Giacomo Oberto

 

COMUNIONE DE RESIDUO E TUTELA

DELLA PARTE DEBOLE:

LA CASSAZIONE ABBANDONA

LA TEORIA DEL «CONIUGE VIRTUOSO»

 

[Nota a Cass., 7 febbraio 2006, n. 2597massima]

 

 

Sommario: 1. Impostazione del problema: la fattispecie oggetto della decisione in esame. 2. La comunione de residuo. Definizione e ratio dell’istituto. 3. Natura della comunione de residuo; non surrogabilità dei relativi beni; aggredibilità degli stessi da parte dei creditori personali; ininfluenza del deposito in banca delle relative somme. 4. Il problema dell’onere della prova. La necessità di non confondere la prova della sottrazione con quella della consumazione. 5. La prova liberatoria da parte del coniuge titolare dei beni e la teorica del «coniuge virtuoso». 6. Amministrazione dei beni della comunione de residuo e (inesistenza di) poteri dell’altro coniuge.

 


 

1. Impostazione del problema: la fattispecie oggetto della decisione in esame.

 

Nel momento in cui il Legislatore viene a sopprimere l’unico espresso riferimento del nostro sistema normativo alla figura del «coniuge debole»  [1], la Corte di legittimità ritiene di dover rivedere una sua precedente posizione, nata proprio dall’esigenza di tutelare le aspettative della parte che, dovendo risultare avvantaggiata dai conteggi di dare e avere, in relazione a beni in comunione de residuo, veda in realtà le proprie aspettative frustrate dal compimento di «sottrazioni» poste in essere dall’altro coniuge in epoca anteriore a quella in cui viene a cessare il regime legale.

Senza anticipare i risultati di un’indagine che dovrà per forza di cose rivelarsi di una certa complessità, avuto riguardo all’ampiezza dei temi trattati ed al carattere (forse un po’ esageratamente) «ecumenico» che la Corte ha inteso dare alla motivazione della sentenza in esame, potrà sinteticamente anticiparsi che la Cassazione, con la presente decisione, pur giustamente disconoscendo determinate posizioni estreme assunte in passato, non sorrette da adeguato supporto normativo, finisce – quasi senza accorgersene – con il ripudiare anche quegli strumenti che, sul piano probatorio, potrebbero consentire al giudice di merito di correttamente vivificare lo spirito (e, come si vedrà, probabilmente anche la lettera) degli artt. 177, lett. b) e c), nonché 178 c.c.

Procedendo con ordine, sarà opportuno schematicamente riassumere come segue i punti salienti della vicenda in esame.

Una coppia di coniugi in crisi raggiunge un’intesa di separazione consensuale, omologata dal tribunale. Nell’intervallo di tempo intercorrente tra la presentazione del ricorso e l’omologazione, il marito, titolare di un conto corrente bancario sul quale è depositata la somma di lire 54.700.053 ascrivibile alla comunione de residuo ex art. 177, lett. c.), c.c., nonché di titoli giacenti in un deposito a custodia a lui intestato, per un importo pari a lire 150.000.000, dispone la vendita dei titoli medesimi e l’accredito del relativo ammontare sul predetto conto. Dopo di che, sempre prima del fatidico momento dell’omologazione dell’intesa di separazione (che, come noto, determina, ex art. 191 c.c. lo scioglimento del regime legale), con repentina mossa preleva dal conto quasi tutta la somma ivi depositata, lasciandovi solamente circa otto milioni di lire.

Il giudice di prime cure, adito dalla moglie, che chiede la condanna del marito al pagamento della metà delle somme tutte di cui sopra, liquida all’attrice il solo importo di lire 4.209.760, cioè appunto la metà di quanto risultante sul conto alla data dell’omologazione della separazione. Accogliendo la domanda della moglie, la corte d’appello di Roma condanna invece il marito al pagamento dell’ulteriore somma di € 49.580,00.

Il ragionamento svolto dal giudice di secondo grado è duplice. In primo luogo, per quanto attiene ai titoli venduti dal marito nell’imminenza della separazione, con deposito del ricavato sul conto personale e successivo prelievo, la corte territoriale afferma che siffatti titoli erano comunque caduti in comunione immediata ex art. 177, lett. a), c.c., mentre, per quanto riguarda le somme originariamente presenti sul conto corrente, pure esse dovevano ritenersi comuni, atteso il principio secondo cui «cadono nella comunione c.d. de residuo non solo quei redditi di cui, di fatto, si riesca a provare la sussistenza all’atto dello scioglimento della comunione, ma anche quelli percetti o percipiendi dei quali il coniuge titolare non riesca a provare l’avvenuto utilizzo per i bisogni della famiglia o per l’adempimento delle obbligazioni di cui all’art. 186 c.c.».

La Cassazione ribalta questa affermazione. Essa nota, en passant, che comunque al coniuge titolare di una mera aspettativa rispetto alla massa in comunione de residuo potrebbero competere alcuni strumenti a difesa dei propri interessi, ma, dopo trentatre pagine di motivazione su tali argomenti, rileva che dalla lettura della sentenza impugnata «non risulta operata in maniera chiara e appagante la verifica della premessa fattuale della problematica in tema di comunione legale de residuo» e dunque rinvia il processo ad altra sezione della stessa corte territoriale, incaricandola di accertare se «le somme di denaro dapprima investite in buoni ordinari del tesoro e poi transitate sul conto corrente siano effettivamente proventi dell’attività separata» del marito. Peccato, però, che su tale punto specifico non fossero stati presentati in Cassazione (a differenza, a quanto pare, del giudizio d’appello) motivi di ricorso, per cui, in realtà, su questo aspetto della lite (relativo, tra l’altro, ad un elemento di puro fatto, rilevabile in Cassazione solo ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c.), i Supremi Giudici avrebbero probabilmente dovuto riconoscere che s’era formato il giudicato interno.

Ciò che, invece, il marito aveva contestato era il giudizio (di diritto) operato dalla corte d’appello di Roma circa il fatto che i buoni del tesoro fossero caduti in comunione immediata, ex art. 177, lett. a), c.c.: ciò, si badi, non già per effetto del principio secondo cui i proventi dell’attività separata di ciascuno dei coniugi sarebbero sic et simpliciter oggetto di comunione immediata (come erroneamente affermato dalla Cassazione con la sentenza 23 settembre 1997, n. 9355, su cui si avrà modo di tornare), ma perché tali somme di denaro, in quanto impiegate per comprare titoli, avrebbero dato luogo ad un «acquisto» rilevante ex art. 177, lett. a), c.c. Nella sua parte finale, la decisione impone al giudice del rinvio di attenersi al principio di diritto enunciato in materia (solo) di comunione de residuo, a quanto pare anche in relazione a quelle somme che, secondo la sentenza cassata, formavano invece oggetto di comunione immediata  [2], senza che peraltro sul relativo punto in diritto – cioè sull’idoneità o meno dei titoli a cadere in comunione immediata, in quanto oggetto di acquisto ex art. 177, lett. a), c.c. – i Supremi Giudici abbiano ritenuto di doversi esprimere. Il tutto, «previamente approfondendo l’accertamento in ordine all’effettiva provenienza (e alla conseguente qualificazione) delle somme oggetto di contestazione tra le parti»: accertamento, questo, di cui nessuno s’era più lamentato in sede di legittimità, atteso che la moglie, vittoriosa, aveva proposto ricorso solo in punto spese ed il marito aveva tutto l’interesse a mantenere ferma la statuizione secondo cui sia il denaro che i titoli erano comunque proventi di attività separata sua.

Premesso quanto sopra, rimane comunque il fatto che la Corte Suprema ha ritenuto di dover affrontare con dovizia di particolari in questa decisione quel tema che ben potrebbe definirsi con il titolo del «coniuge virtuoso»: vale a dire l’idea secondo cui al titolare dei beni in comunione de residuo non competerebbe mai, neppure prima del momento dello scioglimento del regime legale, un potere di libera disposizione, dovendo egli invece conservare questi ultimi, perché gli stessi siano disponibili al momento della divisione, oppure investirli in acquisti destinati a cadere in comunione, o comunque utilizzarli nell’interesse della famiglia.

Al fine di operare una corretta impostazione dell’argomento sarà però opportuno spendere ora qualche parola su alcuni dei tratti salienti dell’istituto della comunione de residuo.

 

 

2. La comunione de residuo. Definizione e ratio dell’istituto.

 

Il termine comunione de residuo denota, come si sa, quella comunione meramente residuale e differita che viene a formarsi all’atto stesso dello scioglimento del regime legale, a condizione che i beni che ne costituiscono l’oggetto non siano stati consumati prima di tale momento, secondo quanto stabilito dagli artt. 177, lett. b) e c), nonché 178 c.c.  [3].

La dottrina suole individuare una duplice ratio dell’istituto  [4]: vale a dire, per ciò che attiene alle ipotesi descritte dall’art. 177, lett. b) e c), c.c.  [5], quella di reperire un giusto equilibrio, un compromesso tra il principio solidaristico che dovrebbe informare la vita coniugale (art. 29 Cost.), da un lato, e la tutela della proprietà privata e della remunerazione del lavoro, dall’altro (artt. 35, 41, 42 Cost.)  [6]. Nel caso, poi, delle fattispecie prese in considerazione dall’art. 178 c.c. vengono in rilievo anche motivi di opportunità, che hanno suggerito la soluzione di non coinvolgere il coniuge non imprenditore nella posizione di responsabilità illimitata dell’altro, e di garantire a quest’ultimo la piena libertà d’azione nell’esercizio della sua attività d’impresa.

In relazione al meccanismo di attuazione della comunione residuale svariate critiche sono state mosse in dottrina alla soluzione adottata dal Riformatore del 1975, soprattutto avuto riguardo al fatto che sottrarre alla comunione immediata i proventi dell’attività personale di ciascuno dei coniugi significa togliere concretamente rilievo a quella che è la principale (e sovente esclusiva) fonte di reddito della famiglia media italiana: proprio quella verso cui sarebbe precipuamente rivolto il regime legale  [7], anche se d’altra parte si è obiettato che il tipo di comunione si giustificherebbe nella già ricordata ottica del contemperamento di istanze solidaristiche e individualistiche in cui si sostanzia la struttura del regime legale  [8]. Sta comunque di fatto che l’operare congiunto, da un lato, della regola che differisce allo scioglimento del regime legale la caduta in comunione di questi beni e, dall’altro, del fatto che tale comunione venga ad investire i soli beni a quel momento esistenti, unitamente al (tristemente) noto principio che non consente allo scioglimento ex art. 191 c.c., in caso di separazione personale contenziosa, di operare sollecitamente  [9], determinano il rischio (ed anzi, nella maggior parte dei casi, l’assoluta certezza) che il «residuo», quando il momento dello scioglimento potrà dirsi al fine giunto, sia pari, o molto vicino, a zero.

Di fronte a questo scenario, quali sono i possibili strumenti a tutela della posizione del coniuge il quale possa vantare, durante il periodo di durata del regime legale, determinate «aspettative» su di un determinato patrimonio dell’altro coniuge destinato a cadere in comunione al momento della cessazione del regime, ma solo limitatamente a quanto di tale patrimonio in quel momento sarà ancora di fatto presente? Per rispondere a questo interrogativo si possono ipotizzare, teoricamente, «rimedi» che si muovano su due distinti piani: uno sostanziale e l’altro probatorio.

