Giacomo OBERTO

LEZIONI SUL FONDO PATRIMONIALE

 

SOMMARIO

Parte I

Il fondo patrimoniale: natura, oggetto e titolarità dei beni

 

1. Generalità.

2. La funzione del fondo, la nozione di famiglia e l’individuazione dei bisogni.

3. Fondo patrimoniale e patrimonio familiare.

4. Fondo patrimoniale e atto costitutivo.

5. La natura di convenzione matrimoniale, propria dell’atto costitutivo inter vivos del fondo patrimoniale.

6. Il problema dell’accettazione. Rapporti con la donazione.

Problemi relativi all’accettazione nel caso di attribuzione di proprietà a favore (e di costituzione da parte) di uno solo dei coniugi

 

 

7. L’oggetto del fondo patrimoniale.

8. La pubblicità (rinvio).

9. Trust e fondo patrimoniale.

10. Titolarità dei beni e diritti dei coniugi. Attribuzione dei beni in proprietà o in godimento.

11. Diritti ed obblighi dei coniugi in caso di attribuzione del solo godimento. Risvolti sul piano tributario.

 

 

Parte II

Amministrazione e alienazione dei beni del fondo

 

1. L’amministrazione dei beni.

2. Gli atti contemplati dall’art. 169 c.c.; l’estensione dell’autonomia privata.

Possibilità di prevedere nella convenzione la libera alienabilità dei beni, anche in presenza di figli minori

 

 

3. L’autorizzazione giudiziale e i suoi effetti.

4. Le conseguenze della violazione della disposizione in esame: la sorte dell’atto compiuto in assenza di autorizzazione.

5. Le conseguenze della violazione della disposizione in esame: la responsabilità dei coniugi.

 

 

Parte III

Esecuzione sui beni e sui frutti. Rapporti con i creditori

 

1. Il vincolo di inespropriabilità dei beni e l’estraneità dell’obbligazione ai bisogni della famiglia.

2. L’esecuzione sui beni.

3. La nozione di bisogni della famiglia.

4. L’irrilevanza del momento in cui il credito è sorto.

5. Fondo patrimoniale e azione revocatoria (ordinaria): i presupposti oggettivi.

6. Fondo patrimoniale e azione revocatoria (ordinaria): i presupposti soggettivi.

7. Fondo patrimoniale e azione revocatoria (ordinaria): la pubblicità della domanda. L’azione proposta dal curatore fallimentare. La legittimazione passiva.

8. Fondo patrimoniale e fallimento.

9. Sul carattere gratuito o oneroso dell’atto costitutivo del fondo patrimoniale.

 

 

Parte IV

Cessazione del fondo

 

1. Modificazioni del fondo.

2. Cessazione ed esaurimento del fondo. Le cause di cessazione del fondo patrimoniale.

3. La cessazione del fondo patrimoniale in presenza di figli.

 

Bibliografia essenziale

 

 

 

 

 

Parte I

Il fondo patrimoniale: natura, oggetto e titolarità dei beni

 

1. Generalità. La ratio dell’istituto e il suo uso distorto. 1.1. Nell’intenzione del riformatore, resa d’altro canto evidente dal tenore del primo comma dell’art. 167 c.c., il fondo patrimoniale era finalizzato a sopperire ai bisogni della famiglia, rimanendo anzi esso, dopo l’abolizione della dote e insieme all’usufrutto legale dei genitori sui beni dei figli minorenni, l’unico istituto finalizzato a tale scopo (Auletta 1990, 7 ss.; Id. 1997, 343; Cenni 2002, 553; Demarchi 2005, 17 ss.), in grado così di attuare quel «momento contributivo» un tempo soddisfatto dagli apporti dotali (Corsi 1979, 47 ss.). 1.2. Quello che parte della dottrina qualificava come un «ramo secco» del nostro ordinamento (l’espressione di Russo 1973, 568, viene ripresa e sottoscritta da Corsi 1984, 83, il quale peraltro mette in guardia proprio dai rischi cui si farà subito cenno) ha, in realtà, dimostrato di saper produrre alcuni frutti: quasi tutti, peraltro, «perversi». Un’analisi, anche soltanto sommaria, della giurisprudenza evidenzia infatti una prevalente utilizzazione dell’istituto in questione in frode ai creditori (al riguardo, cfr. Dogliotti, Regime patrimoniale della famiglia, RDC, 1994, II, 1361; cfr. inoltre sub art. 170 c.c.). Significativo è il fatto che, a parte le vicende in tema di azione revocatoria (per una disamina delle quali – e dell’ormai abbondante giurisprudenza al riguardo – cfr. infra, Parte III, §§ 5 ss.), persino il primo «trittico» di decisioni conformi in materia di pubblicità del fondo patrimoniale abbia mostrato in maniera più che evidente il ruolo che, a livello di rationes decidendi, ha giocato la preoccupazione dei decidenti di stroncare in apicibus il tentativo dei coniugi di sottrarre il proprio patrimonio alla garanzia patrimoniale generica prevista dall’art. 2740 c.c. (cfr. T Roma 6 nov. 1980, confermata da A Roma 28 nov. 1983 e da CC 27 nov. 1987/8824, RN, 1988, 722: per i richiami e per la trattazione dell’argomento cfr. Oberto, Commento all’art. 162 c.c., in Aa. Vv., Codice della famiglia commentato, a cura di Sesta, Milano, 2007,  §§ 9 ss.).

 

2. La funzione del fondo, la nozione di famiglia e l’individuazione dei bisogni. 1.1. La funzione del fondo, nell’intenzione del riformatore del 1975, avrebbe dunque dovuto essere quella di destinare determinati beni – immobili, mobili registrati, titoli di credito – al perseguimento di uno scopo esclusivo, individuato nel soddisfacimento dei bisogni della famiglia (cfr. per tutti De Paola 1996, 23 ss.; Gabrielli 1997, 387; Gabrielli-Cubeddu 1997, 263). 1.2. Per quanto attiene alla nozione di famiglia di cui all’art. 167 c.c. si fa notare in dottrina che essa ricomprende, oltre ai coniugi, i figli legittimi, legittimati e adottivi (Carresi 1992, 44; secondo Pino, Il diritto di famiglia, Padova, 1977, 129, tra questi ultimi sarebbero inclusi solo i minorenni; per A.-M. Finocchiaro 1984, 801, vanno inseriti anche i nascituri; sottolinea il legame con la sola famiglia nucleare Auletta 1997, 345 ss.); ne sono invece esclusi i figli di primo letto e quelli naturali (Gabrielli 1982, 299), ad eccezione di quelli conviventi con la famiglia legittima del genitore (così almeno secondo Auletta 1997, 346; sul punto si v. anche Cenni 2002, 562 ss.). 1.3. Per quanto attiene alla famiglia di fatto, ferma restando l’inestensibilità in via analogica dell’istituto ex art. 167 ss. c.c. (cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, Milano, 1991, 262), si può ritenere che l’introduzione dell’art. 2645-ter c.c. consenta di dar vita ad un qualche cosa di molto simile ad un vero e proprio fondo patrimoniale tra conviventi (cfr. Oberto, Famiglia di fatto e convivenze: tutela dei soggetti interessati e regolamentazione dei rapporti patrimoniali in vista della successione, FD, 2006, 661 ss., § 7; Cfr. inoltre Id., Atti di destinazione (art. 2645-ter c.c.) e trust: analogie e differenze, in Contratto e impresa/E, 2007, § 5 e § 15). 1.4. Secondo la dottrina sono bisogni della famiglia non solo le esigenze comuni a tutti i membri (ad es., l’abitazione) ma anche quelle relative a ciascun componente che, per legge o per propria scelta, il gruppo è impegnato a soddisfare (ad es., l’istruzione ed il mantenimento dei figli), purché sorte dopo la celebrazione del matrimonio e ritenute socialmente apprezzabili. Restano dunque esclusi dal novero dei bisogni che il fondo è destinato a soddisfare le esigenze socialmente ritenute immeritevoli di tutela, quelle sorte prima della celebrazione del matrimonio nonché la gestione e l’incremento del patrimonio personale di ciascun membro del gruppo (Auletta 1997, 347). 1.5. Ampliando la nozione prospettata, si ritiene generalmente che il fondo ri­sponda anche delle spese e delle obbligazioni sorte per rendere produttivi o per migliorare i beni ad esso appartenenti e per incrementare il fondo. Anche tali spese sono, infatti funzionalizzate – sia pur in maniera indiretta – al soddisfacimento dei bisogni familiari in quanto volte ad accrescere il reddito, che viene interamente destinato a tale scopo (l’opinione è condivisa anche da Cenni 2002, 566). Non così è a dirsi per le spese volte ad accrescere il patrimonio personale di ciascun coniuge (anche se trattasi dell’azienda o di beni funzionalizzati all’at­tività di lavoro) perché non sussiste un obbligo del titolare di destinare inte­ramente tali redditi al perseguimento dei bisogni familiari (Auletta 1997, 348; sull’argomento cfr. inoltre De Paola 1996, 35 ss.; Cenni 2002, 566).

 

3. Fondo patrimoniale e patrimonio familiare. 1.1. La dottrina sottolinea la «discendenza» dell’istituto in esame dal patrimonio familiare, disciplinato dagli artt. 167 ss. c.c. 1942 (ancora in vigore ex art. 227 l. 19 mag. 1975/151, per i patrimoni familiari costituti in data anteriore all’entrata in vigore della riforma), ponendo peraltro in risalto le differenze rispetto a questo, sintetizzabili come segue. 1.2. a) Una minore «forza» dei vincoli di inalienabilità e di inespropriabilità del fondo patrimoniale rispetto a quelli che caratterizzavano il patrimonio familiare: si confrontino gli artt. 169 e 170 c.c. attuali con i rispettivi «predecessori»; sul punto la Corte d’appello di Reggio Calabria (cfr. A Reggio Calabria 11 apr. 1991, D FAM, 1991, 872) ha sollevato questione di legittimità costituzionale, con riguardo all’art. 29 Cost. ed al principio di ragionevolezza, in merito agli artt. 227 l. 1975/151 cit. e artt. 167, co. 2°, 170 e 175 c.c. (vecchia formulazione), nella parte in cui prescrivono l’indisponibilità dei beni costituenti il patrimonio familiare fino allo scioglimento del matrimonio, a prescindere da ogni valutazione in ordine alla rispondenza effettiva del vincolo predetto ai bisogni reali della famiglia e nonostante la mancanza di figli minori. La questione è stata però dichiarata inammissibile, in quanto comportante una pronunzia additiva nell’ambito di una materia rimessa alla discrezionalità del legislatore (cfr. CCost. 24 gen. 1992/18). 1.3. b) Le regole in tema di amministrazione sono ora modellate su quelle della comunione legale (art. 168, co. 3°, c.c.) e pertanto si ispirano al principio di parità tra i coniugi, laddove l’abrogato art. 173 c.c. accordava preminenza al coniuge proprietario dei beni e, nel caso di comproprietà e in difetto di designazione da parte del costituente, al marito. 1.4. c) L’oggetto del fondo patrimoniale è stato esteso anche ai beni mobili registrati, mentre l’art. 167, nella sua originaria versione, prevedeva solo beni immobili e titoli di credito. 1.5. Per un’approfondita disamina dei punti di contatto e di quelli di divergenza tra i due istituti si fa rinvio a Pinto Borea, Patrimonio familiare e fondo patrimoniale: caratteri comuni e note differenziali, nota a CC 1988/3703, GI, 1989, I, 1, 873 ss., nonché a Cenni 2002, 551 ss.; cfr. inoltre Demarchi 2005, 16 s.; Cian-Casarotto 1982, 826; Gabrielli 1982, 293 ss.; Santosuosso 1983, 119 ss.; Auletta 1990, 9 ss., 18 ss.; Mandes, Il fondo patrimoniale. Rassegna di dottrina e giurisprudenza, RN, 1990, 641 ss.; Santosuosso 1995, 245 ss.; Gabrielli 1997, 387; Gabrielli-Cubeddu 1997, 267 ss. Sulla possibilità che un patrimonio familiare sia trasformato in fondo patrimoniale cfr. T Genova 3 feb. 1989, D FAM, 1991, 580. Cfr. inoltre T Napoli 13 mag. 1996, FD, 1996, 450, con commento di De Cristofaro.

