelles, 1868, p. 129; Laurent, Principes de droit civil, XVI, Bruxelles - Paris, 1878, p. 208.

[36] Come invece affermato da A. Trabucchi, Pas par cette voie sil vous plaît!, cit., p. 349.

[37] Cass., 8 giugno 1993, n. 6381, cit.

[38] Questo, dunque, e non l’incoercibilità dei doveri in discorso (secondo quanto invece sostenuto da D’Angeli, La famiglia di fatto, Milano, 1989, p. 426), costituisce il vero motivo dell’impossibilità di rendere giuridicamente rilevante l’impegno morale di fedeltà reciproca tra conviventi. Ché, altrimenti, dovrebbe ritenersi meramente «platonico» pure il dovere di fedeltà tra coniugi, coercibile, come noto, solo in via indiretta, per mezzo dell’addebito della separazione.

[39] La conclusione riceve indiretta conferma dall’art. 79 c.c., che dichiara nulla qualsiasi penale posta a garanzia di una promessa di matrimonio, nonché dal fatto che uguale sorte si ritiene comunemente ricollegata a un’analoga clausola che i coniugi dovessero prevedere a suggello di uno o più dei doveri ex art. 143 c.c. Sul tema cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 193 ss.; in senso conforme v. anche Franzoni, I contratti tra conviventi «more uxorio», cit., p. 747; Sesta, Diritto di famiglia, cit., p. 348.

[40] La tesi, proposta da chi scrive anche all’attenzione della dottrina tedesca (cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 197 s.; Id., Partnerverträge in rechtsvergleichender Sicht unter besonderer Berücksichtigung des italienischen Rechts, cit., p. 7), sembra avere riscosso consenso presso quest’ultima (cfr. Grziwotz, Partnerschaftsvertrag, für die nichteheliche Lebensgemeinschaft, cit., p. 31; per una valutazione di tale impostazione in (non meglio precisati) «termini problematici» in Italia v. Franzoni, I contratti tra conviventi «more uxorio», cit., p. 749 s.; alcuni richiami anche in Basini, Le promesse premiali, Milano, 2000, p. 40, 58 ss.; del Prato, op. cit., p. 976 s.). Si noti che, dal punto di vista storico, una precisa indicazione nel senso indicato sembra provenire anche dal diritto romano: «Titio centum relicta sunt ita, ut Maeviam uxorem, quae viduam est, ducat: conditio non remittetur; et ideo nec cautio remittenda est. Huic sententiae non refgragatur, quod si quis pecuniam promittat, si Maeviam uxorem non ducat, Praetor actionem denegat: aliud est enim eligendi matrimonii poenae metu libertatem auferri, aliud ad matrimonium certa lege invitari» (D., 35, 1, 71, 1). Per ulteriori approfondimenti sull’argomento cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, Milano, 1999, p. 605 ss.

[41] In questo senso v. Aa. Vv., Couple et modernité, 84ème congrès des notaires de France, La Baule, 29 mai - 1er juin 1988, Malesherbes, 1988, p. 409. Si noti però che la conseguenza di tale premessa è la nullità dell’intero contratto (art. 1354 c.c.): ne deriva che il mutuante è legittimato in ogni tempo a richiedere la restituzione dell’importo a titolo di indebito.

[42] Cfr. Noir-Masnata, Les effets patrimoniaux du concubinage et leur influence sur le devoir dentretien entre époux séparés, Genève, 1982, p. 58; Jeanmart, Les effets civils de la vie commune en dehors du mariage, Bruxelles, 1975, p. 215; Malaurie e Aynes, Cours de droit civil, La famille, Paris, 1987, p. 124.

[43] Significativo è il caso risolto da OLG Hamm, 24 marzo 1987, in FamRZ, 1988, p. 618. Herr K. e Frau R., conviventi more uxorio, concludono una Vereinbarung diretta a regolare la propria vita in comune, nonchè le conseguenze di un’eventuale rottura del ménage. Una delle clausole di tale accordo, redatto per iscritto, prevede testualmente che «per il caso di scioglimento del rapporto more uxorio per iniziativa di K. quest’ultimo si impegna a corrispondere a R., a titolo di indennizzo, la somma di DM 40.000. Nel caso la convivenza di protragga per dieci anni la somma verrà aumentata a DM 80.000. R. e K. concordano nel ritenere esclusa l’operatività del predetto diritto di indennizzo nel caso gli stessi contraggano matrimonio oppure se sarà R. a decidere di sciogliere il legame».

La Corte afferma la nullità di tale clausola per due distinti motivi. In primo luogo, perché il contratto è stato concluso quando Herr K. era ancora sposato: la previsione di una penale per lo scioglimento della relazione extramatrimoniale va ritenuta come sittenwidrig ai sensi del § 138 BGB, in quanto diretta a scoraggiare la riconciliazione con la moglie favorendo invece la violazione del dovere di fedeltà coniugale. La seconda ragione (di carattere assorbente, tanto da far ritenere irrilevante la circostanza del successivo divorzio di K.) è che una clausola del genere, anche in considerazione dell’entità della somma, tende allo scopo di «rendere più difficoltoso, se non addirittura impossibile, per il convenuto (K.) lo scioglimento del rapporto di fatto». Secondo i giudici, la conseguente limitazione della libertà di autodeterminazione dell’obbligato nella sfera dei suoi diritti personalissimi deve dunque essere considerata intollerabile, oltre che in contrasto con i principi fondamentali dell’ordinamento (al punto che, secondo la Corte, le conclusioni non potrebbero essere diverse neppure in relazione a una coppia coniugata).

[44] V. i casi risolti da Cass., 27 aprile 1982, n. 2629, in Arch. civ., 1982, p. 715 (relativo a un contratto di mantenimento il cui sinallagma era costituito dalla alienazione di un immobile contro «servitù, pulizia, cucinare, accudire gli animali, riscaldamento d’inverno, convivere con la vitaliziata, e provvedere, sia di giorno che di notte, a tutto quanto la stessa potesse chiedere o comandare, compagnia o cure»), da Cass., 5 gennaio 1980, n. 50, in Foro it., 1980, I, c. 1813 (concernente un vitalizio avente a oggetto la prestazione di vitto, vestiario, assistenza materiale e spirituale) e da Trib. Napoli, 14 febbraio 1974, in Dir. giur., 1975, p. 110 (in cui il vitaliziante si era impegnato a fornire «prestazioni di lavoro domestico ed assistenza diurna e notturna, con le cure e premure necessarie alla (...) tranquillità e salute» del vitaliziato). Nel senso della nullità di un impegno a convivere dedotto in un contratto di mantenimento, sotto il profilo della violazione della libertà personale, v. Calo’, Contratto di mantenimento e proprietà temporanea, nota a Cass., 11 novembre 1988, n. 6083, in Foro it., 1989, I, c. 1168.