Per quanto attiene al primo livello sarà opportuno domandarsi, innanzi tutto, quale sia la situazione dei beni in oggetto durante il periodo di vigenza del regime legale e che cosa accada all’atto del suo scioglimento, mentre, dal punto di vista generale, sarà opportuno precisare subito che la regola della parità delle quote in comunione de residuo, in quanto strettamente legata a quella principale della comunione immediata, non pare suscettibile di deroga convenzionale, dovendosi applicare anche per tale profilo il disposto dell’art. 210 c.c. Le disposizioni sull’amministrazione di quei rapporti potranno invece essere liberamente rimesse all’autonomia negoziale, in quanto – come si vedrà tra breve – i beni in comunione residuale, «propri» sino al momento dello scioglimento, possono essere liberamente amministrati (ed anzi, addirittura alienati o consumati) dal titolare, senza che al riguardo competa all’altro coniuge alcun tipo di controllo  [10].

 

 

3.  Natura della comunione de residuo; non surrogabilità dei relativi beni; aggredibilità degli stessi da parte dei creditori personali; ininfluenza del deposito in banca delle relative somme.

 

Non vi è dubbio che i beni in comunione de residuo non possano considerarsi comuni, almeno fin tanto che non sia intervenuta una causa di scioglimento del regime legale. Più che di beni personali (ed anche per evitare confusioni con il catalogo ex art. 179 c.c.) si preferisce parlare in tal caso di beni «propri», di esclusiva titolarità del coniuge percettore. L’impiego dell’aggettivo «propri» è anche suggerito dal particolare regime giuridico cui i medesimi sono sottoposti, atteso che, in relazione ad essi, non è consentito applicare il fenomeno della surrogazione descritto nella lett. f) dell’art. 179 c.c. A tale conclusione perviene non solo la dottrina  [11], ma anche la giurisprudenza di legittimità.

In effetti la Corte Suprema ebbe ad affermare una prima volta nel 1997  [12] che i beni acquistati con i proventi dell’attività separata di uno dei coniugi «entrano immediatamente e di pieno diritto a far parte della comunione, senza che vi sia possibilità di esclusione tramite la dichiarazione prevista dall’art. 179, lett. f), c.c., che trova applicazione unicamente in relazione all’acquisto effettuato con il prezzo del trasferimento dei beni personali, tassativamente elencati dal predetto art. 179 c.c.». Il caso di specie riguardava in particolare delle azioni societarie sottoscritte da uno dei coniugi acquistate con i proventi della sua attività lavorativa e, al riguardo, la corte di merito aveva invece considerato ammissibile la facoltà di surrogazione di cui si parla, conseguentemente ritenendo che l’acquisto che si era verificato a favore dell’altro coniuge a seguito del suo mancato esercizio costituisse atto a titolo gratuito.

Da notare che la S.C. giunse però alle conclusioni in oggetto, argomentando – oltre che dal presupposto, condivisibile, dell’inapplicabilità dell’art. 179, lett. f), cit. – dal fatto che (non solo i beni acquistati con i proventi, ma anche) i proventi dell’attività separata di ciascuno dei coniugi entrerebbero «di pieno diritto a far parte della comunione immediata». Conclusione, questa, inaccettabile e che è stata smentita da una decisione successiva  [13], la quale ha operato sul punto una saggia correzione di tiro, in particolare ribadendo la differenza tra comunione immediata e comunione de residuo, nel senso che i beni oggetto di quest’ultima rimangono «propri» del coniuge titolare sino al momento dello scioglimento; momento nel quale entreranno a far parte di una situazione di contitolarità, che costituisce il presupposto della divisione in parti uguali  [14].

Coerente con questa regola appare l’insegnamento della Cassazione sul tema dei rapporti con i creditori. Se è vero, infatti, che i beni in comunione de residuo sono e continuano ad essere propri sino al momento dello scioglimento, ne deriva che essi sono aggredibili alla stregua di beni personali da parte dei creditori personali del coniuge. Un esempio significativo è costituito da una ormai remota sentenza di legittimità, riferita ad un bene in comunione de residuo ex art. 178 c.c., che la Corte ritenne liberamente aggredibile per intero dai creditori personali del coniuge acquirente, i quali avevano dedotto e dimostrato che il bene medesimo, sebbene acquistato in costanza di regime legale, era stato effettivamente e concretamente destinato all’esercizio dell’impresa gestita dal solo coniuge acquirente e costituita dopo il matrimonio  [15].

Ad analoghe conclusioni, sempre con riguardo a bene in comunione de residuo ex art. 178 c.c., è pervenuta una successiva decisione di legittimità, per cui «ai sensi dell’art. 178 cod. civ., in regime di comunione legale, tutti i beni che vengano acquistati da uno dei coniugi e siano destinati all’esercizio di un’impresa costituita dopo il matrimonio fanno parte della comunione medesima solo de residuo, cioè se e nei limiti in cui sussistano al momento del suo scioglimento. Da ciò consegue che i beni acquistati e destinati all’esercizio dell’impresa sono, prima dello scioglimento della comunione, aggredibili per intero dai creditori del coniuge acquirente»  [16].

Una questione in qualche modo connessa a quella qui esaminata riguarda la capacità a testimoniare del coniuge del titolare del diritto destinato a ricadere in comunione de residuo. Al riguardo la Cassazione  [17] ha stabilito che «Il coniuge in regime di comunione legale non è incapace a testimoniare nelle controversie in cui sia parte l’altro coniuge, ove esse abbiano ad oggetto crediti derivanti dall’esercizio dell’impresa di cui sia titolare esclusivo l’altro coniuge, in quanto essi diventano comuni solo al momento dello scioglimento della comunione e nei limiti in cui ancora sussistano, non essendo egli in questo caso titolare di un interesse che ne legittimi la partecipazione al giudizio; in questo caso, il giudice non può escludere a priori l’attendibilità della testimonianza in considerazione del rapporto di coniugio, ma deve far riferimento ad ulteriori elementi»  [18].

Deve pure ritenersi che il deposito in banca o l’accantonamento su conto corrente di somme di denaro in comunione de residuo non alterino la natura di queste ultime, secondo quanto appare del resto desumibile dall’analisi della giurisprudenza. Così mentre una remota decisione di merito ha affermato che «I redditi individuali, non consumati al momento dello scioglimento della comunione legale, vanno imputati alla cosiddetta comunione de residuo anche se costituiscono crediti verso terzi (come nel caso di depositi in banca o presso uffici postali)»  [19], la stessa Cassazione  [20] ha riconosciuto che «l’accertamento che il danaro rinvenuto sul conto corrente intestato al marito costituiva provento dell’attività separata di ciascuno (o anche di uno solo) dei coniugi» è idoneo a rendere il danaro stesso oggetto della comunione «in via assoluta, ai sensi dell’art. 177 lett. c) dello stesso codice, senza che possa ammettersi una prova contraria a norma dell’ultima parte dell’art. 195 cod. civ., e di conseguenza deve essere ripartito in parti uguali al momento della divisione dei beni (art. 194, primo comma, cod. civ.) sia che provenga dall’attività di uno solo dei coniugi, sia che provenga dalle singole attività dei due coniugi, ancorché in misura diversa per ciascuno di essi». Da notare che, in tal caso, si trattava di denaro effettivamente rinvenuto al momento dello scioglimento (e dunque non sottratto al coniuge non titolare del conto): siffatto precedente rileva dunque allo scopo di dimostrare che, secondo la Cassazione, il deposito in banca di denaro personale (o in comunione de residuo) non determina per ciò solo un acquisto ex art. 177, lett. a), c.c.  [21].

Quanto sopra aiuta a comprendere per quale motivo la decisione qui in commento citi, per criticarlo, proprio il precedente del 1997, dichiarando espressamente la propria adesione alla successiva (e sicuramente corretta) sentenza del 2003, senza avvedersi peraltro che la questione di diritto posta dal caso in esame non verteva in alcun modo sui profili sostanziali della comunione de residuo, bensì solo su quelli di carattere probatorio. In altre parole, la corte d’appello (stando, quanto meno, a ciò che emerge dalla lettura dei motivi del ricorso incidentale del marito) non aveva posto alla base della propria decisione il ragionamento secondo cui le somme depositate sul conto del marito, così come i titoli di credito, formassero oggetto di comunione immediata perché proventi dell’attività del marito. Al contrario, il giudice di secondo grado aveva (come si è visto), affermato la sussistenza di una situazione di comunione immediata sui titoli di credito perché, pur provenendo i mezzi per il relativo acquisto da attività separata del marito (e dunque ex art. 177, lett. c.), c.c.), proprio l’effettuazione di tale acquisto aveva determinato l’applicazione della regola ex art. 177, lett. a), c.c. Per le somme depositate sul conto, invece, si era sempre trattato di beni in comunione de residuo, per le quali – secondo la corte d’appello – veniva a gravare sul marito l’onere di provare che siffatto denaro, non più presente al momento dello scioglimento, era stato utilizzato «per i bisogni della famiglia o per l’adempimento delle obbligazioni di cui all’art. 186 c.c.»  [22].

 

 

4. Il problema dell’onere della prova. La necessità di non confondere la prova della sottrazione con quella della consumazione.

 

Le considerazioni di cui sopra introducono la trattazione dell’altro piano (quello, cioè, probatorio) su cui si potrebbero collocare strumenti a tutela del coniuge non titolare dei beni destinati a cadere in comunione de residuo: e qui sicuramente veniamo al «cuore» della decisione oggi in commento. 

Sono più che evidenti, infatti, in relazione al fondamentale requisito della «non consumazione» dei beni in comunione de residuo all’atto dello scioglimento del regime legale, le difficoltà probatorie cui va incontro il coniuge creditore, su cui, come attore, ricade, in base agli ordinari criteri fissati dall’art. 2697 c.c., l’onere di dimostrare non solo la percezione da parte dell’altro di frutti e proventi, bensì anche di provare che tali somme si trovavano ancora nel patrimonio del percipiente al momento della cessazione della comunione  [23].

Proprio su questo tema specifico la Corte Suprema era già intervenuta un paio di volte, prima della sentenza qui in esame.

Con una prima decisione, risalente al 1996  [24], essa aveva stabilito che «Nella comunione de residuo, di cui all’art. 177 comma 1, lett. c) c.c., provata attraverso consulenza tecnica l’esistenza di redditi, grava sul titolare dell’attività l’onere di provare che essi sono stati consumati o per il soddisfacimento di bisogni della famiglia o per investimenti caduti in comunione». Analoga ratio decidendi si rinviene con riferimento ad una decisione del 2000 [25], in relazione ad alcune somme depositate su un conto corrente cointestato, ritirate prima della separazione e asseritamente utilizzate per l’attività d’impresa del coniuge prelevante.

Venendo alle valutazioni di siffatte argomentazioni, non vi è dubbio che la Cassazione aveva in tal modo compiuto un notevole sforzo per «venire incontro» alle esigenze del coniuge del soggetto percettore delle utilità in discorso, costretto a fornire una probatio quasi diabolica. Sotto questo profilo, l’analisi della decisione del 1996 evidenzia un sostanziale (ancorché non dichiaratamente esplicitato) ricorso allo strumento della praesumptio hominis, nel momento in cui i Supremi Giudici affermano che «In tal modo si è venuto a spostare il criterio distri­butivo dell’onere della prova, di cui all’art. 2697 c.c., perché, una volta provata l’esistenza di cospi­cui, notevoli redditi tratti dall’impresa, sia pure attraverso una consulenza tecnica, doveva ritenersi assolto l’onere probatorio incombente sulla richie­dente, sicché, l’inesistenza in concreto di apprezza­bili disponibilità liquide all’atto dello scioglimento della comunione non poteva non ricadere su chi negava che gli accertati redditi fossero rimasti tali».