 

4. Fondo patrimoniale e atto costitutivo. 1.1. In ordine all’accertamento della natura del fondo patrimoniale occorre tenere distinti il fondo, in sé considerato, dall’atto che ad esso dà origine. In merito al primo non vi è dubbio che l’istituto possa essere qualificato alla stregua di un patrimonio separato o di destinazione, nel quale la destinazione è, per l’appunto, quella di far fronte ai bisogni della famiglia (Russo 1973, 560; Perlingieri, Sulla costituzione del fondo patrimoniale su «beni futuri», D FAM, 1977, 281; Grasso 1982, 390; A.-M. Finocchiaro 1984, 801; Bianca, Diritto civile, II, Milano 1985, 104; Auletta 1990, 24; Lenzi, Struttura e funzione del fondo patrimoniale, RN, 1991, 53 ss.; Santosuosso 1995, 248 ss.; Auletta 1997, 344 ss.; in giurisprudenza v. CC 27 nov. 1987/8824, cit.; CC 29 set. 2000/15297, inedita; CC 8 set. 2004/18065, GC, 2005, I, 997, nella quale la S. C. esclude, nel caso in cui vi siano figli minori e quindi che il fondo prosegua sino alla loro maggiore età, che detti figli siano «litisconsorti necessari nel giudizio in cui si controverta della validità dell’atto» costitutivo del fondo; A Milano 8 apr. 1986, GI, 1987, I, 2, 407). 1.2. Il carattere «separato» del patrimonio costituito in fondo si estrinseca nei due vincoli di (relativa) inalienabilità e (relativa) indisponibilità, contenuti negli artt. 169 e 170 c.c., mentre, secondo taluno (Galletta, I regolamenti patrimoniali tra coniugi, Napoli, 1990, 120), l’istituto costituirebbe nient’altro che una sorta di «specializzazione» del regime di comunione, essendo la sua disciplina modellata su quest’ultimo, che gli fa da supporto. 1.3. Il fondo patrimoniale non costituisce un regime coniugale generale, perché riguarda solo alcuni beni degli sposi e quindi si innesta necessariamente su un regime di comunione (legale o convenzionale) o di separazione dei beni: cfr. Auletta 1997, 345 cui si fa rinvio (v. in partic. 355 e n. 52) e Cenni 2002, 558 ss., anche per la discussione del tema concernente la natura di «regime» (negata, per esempio, da Santosuosso 1995, 250) del fondo patrimoniale. 1.4. Per quanto attiene invece alla natura dell’atto costitutivo del fondo, la dottrina sottolinea il suo carattere essenzialmente negoziale (v. per tutti Santosuosso 1995, 249; Gabrielli-Cubeddu 1997, 280; sul tema cfr. inoltre De Paola 1996, 77 ss.; Demarchi 2005, 42 ss.), sebbene non possa neppure escludersi l’eventualità di un diverso modus adquirendi, come l’usucapione maturata in virtù del possesso seguito ad un negozio costitutivo nullo (così Gabrielli-Cubeddu 1997, 280). 1.5. Una prima distinzione s’impone a seconda che il fondo sorga inter vivos o mortis causa. In questo secondo caso si tende a ravvisare di norma un legato, pur avvertendosi immediatamente, da parte della dottrina, la necessità di sottolineare come, almeno in linea di principio, non sia esclusa l’ipotesi dell’istituzione d’erede ex re certa, mediante l’attribuzione al designato della titolarità di uno o più beni determinati (A.-M. Finocchiaro 1984, 807 ss.; Carresi 1992, 44). 1.6. È chiaro, però, che la disposizione testamentaria costitutiva può configurarsi come istituzione d’erede solo a condizione che con essa si attribuisca ai coniugi la stessa proprietà dei beni (Auletta 1990, 55 ss.), mentre si tratterà sempre di legato laddove il testatore si limiti a conferire ai coniugi il solo godimento dei beni, riservandosene la proprietà (Auletta 1990, 55; sulla possibilità della riserva di proprietà in capo al costituente sui beni costituiti in fondo patrimoniale cfr. sub art. 168 c.c.). 1.7. Per quanto attiene ai rapporti con la figura della convenzione matrimoniale, non vi è dubbio che la riconducibilità a questa categoria vada esclusa in relazione alla costituzione operata per atto mortis causa (Gabrielli 1982, 310), ancorché si affermi da parte di taluno (Auletta 1990, 66) la necessità dell’applicazione della disciplina in tema di convenzioni in luogo di quella in materia di successioni, con la conseguente imprescindibilità, nell’ipotesi di costituzione per legato, della dichiarazione dei coniugi di volere costituire il fondo, conseguendo il lascito (contra Carresi 1992, 44 ss., per il quale l’accettazione è necessaria solo se il lascito si configura come una istituzione di erede, mentre non occorre quando il lascito si configura come legato, salva la facoltà di rinunzia). 1.8. All’opposto, sembra non esservi dubbio sulla natura di convenzione matrimoniale dell’atto costitutivo in fondo patrimoniale di beni di cui i coniugi siano titolari in regime di comunione legale. Invero, se convenzione matrimoniale è quel contratto in forza del quale i coniugi convengono di sottoporre una parte del loro patrimonio ad un regime diverso da quello legale (cfr. Oberto, Contratto e famiglia, in Aa. Vv., Trattato del contratto, a cura di Roppo, Milano, 2006, VI, 147 ss., 161) sembra inevitabile concludere nel senso che, avuto riguardo alle particolarità proprie del fondo, l’atto costitutivo non si sottragga a tale inquadramento (così Gabrielli 1982, 311).

 

5. La natura di convenzione matrimoniale, propria dell’atto costitutivo inter vivos del fondo patrimoniale. 1.1. Non è mancato in dottrina chi ha contestato il richiamo alla convenzione matrimoniale, sottolineando come in questo caso non si dia vita ad un vero e proprio regime patrimoniale, in sostituzione di quello legale, ma ci si limiti a porre in una condizione giuridica particolare taluni beni determinati. Il concetto di convenzione matrimoniale potrebbe dunque essere invocato solo per sottolineare il fatto che tale atto è sottoposto alle norme in tema di convenzioni matrimoniali, pur non appartenendo, stricto sensu, a questa categoria (cfr. Corsi 1984, 89 ss., secondo cui l’atto costituto di fondo patrimoniale sarebbe un atto negoziale solitamente unilaterale, che acquisterebbe la caratteristica della bilateralità solo nel caso di costituzione da parte di terzi). 1.2. Altri, invece, hanno contestato la natura di convenzione matrimoniale del negozio costitutivo del fondo muovendo dalla constatazione secondo cui la convenzione potrebbe dar vita solo ad una scelta tra un regime comunitario o un regime separatista, con assoluta esclusione di qualsiasi altro tipo di effetto, vuoi reale, vuoi obbligatorio (cfr. Russo, Le convenzioni matrimoniali, COM SCHLESINGER, 2004, 172 ss.; per una critica al riguardo v. Oberto, Contratto e famiglia, cit., 161 ss.). 1.3. In siffatta ipotesi, dunque, non potrebbe esservi spazio per una convenzione matrimoniale che si limitasse invece a porre, nell’interesse della famiglia, vincoli su beni determinati, che si trovino già nella titolarità dell’uno e/o dell’altro dei coniugi o di terzi. Questa tesi, però, appare chiaramente smentita non solo – se ci si passa l’espressione – dalla «topografia» (il fondo patrimoniale si trova collocato nel codice tra la parte generale delle convenzioni matrimoniali e la comunione legale, all’interno di una sezione posta sullo stesso piano di quelle dedicate alla comunione legale, alla comunione convenzionale, alla separazione dei beni e all’impresa familiare) e dalla «toponomastica» (gli artt. 167 ss. fanno pur sempre parte del capo sesto (del titolo sesto del libro primo del codice), intitolato «del regime patrimoniale della famiglia», dopo una parte generale che, come si è appena detto, è interamente dedicata alle convenzioni matrimoniali) legislative, ma anche dal fatto che, per i beni sottoposti a tale vincolo, vigono regole (di «regime») difformi rispetto a quelle valevoli per la comunione legale. Il negozio che al fondo dà vita è pertanto riconducibile alla definizione che del concetto di convenzione matrimoniale risulta estrapolabile dall’art. 159 c.c., come di quel negozio idoneo a dar luogo ad un regime patrimoniale della famiglia. 1.4. Il fatto è che occorre intendersi sul concetto di regime: se per tale si dovesse ritenere esclusivamente la regola che assegna alla proprietà comune o personale dei coniugi i futuri ed eventuali acquisti, è chiaro che la convenzione ex artt. 167 ss. c.c. non apparirebbe idonea all’uopo, posto che il vincolo del fondo – e, oggi, quello ex art. 2645-ter c.c. – non può per definizione costituirsi se non su beni predeterminati. 1.5. Seguendo dunque il principio secondo cui la convenzione matrimoniale è necessariamente fonte di un regime patrimoniale della famiglia (arg. ex art. 159 c.c.), se ne dovrebbe concludere che tale non potrebbe essere l’accordo diretto a costituire un fondo patrimoniale. Ma la disciplina della comunione legale dimostra che il concetto di «regime» non si esaurisce nella regola del coacquisto; essa si risolve anche in una serie di precetti e di vincoli che vengono ad influenzare la «vita» stessa dei beni nel corso dell’unione matrimoniale: dall’amministrazione all’alienazione, al pignoramento e, più in generale, alle vicende che coinvolgono terzi creditori e/o aventi causa. 1.6. E puntuale giunge, anche sul punto, la conferma dall’analisi storica, dalla quale si ricava che l’espressione régime (dal latino regere: governare, amministrare), utilizzata per secoli in Francia per contrapporre il régime en communauté (proprio delle regioni di droit coutumier) a quello dotal (caratteristico delle regioni di droit écrit), e dunque nell’accezione, generalissima, di «regola», dopo la codificazione napoleonica venne intesa dalla dottrina come «l’ensemble des règles qui régissent l’association conjugale quant aux biens» (per tutti cfr. Laurent, Principes de droit civil, XXI, Bruxelles, 1878, 8). Regole che, come icasticamente posto in evidenza dalla dottrina contemporanea d’Oltralpe, attengono non solo ad una question de propriété, ma anche ad una question de pouvoirs (cfr. Flour e Champenois, Les régimes matrimoniaux, Paris, 1995, 5). 1.7. Se così stanno le cose, è evidente che anche la convenzione costitutiva del fondo patrimoniale, in quanto diretta a dettare regole speciali di amministrazione, vincoli e «vita» di beni della famiglia, in (parziale) deroga ai principi propri della comunione (o della separazione dei beni), viene a costituire proprio uno di quei possibili negozi in deroga al regime legale che l’art. 159 c.c. raggruppa sotto l’espressione «diversa convenzione». 1.8. Per non dire poi che una conferma della natura di convenzione matrimoniale propria del negozio inter vivos costitutivo del fondo patrimoniale sembra venire dalla riforma dell’art. 48, l. not., di cui all’art. 12, lett. b) e c), l. 28 novembre 2005, n. 246 («Semplificazione e riassetto normativo per l’anno 2005»), laddove la disposizione novellata si limita a menzionare, tra gli «atti familiari» bisognosi dell’assistenza di due testimoni, le convenzioni matrimoniali e le dichiarazioni di scelta del regime di separazione dei beni, così rendendo evidente che il fondo patrimoniale non può ascriversi se non alla prima delle due tipologie, apparendo altrimenti assurda l’esclusione del negozio in esame (che ex art. 167 c.c., deve stipularsi per atto pubblico), dalla sfera di operatività della disposizione.

 

6. Il problema dell’accettazione. Rapporti con la donazione. 1.1. Legato al problema cui si è testé accennato è quello dell’accettazione, cui fa riferimento il capoverso dell’art. 167 c.c., peraltro nella sola ipotesi di costituzione ad opera di un terzo. Tale accettazione sarebbe secondo taluno necessaria anche nel caso di costituzione per legato (cfr. Auletta 1997, 356 ss., contra, nel senso che l’accettazione sarebbe necessaria, nel caso di costituzione mortis causa, solo nell’ipotesi in cui l’atto costitutivo configurasse un’ipotesi di institutio ex re certa v. Gabrielli-Cubeddu 1997, 284; cfr. inoltre Santosuosso 1995, 251 ss.; Gabrielli 1997, 389 ss.; sul tema v. anche De Paola 1996, 63 ss.; Demarchi 2005, 89 s.). 1.2. I pareri divergono poi anche con riguardo alla necessità di accettazione da parte di entrambi, qualora la costituzione del fondo da parte di un terzo preveda l’attribuzione della proprietà dei beni ad uno solo dei coniugi (sull’argomento cfr. A.-M. Finocchiaro 1984, 804 ss.; Cian-Casarotto 1982, 831; in senso contrario a questa eventualità si pronunzia Auletta 1997, 360 ss., che la ritiene incompatibile con la natura del fondo patrimoniale). 1.3. È altresì dubbio se l’accettazione occorra nel caso di costituzione da parte di uno solo dei coniugi; secondo un’opinione dottrinale l’accettazione sarebbe qui necessaria solo nel caso di trasferimento della proprietà (o di una quota di essa) sui beni del fondo (Corsi 1984, 90 ss.). Secondo altro parere, invece, proprio dal fatto che la legge prevede la sola ipotesi di costituzione da parte del terzo, dovrebbe dedursi che, nel caso di costituzione da parte di uno solo dei coniugi, non è necessaria l’accettazione dell’altro (Carresi 1992, 45; contra Gabrielli-Cubeddu 1997, 283; per la necessaria accettazione, in ogni caso, da parte dell’altro coniuge v. Auletta 1997, 353 ss., che confuta anche l’argomento fondato sull’art. 1333 c.c., sul tema cfr. anche De Paola 1996, 60 ss.). 1.4. Sempre in tema di natura dell’atto costitutivo del fondo patrimoniale rimangono assai dubbi i rapporti con la donazione e in particolare con la donazione obnuziale (per la disamina di tali aspetti si fa rinvio a Santosuosso 1983, 122 ss.; Auletta 1990, 106 ss.; Carresi 1992, 50 ss.; De Paola 1996, 84 ss.; Auletta 1997, 363 ss.). Per quanto attiene alle questioni concernenti il tempo nel quale la convenzione può essere stipulata e la necessità o meno della relativa autorizzazione ex art. 162 c.c., nonché ai sensi della l. 10 apr. 1981/142: v. De Paola 1996, 73 ss.; Auletta 1997, 358 ss. 1.5. Sul tema dell’apponibilità di termini e condizioni all’atto costitutivo del fondo, evidentemente legata al problema della natura di quest’ultimo, si fa rinvio per tutti a Santosuosso 1983, 130 ss.; Auletta 1990, 105 ss.; Carresi 1992, 51 ss.; Auletta 1997, 360. 1.6. Altra questione non risolta dal legislatore concerne la tutela dei successori del costituente. Al riguardo si è osservato, innanzitutto, che mentre il legittimario a cui sono stati attribuiti beni è tenuto alla collazione, salvo dispensa (arg. ex art. 741 c.c.), nel caso di lesione della quota di legittima il negozio sarebbe riducibile in virtù della regola generale di intangibilità della legittima (Auletta 1997, 365 ss.).