[45] Cass., 21 gennaio 1942, n. 197, in Foro it. Rep. 1942, voce Successione legittima o testamentaria, n. 171.

[46] Cfr. De Cupis, I diritti della personalità, in Trattato di diritto civile e commerciale, già diretto da Cicu e Messineo, continuato da Mengoni, Milano, 1982, p. 223. In giurisprudenza cfr. Trib. Trani, 17 marzo 1961, in Rep. Giur. it., 1962, voce Alimenti, n. 5.

[47] Cass., 26 marzo 1983, n. 2143, in Foro it., 1983, voce Notificazione civile, n. 12.

[48] Nello stesso senso v. Kunigk, op. cit., p. 119 s.

[49] Si immagini l’impegno di uno o di entrambi i conviventi a esperire il ricorso al Capo dello Stato ex artt. 153 ss. r.d. 9 luglio 1939, n. 1238, sull’ordinamento dello stato civile, al fine assumere un cognome identico. Contraria alla validità di un impegno del genere è anche la dottrina tedesca (v. Strätz, Rechtsfragen des Konkubinats im Überblick, in FamRZ, 1980, p. 306).

[50] V. BGH, 17 aprile 1986, in FamRZ, 1986, p. 773. I conviventi avevano di comune accordo deciso di non avere figli e all’uopo la donna si era impegnata a fare uso della «pillola»; l’accordo non era però stato da quest’ultima rispettato, tanto che dalla relazione era nato un figlio, al mantenimento del quale il convivente, quale padre naturale, era stato condannato con sentenza passata in giudicato. L’uomo convenne quindi in giudizio la donna chiedendole il risarcimento danni per la violazione dell’accordo sull’uso dei mezzi contraccettivi. La Corte Suprema Federale respinse la domanda affermando la nullità di tale contratto per Sittenwidrigkeit, in quanto «lesivo della più intima sfera di libertà personale».

[51] Cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 205 ss.; in senso conforme cfr. ora anche de Scrilli, op. cit., p. 860.

[52] Cfr. Gigliotti, Rottura della convivenza more uxorio e affidamento del figlio naturale: rilevanza dell’accordo parentale sulle condizioni della «separazione», nota a Trib. Min. Reggio Calabria, 17 ottobre 1994, cit., p. 613 ss., 630.

[53] Cfr. Trib. Palermo, 18 febbraio 1987, in Dir. fam. pers., 1987, p. 760; Trib. Monza, 22 giugno 1990, in Foro pad., 1991, c. 531 (si noti che il richiamo ai «coniugi», di cui alla massima riportata sulla rivista citata, è frutto di errore: dalla motivazione si desume, infatti, che trattavasi di convivenza more uxorio); Trib. Min. Reggio Calabria, 17 ottobre 1994, cit.; App. Milano, 4 dicembre 1995, cit. Un accenno in proposito sembra essere contenuto anche nella motivazione di una pronunzia di legittimità, secondo cui «l’art. 317-bis pone alcuni criteri attributivi dell’esercizio della potestà e prevede come meramente eventuale e successivo l’intervento del giudice, costruendolo come preordinato a correggere il cattivo funzionamento dei criteri predetti ed eventualmente a stabilire regole alternative, secondo un ampio spettro di ipotesi che arriva fino alla possibilità di escludere entrambi i genitori dall’esercizio della potestà» (cfr. Cass., Sez. Un., 25 maggio 1993, n. 5847).

[54] Per concludere sull’argomento dei rapporti non patrimoniali si potrà ancora dire che preoccupazioni analoghe a quelle sopra illustrate non paiono invece assolutamente sussistere nell’ambito della dottrina di common law, ove le considerazioni di public policy non sembrano porre alcun ostacolo alla pattuizione di clausole regolanti aspetti di carattere strettamente personale, quali:

a) obbligo di fissazione della residenza in comune (o di mutare l’attuale residenza comune); eventuale previsione di una «residenza alternata» per determinati periodi di tempo;

b) termini di durata del rapporto, identificati con una data ben precisa, ovvero con un certo avvenimento che funge, per così dire, da condizione risolutiva (per esempio: conviveremo almeno sin tanto che mi sarò laureato in giurisprudenza, o finché i figli avranno terminato le scuole);

c) relazioni personali o interpersonali, dal cognome che ciascuno dei partners assumerà, alla fedeltà, all’«apertura» della coppia a terzi, all’uso di sistemi per il controllo delle nascite, all’impegno ad adottare uno o più figli;

d) fissazione degli scopi della relazione, aspirazioni dei conviventi, priorità di carriera, impegni di carattere sociale e a beneficio di determinate comunità, scelta della confessione religiosa da seguire e dell’insegnamento da impartire ai figli (v. Weitzman, Legal Regulation of Marriage, cit., p. 1250 ss.; l’unico impegno che l’autore individua come contrario all’ordine pubblico, sulla base di alcuni precedenti giurisprudenziali, è quello dei conviventi di non sposarsi, tra di loro così come con terze persone).

[55] Sul punto, per i necessari approfondimenti, cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 241 ss.; per la dottrina successiva cfr. Franzoni, I contratti tra conviventi «more uxorio», cit., p. 752 ss.; del Prato, op. cit., p. 982 ss.; Oberto, Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, cit.