In altri termini, appare più che ragionevole fondare su di una massima di comune esperienza il principio secondo cui (salvo prova contraria) i proventi, specie se cospicui, di una certa attività, una volta che ne sia stata accertata la percezione, si possono reputare ancora esistenti (o perché accantonati, o perché reinvestiti) all’atto dello scioglimento del regime, ponendosi l’evento della consumazione o comunque della perdita dei medesimi come eccezionale. A chi scrive sembra, poi, che siffatta presunzione (cioè, di perdurante persistenza delle attività in discorso nel patrimonio del coniuge che le aveva a suo tempo percepite ed accantonate) vada vieppiù ribadita in un caso come quello oggi in esame, nel quale si assiste ad un repentino «prosciugamento» del conto bancario su cui le somme in contestazione risultavano depositate.

Non bisognerà dimenticare in proposito che la prova della «non consumazione» è cosa ben diversa da quella – certo non richiesta dalla legge! – della «non sottrazione»: frutti e proventi «non consumati» non sono solo quelli «ancora visibili» sul conto bancario su cui si sono sempre trovati. La prova della sottrazione non può essere sbrigativamente confusa con quella della consumazione, specie quando siffatta sottrazione avvenga improvvisamente, investa magari somme rilevanti e sia effettuata (guarda caso) nel corso della crisi coniugale o, addirittura, nell’imminenza del momento di cessazione del regime legale. In tali circostanze sarà infatti più che ragionevole presumere (ovviamente, salvo prova contraria), che il denaro sottratto non sia stato consumato (donato in beneficenza, speso in baldorie, convertito in banconote successivamente bruciate in un raptus di follia, impiegato per l’acquisto di un prezioso collier donato all’amante…), ma sia, tutto al contrario, al sicuro in qualche forziere nascosto o magari in qualche conto cifrato, difficilmente reperibile anche da parte del più astuto investigatore privato.

Dunque, nel caso oggetto della controversia che ha dato luogo al precedente in commento, più che giustificata sarebbe apparsa una decisione che, valorizzando i dati sopra evidenziati, corrispondenti ad altrettanti fatti notori e di fronte al più assordante silenzio del marito, avesse ritenuto le somme in contestazione ancora esistenti nel patrimonio di quest’ultimo (ancorché non più presenti su quel determinato conto corrente), e pertanto «non consumate».

 

 

5. La prova liberatoria da parte del coniuge titolare dei beni e la teorica del «coniuge virtuoso».

 

Il terreno su cui appare difficile invece seguire il ragionamento della Cassazione nelle citate pronunce del 1996 e del 2000 e la ragione per la quale, in parte qua, sono sicuramente condivisibili le argomentazioni svolte dalla decisione oggi in commento, è costituito da quell’idea per cui la prova liberatoria dovrebbe necessariamente consistere nel fatto che i beni oggetto della comunione de residuo «sono stati consumati o per il soddisfacimento dei bisogni della famiglia o per investimenti già caduti in comunione». Per la verità, questa idea di «coniuge virtuoso», tutto «casa e lavoro» (si badi: neppure «tutto casa e Chiesa», posto che in tale situazione l’adempimento del precetto evangelico quod superest date pauperibus non potrebbe rientrare nell’alternativa secca a suo tempo posta dalla Cassazione) appare estranea al vigente sistema normativo. Ai sensi delle norme qui in commento, infatti, l’esistenza di un diritto ex communione de residuo è legato al solo fatto che determinate utilità siano ancora presenti nel patrimonio di uno dei coniugi, a prescindere nella maniera più assoluta dalle ragioni che ne abbiano determinato la «sparizione», anche solo un momento prima del verificarsi di uno degli eventi descritti dall’art. 191 c.c.

La Cassazione ha qui veramente buon gioco a ribaltare siffatta posizione, osservando, nella decisione qui commentata, come l’art. 177, lett. c), c.c. non accenni in modo alcuno alle modalità di impiego dei proventi dell’attività svolta da uno dei coniugi, «né tampoco al dovere di impiegarli per esigenze della famiglia», rimarcando inoltre che, nel silenzio della normativa – la quale non pone obblighi di destinazione sui beni oggetto della comunione de residuo, né limiti o controlli alla facoltà di consumazione – l’impiego nei più vari modi, non tradottosi in nuovi e durevoli acquisti, sottrae lecitamente cespiti a quella che, al momento dello scioglimento della comunione, diverrà esattamente la comunione de residuo, tanto da costituire un fatto impeditivo suscettibile di esser opposto al coniuge il quale dimostri l’intervenuta percezione di tali utilità da parte dell’altro.

La Corte osserva, poi, correttamente, che l’interpretazione di cui alle riferite pronunzie del 1996 e del 2000 «onera il coniuge che presta la propria opera al di fuori delle mura domestiche di un puntuale rendimento dei conti circa il modo con cui ha impiegato i proventi della propria attività (al momento della cessazione del regime legale, e eventualmente dopo svariati anni di vita in comune), e quindi anche di una contabilità gravosissima, atteso che la prescrizione in materia comincia a decorrere solo dal passaggio in giudicato della sentenza che ha pronunciato la separazione dei coniugi».

I Supremi Giudici non mancano ancora di rilevare (sempre nella decisione qui in commento) come la surriferita tesi, in precedenza propugnata dalla Cassazione, finirebbe con l’inasprire fortemente le limitazioni strutturali che l’istituto della comunione legale pone alla libertà dei coniugi medesimi, «aggiungendo a livello interpretativo ulteriori restrizioni che renderebbero l’istituto troppo vincolante  e oppressivo e, dunque, inficiato dal rischio di essere ben poco desiderato se non addirittura abbandonato dai coniugi»  [26]. Ciò, con la conseguenza che «manente communione il coniuge percettore avrà, rispetto ai proventi dell’attività personale, un potere di godimento, amministrazione e disposizione pieno, ex art. 217 c.c., salvo il limite di contribuire ai bisogni della famiglia, che peraltro sussiste anche con riferimento ai beni personali». La conclusione sul punto, assolutamente condivisibile, è dunque nel senso che sostenere che possano ritenersi consumati solo i redditi utilizzati o per soddisfare i bisogni della famiglia o per procurare acquisti alla comunione immediata «non è conforme al sistema varato nel 1975, nel quale non vi è traccia di strumenti concessi al partner per sindacare o impedire l’utilizzo delle disponibilità individuali dell’altro coniuge».

Peccato, come già detto, che la Corte – lasciando in ombra la necessaria distinzione tra profilo sostanziale e profilo probatorio – non riesca ad avvedersi che il sacrosanto rifiuto della teorica del «coniuge virtuoso» non implica di per sé anche, automaticamente, il rigetto di quel ricorso alla tecnica della praesumptio hominis circa la perdurante sussistenza delle utilità ex communione de residuo cui si è fatto ampio richiamo in precedenza e che rappresentava (nei limiti di ciò che è possibile fare de iure condito), il momento più avanzato di tutela del «coniuge debole» in questa materia.

 

 

6. Amministrazione dei beni della comunione de residuo e (inesistenza di) poteri dell’altro coniuge.

 

A questo punto potremmo anche chiudere il commento al precedente in oggetto, se non scoprissimo che la motivazione, dopo essersi a lungo soffermata sui principi sopra esposti, inserisce (non richiesta) un vistoso obiter, volto a indicare quali possano essere i rimedi «a fronte di un comportamento del coniuge tale da pregiudicare le aspettative dell’altro».

Anche su questo argomento sarà opportuno procedere con ordine, presentando una breve cronistoria delle varie prese di posizione.

In linea generale potrà iniziarsi osservando come sia la stessa sentenza in commento a confermare espressamente che, per ciò che attiene all’amministrazione dei beni in comunione de residuo, occorra riferirsi al parametro espresso dall’art. 217 c.c. in relazione ai beni dei coniugi in regime di separazione; disposizione, questa, riferibile, tra l’altro, anche al patrimonio personale ex art. 179 c.c.  [27]. Come rilevato da una sentenza di merito, in relazione ai beni in comunione de residuo, «siccome non ancora individuati e dei quali non è certa la loro stessa venuta ad esistenza, il coniuge non titolare non vanta alcun potere di disposizione o di amministrazione, né gli è riconosciuto il diritto al rendiconto». Siffatti beni e «per eccellenza le somme di denaro, costituiscono una categoria a sé stante, giacché ad essi non sarà mai applicabile la disciplina propria dell’amministrazione dei beni della comunione (art. 180 c.c.): non esistendo, invero, una comunione, all’amministrazione di tali beni si applicheranno le norme di cui ai commi 2, 3 e 4 dell’art. 217»  [28].

E’ noto che, secondo l’opinione espressa un tempo da autorevole dottrina, al coniuge non titolare dei beni destinati alla comunione de residuo sarebbe spettato manente communione un potere di «informazione e di controllo sui redditi dell’altro»  [29]. E del resto alla citata opinione ha fatto eco il rilievo secondo cui la lettura comunemente accolta della norma (per la quale, invece, il coniuge è libero di amministrare e consumare come meglio crede il proprio patrimonio in comunione de residuo fin tanto che il regime legale è sussistente) «non è priva di inconvenienti perché sembra legittimare il titolare non solo ad un uso non apprezzabile delle risorse ma persino al loro sistematico e doloso sperpero, a discapito delle attese dell’altro coniuge; l’incongruità della soluzione si palesa più evidente ove si tenga conto che questi potrebbe aver amministrato oculatamente i propri beni comuni de residuo cosicché, al momento dello scioglimento del regime legale, dovrebbe renderne partecipe chi, invece, li ha utilizzati a suo esclusivo vantaggio, incurante degli interessi altrui»  [30].

 La tesi che ammetteva l’ipotizzabilità di un potere di controllo venne però vivacemente criticata  [31], sottolineandosi che nessun dato normativo – al di là dell’obbligo generico gravante su tutti i coniugi di contribuire ai bisogni della famiglia ex art. 143 u.c. c.c. – giustificava limiti alla incondizionata libertà di ciascun coniuge di disporre a proprio piacimento dei risparmi individuali, una volta assolti i predetti obblighi di contribuzione. Peraltro lo stesso sostenitore della tesi qui esposta venne a mutare successivamente avviso  [32], rilevando come la sua originaria presa di posizione, pur ispirata a mozioni di giustizia sostanziale, apparisse difficilmente giustificabile alla luce del dato testuale  [33] e concludendo nel senso che «i redditi individuali sono destinati: (a) o agli investimenti, che cadono in comunione secondo la regola (…) codificata dalla lettera a dell’art. 177; (b) o ai consumi, insuscettibili di controllo reciproco, restando nella esclusiva, anche capricciosa, discrezionalità del titolare; (c) o ai risparmi, che viceversa, al momento del verificarsi di una causa di scioglimento della comunione, diventano automaticamente oggetto di un diritto dell’altro coniuge»  [34].