 

7. L’oggetto del fondo patrimoniale. 1.1. Prendendo spunto dal tenore letterale dell’art. 167 c.c., la dottrina esclude che si possano costituire in fondo delle aziende, in quanto universitates comprendenti anche rapporti di credito e beni mobili non registrati (Auletta 1990, 76; Gabrielli-Cubeddu 1997, 285; Auletta 1997, 350 ss.; Cenni 2002, 573 ss.), mentre nulla vieta che beni aziendali, appartenenti alle categorie indicate dall’art. 167 c.c. siano inseriti nel fondo. 1.2. I diritti di credito possono essere destinati a far parte del fondo solo se incorporati in un titolo cartolare, che va vincolato rendendolo nominativo con annotazione del vincolo, o in altro modo idoneo (Auletta 1990, 77); per questo deve escludersi che delle quote sociali siano costituibili in fondo patrimoniale, mentre diverso è il discorso per quanto attiene alle azioni, che costituiscono titoli di credito (nominativi). 1.3. Parte della dottrina ritiene non necessario che i titoli di credito siano nominativi, essendo possibile vincolare anche titoli all’ordine: si rileva al riguardo che, se anche la girata deve essere incondizionata, di tali titoli è sempre ammissibile una cessione ordinaria (art. 2015 c.c.), che faccia risultare il vincolo di destinazione (Gabrielli 1982, 313). 1.4. In linea di principio non dovrebbero esistere ostacoli al conferimento di diritti reali diversi dalla proprietà, posto che la legge parla genericamente di «beni», salva la necessità di verificare se, per la peculiarità del regime (avuto in particolare modo riguardo al profilo della temporaneità), questi diritti risultino inidonei a tale destinazione (sull’argomento cfr. per tutti Santosuosso 1983, 127 ss.; Id. 1995, 255; Auletta 1990, 82 ss.; Id. 1997, 362; Cenni 2002, 567 ss.; Demarchi 2005, 174 ss.; cfr. però Gabrielli-Cubeddu 1997, 285, che sollevano dubbi, peraltro superandoli, relativamente al carattere temporale di alcuni iura in re aliena; sul tema dell’individuazione dei beni costituibili in fondo patrimoniale cfr., in generale, De Paola 1996, 97 ss.). 1.5. Un altro interrogativo concerne i beni futuri, non essendo chiaro se per il negozio in questione valga il divieto previsto dall’art. 771 c.c. con riguardo alle donazioni (sull’argomento v., da ultimo, Cenni 2002, 577 ss.). Una parte della dottrina, sottolineando la non riconducibilità dell’atto costitutivo del fondo patrimoniale alla donazione, nega che il principio espresso dall’art. cit. possa valere qui ad impedire la conferibilità nel fondo di beni futuri richiamandosi anche al principio generale consacrato nell’art. 1348 c.c., che ammette la stipulazione di negozi su beni futuri, nonché l’abrogazione dell’art. 179 c.c., che vietava la costituzione in dote di beni futuri (Auletta 1990, 95 ss.; in senso favorevole sono anche Perlingieri, op. cit., 265 ss.; Grasso 1982, 88; Santosuosso 1983, 126 ss.; Id. 1995, 254; Auletta 1997, 352); occorrerà semmai verificare se, nel caso concreto, il conferimento di beni al fondo possa configurare donazione, con conseguente applicazione dell’art. 771 c.c. (cfr. Gabrielli 1982, 313; Corsi 1984, 88, Auletta 1997, 352; contra Carresi 1992, 51, che ritiene valevole per tutti gli atti di liberalità il limite fissato dall’art. 771 c.c.). 1.6. È ovvio, peraltro, che i beni, ancorché futuri, debbono essere (come richiesto dall’art. 167 c.c.) «determinati». Il problema sarà dunque quello di vedere con quanto rigore si intenderà tale concetto di fronte ad una eventuale relatio operata dal costituente. Così, se non sembra possano sussistere dubbi sulla sottoponibilità a fondo patrimoniale della costruzione da erigersi sul fondo tuscolano (magari in base ad un progetto già esistente e ad un permesso di costruire già rilasciato), analoga operazione non appare realizzabile in relazione, per esempio, genericamente «a tutte le unità immobiliari che saranno erette sui fondi che verranno acquistati in regime di comunione dalla costituenda coppia». Qualche autore non ha invece mancato di rimarcare la «marginalità» del problema, dal momento che modifiche alle convenzioni sarebbero sempre possibili anche durante il matrimonio (A.-M. Finocchiaro 1984, 812). 1.7. Sembra pacifico che gli stessi beni non possano formare oggetto di più fondi patrimoniali, essendo ciò materialmente impedito dalla struttura stessa dell’istituto (Corsi 1984, 88).

 

8. La pubblicità (rinvio). 1.1. La pubblicità del vincolo derivante dal fondo patrimoniale è quella che con maggior evidenza sottolinea la potenziale «concorrenzialità» tra il sistema della annotazione a margine dell’atto di matrimonio (art. 162 c.c.) e quello della trascrizione sui pubblici registri immobliari (art. 2647 c.c.). Per una panoramica sul tema si fa rinvio per tutti a Oberto, Commento all’art. 162 c.c., in Aa. Vv., Codice della famiglia commentato, a cura di Sesta, Milano, 2007,  §§ 9 ss. Per quanto attiene più strettamente alla trascrizione, è evidente che, tranne che nei casi in cui i coniugi costituiscano in fondo patrimoniale beni già comuni o in cui il conferente si riservi la proprietà dei beni medesimi, l’atto con il quale si costituisce un fondo patrimoniale contiene in realtà due diverse disposizioni aventi ad oggetto, rispettivamente, il trasferimento di proprietà e la sottoposizione a vincolo. La prima delle due disposizioni dovrà essere sottoposta a pubblicità ex art. 2643 c.c. contro il titolare dei beni ed a favore di entrambi i coniugi, mentre la seconda dovrà formare oggetto di apposita trascrizione ex art. 2647 c.c. «a carico», cioè – in questo caso – contro gli intestatari degli immobili stessi, trattandosi di segnalare il vincolo gravante sulla proprietà acquistata dai coniugi. 1.2. Si è avuto modo di vedere in altra sede (cfr. Oberto, op. loc. ultt. citt.), come la dottrina prevalente ritenga sufficiente l’annotazione del vincolo, anche in difetto di trascrizione, al fine dell’opponibilità del medesimo. Senza ripetere quanto già affermato (con particolare riguardo alla tesi proposta, circa il carattere suppletivo dell’annotazione rispetto alla trascrizione) basterà qui ricordare come la giurisprudenza – proprio sul tema specifico della pubblicità del fondo patrimoniale – abbia per lo più seguito l’impostazione della dottrina (sul tema cfr. per tutti Oberto 1988, 216 s.; Auletta 1990, 135 ss.; Ieva 2002, 75; Demarchi 2005, 453 ss.).

 

9. Trust e fondo patrimoniale. Nel generale ambito delle questioni legate alle relazioni tra trust e famiglia è proprio il tema del fondo patrimoniale ad aver richiamato maggiormente l’attenzione degli studiosi del settore (sull’argomento si v., tra gli scritti più recenti, Oberto, Trust e autonomia negoziale nella famiglia, FD, 2004, 201 e 310; Id., Il trust familiare, 2005, § 20; Palazzo, Le convenzioni matrimoniali e l’ulteriore destinazione dei beni per mezzo del trust, Dogliotti-Braun (a cura di), Il trust nel diritto delle persone e della famiglia. Atti del convegno. Genova, 15 febbraio 2003, Milano, 2003, 97 ss.; Lupoi, Trusts, Milano, 2001, 624 ss.; Bartoli, La “conversione” del fondo patrimoniale in trust, Dogliotti-Braun (a cura di), Il trust nel diritto delle persone e della famiglia. Atti del convegno. Genova, 15 febbraio 2003, cit., 207 ss.; Cenni 2002, 645 ss.; Demarchi 2005, 660 ss.). 1.2. La principale ragione per cui siffatto accostamento del trust al fondo patrimoniale forma argomento di ampia trattazione in dottrina è costituita, a parte talune analogie tra i due fenomeni, dal dato di fondo che accomuna questi ultimi sotto il profilo della separazione patrimoniale dei beni che ad entrambi consegue, al punto da spingere parte della dottrina a ravvisare nell’istituto del fondo patrimoniale un vero e proprio trust «amorfo» (riconducibile cioè all’ampia previsione di cui all’art. 2 della Convenzione dell’Aja) previsto dal nostro ordinamento (Lupoi, Trust Laws of the World, Roma, 1999, citato da Bartoli, op. cit., 210, n. 5). 1.3. Peraltro la dottrina ha posto in luce i fondamentali punti di distinzione, evidenziando la maggiore duttilità, oltre che la più vasta sfera di operatività, del trust (Cenni 2002, 646). Dal punto di vista oggettivo, va sottolineato che quest’ultimo non conosce limitazione quanto ai beni oggetto dei diritti su cui la «segregazione» patrimoniale è destinata ad incidere, mentre invece l’art. 167 c.c. circoscrive tassativamente i possibili oggetti del fondo patrimoniale (v. sub § 6). 1.4. Dal punto di vista soggettivo, poi, la «famiglia» in relazione alla quale il fondo può costituirsi è solo quella legittima, così escludendosi non solo la famiglia di fatto, bensì anche altre situazioni lato sensu analoghe (v. i casi riportati da Cenni 2002, 648). Nell’ambito della stessa famiglia legittima, poi, il trust può essere «mirato» in relazione alle esigenze di uno o più dei suoi componenti (si pensi a soggetti posti in particolare situazione di debolezza, quali, ad es. figli incapaci: v. Di Landro, Trusts per disabili. Prospettive applicative, D FAM, 2003, 123 ss.). 1.5. Il trust, sotto certi aspetti, pare inoltre più idoneo al perseguimento degli obiettivi di tutela cui è preordinato il fondo patrimoniale. Quest’ultimo, infatti, a differenza del trust, non prevede beneficiari in senso tecnico: i soggetti in favore dei quali è stato istituito il fondo, ad esempio i figli, non hanno poteri di controllo sulla gestione dei beni, né sono legittimati ad agire nei confronti dei genitori che destinino i frutti a finalità non coincidenti con i bisogni della famiglia. Nel fondo patrimoniale, peraltro, non è previsto che al momento della sua cessazione i beni debbano essere devoluti ad alcuno dei componenti la famiglia, in particolare ai figli, per cui la tutela della famiglia non appare così perseguita col massimo risultato. Un rimprovero analogo, centrato cioè sul minor grado di protezione della famiglia rispetto al trust, va pure mosso al fondo patrimoniale per l’inesistenza di norme che prevedano un obbligo di reimpiego e per la mancanza di un meccanismo surrogatorio, oltre che per la più limitata esecutabilità dei beni e dei frutti. 1.6. Per ciò che riguarda il profilo dell’amministrazione si presentano come punti di debolezza del fondo patrimoniale rispetto al trust la discrezionalità consentita ai coniugi nelle decisioni riguardanti l’amministrazione e la disposizione dei beni del fondo, laddove l’esistenza di un trust non consentirebbe la facile alienazione dei beni che lo compongono, producendo altresì l’effetto di disincentivare la costituzione di fondi patrimoniali simulati o abusivi. Di contro, non va però dimenticato che, secondo l’opinione prevalente, l’art. 168 c.c., con il rinvio alle norme in tema di comunione legale, viene a porre come inderogabile – per gli atti di cui all’art. 180 cpv. c.c. – il principio di amministrazione congiuntiva (v. sub art. 168 c.c.), laddove il trust ben potrebbe essere congegnato in modo da affidare ad un solo coniuge l’amministrazione dei beni. 1.7. Nel caso, invece, in cui la coppia versi in una situazione di crisi, vengono in luce altri aspetti negativi del fondo patrimoniale rispetto al trust. In proposito andrà notato che, sebbene la costituzione di un fondo patrimoniale in sede di separazione personale dei coniugi appaia senz’altro ammissibile (Oberto, I contratti della crisi coniugale, II, Milano, 1999, 687 ss.), ragioni di opportunità potrebbero sconsigliarla, atteso che l’amministrazione spetterebbe comunque ad entrambi e ciò mal si concilia con la situazione di conflitto coniugale. Per il resto, poiché a norma dell’art. 171 c.c. «la destinazione del fondo termina a seguito di annullamento scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio» (v. sub art. 171 c.c.), vi è il rischio che in tali situazioni si vengano a disattendere le legittime aspettative dei beneficiari, ad esempio la prole maggiorenne ma non autosufficiente, atteso che per i minori provvede l’art. 171 cpv. c.c. (per un caso di costituzione in trust di beni oggetto del fondo patrimoniale v. T Firenze 23 ott. 2002, TRUST E ATT FID, 2003, 406). 1.8. Per i rapporti tra il fondo patrimoniale e i vincoli di destinazione per interessi meritevoli di tutela, ex art. 2645-ter c.c. si fa rinvio per tutti a Oberto, Famiglia di fatto e convivenze: tutela dei soggetti interessati e regolamentazione dei rapporti patrimoniali in vista della successione, FD, 2006, 661 ss., § 7; Cfr. inoltre Id., Atti di destinazione (art. 2645-ter c.c.) e trust: analogie e differenze, in Contratto e impresa/E, 2007, § 5 e § 15).