[56] Sul punto v. Verheyden-Jeanmart, Le developpement de la famille de fait - Aspectes socio-juridiques - La situation en droit belge, in AA. VV., Una legislazione per la famiglia di fatto?, Napoli, 1988, p. 65, secondo cui ben può formare oggetto dei contratti in esame l’«obligation de secours et de contribution aux charges du ménage de fait pendant l’union et après sa rupture». Cfr. inoltre il cosiddetto «modello di Leida», redatto sotto la direzione del prof. Van Mourik da un gruppo di studenti dell’Università di quella città (in Aa. Vv., Couple et modernité, cit., p. 520 ss.), che all’art. 3, comma primo, prevede una contribuzione dei conviventi in parti uguali o in misura proporzionale ai rispettivi redditi, con specificazione, al comma secondo, di quelle spese cui entrambi sono tenuti a contribuire come effettuate nel cadre du ménage commun, quali l’acquisto di generi alimentari, vestiti, elettrodomestici, mobilio, telefono, ecc. Si veda infine anche la formula elaborata dalla Direction de la recherche et de linformation de la Chambre des notaires du Québec., in Aa. Vv., Couple et modernité, cit., p. 514 ss., che prevede la fissazione delle modalità della contribution aux charges du ménage, in proporzione alle proprie rispettive facoltà, ovvero con specificazione delle rispettive misure.

[57] Cfr. Steinert, Vermögensrechtliche Fragen während des Zusammenlebens und nach Trennung Nichtverheirateter, in NJW, 1986, p. 685.

[58] Cfr. Mazzocca, op. cit., p. 92; cfr. inoltre Gazzoni, Dal concubinato alla famiglia di fatto, cit., p. 165.

[59] E’ il suggerimento di CALO’, Contratto di mantenimento e proprietà temporanea, cit., c. 1171.

[60] V. per tutti Calo’, Contratto di mantenimento e proprietà temporanea, cit., c. 1165; Andreoli, La rendita vitalizia, in Trattato di diritto civile diretto da Vassalli, Torino, 1958, VIII,, p. 47 ss. Per un caso di contratto di mantenimento tra conviventi in Germa­nia v. BGH, 29 giugno 1973, in NJW, 1973, p. 1645, che ha affermato la validità di un accordo con cui un uomo aveva trasferito alla propria convivente la proprietà di un immobile, riservandosi il diritto vitalizio d’abitazione sullo stesso, in cambio dell’im­pegno della convivente di assisterlo e curarlo per il resto dei suoi giorni (nella specie la Sittenwidrigkeit è stata esclusa perché il negozio non appariva direttamente rivolto a remunerare le prestazioni sessuali della convivente, tenuto conto, da un lato, della durata del rapporto e, dall’altro, che l’onere della prova dell’immoralità gravava sull’attore).

[61] Tali prestazioni accessorie possono avere natura patrimoniale (v. per esempio il caso risolto da Cass., 11 novembre 1988, n. 6083, cit., in cui il vitaliziante si era impegnato verso il vitaliziato ad effettuarne «il trasporto in macchina in città italiane, della Francia o della Svizzera» e a «ospitare parenti ed amici del vitaliziato in caso di malattia»), ma anche non patrimoniale (si pensi all’impegno di prestare assistenza morale, o compagnia ovvero, ancora, di convivere con il vitaliziato), sulle quali ultime si addensano però i dubbi di validità già prospettati, tanto con riferimento alla possibilità per tali prestazioni di formare oggetto di rapporto obbligatorio e di contratto, ex artt. 1174, 1321 c.c., quanto, soprattutto, con riguardo agli aspetti d’ordine pubblico per l’eventuale lesione della libertà personale del vitaliziante (v. i casi riportati supra, nota 44).

[62] Per i richiami cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 242 ss.

[63] Si tratterebbe in particolare di donazione di prestazioni periodiche, ai sensi dell’art. 772 c.c. Nel senso che tra le prestazioni di cui alla norma citata possono rientrare «quelle che hanno funzione alimentare, di beneficenza o di soccorso» v. Carnevali, Gli atti di liberalità e la donazione contrattuale, in Trattato di diritto privato diretto da P. Rescigno, VI, Torino, 1982, p. 468.

[64] Si pensi alla casa d’abitazione e al relativo arredo, all’automobile, ecc. In relazione alla casa di abitazione è stato proposto di prevedere, nell’ipotesi l’immobile sia di proprietà di uno solo, l’obbligo per l’altro di corrispondere una somma per l’uso del bene (v. il «modello di Leida», cit., art. 4, comma primo). L’operazione finirebbe però con l’assoggettare il rapporto alla disciplina della locazione, a nulla potendo giovare l’esplicita esclusione di tale effetto (pure suggerita dal «modello» cit. : v. art. 4, comma terzo).

[65] Con l’ovvia precisazione che «riproduzione» non significa meccanica trasposizione degli istituti del diritto matrimoniale, bensì creazione, per mezzo di un contratto e per quanto possibile, di effetti analoghi. In quest’ottica v. già Funaioli, Sui rapporti patrimoniali della convivenza «more uxorio», in Riv. dir. comm., 1941, II, p. 213 s.; contra Tedeschi, Il regime patrimoniale della famiglia, Torino, 1963, p. 4, secondo cui le particolarità proprie dei regimi matrimoniali non potrebbero essere in alcun modo riprodotte nell’ambito di una convivenza more uxorio.

[66] Su cui v. per tutti Corsi, Il regime patrimoniale della famiglia, in Trattato di diritto civile e commerciale, già diretto da Cicu e Messineo e continuato da Mengoni, I, 1, Milano, 1979, p. 72.

[67] Cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 262 ss., 268 ss.

[68] Cfr. de Scrilli, op. cit., p. 863.

[69] Le gravi incertezze interpretative cui ha dato luogo la norma citata circa l’individuazione dell’oggetto della comunione legale sconsigliano in ogni caso il riferimento ad un concetto generico come quello di «acquisto». Sarà invece opportuno indicare quali siano i diritti destinati a cadere in comunione, specificandone la natura (se cioè reale o obbligatoria) e distinguendo a seconda del modo d’acquisto (se cioè a titolo originario, derivativo, mortis causa, ecc.). E’ comunque consigliabile elencare con esattezza anche quelle categorie di rapporti che, in considerazione della loro natura personale, è opportuno restino esclusi dalla comunione.