La disputa sembrava sopita, allorquando un improvvido obiter di legittimità  [35] venne ad operare un rimescolamento di carte. La sentenza, pur affermando, correttamente, che «L’art. 177 lett. c) del codice civile esclude dalla comunione legale tra coniugi i proventi dell’attività separata svolta da ciascuno di essi e consumati in epoca precedente allo scioglimento della comunione», conteneva infatti in una parte della motivazione, assolutamente irrilevante ai fini del decidere, l’elenco dei seguenti strumenti a tutela della posizione del coniuge del percettore dei proventi in discorso: (a) la separazione giudiziale dei beni ex art. 193 c.c.; (b) l’azione revocatoria; (c) l’azione surrogatoria; (d) la domanda di risarcimento dei danni; (e) «in via di estremo subordine (…) il principio di buona fede ed il divieto dell’abuso del diritto, fermo l’obbligo per il coniuge ‘dissipatore’ di rendere il conto delle sue entrate e di come sono state spese».

Sul punto potrà rimarcarsi criticamente che, per quanto attiene al rimedio sub (a) esso è concesso a tutela contro la mala gestio del patrimonio in comunione immediata, mentre i proventi in comunione de residuo sono e rimangono, fino al momento dello scioglimento, di esclusiva titolarità del percettore, il quale può pertanto esercitare il diritto dominicale di disporre di siffatte utilità a suo esclusivo piacimento  [36]. Ciò detto, sarà opportuno aggiungere che, nel caso fossero effettivamente riscontrabili i requisiti di cui all’art. 193 c.c., l’effetto retroattivo della sentenza di accoglimento consentirebbe, per così dire, di «recuperare» eventuali attività de residuo andate disperse nel periodo compreso tra la domanda e la sentenza, nel senso che esse dovrebbero ritenersi come fittiziamente presenti, ancorché non più effettivamente esistenti nel patrimonio di chi tali beni aveva percepito. Quanto sopra induce dunque ad affermare l’ammissibilità – in corso di azione giudiziale ex art. 193 c.c. – di un eventuale sequestro giudiziario di somme su conti bancari, con l’avvertenza (di non secondaria importanza) che qui il fumus boni juris va parametrato non solo sull’appartenenza alla comunione de residuo e sull’esistenza delle predette somme all’atto della presentazione della domanda di separazione giudiziale dei beni, ma anche sul fondamento della domanda stessa ex art. 193 c.c.

Per ciò che attiene al rimedio sub (b) sarà appena il caso di rilevare come l’azione surrogatoria presupponga l’inerzia del titolare di un diritto nel suo esercizio verso terzi, laddove qui si discute di comportamenti che, tutto al contrario, manifestano l’esercizio del diritto dominicale  [37].

Venendo al rimedio sub (c), cioè all’azione revocatoria, andrà rimarcato che il medesimo è concesso al creditore, laddove nel caso di specie il coniuge non ha ancora tale veste, essendo oltretutto l’oggetto di siffatto preteso credito ancora da determinarsi, dal momento che il regime non è ancora cessato. Come efficacemente asserito in dottrina, la tesi – al di là dalle buoni intenzioni che la ispirano – non tiene adeguatamente conto della reale situazione in cui viene a trovarsi il coniuge rispetto all’acquisto differito; situazione che non solo non è qualificabile in termini di situazione di vantaggio piena, ma non presenta nemmeno i requisiti di un’aspettativa in quanto il meccanismo di attribuzione è destinato ad operare nei confronti di determinati cespiti in un determinato momento senza che si verifichino gli estremi per configurare in capo al coniuge un diritto condizionato  [38].

Il dettato codicistico non sembra lasciare dubbi in tal senso. A ben vedere, infatti, la mancata consumazione non può essere assunta come evento (incerto nell’an), esterno e indipendente alla volontà delle parti, dal cui verificarsi dipende l’acquisto definitivo al patrimonio comune di un cespite, quanto piuttosto come elemento costitutivo della stessa fattispecie acquisitiva  [39]. Il richiamo alla revocatoria appare, dunque, incongruo non solo per l’insussistenza di un diritto (condizionato) all’acquisto, ma anche perché gli interessi che essa è chiamata ad attuare sono di natura diversa rispetto a quelli qui in gioco; in particolare, tale strumento assolve al ruolo di mezzo di conservazione della garanzia patrimoniale generica in vista del soddisfacimento di crediti già sussistenti nella sfera giuridica del soggetto, laddove nell’ipotesi di acquisto del residuo è l’esistenza dello stesso credito ad essere in dubbio  [40].

Ogni domanda risarcitoria – e qui si viene al punto (d)  [41] – poi, è destinata ad infrangersi contro la considerazione per cui qui iure suo utitur neminem laedit e lo stesso vale in relazione ai supposti rimedi indicati sub (e).

Con particolare riguardo al tema dell’abuso del diritto  [42], si è efficacemente obiettato che, ove si volesse configurare un comportamento abusivo in capo al coniuge che sperpera i propri proventi personali, precludendo così al consorte di acquisirli come residuo, occorrerebbe determinare per un verso quale sia il diritto nel cui esercizio si perpetrerebbe l’abuso e, per l’altro, se comunque la posizione in cui si trova la vittima sia meritevole di tutela. Per ciò che attiene alla prima delle questioni prospettate, la posizione di vantaggio di cui si lamenterebbe l’abuso non è altra che quella di cui gode ciascun consociato rispetto ai propri beni. D’altra parte, non sembra che in capo al coniuge non percettore si possa configurare una situazione dotata – seppure marginalmente o di rimando – di tutela giuridica, come avviene con riguardo alle fattispecie tradizionalmente ricondotte alla figura dell’abuso di diritto  [43]. Venendo, poi, ai richiami ai criteri della buona fede e della correttezza  [44], notiamo che, come si è esattamente obiettato, essi risultano troppo generici e, in quanto tali, inidonei a configurare in capo al coniuge percettore quella serie di comportamenti (dovuti) volti a garantire la realizzazione di un residuo o in mancanza la reazione del sistema.

Assai più saggiamente, dunque, una decisione di legittimità del 2004  [45] si è limitata a ribadire che «i frutti dei beni di ciascun coniuge ed i proventi dell’attività separata di ciascuno di essi cadono in comunione nei soli limiti in cui essi non siano stati consumati al momento del suo scioglimento», con la conseguenza che nessuna pretesa può vantare un coniuge sulle somme attinte dall’altro dai proventi della sua attività artigianale e consumate in costanza del regime di comunione legale.

Ora, la sentenza qui in commento, nuovamente in obiter, torna a proporre i rimedi seguenti: (a) l’azione diretta alla separazione giudiziale dei beni ex art. 193 cpv. c.c.; (b) l’azione diretta al risarcimento del danno ex art. 2043 c.c.; (c) l’azione revocatoria ex art. 2901 c.c. Ma ciò che appare più sconcertante è che siffatti strumenti vengano (ri)proposti dopo che la stessa Corte, poche righe più in alto, solennemente (e, ad avviso dello scrivente, correttamente) proclama il carattere di «semplice aspettativa di fatto»  [46] della situazione del coniuge non percettore dei proventi oggetto della comunione de residuo.

In conclusione dovrà puntualizzarsi che una qualche forma di tutela del coniuge sarà, invece, assicurabile in presenza di atti (donazioni o contratti di mutuo), con i quali il soggetto titolare di beni soggetti alla comunione de residuo determini simulatamente – manente communione – la fuoriuscita dal proprio patrimonio dei beni medesimi. In tal caso al coniuge leso potrà essere riconosciuta la posizione di terzo (avente causa), al quale l’ordinamento tutela l’interesse a far prevalere la realtà sull’apparenza, con quanto ne consegue per ciò che attiene alle agevolazioni sul piano probatorio  [47]. Il rimedio dell’inefficacia/invalidità non appare invece praticabile nel caso in cui l’atto sia stato posto in essere «realmente», anche se con l’esclusivo intento di ledere la posizione del coniuge  [48].

Peraltro, proprio per quanto riguarda il possibile utilizzo di «prestanome» per sottrarre beni alle pretese del coniuge, andrà tenuto presente che la recente riforma sull’affidamento condiviso  [49] ha stabilito, riformando l’art. 155 c.c. (cfr. il relativo ultimo comma), che «Ove le informazioni di carattere economico fornite dai genitori non risultino sufficientemente documentate, il giudice dispone un accertamento della polizia tributaria sui redditi e sui beni oggetto della contestazione, anche se intestati a soggetti diversi». Sembra quindi muovere i primi, timidi, passi – ancorché, sia chiaro, almeno per il momento, in una materia non esattamente coincidente con quella in esame – la tendenza ad una certa «insofferenza» legislativa verso forme di sottrazione del proprio patrimonio alle pretese che si collochino nell’ambito del contenzioso familiare. Il richiamo al concetto di «intestazione», invero, potrebbe forse indurre a rivedere (ma il discorso presupporrebbe ben altro approfondimento) posizioni tradizionalmente basate sul concetto giuridico di «appartenenza», al là dunque del fatto che i trasferimenti operati verso i terzi abbiano ad oggetto (asserite) situazioni di interposizione fittizia, o addirittura anche reale  [50].

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 [1]  Il richiamo alla figura del «coniuge debole» era contenuto nell’art. 6, comma sesto, l.div., così come sostituito dall’art. 11, l. 6 marzo 1987, n. 74. Questa disposizione deve ritenersi implicitamente abrogata per effetto del rinvio agli artt. 155 ss. c.c. (e, in parte qua, all’art. 155-quater c.c.) disposto dall’art. 4, l. 8 febbraio 2006, n. 54 («Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli»).

 [2]  In quanto provento di vendita di titoli di credito, dalla corte d’appello ritenuti formare oggetto di comunione immediata ai sensi dell’art. 177, lett. a), c.c.