 

10. Titolarità dei beni e diritti dei coniugi. Attribuzione dei beni in proprietà o in godimento. 1.1. Dall’inciso «salvo che sia diversamente stabilito nell’atto di costituzione», di cui al primo comma dell’art. 168 c.c., possono desumersi tre diverse conclusioni. In primo luogo, che è possibile per il costituente attribuire la proprietà dei beni ad uno solo dei coniugi; in secondo luogo, che egli può attribuirla ad un terzo e, infine, che lo stesso può riservarla a sé medesimo. In realtà, di queste tre affermazioni solo la prima può darsi per sicura, mentre sulle altre due la dottrina non appare concorde. 1.2. In particolare, per quanto attiene alla riserva della proprietà in capo al costituente, si è messo in luce come l’attuale formulazione dell’art. 167 c.c., a differenza di quella previgente, non contempli più espressamente una siffatta evenienza; a ciò s’aggiunge che l’art. 169 c.c., nella parte in cui menziona la possibilità per i coniugi di procedere all’alienazione dei beni del fondo, non avrebbe senso nel caso la proprietà fosse stata riservata ad un terzo (Corsi 1994, 86 ss.; sull’argomento cfr. anche De Paola 1996, 109 ss.). 1.3. La dottrina prevalente, invece, proprio fondandosi sull’ampio tenore letterale dell’art. 168, 1° co., c.c., conclude non solo nel senso della possibilità che il costituente attribuisca ad un terzo (si pensi ai figli) la proprietà dei beni, ma anche che questi la riservi a se stesso (Gabrielli 1982, 295 ss.; Grasso 1982, 391; Santosuosso 1983, 129 ss.; A.-M. Finocchiaro 1984, 816 ss.; Auletta 1990, 230 ss.; 237; Carresi 1992, 353; Santosuosso 1995, 255 ss.; Gabrielli 1997, 389 ss.; Gabrielli-Cubeddu 1997, 265 ss.; Auletta 1997, 360 ss.), con conseguente sdoppiamento tra titolarità dei beni e poteri di amministrazione dei medesimi (A.-M. Finocchiaro 1984, 816 ss.). 1.4. La dottrina rileva al riguardo che, sicuramente, in quest’ultimo caso (cioè di riserva della proprietà in capo al costituente), la funzione dell’istituto non può esplicarsi con pienezza; ma sarebbe davvero assurdo supporre che il legislatore abbia inteso vietare la possibilità di una sua attuazione parziale, dalla quale proviene pur sempre alla famiglia un obiettivo vantaggio, mentre nessun inconveniente ne deriva oltre quelli, ben noti e dall’ordinamento accettati, connessi con la scissione temporanea fra proprietà e diritto di godimento. L’opinione contraria, legata al fatto che nell’art. 171, co. 3° e 4°, c.c. sarebbero con­tenute disposizioni incompatibili con l’appartenenza del diritto di proprietà a persona diversa dai coniugi (si pensi alla norma che prevede la divisione dei beni del fondo fra i coniugi, in conformità di quanto disposto per lo scioglimento della comunione legale, e a quella che attribuisce al giudice il potere di assegnare una quota dei beni stessi, in proprietà o in godimento, ai figli) è superabile avendo riguardo alla constatazione che in queste disposizioni l’interprete può ben rav­visare un limite implicito: intenderle, cioè, come riferite alla sola ipotesi in cui i coniugi siano anche proprietari; ipotesi che il legislatore, d’altronde, ha ritenuto normale, onde appare senz’altro vero­simile che solo di essa si sia curato nel dettare il prosieguo della disciplina, dopo aver accennato alla possibilità di una deviazione in forza di patto derogatorio (Gabrielli-Cubeddu 1997, 266 ss.; sul problema della titolarità dei beni del fondo cfr. inoltre De Paola 1996, 41 ss.).

 

11. Diritti ed obblighi dei coniugi in caso di attribuzione del solo godimento. Risvolti sul piano tributario. 1.1. Non esiste unità di vedute sul tipo di diritto che competerebbe ai coniugi in caso di riserva della proprietà in capo al costituente. La tesi prevalente vede in tale fattispecie un diritto assimilabile a (o secondo alcuni addirittura coincidente con) quello di usufrutto (cfr. Grasso 1982, 391; Santosuosso 1983, 129 ss.; Carresi 1992, 353; Auletta 1997, 360 ss.); per altri esso manifesterebbe maggiori affinità con il diritto di uso (Cian-Casarotto 1982, 832 ss.), o con l’usufrutto legale spettante ai genitori sui beni dei figli minori (Gabrielli 1982, 295 ss.; Gabrielli-Cubeddu 1997, 270 ss.; secondo Cenni 2002, 585 ss., si tratterebbe di un diritto di godimento avente caratteristiche sia dell’usufrutto legale che di quello ordinario); per altri, infine, si tratterebbe di un fenomeno di «proprietà divisa», del tutto analogo a quella che si viene a creare a seguito dell’imposizione di vincoli di interesse storico o artistico per i beni di privati (A.-M. Finocchiaro 1984, 818). 1.2. Una volta ammessa la possibilità di costituzione del fondo con riserva di proprietà in capo al costituente si pone il problema di come applicare a questa particolare situazione il disposto dell’art. 168 c.c., nonché, soprattutto, quel riferimento al potere di alienazione contenuto nel successivo art. 169 c.c. La tesi prevalente (cfr. per tutti Carresi 1992, 56 ss.) sembra contraria ad attribuire ai coniugi, in questo caso, il potere di disporre della titolarità dei beni, in violazione del principio generale secondo cui nessuno può disporre di un diritto che non gli compete: le norme concernenti l’amministrazione e la disposizione dei beni in fondo patrimoniale andranno dunque riferite al solo diritto di godimento (o, secondo alcuni, d’usufrutto) che compete ai coniugi (cfr. per tutti Carresi 1992, 58). 1.3. Neppure su tale ultima conclusione, peraltro, la dottrina si trova concorde. In particolare, i sostenitori della tesi dell’identità funzionale tra fondo patrimoniale (avente ad oggetto l’attribuzione del mero godimento) e usufrutto legale escludono l’alienabilità ed espropriabilità del diritto di godimento considerato nel suo complesso, in conformità a quanto previsto dall’art. 326 c.c. (con la possibilità peraltro dell’esecuzione sui frutti: così Gabrielli-Cubeddu 1997, 272). 1.4. La possibilità che l’atto costitutivo del fondo non determini effetti traslativi di diritti, ma solo la costituzione di un vincolo, ha anche dei risvolti sul piano tributario. Così, una Commissione tributaria di secondo grado ha stabilito che «la convenzione con cui i coniugi, a mente dell’art. 167 c.c., costituiscono il fondo patrimoniale ha come finalità essenziale quella di realizzare un vincolo di destinazione su determinati beni, affinché i loro frutti assicurino il soddisfacimento dei bisogni della famiglia, e non si configura, invece, come necessariamente traslativa della proprietà o di altri diritti reali sui beni che ne costituiscono l’oggetto, consentendo l’art. 168, comma primo, c.c. agli interessati di pattuire la conservazione della precedente titolarità esclusiva dei beni medesimi: consegue da ciò che, nel caso di intervenuto inserimento di una siffatta clausola di salvaguardia, la convenzione considerata resta non assoggettabile alle imposte previste per gli atti di trasferimento della proprietà o di altri diritti reali di godimento» (cfr. CT 2° grado Udine 21 nov. 1991, Fisco 1992, 6642; sui profili fiscali dell’istituto v. Guidotti-Mezzadri, Fondo patrimoniale: aspetti civilistici e regime fiscale applicabile, Fisco 1996, 8041; Cenni 2002, 588 ss.; Demarchi 2005, 689 ss.).

 

 

Parte II

Amministrazione e alienazione dei beni del fondo

 

1. L’amministrazione dei beni. 1.1. Passando ora all’esame del rinvio, operato dall’art. 169 c.c., alle norme in tema di amministrazione della comunione legale, andrà detto innanzitutto che esso viene ritenuto da una parte della dottrina come inderogabile, essendo stato fatto incondizionatamente e senza alcuna limitazione o cautela come potrebbe essere quella risultante dall’inciso «in quanto applicabili» od altro consimile (Carresi 1992, 56); un argomento a conforto di questa tesi potrebbe essere rinvenuto, secondo parte della dottrina, anche nell’art. 210, co. 3°, c.c. (cfr. Cenni 2002, 601). 1.2. In applicazione di questo principio è stato deciso da una sentenza di merito che «il notaio che, nel ricevere un atto di costituzione di fondo patrimoniale, preveda che l’amministrazione del fondo sia affidata soltanto ad uno dei due coniugi, in contrasto con gli artt. 168, comma 3 e 180, comma 1, cod. civ.», viola l’art. 28 della legge notarile (T Foggia 9 giu. 2000, RN, 2002, II, 692). In proposito potrà però obiettarsi che, avuto riguardo alla natura contrattuale del negozio bilaterale costitutivo di convenzione di fondo patrimoniale, il principio di autonomia negoziale dei coniugi (art. 1322 c.c.) consente loro di apporre tutte le clausole che non appaiono in contrasto con norme imperative, ovvero con principi d’ordine pubblico e di buon costume. E in proposito non vi è dubbio che l’art. 169 c.c., pur con una formulazione contorta, consenta ai coniugi di derogare alla regola del necessario consenso dei coniugi per gli atti di straordinaria amministrazione. 1.3. Per quanto attiene alle norme richiamate dall’art. 168 c.c., il rinvio alle disposizioni in tema di amministrazione della comunione legale deve ritenersi come effettuato, quanto meno in linea generale, agli artt. 180 c.c. (regola dell’amministrazione congiunta, con le eccezioni ivi indicate), nonché 181, 182, 183 c.c. (interventi di volontaria giurisdizione in materia di fondo patrimoniale). Peraltro la trasposizione di tali norme nel campo della amministrazione del fondo non è scevra da problemi. 1.3. Cominciando dall’analisi di quelli posti dal rinvio operato all’art. 180 c.c. andrà tenuto conto del fatto che, allorché si verta in tema di atti di straordinaria amministrazione rientranti nell’elenco di cui all’art. 169 c.c., sarà quest’ultima disposizione, in omaggio al criterio della specialità, a prevalere (così Cian-Casarotto 1982, 827; Corsi 1994, 96 ss.; Auletta 1990, 201; Id. 1997, 385 ss.). Il rinvio all’art. 180 c.c. comporta dunque, in via residuale, l’applicazione al fondo patrimoniale delle seguenti regole: a) agire disgiunto per gli atti di ordinaria amministrazione; b) agire congiunto per gli atti con cui si acquistano o concedono diritti personali di godimento; c) agire congiunto per quegli atti di straordinaria amministrazione che non siano però nel contempo atti di disposizione (cui è riferibile l’art. 169 c.c.): si pensi all’ipotesi del mutamento di destinazione economica di un bene (sull’inderogabilità del rinvio all’art. 180 c.c. v. l’opinabile conclusione cui è pervenuta T Foggia 9 giu. 2000, cit.). 1.4. Il rinvio all’art. 181 c.c. pone il problema dell’interesse alla stregua del quale il giudice dovrà concedere l’autorizzazione ivi prevista, interesse che va qui riferito alla famiglia, piuttosto che all’azienda facente parte della comunione (la quale, tra l’altro, potrebbe anche non esistere e comunque non potrebbe costituire oggetto del fondo patrimoniale): cfr. Corsi 1994, 97 e Auletta 1990, 203 ss.; Id. 1997, 388 ss. 1.5. Nel caso siano presenti figli minori l’autorizzazione ex art. 181 c.c. viene a concorrere con quella prevista dall’art. 169 c.c.: i due provvedimenti (entrambi di competenza del tribunale ordinario, ai sensi dell’art. 38 disp. att. c.c.) potranno essere invocati e concessi contestualmente, senza peraltro perdere la propria peculiare identità, attesa la non esatta coincidenza dei criteri previsti dalle due norme (sull’argomento cfr. in particolare Corsi 1994, 97). 1.6. Nel caso di rifiuto di entrambi i genitori l’art. 321 c.c. non sembra applicabile, poiché i beni non sono qui (almeno di regola) di proprietà dei figli, bensì dei genitori o di terzi. L’unica soluzione sembra rinvenibile (peraltro solo una volta intervenuta una causa di scioglimento del fondo) nel disposto dell’art. 171, co. 2° e 3°, c.c., che prevede un intervento giurisdizionale attivabile anche su istanza dei figli (a mezzo, eventualmente, di curatore speciale nominato ex art. 320 c.c., nel caso di conflitto di interessi). 1.7. Anche l’art. 182 c.c. sembra applicabile al fondo, peraltro previa eliminazione del capoverso, concernente l’azienda gestita dai coniugi, che come tale non può costituire oggetto dell’istituto in esame (cfr. supra, Parte I, § 7; v. anche Corsi 1994, 97; Auletta 1990, 272 ss.; Id. 1997, 390 ss.). Nel caso di presenza di figli minori si porrà un problema di coordinamento con il disposto dell’art. 169 c.c. analogo a quello esaminato con riguardo all’art. 181 c.c. 1.8. Per quanto riguarda l’art. 183 c.c., anch’esso viene ritenuto applicabile (Santosuosso 1983, 136; Corsi 1994, 97; Auletta 1990, 285 ss.; Santosuosso 1995, 258), con la conseguenza che, verificatasi una delle situazioni presupposte dall’art. cit., uno dei genitori potrà chiedere l’estromissione dell’altro dall’amministrazione dei beni del fondo. In questo caso i problemi di coordinamento con l’art. 169 c.c. sono di più agevole soluzione: una volta emessa la decisione di estromissione da parte del tribunale, il coniuge rimasto unico amministratore inoltrerà al medesimo tribunale il ricorso per l’autorizzazione richiesta in caso di figli minori. 1.9. Nel caso di interdizione di uno dei coniugi l’esclusione dall’amministrazione opera di diritto (cfr. art. 183, co. 3°, c.c.), con la conseguenza che l’altro coniuge sarà senz’altro legittimato a proporre istanza di autorizzazione ex art. 169 c.c., nel caso intenda compiere uno degli atti ivi menzionati in presenza di figli minori (sull’argomento si fa rinvio anche a A.-M. Finocchiaro 1984, 822 ss.). 1.10. Dubbia è, infine, l’applicabilità dell’art. 184 c.c., anche perché il tema degli atti di disposizione in violazione di tale articolo si sovrappone alla materia di cui all’art. 169 c.c. (su cui v. infra, § 2; in generale sull’amministrazione dei beni del fondo cfr. Demarchi 2005, 217 ss.).