[70] «Meccanismo analogo a quello di cui all’art. 1706 c.c. » (cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 265 ss.; cfr. poi anche Franzoni, I contratti tra conviventi «more uxorio», cit., p. 755; Sesta, Diritto di famiglia, cit., p. 348 s.) non significa, ovviamente, che il negozio di cui si discute abbia natura di mandato senza rappresentanza, secondo l’equivoco (voluto?) su cui si basano i rilievi di del Prato, op. cit., p. 985, ad avviso del quale lo schema di riferimento sarebbe quello del contratto preliminare. Sul punto sarà appena il caso di rilevare come un contratto preliminare, per effetto della disposizione di cui all’art. 1351 c.c., non possa concepirsi se non in relazione ad un definitivo che sia predeterminato per ciò che attiene non solo ai soggetti, ma anche all’oggetto; si tratta, dunque, di una situazione non riscontrabile nel caso di specie.

[71] Elaborata, come noto, dalla giurisprudenza di legittimità in tema di fideiussione omnibus (su cui v. ex multis Cass., 20 luglio 1989, n. 3386, in Foro it., 1989, I, c. 3100).

[72] Per non dire poi del fatto che, in assenza della specificazione dei beni oggetto dei negozi da trascrivere, non sarebbe neppure indivi­duabile la conservatoria territorialmente competente.

[73] Sul fatto che la quota di pertinenza di ciascun coniuge in regime di comunione legale possa essere liberamente alienata v. Schlesinger, Della comunione legale, nel Commentario alla riforma del diritto di famiglia a cura di Carraro - Oppo - Trabucchi, I, 1, Padova, 1977, p. 365 s.; Busnelli, La «comunione legale» nel diritto di famiglia riformato, in Riv. notar., 1976, I, p. 42.

[74] Alla trascrivibilità del patto previsto dall’art. 1379 c.c. si oppongono non soltanto il carattere speciale di questa disposizione, ma anche la tassatività delle ipotesi in cui la pubblicità ex artt. 2643 ss. c.c. è consentita (su quest’ultimo argomento cfr. Cass., 18 febbraio 1963, n. 392, in Giust. civ., 1963, I, p. 249 e in Riv. notar., 1963, II, p. 340, nonchè Cass., 13 maggio 1982, n. 3001, in Giust. civ., 1982, I, p. 2697 e in Giur. it., 1982, I, 1, c. 1132, sulla non trascrivibilità del patto di prelazione).

[75] Per alcuni esempi v. la formula della Direction de la recherche et de linformation de la Chambre des notaires du Québec (in Aa. Vv., Couple et modernité, cit., p. 516 ss.); cfr. inoltre Weitzman, Legal Regulation of Marriage, cit., p. 1251.

[76] Cfr. la formula della Direction de la recherche et de linformation de la Chambre des notaires du Québec (in Aa. Vv., Couple et modernité, cit., p. 514), nonchè il cosiddetto «modello di Leida», redatto sotto la direzione del prof. Van Mourik da un gruppo di studenti dell’Università di quella città (ivi, p. 524).

[77] Per la negativa v. Cass., 18 gennaio 1968, n. 128, in Rep. Foro it., 1968, voce Servitù, n. 64; Cass., 31 marzo 1971, n. 936, in Giust. civ. 1971, I, 1063; Cass., 6 aprile 1971, n. 1017, in Giur. it., 1972, I, 1, c. 381. Per la dottrina cfr. Scognamiglio, Riconoscimento di proprietà contenuto in un testamento, in Giur. compl. cass. civ., 1951, p. 31 ss.

[78] Secondo quanto suggerito dalla formula della Direction de la recherche et de linformation de la Chambre des notaires du Québec (in Aa. Vv., Couple et modernité, cit., p. 519) e dal «modello di Leida» (cfr. art. 6, comma primo, ivi, p. 523).

[79] Cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 558 ss. (ove si parla di ricorso al regime di separazione dei beni in contemplation of divorce); per analoghe considerazioni v. Sesta, Titolarità e prova della proprietà nel regime di separazione dei beni, in Familia, 2001, p. 871 ss.

[80] La formula predisposta dalla Direction de la recherche et de l’information de la Chambre des notaires du Québec (in Aa. Vv., Couple et modernité, cit., p. 514) prevede invece, in alternativa rispetto ad una convenzione «comunitaria», anche una di tipo «autonomista», nella quale si stabilisce espressamente che ciascuno dei conviventi conservi la proprietà e la libera disponibilità dei propri beni.

[81] Come suggerito dal «modello di Leida» (in Aa. Vv., Couple et modernité, cit., p. 520), nonchè da Langenfeld, Die nichteheliche Lebensgemeinschaft, cit., p. 927 s. (non solo, si badi, per il Partnerschaftsvertrag der Ehe auf Probe, bensì anche per il modello proposto a coloro che intendono la convivenza come un’alternativa definitiva rispetto al matrimonio).

[82] Sul tema, anche per la confutazione di alcune critiche mosse allo scrivente, cfr. Oberto, Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, cit.

[83] Sul tema cfr. per tutti Corsi, op. cit., II, p. 83 ss.; Oberto, Famiglia e rapporti patrimoniali. Questioni d’attualità, Milano, 2002, p. 271 ss.

[84] Per una dettagliata illustrazione dei precedenti cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 130 ss.; Id., Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, cit.

[85] Sul tema cfr. ex multis Lupoi, Il trust nell’ordinamento giuridico italiano dopo la convenzione dell’ Aja del 10 luglio 1985, in Vita notarile, 1992, p. 966 ss.; Id., Effects of the Hague Convention in a Civil Law Country - Effetti della Convenzione dell’Aja in un Paese civilista, in Vita notarile, 1998, p. 19 ss.; Moja, Trusts «interni» e società di capitali: un primo caso, Nota a Trib. Genova, 24 marzo 1997, in Giur. comm., 1998, p. 764 ss.; Ragazzini, Trust «interno» e ordinamento giuridico italiano, in Riv. notar., 1999, p. 279 ss.; Palermo, Sulla riconducibilità del «trust interno» alle categorie civilistiche, in Riv. dir. comm., 2000, p. 133 ss.; Pascucci, Rifiuto di iscrizione nel registro delle imprese di atto istitutivo di trust interno, Nota a Trib. Santa Maria Capua Vetere, 1 marzo 1999 - Trib. Santa Maria Capua Vetere, 14 luglio 1999, in Riv. dir. impresa, 2000, p. 121 ss.; Gazzoni, Tentativo dell’impossibile (osservazioni di un giurista «non vivente» su trust e trascrizione), in Riv. notar., 2001, p. 11 ss.; Lupoi, Lettera a un notaio conoscitore dei trust, in Riv. notar., 2001, p. 1159 ss.