 [3]  In generale sull’istituto v. Schlesinger, Della comunione legale, in Commentario alla riforma del diritto di famiglia, a cura di Carraro, Oppo e Trabucchi, I, 1, Milano, 1977, p. 361 ss.; Corsi, Il regime patrimoniale della famiglia, I, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da Cicu e Messineo, continuato da Mengoni, Milano, 1979, p. 90 ss.; Cian e Villani, La comunione dei beni tra coniugi (legale e convenzionale), in Riv. dir. civ., 1980, I, p. 391 ss.; Santosuosso, Delle persone e della famiglia. Il regime patrimoniale della famiglia, in Commentario del codice civile, I, 1, III, Torino, 1983, p. 174 ss.; A. e M. Finocchiaro, Diritto di famiglia, I, Milano, 1984, p. 928 ss.; Nuzzo, L’oggetto della comunione legale tra coniugi, Milano, 1984, p. 29 ss.; Majello, Comunione dei beni tra coniugi 1) Profili sostanziali, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988, p. 4 ss.; Costanza, Amministrazione dei beni in comunione de residuo, in Aa. Vv., La comunione legale, a cura di Bianca, I, Milano, 1989, p. 671 ss.; Napoli, I frutti, in Aa. Vv., La comunione legale, a cura di Bianca, I, Milano, 1989, p. 41 ss.; Di Transo, La comunione de residuo, in Aa. Vv., Scritti in onore di Capozzi, I, 1, Milano, 1992, p. 529 ss.; Schlesinger, Della comunione legale, in Commentario al diritto italiano della famiglia, diretto da Cian, Oppo e Trabucchi, III, Padova, 1992, p. 116 ss.; Santosuosso, Beni ed attività economica della famiglia, in Giurisprudenza sistematica di diritto civile e commerciale, fondata da Bigiavi, Torino, 1995, p. 93 ss.; Caravaglios, La comunione legale, I, Milano, 1995, p. 623 ss.; Barbiera, La comunione legale, in Trattato di diritto privato, diretto da Rescigno, Persone e famiglia, 3, II, Torino, 1996, p. 435 ss.; Gabrielli e Cubeddu, Il regime patrimoniale dei coniugi, Milano, 1997, p. 30 ss.; Auletta, La comunione legale, in Trattato di diritto privato diretto da Bessone, IV, Il diritto di famiglia, II, Torino, 1999, p. 98 ss.; Galasso e Tamburello, Regime patrimoniale della famiglia, I, in Commentario del codice civile Scialoja-Branca a cura di Galgano,  Artt. 159‑230, Bologna‑Roma, 1999, pp. 388 ss. e 425 ss.; Russo, L’oggetto della comunione legale e i beni personali. Artt. 159-166-bis, in Il codice civile, Commentario diretto da Schlesinger, Milano, 1999, p. 61 ss.; Bianca, Diritto civile, II,  La famiglia. Le successioni, Milano, 2001, p. 103 ss.; Rimini, Acquisto immediato e differito nella comunione legale, Padova, 2001, p. 53 ss.; Troiano, I proventi dell’attività separata nell’alternativa tra libera disponibilità e destinazione ai bisogni della famiglia, in Familia, 2001, p. 354 ss.; De Paola, Il diritto patrimoniale della famiglia nel sistema del diritto privato, II, Il regime patrimoniale della famiglia, Milano, 2002, p. 525 ss.; Spitali, [Il regime legale]. L’oggetto, in Aa. Vv., Trattato di diritto di famiglia, diretto da Zatti, III, Regime patrimoniale della famiglia, Milano, 2002, p. 134 ss.; Cavallaro, La c.d. comunione de residuo fra garanzia dell’autonomia individuale e «vanificazione» dei fini della comunione, in Familia, 2005, p. 109 ss.; Sesta, Diritto di famiglia, Padova, 2005, p. 186 ss.

 [4]  Sono note le discussioni che hanno caratterizzato il tentativo di individuare una ratio del sistema di comunione legale introdotto dalla Riforma del 1975. La prima è quella che punta sulla remunerazione del lavoro femminile (in questo senso cfr. ad es. Russo, Considerazioni sull’oggetto della comunione, in Studi sulla riforma del diritto di famiglia, Milano, 1973, ripubblicato in Le convenzioni matrimoniali e altri saggi sul nuovo diritto di famiglia, Milano, 1983, p. 76 ss.; Costi, Lavoro e impresa nel nuovo diritto di famiglia, Milano, 1976, p. 11 ss.; Id., Nuovo regime patrimoniale tra coniugi e società di persone, in Aa. Vv., Diritto di famiglia. Società - contrattazione immobiliare, Milano, 1978, p. 18). La critica a tale impostazione si basa sulla mancanza di elementi testuali, nonché sulla considerazione per cui, se tale affermazione fosse vera, occorrerebbe, al momento dello scioglimento, tenere conto del lavoro prestato o meno in concreto, laddove, tutto al contrario, il regime legale opera e produce tutti i suoi effetti senza restrizione alcuna a prescindere dal concreto contributo prestato al ménage familiare (cfr. Schlesinger, Della comunione legale, cit., 1992, p. 70 ss.; v. inoltre Carraro, Il regime patrimoniale della famiglia, Milano, 1979, p. 54 s.; Cataudella, Ratio dell’istituto e ratio della norma nella comunione legale tra coniugi, in Aa. Vv., Scritti in onore di Nicolò. Diritto di famiglia, Milano, 1982, p. 302; A. e M. Finocchiaro, op. cit., p. 710 s.; Santosuosso, Il regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 24 ss.; Corsi, op. cit., p. 54). Secondo un altro avviso il regime della comunione mirerebbe all’attuazione del principio di parità tra coniugi stabilito dall’art. 29 cpv. Cost. Di contro si può però osservare che, se tale asserzione fosse vera, si dovrebbe ritenere inconstituzionale il sistema di separazione dei beni (sul punto v. Oberto, Il regime di separazione dei beni tra coniugi. Artt. 215-219, in Il codice civile. Commentario fondato e già diretto da Schlesinger, continuato da Busnelli, Milano, 2005, p. 20 ss.; cfr. inoltre Schlesinger, Della comunione legale, cit., 1992, p. 72; Russo, L’oggetto della comunione legale e i beni personali, cit., p. 12 s.). Come rilevato in dottrina, la comunione legale muove sullo stesso sfondo del regime (convenzionale) di separazione dei beni, ossia nell’ambito della distribuzione, ed anzi, giacché colpisce soltanto determinati beni dei coniugi, presuppone il regime di separazione, si sovrappone e si aggiunge a questo senza mai eliderlo. Se in rapporto al momento contributivo (art. 143 c.c.) il principio di parità può trovare (ed ha in effetti trovato nella nuova normativa) una puntuale e generalmente valida formulazione, altrettanto non è obiettivamente possibile, tenuto conto della nostra attuale realtà economico‑sociale, con riferimento al momento distributivo. Ché, anzi, una volta assicurata la parità nel momento contributivo, attraverso la ripartizione tra i coniugi dell’onere rappresentato dai bisogni della famiglia, l’unico criterio che, in astratto, potrebbe apparire universalmente valido, sarebbe proprio quello del regime di separazione. Esso infatti, combinato con il principio di contribuzione, si traduce nell’ineccepibile (in linea teorica) statuizione che ciascuno dei coniugi può far proprio tutto ciò che riesce a produrre in più rispetto a quanto deve destinare al consorzio familiare. In tal modo, il momento della spontaneità, la libertà di determinazione non sono sacrificati, pur nel rispetto delle esigenze contributive (Corsi, op. cit., p. 55 s.). Di fronte a tali convincenti considerazioni la tesi maggioritaria si è concentrata sulla constatazione per cui la ratio della scelta legislativa va individuata nella volontà di parificare la partecipazione dei coniugi alle «ricchezze» conseguite post nuptias, agli incrementi patrimoniali realizzati durante la vita matrimoniale, la cui attribuzione «al solo coniuge che ne abbia procurato l’acquisto significherebbe (...) ignorare il contributo, diretto o indiretto, materiale o morale, che l’altro coniuge di solito (...) ha prestato alle fortune familiari, con propri sacrifici o rinunce, incentivando il risparmio comune, sostenendo, anche psicologicamente, l’attività del partner» (Schlesinger, Della comunione legale, cit., 1992, p. 73). E’ chiaro che valutare tutto ciò in termini economici, caso per caso, sarebbe impensabile: per questo il Legislatore ha stabilito in linea di principio la regola di una eguaglianza degli apporti di ciascuno, per lo meno fin quando i coniugi accettino di vivere in regime di comunione (in senso analogo v. Carraro, Il nuovo diritto di famiglia, in Riv. dir. civ., 1975, p. 101; Cian, Introduzione sui presupposti storici e sui caratteri generali del diritto di famiglia riformato, in Commentario alla riforma del diritto di famiglia a cura di Carraro, Oppo e Trabucchi, I, 1, Padova, 1977, p. 52; Prosperi, Sulla natura della comunione legale, Napoli, 1983, p. 16; Gionfrida Daino, La posizione dei creditori nella comunione legale tra coniugi, Padova, 1986, p. 5, nota 3; Caravaglios, op. cit., p. 20 s.). Siffatta impostazione sembra essere talora condivisa pure dalla Suprema Corte: così, ad esempio, in una delle decisioni che segnano la definitiva sepoltura della «presunzione muciana» in relazione alle coppie in regime legale (cfr. Cass., 23 gennaio 1990, n. 351, in Foro it., 1990, I, c. 2904; in Giur. it., 1990, I, 1, c. 1269) si legge che il regime legale è «finalizzato al raggiungimento di un’eguaglianza economica dei coniugi con riferimento agli acquisti durante il matrimonio (sul presupposto legale di un eguale contributo, anche economico, di entrambi i coniugi alla realizzazione di essi)» e proprio per questa ragione «non si concilia con la disposizione dell’art. 70 della legge fallimentare, se si riflette che la presunzione dell’appartenenza del denaro al coniuge imprenditore (in relazione agli acquisti) è combattuta e vinta dal principio giuridico dell’attribuzione degli acquisti stessi ad entrambi i coniugi, a prescindere dall’accertamento della provenienza del denaro, anzi sulla opposta presunzione che il prezzo sia la risultante di un eguale apporto dei coniugi». Infine, sui rapporti tra comunione legale e principio di uguaglianza v., dopo la riforma, Quadri, L’oggetto della comunione legale tra coniugi: i beni in comunione immediata, in Fam. dir., 1996, p. 178 ss. e, prima della Novella del 1975, Bin, Rapporti patrimoniali tra coniugi e principio di eguaglianza, Torino, 1971, p. 318 ss.; Moscarini, Parità coniugale e governo della famiglia, Milano, 1974, p. 173 ss.

 [5]  Cioè i frutti dei beni propri (si pensi ad esempio ai canoni di locazione corrisposti dall’inquilino di un alloggio  o al raccolto di un fondo rustico di proprietà di uno solo dei coniugi) e i proventi dell’attività separata di ciascuno dei coniugi (si pensi allo stipendio mensilmente percepito dal coniuge lavoratore dipendente, ovvero al reddito da lavoro autonomo). Se è opinione abbastanza condivisa che il riferimento ai frutti includa tanto quelli naturali che quelli civili, restando semmai controverso, per quanto riguarda quest’ultima categoria, a quale momento bisogna fare riferimento ai fini di determinarne l’avvenuta percezione e cosa si intenda per «mancata consumazione» (sul punto, fra gli altri, Napoli, op. cit., p. 66 ss.; Rimini, op. cit., p. 60 ss.), i commentatori non sono concordi sul significato da attribuire alla formula «proventi dell’attività separata di ciascuno dei coniugi». Per un’ampia trattazione della questione si rinvia comunque a Rimini, op. cit., p. 69 ss.

 [6]  v. per tutti Spitali, op. cit., p. 134 ss.; Cavallaro, op. cit., p. 114 ss.

 [7]  Sul tema v. per tutti Corsi, op. cit., p. 90 ss.

 [8]  Cavallaro, op. cit., p. 115 ss.