 

2. Gli atti contemplati dall’art. 169 c.c.; l’estensione dell’autonomia privata. 1.1. L’art. 169 c.c. contempla espressamente una serie di atti per il compimento dei quali viene prevista, di regola, la necessità, oltre che del consenso di entrambi i coniugi (già implicito nel fatto che si tratta di atti di amministrazione straordinaria, in conseguenza del combinato disposto degli artt. 168 e 180 c.c.), anche dell’autorizzazione giudiziale, qualora vi siano figli minori (in generale sul tema v. De Paola 1996, 115 ss.; Auletta 1997, 376 ss.). 1.2. Si è precisato in dottrina che il termine «alienare» comprende non solo l’atto dispositivo del diritto di proprietà, bensì anche la costituzione di diritti reali di godimento quali l’usufrutto, l’uso, l’abitazione, la servitù, l’enfiteusi o la superficie (cfr. Cian-Casarotto 1982, 834; Auletta 1990, 210); non rientrano invece in tale concetto le alienazioni forzate, cioè quelle conseguenti all’espropriazione per p.u., ovvero all’espropriazione nell’ambito di una procedura esecutiva, individuale così come concorsuale (Corsi 1984, 103). 1.3. Di più difficile decifrazione appare l’inciso «comunque vincolare», inteso come riferito a istituti quali la cessione dei beni ai creditori, o a vincoli di carattere pubblicistico quali, per esempio, la c.d. «cessione di cubatura» (Cian-Casarotto 1982, 834). A questi potrebbero forse aggiungersi quei vincoli che usualmente si ritengono contemplati dall’art. 1997 c.c.: in particolare, il vincolo da sequestro convenzionale ex artt. 1798 ss. c.c. e da sequestro c.d. «liberatorio» ai sensi dell’art. 687 c.p.c. (nel caso gli stessi coniugi debitori intendessero proporre la relativa istanza). Inoltre si potranno ricordare i vincoli ex art. 2645-ter c.c., nonché il conferimento dei beni in trust. 1.4. La lettera dell’art. 169 c.c. è affetta da una singolare forma di contorsionismo verbale in cui, come è stato esattamente notato (Corsi 1984, 98), tre «se» e tre «non» si accoppiano e si susseguono. In ogni caso è certo che l’autorizzazione giudiziale non è richiesta quando non vi sono figli minori. Ciò significa, concretamente, che tanto i terzi quanto il notaio rogante dovranno richiedere ai coniugi l’esibizione del certificato di stato di famiglia, al fine di potere avere la certezza di procedere alla stipula del negozio in assenza di previa autorizzazione. 1.5. Sembra d’altro canto assodato che il soggetto che può «espressamente consentire» nell’atto costitutivo ad una previsione in deroga al disposto dell’art. 169 c.c. sia rappresentato dalla persona del costituente (A.-M. Finocchiaro 1984, 825 ss. e Corsi 1984, 103); le parole «espressamente consentito» significano dunque: «espressamente disposto nell’atto costitutivo» (Corsi 1984, 103). 1.6. Per quanto concerne invece l’oggetto della previsione in deroga al disposto dell’art. 169 c.c. non sussiste concordia d’opinioni in dottrina. Mentre infatti, secondo alcuni (A.-M. Finocchiaro 1984, 825 ss.), al costituente sarebbe consentito, nel caso di riserva a sé medesimo della proprietà dei beni, di prevedere la libera alienabilità degli stessi senza il consenso dei coniugi, secondo altri una siffatta previsione sarebbe inammissibile, consentendo al costituente la possibilità di determinare ad libitum la cessazione della destinazione dei beni (Corsi 1984, 99). 1.7. Si è osservato, argomentando dall’abrogato art. 187 c.c. (Corsi 1984, 100 ss.), che l’art. 169 c.c. tende invece ad attribuire maggior fiducia ai coniugi, consentendo loro di procedere senz’altro al compimento di atti di straordinaria amministrazione senza autorizzazione giudiziale in assenza di figli minori: per questo non sarebbe illogico ammettere, sempre in base alla norma predetta, che l’atto costitutivo del fondo contenga un patto espresso che, pur in presenza di figli minori, escluda anche in tale caso la necessità di autorizzazione giudiziale. 1.8. Maggiori difficoltà sussisterebbero invece nell’ammettere la possibilità un patto che consentisse ad uno solo dei coniugi (in violazione del principio di parità, nonché della regola espressa dall’art. 210 c.c. e, probabilmente, pure di quella ricavabile dall’art. 166-bis c.c.) la possibilità di alienare i beni anche senza o contro l’avviso dell’altro (sul punto v. supra, § 1, in questa Parte II; in dottrina cfr. per tutti Corsi 1984, 101 ss.; Auletta 1990, 239, 242 ss.; Id. 1997, 380 ss.). 1.9. Sul tema specifico della derogabilità della previsione normativa che impone l’autorizzazione giudiziale in presenza di figli minori la dottrina prevalente si è espressa in senso favorevole (Gabrielli 1982, 304; Santosuosso 1983, 139 ss.; A.-M. Finocchiaro 1984, 825 ss.; Corsi 1984, 103; Auletta 1990, 237 ss., 246 ss.; Carresi 1992, 356; Auletta 1997, 384 ss.) e con essa diverse pronunce (T Roma 27 giu. 1979, RN, 1979, 952; TM Roma 9 giu. 1998, RN, 1999, 166; T Verona 30 mag. 2000, GM, 2000, I, 1164; contra T Savona 24 apr. 2003, FD, 2004, 67, con nota di Capecchi, I limiti allo scioglimento convenzionale del fondo patrimoniale). 1.10. La soluzione appare senz’altro condivisibile alla luce del disposto dell’art. 169 c.c.; né in contrario vale asserire l’anomalia di un intervento giurisdizionale, la cui necessità venisse rimessa alla volontà delle parti (così Cian-Casarotto 1982, 834): l’art. 356 c.c. sta invero a dimostrare che il nostro ordinamento conosce quanto meno un caso in cui la necessità di un intervento autorizzativo previsto come normale dalla legge può essere escluso per effetto della volontà dei privati.

 

3. L’autorizzazione giudiziale e i suoi effetti. 1.1. Per quanto attiene alla procedura relativa all’autorizzazione non vi è dubbio che essa abbia natura di volontaria giurisdizione e debba seguire le regole del rito camerale ex artt. 737 ss. c.p.c. (cfr. art. 38, co. 3°, disp. att. c.c.). Il ricorso potrà essere presentato dai coniugi personalmente se si accede alla tesi secondo cui le procedure camerali di volontaria giurisdizione non costituiscono «giudizio» ai sensi dell’art. 82 c.p.c. (sull’argomento si fa rinvio per tutti a Oberto, Rifiuto di trascrizione e trascrizione con riserva nel sistema della l. 27 febbraio 1985, n. 52, RDC, 1990, I, 261 ss.). In ogni caso i coniugi dovranno presentare congiuntamente il ricorso, vertendosi in materia di atti di straordinaria amministrazione (A.-M. Finocchiaro 1984, 831). Lo ius postulandi del notaio incaricato di rogare la convenzione andrà riconosciuto in base all’art. 1, l. 16 feb. 1913/89, posto che qui è innegabile l’esistenza di un collegamento immediato e diretto tra il provvedimento richiesto e l’atto che il notaio dovrà ricevere (sul punto sia consentito rinviare nuovamente a Oberto, op. loc. ultt. citt.). 1.2. In punto competenza per materia il provvedimento andrà richiesto al tribunale ordinario, ex art. 38 cpv. disp. att. c.c. Sull’argomento potrà richiamarsi la decisione di un giudice tutelare (cfr. P Civitanova Marche 12 lug. 1993, in C.E.D. – Corte di cassazione, Arch. merito, pd. 940059) del seguente tenore: «Vicenda: Due coniugi costituiscono in fondo patrimoniale alcuni beni immobili. Sorge la necessità di assoggettare gli immobili predetti ad ipoteca, a garanzia delle somme mutuate da uno dei coniugi presso istituti di credito per lo svolgimento della propria attività imprenditoriale. Il giudice tutelare, investito del ricorso, relativo all’autorizzazione necessaria nella fattispecie in presenza di una figlia minore, dichiara la propria incompetenza in merito al provvedimento richiesto. Ragioni della decisione: Le autorizzazioni necessarie in presenza di minori in merito ad ipotecare i beni costituiti in fondo patrimoniale sono di competenza del Tribunale ordinario, in quanto secondo la regola generale (richiamata dal combinato disposto dagli artt. 169 cod. civ. e 38 secondo comma disp. att. c.c.) non è espressamente stabilita la competenza di altra autorità giudiziaria». In relazione al principio enunciato da tale massima sarà appena il caso di aggiungere che nella diversa ipotesi di attribuzione della proprietà (o di quota di essa) sui beni del fondo ai figli minorenni l’autorizzazione in esame concorrerà con quella prevista per gli atti di gestione del patrimonio degli incapaci. 1.3. Successivamente la Cassazione ha affermato la competenza del tribunale ordinario, ex art. 38 disp. att. c.c. in relazione ad una domanda con la quale i coniugi avevano chiesto l’autorizzazione ai sensi dell’art. 169 c.c., «a disporre di un bene del fondo, permutando la quota di proprietà di un terreno con la quota di proprietà di un appartamento, già pro quota vincolato nel fondo patrimoniale e da vincolare per intero ai bisogni della famiglia dopo il perfezionamento della permuta» (CC 27 apr. 2002/6167). 1.4. Nessuna disposizione specifica regola la competenza per territorio; essa potrà però essere individuata mediante applicazione analogica dell’art. 41 disp. att. c.c. con riguardo al luogo in cui è stabilita la residenza familiare o, se questa manchi, in quello di domicilio di uno dei coniugi. La soluzione pare del resto confermata dall’art. 4, co. 1°, l. 1 dic. 1970/898, così come sostituito dall’art. 8, l. 6 mar. 1987/74 (e ora dall’art. 2, co. 3-bis, d.l. 14 mar. 2005, n. 35, conv. con mod. nella l. 14 mag. 2005, n. 80, che ha lasciato invariata l’ultima versione dell’ultima parte del comma 1° cit.), il quale, con riguardo al caso della domanda congiunta, consente la proposizione di quest’ultima «al tribunale del luogo di residenza o di domicilio dell’uno o dell’altro coniuge». La competenza per territorio è inderogabile ex art. 28 c.p.c. (sui modi e i termini per il rilievo dell’eventuale incompetenza per materia o territorio, ex art. 38 c.p.c. v. Oberto, Procedure camerali e riforma del processo civile, RN, 1991, 128 ss.). 1.5. La partecipazione del p.m. al procedimento è prevista come necessaria non solo dal già citato terzo comma dell’art. 38 disp. att. c.c., bensì anche, trattandosi di procedura di volontaria giurisdizione concernente il fondo patrimoniale, dall’art. 32 disp. att. c.c. Il tribunale provvede con decreto (art. 737 c.p.c.), soggetto a reclamo ex artt. 739 ss. c.p.c., a revoca ai sensi dell’art. 742 c.p.c., nonché – secondo quanto sostenuto in dottrina e in giurisprudenza in generale in merito ai provvedimenti camerali – a querela nullitatis (su questo istituto v. per tutti i richiami in Jannuzzi, Manuale della volontaria giurisdizione, Milano, 1990, 775 ss.). 1.6. Passando all’esame dei criteri di cui il giudice deve servirsi per valutare la fondatezza o meno dell’istanza, occorre constatare che l’articolo in questione fissa, quale esclusivo criterio di valutazione, quello della necessità od utilità evidente. In merito la giurisprudenza sottolinea che, nelle ipotesi in cui un solo bene faccia parte del fondo patrimoniale, l’autorizzazione all’alienazione deve essere negata laddove non venga provata l’evidente utilità per la famiglia dell’alienazione del bene e del trasferimento del vincolo di destinazione sul nuovo bene e laddove il prezzo di acquisto dello stesso contrasti con le modeste capacità reddituali della famiglia, a nulla rilevando, a questo proposito, il possibile ricorso a forme di finanziamento nonché ad aiuti economici da parte dei familiari e dei conoscenti (T Trani 3 mag. 1999, GC, 2000, I, 201). 1.7. Sotto il profilo del contenuto del provvedimento si discute se esso possa contenere anche delle prescrizioni circa le modalità del reimpiego. La dottrina prevalente è orientata in senso favorevole (cfr. per tutti Auletta 1990, 221), sottolinenandosi, anzi, da parte di taluno, la necessità che il provvedimento autorizzativo si esprima sul punto (Santosuosso 1983, 139), e rilevando come sarebbe proprio la necessità del reimpiego nell’interesse della famiglia a differenziare il fondo patrimoniale dalla donazione obnuziale (Carresi 1992, 62 ss.). In senso contrario potrebbe forse obiettarsi, sotto il profilo logico, che qui non si verte in materia di amministrazione di beni di incapaci; sotto quello sistematico, che ubi lex voluit, dixit (cfr. artt. 182, 320, co. 4°, c.c., 376 cpv. c.c.), e infine, sotto quello storico, che la previsione del reimpiego era contenuta nell’abrogato art. 189 c.c. 1.8. Sempre con riguardo al tema del reimpiego sarà utile ricordare che, proprio con riferimento ad un atto di alienazione di beni costituiti in patrimonio familiare, previa autorizzazione del tribunale (art. 170, vecchio testo, c.c.), la Cassazione ha stabilito che «la circostanza che il venditore, mediante l’indicazione nel contratto di un prezzo inferiore a quello effettivo, miri a sottrarsi, in parte, all’obbligo del reimpiego, non spiega effetti invalidanti sul contratto medesimo, atteso che questo, assolvendo ad un’effettiva e non vietata funzione di scambio, non è qualificabile come negozio in frode alla legge, né come negozio con causa illecita, ed altresì non può essere viziato da un motivo illecito proprio di uno soltanto dei contraenti, in quanto il compratore, ancorché a conoscenza, non ne partecipa e comunque non se ne avvantaggia» (CC 24 set. 1990/9676, GC, 1991, I, 2386). In motivazione la medesima pronunzia chiarisce anche che il mancato reimpiego, pur non viziando il contratto concluso dall’amministratore di beni familiari, può però comportare sanzioni a suo carico. 1.8. L’obbligo di reimpiego in caso di alienazione di un bene del fondo, ove vi siano figli minori, in relazione al prezzo ricavato dalla vendita del bene, mediante vincolo ai bisogni della famiglia è stato affermato da T Genova 26 gen. 1998, VN, 1999, 81. 1.9. Per quanto riguarda, invece, gli obblighi del notaio, la giurisprudenza ha ravvisato la violazione degli artt. 6 e 10, l. 22 gen. 1934/64 nel caso in cui questi, a seguito dell’autorizzazione giudiziale di vendita del bene di un minore e di reimpiego, a cura del notaio medesimo, della somma ricavata dalla vendita, non abbia annotato quest’ultima nel registro somme e valori nell’arco di tempo che passa tra l’atto e l’effettivo reimpiego della somma (T Foggia 9 giu. 2000, cit.).