[86] Su cui cfr. per tutti Oberto, Famiglia e rapporti patrimoniali. Questioni d’attualità, cit., p. 172 ss.

[87] Per una panoramica delle questioni relative all’impiego del trust nell’ambito delle relazioni giuridiche familiari cfr. per tutti F. Patti, I trusts: problematiche connesse all’attività notarile, in Vita notarile, 2001, p. 525 ss.

[88] Sempre in materia di istituti familiari o para-familiari, va detto che la pattuizione di un regime analogo a quello dell’impresa familiare non sembra ammissibile. Invero, l’assunzione per via contrattuale dell’impegno a prestare la propria collaborazione continuativa in cambio dei diritti previsti dall’art. 230-bis c.c. non sembra sfuggire agli schemi (variamente applicabili, a seconda della concreta strutturazione dell’accordo) del lavoro subordinato, dell’associazione in partecipazione o della società. D’altro canto, non può negarsi che, se tra le parti esiste una volontà diretta a formalizzare in qualche modo la partecipazione del convivente «debole» all’impresa gestita dall’altro, sia più logica la costituzione di una società, nella quale la posizione del primo potrebbe essere meglio tutelata mediante la fissazione di una quota certa di partecipazione.

[89] Cfr. Gazzoni, Dal concubinato alla famiglia di fatto, cit., p. 165; Schwab, Zivilrecht und nichteheliche Lebensgemeinschaft, in Die nichtheliche Lebensgemeinschaft, Herausgegeben im Auftrag der Joachim Jungius-Gesellschaft der Wissenschaften von Götz Landwehr, Göttingen, 1978, p. 67; Alt-Maes, La situation de la concubine et de la femme mariée dans le droit français, in Rev. trim. dr. civ., 1983, p. 641 ss.; cfr. inoltre la formula della Direction de la recherche et de linformation de la Chambre des notaires du Québec (in Aa. Vv., Couple et modernité, cit., p. 519, che prevede non solo la fissazione di un vero e proprio «assegno», ma anche la specificazione delle concrete modalità di somministrazione dello stesso, le relative scadenze, nonchè la rivalutabilità secondo indici prefissati). Consiglia la previsione di «termination fees, lump sums or periodic payments provi­sions for support of partner, children or parents» anche Weitz­man, Legal Regulation of Marriage, cit., p. 1253. Contra Trabucchi, Pas par cette voie sil vous plaît!, cit., p. 350.

[90] Questo pare essere anche il criterio seguito in Francia dalla dottrina e dalla giurisprudenza, che ritengono valida una pattuizione del genere allorquando è diretta al fine di «prémunir la concubine contre la misère après une vie commune de longue durée et présentant un caractère de stabilité» (v. Malaurie e Aynes, op. cit., p. 128 s.; Cass. Civ., 6 ottobre 1959, in D., 1960, p. 515, con nota di Malaurie).

[91] Schwab, op. cit., p. 67.

[92] Sul carattere eccezionale di tali rimedi v. per tutti Vincenzi Amato, Gli alimenti, in Trattato di diritto privato diretto da P. Rescigno, IV, Torino, 1982, p. 883.

[93] Assolutamente da evitare appaiono invece tutte quelle clausole dirette a rimettere misura e modalità di versamento di un’eventuale «in­dennità di rottura» al comune accordo delle parti, come pure suggerito dalla formula della Direction de la recherche et de linformation de la Chambre des notaires du Québec (in Aa. Vv., Couple et modernité, cit., p. 519), atteso che, almeno il più delle volte, al momento della cessazione del ménage deve senz’altro presumersi che i rapporti tra le parti si siano a tal punto deteriorati da non consentire di raggiungere un consenso neppure su tali aspetti.

[94] Inutile dire che, delle due possibilità, è la prima a fornire il maggior numero di garanzie per il convivente nei confronti del quale un simile diritto viene pattuito. Invero, il carattere reale dell’istituto disciplinato dagli artt. 1022 ss. ne determina l’opponibilità nei confronti dei terzi, anche se l’effetto è legato alla trascrizione del relativo titolo (v. art. 2643, n. 4, c.c.). D’altro canto, un comodato del genere di quello descritto, in difetto di fissazione di un termine per la restituzione, darebbe luogo a notevoli incertezze in ordine all’individuazione del momento di cessazione, ex art. 1809, primo comma, c.c., ed esporrebbe comunque il comodatario al rischio di una richiesta di restituzione per effetto di un urgente ed impreveduto bisogno del comodante, ai sensi dell’art. 1809 cpv., c.c.

[95] «Nel silenzio dell’art. 6 della legge n. 392 del 1978, in caso di separazione coniugale ovvero di cessazione della convivenza more uxorio con presenza di prole naturale, nell’ipotesi di accordo tra i coniugi o tra gli ex-conviventi, il subingresso nel contratto di locazione si verifica in modo del tutto automatico, indipendentemente dalla comunicazione o comunque dalla conoscenza che di tale situazione abbia il locatore» (cfr. Pret. Pordenone, 23 dicembre 1998, in Arch. locaz. cond., 1999, 846). Sulla questione dell’applicabilità alla fattispecie in esame della sentenza Corte cost., 7 aprile 1988, n. 404, v. Oberto, I contratti della crisi coniugale, cit., II, p. 928 ss.

[96] Come suggerito dal «modello di Leida» (v. art. 7, comma secondo, in AA. VV., Couple et modernité, cit., p. 523).

[97] Falzea, Problemi attuali della famiglia di fatto, in Aa. Vv., Una legislazione per la famiglia di fatto?, cit., p. 52; contra D’Angeli, La famiglia di fatto, cit., p. 423. Anche in Francia è rimasta isolata l’opinione secondo cui il giudice, valutando il comportamento delle parti, potrebbe ritenere l’esistenza di un «contrat tacite d’aide et d’assistance mutuelle», che obbligherebbe i conviventi «tant pendant l’union que après la rupture à subvenir aux besoins éventuels du partenaire» (v. Ganancia, Droits et obligations résultant du concubinage, in Gaz. Pal., 1981, Doctrine, p. 19).