 [9]  Sono noti i termini della vexata quaestio relativa all’individuazione del momento da cui far decorrere lo scioglimento del regime comunitario, posto che il Legislatore – a differenza di quanto avviene per l’ipotesi di separazione giudiziale dei beni, per la quale è previsto che l’instaurazione del regime di separazione retroagisca alla proposizione della domanda (art. 193, quarto comma, c.c.) – per le fattispecie previste dall’art. 191 c.c. ha omesso di indicare il momento in cui si produce lo scioglimento della comunione. Rinviando allo sconfinato dibattito dottrinale e giurisprudenziale sul tema (sul tema v. per tutti Schlesinger, Separazione personale e scioglimento della comunione legale, Nota a Trib. Milano, 20 luglio 1995, in Fam. dir., 1996, p. 263 ss.; Lo Moro Biglia, Lo scioglimento della comunione legale tra i coniugi, Padova, 2000, p. 62 ss.), potrà solo ricordarsi in questa sede come parte della giurisprudenza di merito abbia affermato la possibilità di individuare tale momento nel provvedimento con cui il presidente del tribunale autorizza i coniugi a vivere separati (v. Trib. Torino, 11 febbraio 1983, in C.E.D. - Corte di cassazione, Arch. MERITO, pd 840136; Trib. Milano, 20 giugno 1985, in Foro pad., 1986, I, c. 101), mentre alcuni Autori hanno sostenuto la necessità di far retroagire gli effetti della sentenza (o del decreto di omologa) alla data di presentazione della domanda (propongono in dottrina la retroattività degli effetti della pronunzia di separazione alla data di proposizione della domanda, Schlesinger, Della comunione legale, cit., 1977, p. 362; Zatti e Mantovani, La separazione personale, Padova, 1983, p. 293; Corsi, op. cit., p. 176 s.; Mastropaolo e Pitter, Scioglimento della comunione, in Commentario al diritto italiano della famiglia, a cura di Cian, Oppo e Trabucchi, III, cit., p. 301; Barbiera, La comunione legale, cit., p. 498). Va precisato che quest’ultima soluzione, fondata su di un’interpretazione estensiva dell’art. 193 c.c., è in realtà solo apparentemente assimilabile a quella che individua nel provvedimento ex art. 708 c.p.c. il momento dello scioglimento. Invero, se si afferma che gli effetti della pronunzia retroagiscono alla data di proposizione della domanda, si deve poi necessariamente ammettere che, nel caso in cui una diversa causa di scioglimento si venisse a frapporre (per esempio: morte di uno dei coniugi, con conseguente impossibilità di riassunzione o prosecuzione del giudizio), nessun effetto retroattivo potrebbe – evidentemente – dispiegarsi e la comunione dovrebbe ritenersi sciolta alla data in cui queste altre cause di scioglimento si sono verificate. In altri termini, la dottrina qui riferita non attribuisce alla presentazione della domanda, né tanto meno al provvedimento presidenziale, dignità di autonoma causa di scioglimento della comunione, bensì semplice valenza di dies a quo per la produzione di effetti che presuppongono comunque l’accoglimento della domanda di separazione. E’ però altrettanto noto che tali proposte sono state superate, specie nella giurisprudenza di legittimità, da un indirizzo quanto mai rigoristico, per cui lo scioglimento si determina solo nel momento in cui la sentenza o il decreto divengono esecutivi (cfr., ex multis, Cass., 29 gennaio 1990, n. 560, in Dir. fam. pers., 1990, p. 807; Cass., 11 luglio 1992, n. 8469, in Dir. fam. pers., 1993, p. 83; Cass., 17 dicembre 1993, n. 12523, in Fam. dir., 1994, p. 424, con nota di Caliendo; Cass., 7 marzo 1995, n. 2652, in Mass. Giust. civ., 1995, p. 536; Cass., 23 giugno 1998, n. 6234, in Foro it., 1999, I, c. 655; Cass., 2 settembre 1998, n. 8707, in Vita notar., 1998, p. 1605; Cass., 18 settembre 1998, n. 9325, in Fam. dir., 1999, p. 182; Cass., 5 ottobre 1999, n. 11036, in Notariato, 2000, p. 13, con nota di Bartolucci; Cass., 27 febbraio 2001, n. 2844, in Fam. dir., 2001, p. 441; per la giurisprudenza di merito v. Trib. Trieste, 24 luglio 1981, in Dir. fam. pers., 1983, p. 121; Trib. Genova, 3 dicembre 1985, in C.E.D. - Corte di cassazione, Arch. MERITO, pd 860198; App. Genova, 27 luglio 1985, ivi, pd 860367; Trib. Roma, 19 maggio 1986, ivi, pd 860391; Trib. Genova, 16 gennaio 1986, in Dir. fam. pers., 1986, p. 622; Trib. Vercelli, 27 maggio 1992, in Giur. merito, 1992, p. 1082; Trib. Terni, 3 febbraio 1993, in Rass. giur. umbra, 1993, p. 369, con nota di Palma; Trib. Reggio Emilia, 20 novembre 1998, in Giur. merito, 1999, p. 473, con nota di Pagliani; Trib. Roma, 10 novembre 1999, in Giur. it., 2000, p. 1412, con nota di Scaglione; in dottrina v. per tutti A. e M. Finocchiaro, op. cit., p. 1128 s.; Scardulla, La separazione personale dei coniugi ed il divorzio, Milano, 1977, p. 354). Tale soluzione prevalente, sebbene criticabile per l’assurdità delle conseguenze cui porta, appare tecnicamente corretta: basti pensare al fatto che la lettera dell’art. 191 c.c. richiama in tema la (sola) separazione personale dei coniugi e che separazione personale non si può avere, in caso di contenzioso, se non con il passaggio in giudicato della relativa pronunzia. Ogni altra possibile interpretazione è esclusa dal fatto che la citata disposizione è chiara e che il passaggio dall’interpretazione letterale ad altre forme di interpretazione (logica, sistematica e teleologica) non è consentito quando il tenore della previsione normativa appare inequivocabile (in claris non fit interpretatio; in senso favorevole alla soluzione della giurisprudenza prevalente v. anche Paladini, Lo scioglimento della comunione legale e la divisione dei beni, in Trattato di diritto privato, diretto da Bessone, IV, Il diritto di famiglia, II, Torino, 1999, p. 405). Andrà però aggiunto che le conseguenze della soluzione che si è appena illustrata appaiono oggi in qualche modo mitigate dall’affermarsi della tesi che ammette la possibilità di una pronunzia parziale di separazione, con conseguente sensibile anticipazione del momento di formazione del giudicato sul punto della separazione (sul tema v. da ultimo Cass., 26 agosto 2004, n. 16996; per un richiamo ai precedenti cfr. Piselli, La riconosciuta autonomia delle azioni consente di separare le due pronunce, Nota a Cass., 26 agosto 2004, n. 16996, in Guida al diritto, 2004, n. 38, p. 51).

 [10]  Sul tema v. Oberto, I contratti della crisi coniugale, Milano, 1999, I, p. 164 s.

 [11]  Sul punto v. per tutti Corsi, op. cit., p. 92; A. e M. Finocchiaro, op. cit., p. 1012, nota 49 bis; Auletta, op. cit., p. 109; Russo, L’oggetto della comunione legale e i beni personali, cit., p. 81 s. Sembra invece adombrare (se si è ben compreso) la possibilità di una surrogazione Cavallaro, op. cit., p. 111: secondo l’Autrice, infatti, i beni in comunione de residuo «Se spesi si trasformeranno in acquisti alla comunione ovvero, là dove ne ricorrano i presupposti, in acquisti destinati ad essere ricompresi nelle categorie di beni di cui all’art. 179 c.c.».

 [12]  Cfr. Cass., 23 settembre 1997, n. 9355, in Corr. giur., 1998, p. 68; in Giur. it., 1998, p. 876; in Foro it., 1999, I, c. 1324; in Dir. fam. pers., 1999, I, p. 537.

 [13]  Cfr. Cass., 12 settembre 2003, n. 13441, in Giust. civ., 2004, I, p. 2004; in Vita not., 2004, I, p. 278; in Dir. giust., 2003, n. 35, p. 39, con nota di San Giorgio: «L’art. 177 lett. c) del codice civile esclude dalla comunione legale tra coniugi i proventi dell’attività separata svolta da ciascuno di essi e consumati in epoca precedente allo scioglimento della comunione».

 [14]  Da notare che in motivazione la decisione citata alla nota precedente si occupa anche dell’eventuale applicabilità della presunzione ex art. 195 c.c. in relazione alle somme oggetto di comunione de residuo. Rigettando la domanda del coniuge, che chiedeva il riconoscimento di un diritto ad una parte dei proventi dell’attività lavorativa personale del consorte e ne lamentava l’occultamento, la Corte rileva la mancanza di una prova adeguata, atteso che, qui, la presunzione ex artt. 195 e 219 c.c., in virtù della quale si reputano comuni i beni mobili rispetto ai quali non sia fornita prova contraria, non opera, in  quanto trattasi di somme originariamente depositate nel conto corrente intestato in via esclusiva all’altro coniuge. Per la Cassazione, infatti, «è palese come, nel caso in esame, la presunzione di appartenenza delle somme in oggetto alla comunione fra coniugi, che la ricorrente pretende di ricavare dal combinato disposto degli artt. 195 e 219, secondo comma, c.c., non possa comunque trovare applicazione, per la decisiva ragione che le norme da ultimo citate non richiedono alcuna prova qualificata per rovesciare la presunzione appunto ivi rispettivamente stabilita, essendo cioè sufficiente una prova libera e, quindi, anche una prova per presunzioni (Cass. 18 agosto 1994, n. 7437), del genere esattamente di quella di proprietà ‘esclusiva’, sopra indicata, che la Corte territoriale ha ritenuto di porre a fondamento della propria decisione, in aderenza al principio generale secondo cui le presunzioni legali ammettono di regola la prova contraria che, ove la legge non ponga specifiche limitazioni (così, espressamente, il primo comma dell’art. 219 c.c.), può essere data con ogni mezzo (Cass. 25 maggio 1972, n. 1659; Cass. 11 marzo 1981, n. 1384; Cass. 21 giugno 1985, n. 3721)».

 [15]  Cfr. Cass., 29 novembre 1986, n. 7060; sull’appartenenza alla comunione de residuo di un immobile per il solo fatto obiettivo della sua destinazione ad attività di impresa gestita da uno solo dei coniugi cfr. anche Cass., 19 settembre 2005, n. 18456.

 [16]  Cass., 9 marzo 2000, n. 2680, in Foro it., 2000, I, c. 3551; in Fall., 2001, p. 39, con nota di Caravaglios; in Dir. fall., 2001, II, p. 392, con nota di Bonavitacola; cfr. inoltre Cass., 21 maggio 1997, n. 4533. Si noti poi che, ancora successivamente, la Corte, decidendo che «in regime di comunione legale tra coniugi, il fallimento di uno di essi determina la comunione de residuo sui beni destinati post nuptias all’esercizio dell’impresa solo rispetto ai beni residui a seguito della chiusura della procedura», ha ribadito, in motivazione, che «È noto che, in regime di comunione legale, tutti i beni che vengano acquistati da uno dei coniugi e siano destinati all’esercizio di un’impresa costituita dopo il matrimonio fanno parte della comunione medesima solo de residuo (art. 178 c.c.), cioè, se e nei limiti in cui sussistano al momento dello scioglimento di quest’ultima. Alla luce di tale principio, questa Corte ha già avuto occasione di chiarire che i beni acquistati e destinati all’esercizio dell’impresa sono, prima dello scioglimento della comunione, aggredibili per intero dai creditori del coniuge acquirente (Cass. 29 novembre 1986, n. 7060; Cass. 21 maggio 1997, n. 4533) per cui la conseguenza logica di ciò è che, qualora intervenga, come nel caso di specie, il fallimento del coniuge proprietario dei beni, la garanzia dei creditori necessariamente permane per l’intero su questi ultimi non essendo ipotizzabile che con la dichiarazione di fallimento la garanzia stessa possa ridursi (Cass. 2680/00)» (Cass., 14 aprile 2004, n. 7060, in Fall., 2005, p. 146, con nota di Figone).

 [17]  Cfr. Cass., 5 marzo 2004, n. 4532.