Ancora sul reimpiego

 

 
 


4. Le conseguenze della violazione della disposizione in esame: la sorte dell’atto compiuto in assenza di autorizzazione. 1.1. Una notevole incertezza regna anche in merito alla sorte dell’atto compiuto in assenza della prescritta autorizzazione (Cenni 2002, 608 ss.). Al riguardo, vi è innanzi tutto chi propone di ricorrere all’art. 184 c.c. (in forza del richiamo operato dall’art. 168 c.c.), che dovrebbe applicarsi, dunque, non solo al caso di violazione della regola dell’agire congiunto (così Auletta 1990, 268 ss.; Id. 1997, 392 ss.). La soluzione appare però – così come presentata – impraticabile, non foss’altro che per la difficoltà di reperire un legittimato attivo all’impugnazione, in relazione ad una norma dettata per la ben diversa ipotesi della pretermissione di un coniuge: non per nulla, infatti, chi propugna l’applicazione dell’art. cit. si vede poi costretto ad estendere la legittimazione anche ai figli minori (cfr. Auletta 1990, 247 ss.; per l’inapplicabilità dell’art. 184 c.c. alla fattispecie in discorso cfr. Cian-Casarotto 1982, 827). 1.2. Per questo, altra dottrina ha ritenuto più corretta l’applicazione della regola della nullità per violazione di norma imperativa (Grasso 1982, 395; Santosuosso 1983, 143). Ma anche questa soluzione appare insoddisfacente: la legittimazione attiva concessa a chiunque vi abbia interesse, propria dell’azione di nullità, finisce infatti con il «premiare» il soggetto che, pur se autore (o coautore) della violazione del principio in forza del quale la causa di invalidità è prevista, intenda esercitare una sorta di ius poenitendi, «rinunciando» all’affare, eventualmente rivelatosi per lui non conveniente (contrari alla tesi della nullità sono anche Gabrielli-Cubeddu 1997, 276). 1.3. Ora, se la ratio dalla disposizione è quella della tutela dell’interesse della prole minorenne (ciò sembra confermato dal fatto che solo in tal caso l’autorizzazione è prescritta), può forse concludersene nel senso dell’argomentabiltà, dai princìpi generali in materia di protezione degli interessi patrimoniali degli incapaci, e dunque per effetto di un procedimento di analogia iuris, che il difetto delle prescritte autorizzino giudiziali determini l’annullabilità dell’atto, su istanza dell’incapace stesso, dei suoi legali rappresentanti o di un curatore speciale, così come disposto dall’art. 322 c.c. per il minore sottoposto a potestà dei genitori e dall’art. 377 c.c. per il minore sottoposto a tutela (con disposizione ripresa dall’art 427 c.c. per l’interdetto e l’inabilitato e dall’art. 396 per l’emancipato).

 

5. Le conseguenze della violazione della disposizione in esame: la responsabilità dei coniugi. 1.1. Si rileva in dottrina che l’obbligo di astenersi da qualsiasi atto, giuridico o materiale, concernente i beni del fondo, che non sia oggettivamente destinato al soddisfacimento dei beni della famiglia, grava in entrambi i casi sui coniugi. L’eventuale inadempienza comporta responsabilità, di uno o di entrambi i coniugi: infatti, quand’anche la distrazione delle utilità del fondo dalla destinazione dovuta fosse concordemente operata da ambedue i coniugi, l’inadempimento non andrebbe esente da una possibilità di sanzione, poiché tale destinazione non è imposta nell’esclusivo interesse dei titolari del diritto, ma anche in quello dei figli, che già esistono o che possono sopravvenire. 1.2. Di conseguenza, la responsabilità può essere fatta valere – ol­tre che, se del caso, dallo stesso coniuge che ne sia immune – dai figli (in persona, una volta raggiunta la maggiore età, ovvero, anche prima, a mezzo di procuratore speciale nominato ai sensi dell’ultimo capoverso dell’art. 320 c.c.), nonché dal terzo che abbia costituito il fondo e sia per ciò portatore di un interesse legittimo al rispetto del vincolo di destinazione. 1.3. In virtù del rinvio, contenuto nell’art. 168, comma terzo, c.c. alla disciplina in materia dettata per la comunione legale potrà pretendersi una rimessione in pristino, in natura o per equivalente, se­condo la norma dell’art. 184, comma terzo, c.c. e, nei casi più gravi, potrà anche essere chiesta l’esclusione di uno o di entrambi i coniugi dall’amministrazione, visto il disposto dell’art. 183, comma primo, c.c. (così Gabrielli-Cubeddu 1997, 275; sul tema della responsabilità ex art. 184 c.c. cfr. inoltre Oberto, La responsabilità contrattuale nei rapporti familiari, Milano, 2006, 32 ss.; Demarchi 2005, 612 ss.).

 

 

Parte III

Esecuzione sui beni e sui frutti. Rapporti con i creditori

 

1. Il vincolo di inespropriabilità dei beni e l’estraneità dell’obbligazione ai bisogni della famiglia. 1.1. L’art. 170 c.c. prevede, nell’interesse della famiglia, un limitato vincolo di inespropriabilità dei beni costituiti in fondo patrimoniale e dei relativi frutti, vincolo che viene concretamente determinato in relazione a due dati, di cui uno oggettivo e l’altro soggettivo. Il primo è costituito dall’estraneità dell’obbligazione, per il soddisfacimento coattivo della quale il creditore agisce, ai «bisogni della famiglia»; il secondo è rappresentato dalla conoscenza del creditore di tale situazione di estraneità. 1.2. Sul primo punto, una volta assodato come dato pressoché pacifico che la norma prescinde dalla circostanza che il vincolo sia stato contratto da entrambi i coniugi o da uno solo di essi (cfr. per tutti A.-M. Finocchiaro 1984, 835), va subito registrata una certa discordanza d’opinioni sull’interpretazione della nozione di «bisogni della famiglia», specie con riguardo alla possibilità di inserire in tale concetto anche i bisogni creati dallo svolgimento dell’attività professionale o imprenditoriale di ciascuno dei coniugi, singolarmente presi, o addirittura nel quadro di un’impresa familiare. In proposito, la dottrina sembra orientata a fornire di questo concetto una lettura piuttosto restrittiva, confinata alle sole esigenze connesse con il ménage domestico-familiare (Cian-Casarotto 1982, 828; Corsi 1984, 104; sostanzialmente nello stesso senso appare orientato anche Auletta 1990, 41 ss., 44 ss., cui si fa rinvio per un’attenta analisi del concetto di «bisogni della famiglia»; v. inoltre Id. 1997, 397 ss.; in generale sul tema v. anche De Paola 1996, 122 ss.; Demarchi 2005, 267 ss.). 1.3. In una decisione di legittimità si è affermato, invece, che rientrerebbe nella nozione in esame ogni debito diretto a soddisfare «esigenze volte al pieno mantenimento ed all’armonico sviluppo della famiglia, nonché al potenziamento della sua capacità lavorativa, restando escluse solo le esigenze di natura voluttuaria o caratterizzate da intenti meramente speculativi». Si noti che, nel caso di specie, si è ritenuto non estraneo ai bisogni della famiglia il debito contratto con l’Ente di Sviluppo Agricolo in Sicilia «per consentire alla mutuataria ed alla sua famiglia colonica un più sereno e proficuo svolgimento dell’attività lavorativa comune a tutti i componenti il nucleo familiare» (CC 7 gen. 1984/134, FI, 1985, I, 558). Sarà appena il caso di constatare come l’affermarsi di un’interpretazione di questo genere favorisca obiettivamente i creditori, rendendo praticamente inutile, in un buon numero di casi, l’utilizzazione dell’istituto del fondo patrimoniale in chiave di frode a questi soggetti (cfr. supra, Parte I, § 1, nonché infra). 1.4. La limitazione prevista dall’art. 170 c.c. circa l’esecutabilità dei beni facenti parte del fondo patrimoniale sembra poi doversi intendere riferita esclusivamente alle obbligazioni nascenti da contratto, restando escluse quelle derivanti da fatto illecito. In tal senso, infatti, sembra deporre l’interpretazione letterale della norma, nella parte in cui fa riferimento alle attività poste in essere dai componenti del gruppo familiare nell’ambito dell’autonomia contrattuale e non riconducibili, quindi, al paradigma dell’art. 2043 c.c. D’altra parte, il riferimento espresso alla conoscenza, da parte del creditore, dell’estraneità del credito ai bisogni familiari si riferisce certamente alle obbligazioni contrattuali (T Sanremo 29 ott. 2003, D FAM, 2004, 101). Anche questa lettura dell’art. 170 c.c. va a vantaggio dei creditori: nella specie, dei creditori ex delicto, i quali non potranno vedersi opporre eccezioni di sorta relative al fatto che i beni pignorati siano oggetto di fondo patrimoniale (sul tema cfr. Di Sapio, Patrimoni segregati ed evoluzione normativa: dal fondo patrimoniale all’atto di destinazione, Relazione tenuta al convegno di studi su Attualità e problematiche in materia di donazioni, patrimoni separati e fallimento organizzato dal Comitato Regionale fra i Consigli Notarili Distrettuali della Puglia, tenutosi a Pozzo Faceto, Fasano (Brindisi) il 23-24 giugno 2006, in corso di pubblicazione nei relativi atti (testo dattiloscritto cortesemente inviato dall’Autore), 31 ss.; sulle differenze tra vincolo ex art. 170 e vincolo ex art. 2645-ter c.c. cfr. Oberto, Atti di destinazione (art. 2645-ter c.c.) e trust: analogie e differenze, in Contratto e impresa/E, 2007, § 2).

 

2. L’esecuzione sui beni. 1.1. L’esecuzione sui beni (o su di una quota di essi) per obbligazioni dei coniugi presuppone, secondo taluno, che il fondo sia stato costituito con attribuzione della proprietà (o di una quota in comproprietà, o di uno ius in re aliena tipico) degli stessi ai coniugi; nel caso di riserva della proprietà al costituente, invece (e sempre a condizione che tale operazione sia ritenuta come possibile: cfr. supra, Parte I, § 10), lo speciale diritto di godimento spettante ai coniugi sarebbe inalienabile ed inespropriabile (Cian-Casarotto 1982, 828; secondo Carresi 1992, 63, invece, i creditori dei coniugi potrebbero espropriare il diritto d’usufrutto a questi ultimi spettante, senza quei vincoli che affettavano i beni quando facevano parte del fondo patrimoniale). 1.2. Il limite all’espropriabilità dei beni deve essere fatto valere dai coniugi in sede di opposizione all’esecuzione; ma legittimati a promuovere quest’ultima devono considerarsi pure i figli (così Gabrielli-Cubeddu 1997, 277). Il limite in oggetto vale sia in relazione alle obbligazioni di fonte contrattuale che a quelle di fonte non contrattuale (Gabrielli-Cubeddu 1997, 277). L’onere della prova della conoscenza della estraneità del debito ai bisogni della famiglia grava su chi voglia avvantaggiarsi degli effetti ricollegati alla conoscenza da parte del creditore che l’obbligazione era contratta per scopi estranei ai bisogni della famiglia e pertanto sui coniugi che l’invocano (così T Parma 7 gen. 1997, NGCC, 1998, I, 33 ss., con nota di Mora; in dottrina v. in questo senso Santosuosso 1983, 146 ss.; A.-M. Finocchiaro 1984, 834 ss.).