[98] Più precisamente, le trattazioni sogliono distinguere tra express, implied-in-fact e implied-in-law contracts, specificando che solo i primi due possono veramente definirsi contratti, mentre il terzo, appartenente alla categoria dei quasi-contracts, viene ritenuto come una vera e propria finzione, creata dai giudici «to enforce legal duties by actions of contract where no proper contract exists, either express, or implied»: si tratta dunque di un espediente per impedire l’ingiustificato arricchimento di una delle parti a danno dell’altra. La linea di demarcazione tra le due ultime categorie è però assai labile: essa dovrebbe infatti basarsi sulla presenza o sull’assenza di un impegno negoziale manifestato per fatti concludenti, non differenziandosi il contratto implied-in-fact dall’express contract se non per il fatto che la prova della sua esistenza viene raggiunta in via presuntiva (v. Kessler, Gilmore e Kronmann, Contracts, Cases and Materials, Boston-Toronto, 1986, p. 141, secondo cui «It requires an agreement, a meeting of the minds, an intent to promise and to be bound; it does not differ from an express contract, except that it is circumstantially proved»). In realtà, un’analisi della giurisprudenza mostra come entrambi i rimedi siano indifferentemente usati per attribuire in via equitativa al convivente che abbia prestato per anni la propria attività gratuitamente a beneficio dell’altro una sorta di controprestazione costituita dal diritto di partecipare agli incrementi patrimoniali conseguiti da quest’ultimo.

[99] Marvin v. Marvin, 18 Cal. 3d 660, 134 Cal. Rptr. 815, 557 P.2d 106 (1976); per approfondimenti e considerazioni sul precedente v. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 216 ss.

[100] Cfr. Woodward, The Law of Quasi Contracts, Boston, 1913, p. 6; Jackson, The History of Quasi-contract in English Law, Cambridge, 1936, p. 128; Munkman, Quasi-contracts, London, 1950, p. 3. Per gli ulteriori richiami v. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 222 ss.

[101] V. per tutti Steinert, op. cit., p. 687; Schlüter e Belling, Die nichteheliche Lebensgemeinschaft und ihre vermögensrechtliche Abwicklung, in FamRZ 1986, p. 409; Diederichsen, Rechtsprobleme der nichtehelichen Lebensge­meinschaft, in FamRZ, 1988, , p. 894. Dal canto suo anche il BGH esclude che nella convivenza more uxorio l’intento di dar vita a rapporti di natura giuridica costituisca la regola: ne consegue che (mangels besonderer Vereinbarung) non appare possibile ricavare dal comportamento dei conviventi la prova della conclusione di un contratto (nel caso di specie parte attrice sosteneva la conclusione di un mandato avente ad oggetto la conclusione di una serie di contratti d’appalto con imprese edili al fine di ristrutturare la casa della convivente e trasformarla in Gastwirtschaft: v. BGH, 3 ottobre 1983, in FamRZ, 1983, p. 1213; allo stesso ordine d’idee può ascriversi BGH, 23 febbraio 1981, in FamRZ, 1981, p. 530). Cfr. inoltre LG Aachen, 30 settembre 1987, ivi, 1987, p. 717, che ha escluso la configurabilità di un tacito Kooperationsvertrag sulla base della semplice situazione di convivenza tra le parti. Identiche sono le conclusioni cui pervengono la dottrina e la giurisprudenza francesi che si sono occupate del problema non tanto sotto il profilo del contratto di convivenza, bensì sotto quello del mutuo e del mandato tra concubins (analogamente, come si è appena visto, ad alcune delle situazioni sottoposte all’esame dei giudici tedeschi), pretendendo sempre la presenza di un chiaro accordo negoziale: v. Prothais, Dettes ménagères des concubins: solidaires, in solidum, indivisibles ou conjointes? (après larrêt Civ. 1re, 11 janv. 1984), in D., 1987, Chr. XLII, p. 242; Cass. Civ., 20 maggio 1981, in D., 1983, p. 289; Cass. Civ., 10 ottobre 1984, in Gaz. Pal., 1985, 1, p. 186; Cass. Civ., 4 dicembre 1984, in Rev. trim. dr. civ., 1985, p. 733.

[102] Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 222 ss.

[103] Cfr. Grziwotz, Nichteheliche Lebensgemeinschaft, München, 1999, p. 62.

[104] Dello stesso avviso sono Gazzoni, Dal concubinato alla famiglia di fatto, cit., p. 162 s.; Schwab, op. cit., p. 66 ss.

[105] Affermano che il negotium mixtum cum donatione configura una donazione indiretta Torrente, La donazione, Milano, 1956, p. 43 ss.; Cass., 23 gennaio 1967, n. 203, in Giust. civ., 1967, I, p. 490. Contra Carnevali, Gli atti di liberalità e la donazione contrattuale, cit., p. 449.

[106] Così come di un pagamento o di una remissione di debito (cfr. artt. 2726 c.c.).

[107] In questo senso v. Santilli, Note critiche in tema di famiglia di fatto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1980, p. 803; in giurisprudenza cfr. Cass., 12 luglio 1929, in Foro it., 1930, I, c. 96. Per la Francia v. Malaurie e Aynes, op. cit., p. 135; Cass. Civ., 25 marzo 1969, in Bull. civ., 1969, I, n. 124, p. 97; Cass. Civ., 28 maggio 1975, in Bull. civ., 1975, I, n. 181, p. 153; Cass. Civ., 10 ottobre 1984, in Gaz. Pal., 1985, p. 186; App. Paris, 28 febbraio 1966, in Gaz. Pal., in D., 1966, Som., p. 106.

[108] Per l’esercizio del quale potrebbe prevedersi, a mezzo di apposita clausola, il necessario rispetto della forma scritta (per evidenti fini di carattere probatorio).

[109] V. per esempio il «modello di Leida», art. 8, comma primo (in Aa.Vv., Couple et modernité, cit., p. 524) e la formula della Direction de la recherche et de linformation de la Chambre des notaires du Québec (ivi, p. 519).

[110] Cfr. Weitzman, Legal Regulation of Marriage, cit., p. 1249 s.; Gray, Cohabitation Contract, in New Law Journal, 1973, p. 591 (che propone la seguente clausola: «Either party may terminate this agreement by notice of three months, such notice to be in writing in the form set out in the schedule hereto and served on the other party in person»).