 [18]  Sulla capacità a testimoniare del coniuge in regime di comunione legale si registrano i seguenti precedenti di legittimità (oltre a quello di cui si riferisce nel testo): «Nel caso di regime di comunione fra i coniugi, e con riguardo a controversia promossa dall’uno per l’attribuzione di un bene destinato ad incrementare il patrimonio comune (nella specie, con azione di retratto agrario), l’altro coniuge, pur non avendo la qualità di litisconsorte necessario, si trova in situazione di incapacità a testimoniare, ai sensi dell’art. 246 cod. proc. civ., stante la sua facoltà di intervenire nel relativo giudizio» (Cass., 7 marzo 1984, n. 1594, in Foro it., 1984, I, c. 1580; in Giust. civ., 1984, I, p. 2174; in Riv. notar., 1984, II, p. 1187). «Se oggetto di una controversia è la violazione della disciplina delle distanze di una costruzione dal confine, il coniuge del convenuto, in regime di comunione legale dei beni con questi, non è incapace di testimoniare (art. 246 cod. proc. civ.), perché l’incremento eventuale del patrimonio comune non è strettamente connesso e dipendente dall’oggetto della lite, e perciò l’interesse del coniuge escusso è di mero fatto, influente sulla valutazione della sua attendibilità, ma inidoneo a legittimare la sua partecipazione al giudizio» (Cass., 9 ottobre 1997, n. 9786). «In tema di incapacità del coniuge in regime di comunione legale a testimoniare nelle controversie in cui sia parte l’altro coniuge, non è configurabile, nell’ordinamento vigente, un generale divieto di testimonianza, dovendosi invece verificare di volta in volta la natura del diritto oggetto della controversia, avuto anche riguardo al carattere di norme di stretta interpretazione delle disposizioni sulla incapacità a testimoniare, che introducono una deroga al generale dovere di testimonianza. Pertanto, nella controversia concernente l’accertamento della responsabilità civile a seguito di sinistro stradale, in cui sia convenuto uno dei coniugi in regime di comunione legale, trattandosi di una obbligazione di natura extracontrattuale e personale, della quale, in linea di principio, la comunione legale non dovrebbe rispondere, la corresponsabilità della stessa è ipotizzabile solo ai sensi dell’art. 2054, terzo comma, cod. civ. sempre che risulti che il veicolo coinvolto nel sinistro non sia di proprietà, o nella disponibilità, esclusiva di uno dei coniugi; sicché, in presenza dell’accertamento che detto veicolo era condotto dal proprietario, non è sufficiente invocare il regime patrimoniale di comunione legale dei coniugi per inferirne la sussistenza di un interesse del coniuge del convenuto idoneo a legittimare la sua partecipazione al giudizio, e, quindi, la sua incapacità a deporre, ai sensi dell’art. 246 cod. proc. civ.» (Cass., 9 febbraio 2005, n. 2621).

 [19]  Pret. Bari, 6 febbraio 1982, in Banca, borsa, tit. cred., 1983, p. 386.

 [20]  Cass., 22 febbraio 1992, n. 2182, in Giust. civ., 1992, I, p. 892.

 [21]  Il tema della titolarità dei conti correnti e, più in generale, dei rapporti bancari relativamente a coniugi in regime legale appare strettamente legato a quello della caduta in comunione dei rapporti di credito (su cui v. per tutti, Alagna, Regime patrimoniale della famiglia ed operazioni bancarie, Padova, 1988; Spitali, op. cit., p. 126 ss.). La Cassazione ha avuto modo, in tempi piuttosto recenti, di pronunziarsi sull’argomento della caduta o meno in comunione di diritti di credito derivanti da conti correnti bancari, facendo applicazione, questa volta, della regola enunciata ad altri fini circa la ritenuta riferibilità dell’art. 177 c.c. alle sole situazioni caratterizzate da realità. Così la Corte ha deciso che «In tema di imposta sulle successioni, il saldo attivo di un conto corrente bancario intestato al de cuius, va tassato per intero, anche se il defunto era in regime di comunione legale con il coniuge, atteso che la comunione legale fra i coniugi, di cui all’art. 177 cod. civ., riguarda gli acquisti, cioè gli atti implicanti l’effettivo trasferimento della proprietà della res o la costituzione di diritti reali sulla medesima, non quindi i diritti di credito sorti dal contratto concluso da uno dei coniugi, i quali, per la loro stessa natura relativa e personale, pur se strumentali all’acquisizione di una res, non sono suscettibili di cadere in comunione» (Cass., 1 aprile 2003, n. 4959). Analogamente la successiva Cass., 27 aprile 2004, n. 8002 ha stabilito che «Il regime di comunione coniugale di cui all’art. 177 cod. civ. coinvolge i soli acquisti di beni e non inerisce invece alla instaurazione di rapporti meramente creditizi, quali quelli connessi, ad esempio, all’apertura di un conto corrente bancario nel corso della convivenza coniugale». Da tale premessa la Corte ha derivato l’interessante conseguenza secondo cui, in relazione a tali rapporti, le parti non potranno sollevare in alcun modo preclusioni di sorta legate alla necessità del «preventivo scioglimento della comunione legale coniugale e quindi al preventivo passaggio in giudicato della sentenza di separazione». E’ evidente dunque che, nel caso di specie, la premessa, pur non condivisibile (per lo meno ad avviso di chi scrive), circa l’esclusione dalla caduta in comunione dei crediti risultanti dai rapporti di conto corrente bancario, ha quanto meno portato alla conseguenza positiva dell’attenuazione di una delle più devastanti conseguenze della mancata previsione normativa dell’inizio della procedura di separazione personale quale causa di scioglimento del regime legale; conseguenza consistente, per l’appunto, nella necessità dell’attesa del passaggio in giudicato della sentenza di separazione contenziosa per poter ritenere integrata una delle fattispecie rilevanti ex art. 191 c.c. e dunque ammissibile una domanda diretta alla divisione del patrimonio già comune. Ne deriva che (secondo la citata decisione) le domande divisorie dirette all’attribuzione di quote di saldi attivi di conti correnti intrattenuti dai coniugi presso istituti bancari saranno immediatamente proponibili, senza preclusioni di sorta.

Sullo stesso tema potrà segnalarsi un’ulteriore decisione, secondo la quale «La mera titolarità formale di un conto corrente bancario non può, da sola, costituire circostanza decisiva in ordine alla proprietà e spettanza dei relativi fondi, occorrendo valutare in concreto, caso per caso, se sussista disgiunzione fra intestazione nominale del conto e reale appartenenza delle somme depositate (principio affermato dalla S.C. nel confermare la decisione di merito che, a seguito di separazione personale, facendo corretta applicazione dell’art. 2729 cod. civ. aveva ritenuto che le somme accreditate sul conto corrente di cui era titolare un coniuge spettassero all’altro, i proventi della cui attività avevano costituito l’unica fonte di guadagno della famiglia)» (Cass., 23 gennaio 2004, n. 1149): da notare che, in questo caso, neppure dalla lettura della motivazione emerge che la parte interessata (nella specie, quella unica intestataria del conto) si sia mai curata di avanzare pretese ex art. 177 lett. c) c.c. In epoca ancora più recente la Cassazione ha poi stabilito che «In tema di comunione legale tra coniugi, il denaro ottenuto a titolo di prezzo per l’alienazione di un bene personale rimane nella esclusiva disponibilità del coniuge alienante anche quando esso venga dal medesimo accantonato sotto forma di deposito bancario sul proprio conto corrente, giacché il diritto di credito relativo al capitale non può considerarsi modificazione del capitale stesso, né è d’altro canto configurabile come un acquisto nel senso indicato dall’art. 177, primo comma, lettera a), cod. civ., cioè come un’operazione finalizzata a determinare un mutamento effettivo nell’assetto patrimoniale del depositante. Pertanto, il coniuge può utilizzare le somme accantonate sul di lui conto corrente, provenienti dall’alienazione di un bene personale, ai fini della surrogazione reale di cui all’art. 179, primo comma, lettera f), cod. civ.» (Cass., 20 gennaio 2006, n. 1197).

A prescindere poi dalla questione circa la caduta o meno in comunione dei diritti di credito, la dottrina sembra orientata ad affermare che oggetto di comunione legale possa essere anche il denaro, in quanto bene mobile, suscettibile d’acquisto da parte dei coniugi (così v. per tutti Spitali, op. cit., p. 124 ss.; contra Russo, L’oggetto della comunione legale e i beni personali, cit., p. 227). Posto che peraltro, come ammette la stessa dottrina contraria alla caduta in comunione dei rapporti di credito, il denaro «raramente viene conservato sotto forma di numerario» (così, ad esempio, Spitali, op. cit., p. 125), la conclusione testé enunciata rischia di perdere concreto significato, laddove si affermi che il credito verso la banca in un rapporto di conto corrente o di deposito non sarebbe idoneo a sottostare alla regola ex art. 177 lett. a) c.c.

 [22]  Prima di passare all’esame del profilo probatorio e degli strumenti che su tale piano la Cassazione aveva prospettato anteriormente alla pronuncia qui in commento, andrà ancora sommariamente illustrato il tema della natura della comunione residuale, una volta che si sia verificato lo scioglimento del regime legale. Al riguardo, due tesi sembrano contendersi il campo. Da un lato, quella della formazione ex lege di una situazione di reale contitolarità circa i diritti in oggetto e, dall’altro, quella di una natura puramente «creditizia» delle pretese dei coniugi, che si risolverebbero in una mera partita di conto tra i valori delle due masse, con conseguente nascita di un diritto di credito da parte del coniuge più «povero» sulla differenza tra la metà del valore del patrimonio dell’altro, rilevante ex art. 177, lett. b) e c), nonché eventualmente 178 c.c., e la metà del proprio: valori, questi, che andrebbero calcolati, oltre tutto, una volta dedotti i rispettivi debiti personali (sul primo orientamento v. per tutti Auletta, op. cit., p. 112 ss.; Di Transo, op. cit., p. 531 ss.; per il secondo v. Corsi, op. cit., p. 95 e 191; Schlesinger, Della comunione legale, cit., 1992, p. 122 e 145; Cian e Villani, op. cit., p. 346; Spitali, op. cit., p. 134 ss.; Rimini, op. cit., p. 68 ss., 83 ss.; per ulteriori richiami alla dottrina nell’uno e nell’altro senso cfr. anche Parente, Struttura e natura della comunione residuale nel sistema del codice riformato, nota a Trib. Camerino, 5 agosto 1988, in Foro it., 1990, I, c. 2333 ss.).

Se la prima tesi ha il pregio di corrispondere maggiormente al tenore letterale della disposizione, che parla, per l’appunto, di «comunione», va detto che siffatta soluzione sembra presentare problemi quasi insolubili, quando si procede all’esame delle relative conseguenze pratiche. Basti pensare al fatto che oggetto della comunione de residuo sono non solo somme di denaro, ma anche beni, sia mobili che immobili (si ponga mente in particolare alle fattispecie riconducibili al disposto dell’art. 178 c.c.). In tal caso affermare l’automatico venire in essere di una situazione di contitolarità reale in capo a tali beni verrebbe a porre problemi insormontabili nei rapporti con i terzi, ai quali può sfuggire (ed anzi normalmente sfugge) l’esistenza di ragioni che determinano l’assoggettamento a comunione di beni a questa apparentemente sottratti; siffatta tesi verrebbe poi anche a porsi in contrasto con il principio secondo cui lo scioglimento della comunione legale dovrebbe attenuare i vincoli patrimoniali tra i coniugi, anziché incrementarli sul piano della contitolarità. Per queste ragioni appare maggiormente convincente la tesi seguita in giurisprudenza da un ormai remoto precedente di merito (Trib. Camerino, 5 agosto 1988, in Foro it., 1990, I, c. 2333, con nota di Parente), secondo cui «La comunione de residuo ha natura di mero diritto di credito e non attribuisce al coniuge non imprenditore alcuna automatica ragione nei confronti dei beni aziendali, essendo la sua posizione subordinata al previo soddisfacimento dei creditori dell’impresa».