3. La nozione di bisogni della famiglia. 1.1. Con riguardo al profilo soggettivo, è evidente che il fondo patrimoniale è destinato a soddisfare i bisogni non solo dei coniugi, ma anche della eventuale prole, come risulta dal fatto che la costituzione può esserne disposta soltanto in contemplazione di un determinato matrimonio e che il vincolo cessa con lo scioglimento od annullamento di questo, salva l’eventuale dilazione fino al raggiungimento della maggiore età da parte del più giovane dei figli, previsto dal capoverso dell’art. 171 c.c. (così Gabrielli-Cubeddu 1997, 278). 1.2. Quanto al profilo oggettivo, poi, gli interessi della prole e dell’eventuale terzo costituente fanno sì che l’individuazione dei biso­gni familiari non possa venire rimessa all’arbitrio dei coniugi, ma debba invece operarsi secondo parametri oggettivi. Di conseguenza, se alla famiglia – come ad ogni altra formazione sociale – è assegnata dall’ordinamento una funzione di potenziamento della personalità individuale in alcune soltanto delle sue manifestazioni, devono qualificarsi familiari solo quei bisogni individuali destinati a soddisfarsi entro l’alveo unitario della vita comune: comprensivi, peraltro, non solo degli elementari bisogni biologici, ma altresì di quelli propri della vita di relazione, secondo il costume affermato nella più ampia cerchia sociale entro cui la famiglia si colloca, nonché, infine, le esigenze obiettive di conservazione e miglioramento dei beni del fondo stesso (Gabrielli-Cubeddu 1997, 279; cfr. inoltre Gabrielli 1997, 388). 1.3. La giurisprudenza, tuttavia, sembra incline a procedere, per la tutela dei creditori, anche al di là di questi già ampi confini, ammettendo la rilevanza pure di spese erogate a vantaggio dell’attività economica individuale di singoli membri della famiglia. CC 7 gen. 1984/134, cit., infatti, ha stabilito che «In tema di esecuzione sui beni del fondo patrimoniale e sui frutti di essi, il disposto dell’art. 170 cod. civ. nel testo di cui alla legge 19 maggio 1975 n. 151 per il quale detta esecuzione non può aver luogo per debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia, va inteso non in senso restrittivo, come riferentesi cioè alla necessità di soddisfare l’indispensabile per l’esistenza della famiglia, bensì analogamente a quanto, prima della riforma di cui alla richiamata legge n. 151 del 1975, avveniva per i frutti dei beni dotali, nel senso di ricomprendere in detti bisogni anche quelle esigenze volte al pieno mantenimento ed all’armonico sviluppo della famiglia, nonché al potenziamento della sua capacità lavorativa, restando escluse solo le esigenze voluttuarie o caratterizzate da intenti meramente speculativi». Al riguardo, la dottrina (Gabrielli 1997, 388; Gabrielli-Cubeddu 1997, 279) ha in proposito sollevato il dubbio che per tal via venga pregiudicata la stessa ragion d’essere del fondo patrimoniale. 1.4. Successivamente, alcune pronunce di legittimità hanno avuto modo di sottolineare che «il criterio identificativo dei crediti il cui soddisfacimento può essere realizzato in via esecutiva sui beni conferiti nel fondo va ricercato non già nella natura delle obbligazioni, ma […] nella relazione esistente tra il fatto generatore di esse ed i bisogni della famiglia, con la conseguenza che ove la fonte e la ragione del rapporto obbligatorio abbiano inerenza diretta ed immediata con le esigenze familiari deve ritenersi operante la regola della piena responsabilità del fondo» (così, letteralmente, CC 18 lug. 2003/11230, FD, 2004, 351, con nota di Longo, Responsabilità aquiliana ed esecutività sui beni del fondo patrimoniale; GI, 2004, 1615, con nota di Guida; RN, 2004, II, 155, con nota di Vocaturo; CC 5 giu. 2003/8991, FD, 2003, 615; GC, 2004, I, 3097, con nota di Piscitelli, L’inopponibilità del fondo patrimoniale a fronte di obbligazioni risarcitorie da fatto illecito vantaggiose per la famiglia). 1.5. Secondo la S.C., inoltre, siffatto accertamento della riconducibilità delle obbligazioni alle esigenze della famiglia, costituisce accertamento di fatto ed è pertanto rimesso al giudice di merito, restando invece censurabile, in sede di legittimità, solo per vizio di motivazione (CC 18 set. 2001/11683, GC, 2002, I, 1950).

 

4. L’irrilevanza del momento in cui il credito è sorto. 1.1. Una pronuncia della Cassazione (CC 9 apr. 1996/3251, GC, 1996, I, 2959; D FAM, 1996, 1382) ha affermato l’irrilevanza, ai fini dell’applicazione dell’art. 170 c.c., dell’accertamento del momento in cui il credito è sorto, in relazione al momento di costituzione del fondo: «Con riguardo a beni conferiti in fondo patrimoniale, l’art. 170 cod. civ. secondo cui l’esecuzione sui beni del fondo e sui frutti di essi non può aver luogo per debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia non limita il divieto di esecuzione forzata ai soli crediti (estranei ai bisogni della famiglia) sorti successivamente alla costituzione del fondo. Ne consegue che detto divieto estende la sua efficacia anche ai crediti sorti prima di tale data, ferma restando in questo caso la possibilità per il creditore di agire in revocatoria ordinaria, qualora ne ricorrano i presupposti, al fine di far dichiarare l’inefficacia nei propri confronti dell’atto costitutivo del fondo patrimoniale» (sul tema cfr. anche Demarchi 2005, 310).

 

5. Fondo patrimoniale e azione revocatoria (ordinaria): i presupposti oggettivi. 1.1. Come si è avuto modo di dire (cfr. supra, Parte I, § 1) il fondo patrimoniale è stato sovente (se non quasi esclusivamente) utilizzato in chiave di frode ai creditori. La giurisprudenza, dal canto suo, appare costante nell’ammettere la revocabilità dell’atto costitutivo, trattato come negozio a titolo gratuito, ai sensi e per gli effetti dell’art. 2901 c.c. 1.2. Seguendo l’ordine delle condizioni previste dalla norma citata andrà detto che, in punto eventus damni questo va ravvisato, nel caso di costituzione di fondo patrimoniale con trasferimento della proprietà (o di una quota di essa: per un’ipotesi cfr. T Milano 2 giu. 1983, GC, 1983, I, 2729), nella perdita della garanzia patrimoniale (generica) offerta dalla titolarità del bene in capo al soggetto che ha costituito il fondo. 1.3. Nell’ipotesi, invece, di costituzione del fondo su beni già di proprietà dei coniugi il pregiudizio alle ragioni dei creditori ben può essere ravvisato in quel vincolo di (limitata e condizionata) inespropriabilità che l’art. 170 c.c. contempla: v. CC 18 mar. 1994/2604, NGCC, 1995, I, 265, con nota di Giugliano, Natura giuridica dell’atto costitutivo del fondo patrimoniale e azione revocatoria; cfr. inoltre CC 2 sett. 1996/8013, FALL 1997, 595, con nota di Figone, secondo cui «La costituzione del fondo patrimoniale può essere dichiarata inefficace nei confronti dei creditori a mezzo azione revocatoria ordinaria, in quanto rende i beni conferiti aggredibili solo a determinate condizioni (art. 170 cod. civ.), così riducendo la garanzia generale spettante ai creditori sul patrimonio dei costituenti»; nello stesso senso si è espressa, più recentemente, CC 7 mar. 2005/4933, inedita; per la giurisprudenza di merito cfr. A Brescia 13 feb. 1981, GC, 1981, I, 1123; in dottrina v. Auletta 1997, 367. Il tutto, naturalmente, sempre a condizione che la costituzione in fondo di determinati beni renda obiettivamente più difficile il soddisfacimento delle ragioni creditorie sul patrimonio del debitore complessivamente considerato (T Catania 27 mag. 1993, D FAM, 1994, 1263).

 

6. Fondo patrimoniale e azione revocatoria (ordinaria): i presupposti soggettivi. 1.1. Venendo ai presupposti oggettivi, potrà dirsi che, per quanto attiene, in primo luogo, al consilium fraudis (art. 2901, n. 1, c.c.), essendo sufficiente la mera consapevolezza di intaccare, nella maniera sopra precisata, la garanzia patrimoniale generica offerta ai creditori ex art. 2740 c.c., tale requisito, nelle ipotesi in esame, risulta in re ipsa. Sul tema, invece, della «dolosa preordinazione», richiesta in caso di atto anteriore al sorgere del credito, cfr. CC 22 gen. 1999/591, nonché T Napoli 16 gen. 1997, GM, 1998, 449. 1.2. La scientia fraudis (ex art. 2901, n. 2, c.c.) non è invece richiesta, trattandosi di atti a titolo gratuito. Questo è, per lo meno, il parere della giurisprudenza, tanto di merito (cfr. A Brescia 13 feb. 1981, cit.; T Milano 2 giu. 1983, cit.; T Catania 31 ott. 1985 e A Catania 21 dic. 1985, G COM, 1987, 627; A Milano 8 apr. 1986, GC, 1986, I, 2242; A Firenze 8 lug. 1989, AC, 1990, 158; T Napoli 18 gen. 1993 e 27 gen. 1993, BBTC, 1994, 580; T Catania 27 mag. 1993, cit.), che di legittimità (CC 18 mar. 1994/2604, cit.), mentre in dottrina non è mancato (v. infra, § 9, in questa Parte) chi ha ritenuto che la costituzione del fondo ad opera dei coniugi si inquadri tra gli atti a titolo oneroso.

 

7. Fondo patrimoniale e azione revocatoria (ordinaria): la pubblicità della domanda. L’azione proposta dal curatore fallimentare. La legittimazione passiva. 1.1. Una pronunzia di merito (P Pordenone 1° ott. 1997, FD, 1999, 67, con commento di Gaglio) si è occupata del tema della pubblicità della domanda ex art. 2901 c.c. proposta avverso un atto costitutivo di un fondo patrimoniale, stabilendo che siffatto negozio «può essere oggetto di revocatoria quando pre­giudichi le ragioni dei creditori e ricorrano le condizioni di cui all’art. 2901 c.c. La domanda revocatoria è trascrivibile ai sensi dell’art. 2652, n. 5, c.c. e la relativa sentenza dev’essere annotata a norma dell’art. 2655, 1° comma, c.c. e non invece a’ sensi e agli effetti degli artt. 162 e 163 c.c., poiché la sentenza revocatoria non modifica l’assetto delle convenzioni patrimonia­li fra i coniugi ma ne determina unicamente l’inefficacia relativa. Si tratta comunque di adempimenti attuabili soltanto ad iniziativa del­la parte interessata e che non possono essere ordinati dal giudice». 1.2. Per un caso, invece, di esercizio dell’azione revocatoria ordinaria proposta dal curatore fallimentare a norma dell’art. 2901 c.c., espressamente richiamato dall’art. 66 l. fall., v. CC 18 set. 1997/9292, FI, 1997, I, 3148; FALL, 1998, 679, con nota di Figone. 1.3. Venendo invece al tema della legittimazione passiva potrà aggiungersi che, secondo la Corte di cassazione (CC 31 mag. 2005, 11582, inedita), «L’azione revocatoria diretta a far valere l’inefficacia della costituzione di un fondo patrimoniale può incidere soltanto sulla posizione soggettiva del coniuge debitore, restando l’altro coniuge estraneo all’azione, ancorchè egli sia stato uno dei contraenti nell’atto di costituzione del fondo. Ne consegue che il coniuge non debitore non è litisconsorte necessario passivo dell’azione revocatoria e che l’attore può essere condannato alla rifusione delle spese di costituzione da lui sopportate».