[111] Al riguardo si tenga presente che, trattandosi di rapporto di durata, dovrebbe trovare applicazione l’art. 1458 c.c.

[112] In alternativa, è ipotizzabile l’apposizione di una condizione risolutiva, legata alla cessazione (per qualunque causa) della convivenza. Una simile clausola è stata già ritenuta dalla giurisprudenza compatibile con la struttura del contratto vitalizio (v. Cass., 10 gennaio 1966, n. 186, in Giur. it. 1966, I, 1, c. 1635; cfr. Calo’, Profili di interesse notarile della famiglia di fatto, cit., p. 89).

[113] Secondo le proposte del «modello di Leida» (v. art. 9, in Aa. Vv., Couple et modernité, cit., p. 524, che individua la persona dell’arbitro nello stesso notaio rogante, o nel suo successore) e di Weitzman, Legal Regulation of Marriage, cit., p. 1253.

[114] Per una più approfondita disamina della questione cfr. già Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 139 ss. In senso conforme v. Derleder, Vermögenskonflikte zwischen Lebensgefährten bei Auflösung ihrer Gemeinschaft, in NJW, 1980, p. 548, il quale nota come «mit der Auflösung der ehelosen Verbindung sehr viel eher gerechnet werden muß, als Ehegatten mit der Eheauflösung rechnen müssen». Anche del Prato, op. cit., p. 978, sembra voler contestare l’applicabilità del rimedio in esame alla convivenza more uxorio. Contra Trib. Savona, 7 marzo 2001, in Fam. e dir., 2001, p. 529, con nota di Dogliotti, che, in relazione ad un contratto di usufrutto vitalizio su di un immobile, esclusa la natura donativa dell’attribuzione, ha ammesso (peraltro solo in obiter) la possibilità per il nudo proprietario di far valere la presupposizione, con conseguente risoluzione del contratto, una volta venuta meno la convivenza. Per una critica della decisione v. Oberto, Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, cit.

[115] Per un’approfondita disamina della questione e per i necessari rinvii cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 290 ss.

[116] Suggerisce, tra gli altri, l’inclusione di un Erbvertrag nel contratto tra i conviventi Kunigk, op. cit., p. 128. Per i sistemi di common law v. Weitzman, Legal regulation of marriage, cit., p. 1253. Per una più approfondita disamina della questione e per i necessari rinvii cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 295 ss.; per la dottrina successiva cfr. del Prato, op. cit., p. 986 s.

[117] Gazzoni, Dal concubinato alla famiglia di fatto, cit., p. 165. E’ chiaro che ci si intende qui riferire ai soli patti successori istitutivi (detti anche confermativi), ex art. 458, prima parte, c.c.

[118] Cfr. per tutti Ferri, Successioni in generale, nel Commentario del codice civile Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1964, p. 83 ss.; Grosso e Burdese, Le successioni. Parte generale, Torino, 1977, p. 94; De Giorgi, voce Patto successorio, in Enc. dir., XXXII, Milano, 1982, p. 535. Nello stesso senso è orientata la giurisprudenza: v. Cass., 10 aprile 1964, n. 835, in Giust. civ., 1964, I, p. 1604; Cass., 24 luglio 1971 n. 2477, in Rep. Foro it., 1971, voce Successione ereditaria, n. 31; Cass., 21 aprile 1979, n. 2228, in Rep. Foro it., 1979, voce Successione ereditaria, n. 55.

[119] Cass., 10 aprile 1964, n. 835, cit.; cfr. anche Cass., 8 marzo 1985, n. 1896, in Rep. Foro it., 1985, voce Lavoro (rapporto), 1985, n. 496. Nello stesso senso v. in dottrina De Giorgi, voce Patto successorio, cit., p. 542 s.; Palazzo, I negozi trans-morte nellambito familiare, in AA. VV., I trasferimenti patrimoniali nellambi­to della famiglia. Aspetti civili e tributari. Convegno organiz­zato dal comitato Regionale Notarile della Sicilia Taormina 20 e 21 novembre 1987, Palermo, 1987, p. 95 s.

[120] Cass., 6 gennaio 1981, n. 63, in Rep. Foro it., 1981, voce Successione ereditaria, n. 20.

[121] De Giorgi, voce Patto successorio, cit., p. 547. In giurisprudenza v. Cass., 22 febbraio 1974, n. 527, in Rep. Foro it., 1974, voce Successione ereditaria, n. 20.

[122] Diversa è la posizione di Palazzo, Autonomia contrattuale e successioni anomale, Napoli, 1983, p. 3 e passim, secondo cui l’interesse che giustificherebbe la conclusione dei patti successori sarebbe rivolto a realizzare trasferimenti soggetti ad una qualche forma di revoca da parte del disponente. Sembra invece che, almeno nella maggior parte dei casi, il desiderio di colui che intende disciplinare la propria successione con un atto inter vivos – specie se in favore di una persona cui il disponente è legato da speciali vincoli di carattere affettivo – sia quello non già di lasciarsi aperto uno spiraglio per un eventuale pentimento, bensì di operare un trasferimento dotato della definitività, anche se non immediatamente efficace.

[123] Cfr. Giannattasio, Delle successioni. Disposizioni generali. Successioni legittime, in Commentario Utet, Torino, 1971, p. 21; De Giorgi, voce Patto successorio, cit., p. 535; cfr. anche Cass., 22 luglio 1971, n. 2404, in Foro it., 1972, I, c. 700.

[124] Cfr. De Giorgi, voce Patto successorio, cit., p. 536; Palazzo, Autonomia contrattuale e successioni anomale, cit., p. 50 ss.; Id., I negozi trans-morte nellambito familiare, cit., p. 79 ss.

[125] De Giorgi, voce Patto successorio, cit., p. 536 s.; Cass., 9 aprile 1947, n. 526, in Mon. trib., 1947, p. 143; Cass., 27 settembre 1954, n. 3136, in Giust. civ., 1955, I, p. 244. Suggerisce un’applicazione della donazione con riserva di usufrutto al campo dei rapporti tra conviventi more uxorio Mazzocca, op. cit., p. 114 ss.

[126] Torrente, Variazioni sul tema della donazione «mortis causa», in Foro it., 1959, I, c. 580; De Giorgi, voce Patto successorio, cit., p. 536 ss.