 [23]  In questo senso v. anche Troiano, op. cit., p. 371, Cavallaro, op. cit., p. 130.

 [24]  Cass., 10 ott. 1996, 8865, in Fam. dir., 1996, p. 515, con nota di Schlesinger; in Vita not., 1996, p. 1200, con nota di M. Finocchiaro; in Corr. giur. 1997, p. 36, con nota di Barbiera.

 [25]  Cass., 17 novembre 2000, n. 14897: «Costituiscono oggetto della comunione cosiddetta de residuo, ai sensi dell’articolo 177 lett. c) cod. civ., non solo quei redditi per i quali si riesca a dimostrare che sussistano ancora al momento dello scioglimento della comunione ma anche quelli, percetti e percipiendi, rispetto ai quali il coniuge titolare non riesca a dimostrare che siano stati consumati o per il soddisfacimento dei bisogni della famiglia o per investimenti già caduti in comunione (nella specie la S.C. ha confermato la decisione di merito secondo cui ricadevano in comunione de residuo le somme depositate su un conto corrente cointestato, ritirate prima della separazione e asseritamente utilizzate per l’attività d’impresa del coniuge prelevante)».

 [26]  Sul tema del progressivo abbandono, da parte delle coppie italiane, del regime della comunione legale (abbandono, sia detto per inciso, favorito proprio da talune rigidità della Cassazione su temi quali l’individuazione del momento di scioglimento del regime, o l’inammissibilità del rifiuto preventivo del coacquisto, o la necessaria partecipazione di entrambi i coniugi per gli acquisti personali ex art. 179, cpv., c.c., o, ancora, il non riconoscimento di validità alle intese concluse in vista della crisi coniugale) si fa rinvio per tutti a Oberto, Il regime di separazione dei beni tra coniugi. Artt. 215-219, cit., p. 6 ss.

 [27]  Sull’applicabilità dell’art. 217 c.c. ai beni personali ed a quelli in comunione de residuo si fa rinvio per tutti a Oberto, Il regime di separazione dei beni tra coniugi. Artt. 215-219, cit., p. 131 ss.

 [28]  Trib. Trani,12 maggio 1997, in Dir. fam. pers., 1998, p. 1472.

 [29]  Cfr. Schlesinger, Della comunione legale, cit., 1977, p. 381 ss.

 [30]  Cfr. Auletta, op. cit., p. 99.

 [31]  V. in particolare A. e M. finocchiaro, op. cit., p.  932 ss.; Giusti, L’amministrazione dei beni della comunione legale, Milano, 1989, p. 34, nota 13.

 [32]  Cfr. Schlesinger, Della comunione legale, cit., 1992, p. 116 s.

 [33]  Conclusione, questa, ribadita nel commento a Cass., 10 ottobre 1996, n. 8865, cit., ove si legge che «sostenere che possono considerasi “consumati” – e quindi esclusi dalla comunione de residuo – solo i redditi utilizzati o per soddisfare i bisogni della famiglia o per procurare acquisti alla comunione legale, mi parrebbe non conforme al sistema varato dal legislatore del 1975, sistema nel quale non vi è traccia di strumenti concessi al partner per sindacare o impedire 1’utilizzo delle disponibilità individuali dell’altro coniuge» (Schlesinger, Comunione de residuo e onere della prova, nota a Cass., 10 ottobre 1996, n. 8865, in Fam. dir., 1996, p. 517).

 [34]  Sull’inesistenza di poteri di controllo da parte del coniuge cfr. anche Trib. Trani, 12 maggio 1997, cit.; in dottrina v., anche per i richiami, Russo, L’oggetto della comunione legale e i beni personali, cit., p. 62 ss.; Spitali, op. cit., p. 143 ss.

 [35]  Cass., 12 settembre 2003, n. 13441, cit.

 [36]  Il tentativo di collegare la tematica in questione al disposto di cui all’art. 193 c.c. è stato inizialmente percorso da Busnelli, La «comunione legale» nel diritto di famiglia riformato, in Riv. notar., 1976, p. 37, il quale individua una corrispondenza fra l’interesse la cui realizzazione verrebbe messa a rischio da una disordinata conduzione degli affari e l’interesse all’acquisizione del residuo, che in tal guisa riceverebbe quell’autonomo riconoscimento giuridico, presupposto necessario ai fini dell’estensione di adeguati mezzi di tutela anche in fase di regolamentazione degli effetti dello scioglimento della comunione. La ricostruzione – su cui v. anche Cavallaro, op. cit., p. 119 ss. – si scontra però con il rilievo secondo cui appare impossibile desumere dal disposto di cui all’art. 193 c.c. il riconoscimento di una situazione soggettiva autonomamente tutelata e relativa all’acquisizione del residuo, posto che gli interessi ivi richiamati sono generici e destinati a rilevare in via di mero fatto, nel senso che la loro messa in pericolo assume rilevanza solo in quanto concorre ad integrare il presupposto dell’azione di scioglimento. E d’altra parte, che il comportamento pregiudizievole del coniuge rilevi solo indirettamente, ai fini di giustificare la richiesta dello scioglimento giudiziale del regime di comunione, è confermato dal fatto che la norma non prevede l’adozione di alcun rimedio volto a sanzionare tale comportamento e a rimuoverne eventuali effetti negativi, salva l’applicabilità del rimedio di cui all’art. 194, cpv., c.c., che comunque è predisposto in via immediata alla tutela di interessi di altro tipo (per questi rilievi v. anche Cavallaro, op. cit., p. 119, nota 26).

 [37]  Applica l’azione revocatoria Trib. Ferrara, 21 maggio 1985, in Nuova giur. civ. comm., 1986, p. 504 ss. Un richiamo a tale mezzo di tutela si rinviene anche in Busnelli, La «comunione legale» nel diritto di famiglia riformato, cit., p. 38; Barbiera, op. cit., p. 490.

 [38]  Così Cavallaro, op. cit., p. 120. Configurano in capo al coniuge non percettore un acquisto sottoposto a condizione sospensiva Gionfrida Daino, La posizione dei creditori nella comunione legale tra coniugi, cit., p. 12;  Di Transo, op. cit., p. 534 ss., 541. Quest’ultimo Autore, però, ritiene che «trattandosi di condicio iuris, nessuna tutela spetta medio tempore al titolare dell’aspettativa, cioè all’altro coniuge (p. 535)». Come rilevato da Cavallaro, op. cit., p. 120, nota 29, stando così le cose, non si comprende l’utilità del ricorso alla figura della condizione.

 [39]  Così Cavallaro, op. cit., p. 120.

 [40]  Così Rimini, op. cit., p. 104 ss.

 [41]  Sul tema dell’applicabilità dell’art. 2043 c.c. alla fattispecie in esame v. Busnelli, La «comunione legale» nel diritto di famiglia riformato, cit., p. 37; Id., Linee di tendenza della dottrina nei primi due anni di applicazione della riforma del diritto di famiglia, in Dir. fam. pers., 1979, p. 416 s. e le relative critiche in Cavallaro, op. cit., p. 121, secondo cui la previsione del «danno ingiusto» quale presupposto per il riconoscimento della tutela risarcitoria postula pur sempre la lesione di un interesse giuridicamente riconosciuto, che nella presente ipotesi si stenta a rinvenire, risultando a tal fine troppo generico il riferimento agli interessi del coniuge, della famiglia o della comunione, contenuto nell’art. 193, cpv., c.c. Né sembra ammissibile, per tale via, invocare la violazione del principio del neminem laedere, visto che anche in questo caso si rende necessaria l’individuazione di una situazione soggettiva tutelata in capo a colui che lamenta la lesione rispetto al conseguimento del residuo, laddove il coniuge – nella fase precedente allo scioglimento della comunione – non vanta nessuna situazione giuridicamente protetta, né in termini di diritto relativo, né tanto meno in termini di diritto di proprietà.

 [42]  Per il tentativo di collocare la questione all’interno delle ipotesi di abuso di diritto v.  Majello, op. cit., p. 5, il quale rinviene l’abuso «nell’ipotesi in cui i redditi personali siano stati sperperati nella soddisfazione di interessi egoistici», ma riconduce tale comportamento alla violazione del dovere di buona fede. Per un’informazione generale sul tema dell’abuso del diritto v. per tutti Natoli, Note preliminari ad una teoria dell’abuso del diritto nell’ordinamento giuridico italiano, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1958, p. 28 ss.; Rescigno, L’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 1965, 1, p. 259 ss.; Id., L’abuso del diritto, Bologna, 1998; Patti, Abuso del diritto, in Dig. IV, Disc. priv., Sez. civ., I, Torino, 1987, p. 1 ss.; Breccia, L’abuso del diritto, in Aa Vv., Diritto privato 1997, Padova, 1998, p. 82 ss.

 [43]  Cavallaro, op. cit., p. 125 s.

 [44]  Su cui v., in tal senso, Gionfrida Daino, La posizione dei creditori nella comunione legale tra coniugi, cit., p. 15; Ead., Nota a Trib. Ferrara, 21 maggio 1985, in Nuova giur. civ. comm., 1986, p. 506 ss.; Majello, op. cit., p. 5.

 [45]  Cass., 16 luglio 2004, n. 13164.

 [46]  Nel senso dell’aspettativa di diritto v. invece Busnelli, La «comunione legale» nel diritto di famiglia riformato, cit., p. 37.

 [47]  Cfr. art. 1417 c.c.; sul tema v. anche Auletta, op. cit., p. 102; Cavallaro, op. cit., p. 127.

 [48]  Cavallaro, op. cit., p. 127.

 [49]  Cfr. la già citata l. 8 febbraio 2006, n. 54, «Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli».

 [50]  Sul controverso concetto di «intestazione di beni sotto nome altrui» v., anche per gli ulteriori, necessari, rinvii, Fr. Ferrara Sr., Della simulazione nei negozi giuridici, Roma, 1922, p. 182 s.; Id., Interposizione di persona e intestazione in altra persona, in Riv. dir. priv., 1937, p. 129 ss.; Messineo, Dottrina generale del contratto, Milano, 1952, p. 308; Valente, L’intestazione di beni sotto nome altrui : concetto, natura, estensione ed effetti, Milano, 1958; Cariota Ferrara, Il negozio giuridico nel diritto privato italiano, Napoli, s.d. ma 1966, p. 546, nota 20; Flamini, Interposizione  fittizia  di persona o intestazione di beni sotto nome altrui, Nota a Trib. Ascoli Piceno, 12 aprile 1977, in Giur. it., 1978, I, 2, c. 485 ss.; Nanni, L’interposizione di persona, Padova, 1990, p. 77 ss., 253 ss.; De Lorenzo, Intestazione  del bene in nome altrui: appunti in margine a una giurisprudenza recente, Nota a Cass., 8 febbraio 1994, n. 1257, in Foro it., 1995, I, c. 614 ss.

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