[127] Invero, la semplice costituzione di un’aspettativa di diritto a beneficio del donatario non sembra discostarsi di molto da quello che è l’effetto tipico del fenomeno successorio, vale a dire il trasferimento di un diritto per effetto del decesso di un soggetto: risulterebbe così evidente quell’identità di «risultati giuridici» che (a differenza della semplice identità di «risultati economici») determina l’illiceità della causa ex art. 1344 c.c. (v. Scognamiglio, Dei contratti in generale, nel Commentario del codice civile Scialoja-Branca, Bologna - Roma, 1970, p. 345; nel senso della nullità per fraus legi sembrano orientati anche De Giorgi, voce Patto successorio, cit., p. 536 ss. e Ieva, I fenomeni c.d. parasuccessori, in Riv. notar., 1988, I, p. 1190 s.).

[128] De Giorgi, voce Patto successorio, cit., p. 538 ss.; Palazzo, Autonomia contrattuale e successioni anomale, cit., p. 76 ss; Id., I negozi trans-morte nellambito familiare, cit., p. 92 ss.; Ieva, I fenomeni c.d. parasuccessori, cit., p. 1149 ss.; cfr. inoltre Majello, Linteresse dello stipu­lante nel contratto a favore di terzi, Napoli, 1962, p. 201 s.; Moscarini, I negozi a favore di terzo, Milano, 1970, p. 219 s.

[129] In questo senso v. Kunigk, op.cit., p. 128.

[130] Sull’argomento cfr. Palazzo, I negozi trans-morte nellambito familiare, cit., p. 93; Ieva, I fenomeni c.d. parasuccessori, cit., p. 1155.

[131] Nel caso di assicurazione sulla vita a favore del convivente superstite, poi, la rinunzia del contraente e la dichiarazione del beneficiario vanno comunicate all’assicuratore (cfr. art. 1921, comma secondo, c.c.).

[132] Palazzo, Autonomia contrattuale e successioni anomale, cit., p. 95; Id., I negozi trans-morte nellambito familiare, cit., p. 96 ss.

[133] Sempre nell’ambito delle disposizioni a favore di terzo potrebbe ancora suggerirsi la costituzione di un deposito bancario con intestazione del libretto di risparmio nominativo al terzo, ma con riserva in capo al solo costituente della facoltà di effettuare prelevamenti, e con conferimento del diritto di prelievo all’intestatario sospensivamente subordinato alla morte del primo: il marchingegno è già uscito indenne da almeno un vaglio giurisprudenziale (v. Trib. Catania, 5 marzo 1958, in Banca, borsa, 1961, II, p. 311, con nota di Majello, Il deposito nellinteresse del terzo, che ha negato che l’espediente possa ritenersi in violazione del divieto dei patti successori; sull’argomento cfr. anche Nicolo’, Disposizioni di beni «mortis causa» in forma «indiretta», in Riv. notar., 1967, I, p. 641 ss., secondo cui invece la pattuizione in esame sarebbe nulla per frode alla legge).

[134] Cfr. Cass. ch. mixte, 27 novembre 1970, in D., 1971, p. 81; Cass. Civ., 11 gennaio 1983, ivi, 1983, p. 501; Aa. Vv., Couple et moder­nité, cit., p. 403 ss.; Morin, La clause daccroissement, in D., 1971, Chron., p. 55 ss. In Italia l’unico precedente in termini sembra costituito da Cass., 18 agosto 1986, n. 5079, in Rep. Foro it., 1986, voce Successione ereditaria, n. 33, che ha ricondotto alla figura del patto successorio vietato «l’atto con il quale due soggetti comprino in comune la proprietà di un immobile, contestualmente pattuendo che la quota ideale di comproprietà da ciascuno acquistata debba successivamente pervenire a chi di essi sopravviva, in quanto quest’ultimo acquista l’altra quota non dall’originario venditore che l’aveva già alienata al soggetto premorto, ma direttamente dal medesimo, al di fuori delle prescritte forme di successione mortis causa». Dalla lettura della massima non è dato evincere se il trasferimento post mortem della quota fosse o meno dotato di carattere retroattivo. La motivazione, del resto, contiene un unico fugace accenno (si tratta, in particolare, dell’uso del verbo «ritrasferire») dal quale si può comprendere che le parti avevano previsto un trasferimento successivo della quota del premoriente al superstite.

[135] Aa. Vv., Couple et modernité, cit., p. 408. Con notevole cautela deve poi essere accolto il suggerimento, avanzato di recente nell’ambito della dottrina italiana, ma conosciuto da tempo dalla prassi francese, relativo al rilascio di dichiarazioni di debito da parte di un convivente a vantaggio dell’altro (la giurisprudenza suole riconoscere in tali atti delle donazioni dissimulate: v. Cass. Civ., 2 febbraio 1966, in Bull. civ., 1966, I, n. 84, p. 63; Cass. Civ., 8 luglio 1975, ivi, 1975, I, n. 225, p. 190; Cass. Civ., 22 ottobre 1975, ivi, 1975, I, n. 291, p. 243; cfr. inoltre AA. VV., Couple et modernité, cit., p. 433), così che, al momento dell’apertura della successione, quest’ultimo «possa assumere la posizione di creditore nei confronti di quel compendio dal quale è escluso come erede» (v. Mazzocca, op. cit., p. 113). Di tutta evidenza appare infatti la necessità di evitare che le predette dichiarazioni si trasformino in facile strumento di ricatto ai danni del partner che le ha rilasciate. Così, se ne potrebbe ipotizzare un’emissione vicendevole e su identiche somme, di modo che gli atti ricognitivi finirebbero con l’«annullarsi» reciprocamente qualora uno dei due intendesse farne uso in vita dell’altro. In tal caso occorrerebbe però anche adottare accorgimenti idonei a evitare che le «controdichiarazioni» confessorie in possesso del convivente deceduto per primo cadessero in mani estranee (si pensi a eventuali altri eredi). La soluzione migliore sembra quella di affidare le stesse a un depositario (per esempio a un notaio) scelto di comune accordo, con l’impegno da parte di quest’ultimo di farne consegna al convivente superstite oppure, durante la vita di entrambi, soltanto sulla base di una richiesta congiunta.

[136] Per un approfondimento delle questioni legate all’adozione del convivente e per gli ulteriori rinvii cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 316 ss.

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