 

8. Fondo patrimoniale e fallimento. 1.1. Il vincolo di cui all’art. 170 c.c. opera anche nei confronti del fallimento, come risulta confermato dal rinvio a tale disposizione operato dall’art. 46, n. 3, l. fall., così come modificato dal d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, che, per il fondo patrimoniale, prevede l’inclusione dei relativi beni nella massa fallimentare nel caso di ricorrenza delle condizioni di cui all’art. 170 c.c. 1.2. Da notare che, prima della citata riforma del 2006, l’art. 46, n. 3, l. fall. menzionava il patrimonio familiare, ma la tesi prevalente – rilevando la presenza di un mero difetto di coordinamento con la riforma del 1975 (Cian-Casarotto 1982, 829; Auletta 1990, 325; sul punto v. CC 7 apr. 1989/1661, D FAM, 1990, 576, in tema di patrimonio familiare, ma con considerazioni riferibili anche al fondo patrimoniale) – riteneva la disposizione applicabile al fondo, ovviamente, a condizione che l’atto costitutivo fosse efficace ai sensi e per gli effetti degli artt. 64 o 67 l. fall. (sui cui v. infra). 1.3. Si formerà, di conseguenza, una massa separata destinata al soddisfacimento di una parte soltanto dei creditori. Secondo una parte della dottrina la conclusione varrebbe peraltro unicamente nel caso di fallimento di entrambi i coniugi, mentre nell’ipotesi di fallimento di uno solo l’art. 46 cit. sarebbe inapplicabile: il fondo patrimoniale resterebbe, in tal caso, insensibile al fallimento, in quanto composto di beni non appartenenti al fallito, ma indissolubilmente a lui e ad altra persona (Gabrielli 1982, 306 ss.; Gabrielli-Cubeddu 1997, 292). 1.4. Secondo un altro punto di vista, invece, i beni del fondo sarebbero assoggettabili al fallimento a prescindere dal fatto che a fallire siano ambedue i coniugi od uno solo. La tutela della par condicio creditorum non potrebbe dipendere dall’esistenza di un’attività di impresa individuale o societaria e dalla composizione della società medesima. Pertanto, nel caso di fallimento di un solo coniuge, all’attivo andrà ascritta la quota del fondo di sua spettanza, con successiva espropriazione della quota spettante al fallito su ciascun bene, seguendo le regole relative all’espropriazione dei beni indivisi (Auletta 1990, 326; in generale sui rapporti tra fondo patrimoniale e fallimento cfr. inoltre Bronzini, Fondo patrimoniale e fallimento, D FALL, 1988, I, 412 ss.; Demarchi 2005, 333 ss.). 1.5. Quest’ultima tesi è quella seguita da una pronunzia di merito (T Ragusa 8 mar. 1990, G COM, 1991, 61), che ha altresì affrontato una serie di questioni concernenti gli effetti sul fondo patrimoniale del fallimento di uno solo dei coniugi, stabilendo che «I beni costituiti in fondo patrimoniale, in caso di fallimento di uno dei coniugi, devono essere appresi pro quota all’attivo del fallimento, e formeranno oggetto di una massa separata rispetto al restante dell’attivo, essendo destinati al soddisfacimento dei creditori che non conoscevano che i debiti contratti dai coniugi erano stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia. La speciale disciplina prevista dall’art. 170 c.c. in favore dei creditori consapevoli della pertinenza dell’obbligazione contratta ai bisogni della famiglia è assimilabile ad una causa di prelazione. per analogia dall’art. 2911 c.c. Tali creditori non potranno concorrere nella distribuzione dell’attivo del coniuge fallito se non hanno domandato anche la liquidazione del fondo patrimoniale. Il coniuge in bonis che intenda opporsi alla liquidazione fallimentare dei beni costituiti in fondo patrimoniale da parte del fallimento del coniuge fallito, nella presupposta assenza di creditori aventi titolo a soddisfarsi sui predetti beni, deve domandare al giudice delegato di non autorizzare la vendita della quota del patrimonio appresa alla massa, salva la possibilità di reclamare al tribunale contro l’eventuale provvedimento contrario. Non può, invece, effettuare una domanda di rivendica ex art. 103 l. fall., né effettuare un’opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c.».

 

9. Sul carattere gratuito o oneroso dell’atto costitutivo del fondo patrimoniale. 1.1. La giurisprudenza ritiene la costituzione del fondo patrimoniale inefficace ai sensi dell’art. 64 l. fall. se effettuata nei due anni anteriori alla dichiarazione di fallimento, trattandosi di atto a titolo gratuito, non compiuto in adempimento di un dovere (non solo giuridico, ma neppure) morale e ciò anche quando entrambi i coniugi conferiscano beni di proprietà già comune (cfr. CC 15 gen. 1990/107, GI, 1990, I, 1, 1118; GC, 1990, I, 1534; D FALL, 1990, II, 1075; CC 28 nov. 1990/11449, GC, 1991, I, 566; nel medesimo senso, con riguardo al patrimonio familiare cfr. CC 7 apr. 1989/1661, cit.; sul carattere donativo della costituzione da parte di uno dei coniugi o di un terzo v. Gabrielli-Cubeddu 1997, 281). 1.2. Secondo una parte della dottrina, invece, l’atto di costituzione del fondo patrimoniale su beni di proprietà dei coniugi sarebbe a titolo oneroso in quanto effettuato nell’adempimento dei doveri previsti dagli artt. 143 e 147 c.c. (Corsi 1984, 92, 198 ss.; sul tema cfr. anche Ragazzini, La revocatoria delle convenzioni matrimoniali, RN, 1990, 964 ss., 973 ss., 982 ss.; De Paola 1996, 93 ss.). 1.3. Sul punto andrà però rilevato che nessuna norma impone la costituzione del fondo, la quale, tra l’altro, ben potrebbe avvenire da parte di coniugi i quali già a prescindere da tale atto soddisfano in pieno i doveri di contribuzione e mantenimento di cui alle norme citate. Questo rilievo è stato fatto proprio dalla Cassazione, la quale ha stabilito che «La costituzione del fondo patrimoniale per fronteggiare i bisogni della famiglia (artt. 167 ss. cod. civ.) non può essere intesa come adempimento di un dovere giuridico, non essendo obbligatoria per legge, ma configura un atto tipico di liberalità, anche quando i coniugi conferiscano beni di proprietà comune, il quale, allorché la famiglia si sia dissolta a seguito di separazione dei coniugi, non ha altra finalità che quella di sottrarre alla garanzia patrimoniale generica (art. 2740 cod. civ.) i beni costituiti nel fondo medesimo, con la conseguenza che, ove la stipulazione dell’indicato atto sia avvenuta nel periodo «sospetto», esso è suscettibile di revocatoria fallimentare, a norma dell’art. 64 l. fall. in caso di fallimento di uno dei coniugi» (CC 2 dic. 1996/10725, FALL, 1997, 799; CC 23 mar. 2005/6267, inedita; nello stesso ordine di idee cfr., per la giurisprudenza di merito, T Nocera Inf. 14 mar. 1996, GM, 1997, 294). 1.4. Ovviamente, a nulla rileva (come invece asserito da De Paola 1996, 93 ss.) che l’atto costitutivo del fondo non operi (come nel caso di costituzione su beni già di proprietà dei coniugi) alcun trasferimento di diritti, avendo unicamente peso, al fine del riconoscimento del carattere gratuito del negozio, il fatto che esso sia compiuto in assenza di un corrispettivo. 1.5. Va ancora aggiunto che – come rilevato in dottrina – anche a prescindere dai casi in cui il costituente è un estraneo alla famiglia, la rilevanza della solidarietà familiare, sul piano giuridico, è ristretta entro l’ambito degli obblighi di contribuzione e di alimenti specificamente previsti; né può quindi reputarsi causa idonea di una attribuzione di carattere reale (Gabrielli-Cubeddu 1997, 282). D’altro canto, e a prescindere dalle questioni concernenti l’inquadramento sistematico, non vi è dubbio che l’applicazione al fondo patrimoniale dell’art. 67 l. fall. (alternativa «obbligata» nel caso di ritenuta inapplicabilità dell’art. 64 l. fall., atteso anche il rinvio che a tale prima disposizione opera il successivo art. 69, in relazione agli atti compiuti tra coniugi) darebbe luogo ad una serie di inconvenienti di notevole peso: si pensi, tanto per fare un esempio, che qui, difettando una controprestazione, risulterebbe addirittura privo di significato concreto il richiamo al n. 1 dell’art. 67 cit.

 

 

Parte IV

Cessazione del fondo

 

1. Modificazioni del fondo. 1.1. Durante la sua esistenza, il fondo può subire modificazioni di vario genere, sia in relazione al suo oggetto, che al suo regime giuridico. In primo luogo esso potrà essere modificato con apposita convenzione, cui andranno applicate le disposizioni ex art. 163 c.c. 1.2. Non costituiscono peraltro modificazioni del fondo patrimoniale già esistente eventuali nuove destinazioni di beni allo stesso fine: si tratta, invero, di costituzione di un ulteriore patrimonio separato, distinto dal precedente perché da ricondursi a titolo diverso: il successivo incremento del fondo non sembra dunque mai configu­rarsi come modificazione del negozio originario (Gabrielli-Cubeddu 1997, 287; sul tema cfr. inoltre Santosuosso 1995, 269 ss.; Gabrielli 1997, 391; Auletta 1997, 369; sull’argomento cfr. anche De Paola 1996, 101 ss.; in generale sulla cessazione del fondo cfr. Demarchi 2005, 395 ss.). 1.3. Per quanto riguarda invece i decrementi occorre distinguere. Può darsi che l’uscita di singoli beni dal fondo – e, al limite, addirittura di tutti – rappresenti la mera conseguenza riflessa di atti, giuridici o materiali, diretti ad altro fine: in particolare, d’un impiego traducentesi in consumazione o alienazione, per fare fronte ai bisogni della famiglia; nel qual caso certamente non occorre rispettare il procedimento richiesto per le modificazioni del fondo patrimoniale. Ma può anche darsi, per contro, che i coniugi vogliano sottrarre uno o più beni al vincolo di destinazione, senza direttamente proporsi altro scopo che questo: sarà certamente necessario, allora, operare in conformità del modello previsto, secondo la norma dell’art. 163 c.c., per la modificazione delle convenzioni matrimoniali (Gabrielli-Cubeddu 1997, 287). 1.4. Quanto alle modifiche dell’originario regime giuridico del fondo, queste sono adottabili con convenzione modificativa, in quanto abbiano ad oggetto aspetti derogabili della disciplina legale (si pensi, per esempio al vincolo reale d’inalienabilità di cui all’art. 169 c.c.); anche le deroghe in tale negozio even­tualmente contenute potranno eventualmente eli­minarsi, in un momento successivo; in entrambi i casi la modificazione non potrà avvenire se non nei modi previsti dall’art. 163 c.c. (Gabrielli-Cubeddu 1997, 287). Dette modifiche, inoltre, richiedono il consenso di tutti i soggetti che sono stati parte dell’originaria convenzione ovvero dei relativi eredi (Cenni 2002, 623).

 

2. Cessazione ed esaurimento del fondo. Le cause di cessazione del fondo patrimoniale. 1.1. La cessazione del fondo, disciplinata dall’art. 171 c.c., va distinta dall’esaurimento del medesimo, che si determina per effetto dell’alienazione (cfr. sub art. 169 c.c.) dei beni che lo costituiscono (Corsi 1984, 105). Dal raffronto dell’art. 171 c.c. con il suo omologo in tema di comunione legale (art. 191 c.c.) emerge che talune fattispecie estintive di quest’ultimo regime non sono prese qui, almeno espressamente, in considerazione. 1.2. In particolare, non si prevede l’ipotesi del mutamento convenzionale di regime, con la conseguenza che, secondo alcuni, il fondo non potrebbe essere eliminato mediante la stipula di una nuova convenzione (Corsi 1984, 105, che ammette solo, come si è detto, la possibilità dell’esaurimento del fondo). Si è però obiettato al riguardo che l’art. 171 c.c. non sembra derogare alla generale previsione di cui all’art. 163 c.c., con conseguente possibilità, nel caso di costituzione del fondo a mezzo di convenzione matrimoniale, di una modifica della medesima, o addirittura di una sua risoluzione consensuale, nel rispetto delle prescrizioni formali dell’art. ult. cit. (Gabrielli 1982, 316 ss.; Carresi 1992, 66; Gabrielli 1997, 391; Gabrielli-Cubeddu 1997, 288; in giurisprudenza cfr. T Vicenza 19 lug. 1985, V NOT, 1985, 731; TM Venezia 17 nov. 1997, RN, 1998, II, 223, con nota di A. Vianello; TM Lecce 25 nov. 1999, RN, 2002, II, 394, con nota di Verola; che ammettono la possibilità di una risoluzione consensuale del negozio costitutivo del fondo; contra cfr. T Savona 24 apr. 2003, cit.; TM Perugia 20 mar. 2001, RN, 2001, II, 1189, con nota di Viani; sul problema del carattere tassativo o esemplificativo dell’elenco di cui all’art. 171 c.c. v. Auletta 1997, 400 ss.; in generale sul tema v. anche De Paola 1996, 127 ss.). 1.3. Si è ritenuto poi che, in presenza di figli minori, una convenzione risolutiva del fondo patrimoniale abbisognerà di un’autorizzazione giudiziale del tribunale dei minorenni, in analogia a quanto dispongono il co. 2° e il co. 3° dell’art. 171 c.c. (così Cenni 2002, 635); in giurisprudenza la soluzione è condivisa da TM Lecce 25 nov. 1999, cit., ma respinta da TM Venezia 7 feb. 2001, RN, 2001, II, 1189, con nota di Viani; in particolare, secondo tale ultima pronunzia, «il Tribunale dei Minorenni non è competente ad autorizzare la convenzione di scioglimento del fondo patrimoniale, per la quale è di conseguenza sufficiente l’atto pubblico notarile». 1.4. Neppure la separazione personale dei coniugi è menzionata tra le cause di scioglimento del fondo e la dottrina tende a non estendere analogicamente a questo caso il disposto dell’art. 171, né quello dell’art. 191 c.c., rilevandosi in proposito che il fondo può conservare una sua utilità pur in presenza di una crisi coniugale (Santosuosso 1983, 148; Corsi 1994, 22; A.-M. Finocchiaro 1984, 845; Auletta 1990, 337; Carresi 1992, 66); anche la giurisprudenza ha escluso che la separazione personale dei coniugi produca lo scioglimento del fondo patrimoniale (T Savona 24 apr. 2003, cit.). 1.5. D’altro canto, non determinano la cessazione del fondo la separazione giudiziale dei beni (art. 193 c.c.), il fallimento (cfr. supra, Parte III, § 8) e la dichiarazione di assenza di uno o di entrambi i coniugi (Carresi 1992, 66; più in generale sui rapporti tra le norme in tema di cessazione del fondo e scioglimento della comunione legale v. Auletta 1990, 329 ss.).

 

3. La cessazione del fondo patrimoniale in presenza di figli. 1.1. Il capoverso dell’art. 171 c.c. dispone che il fondo duri fino al compimento della maggiore età dell’ultimo figlio. In tale caso il giudice può dettare, su istanza di chi vi abbia interesse, norme per l’amministrazione del fondo. Giudice competente è qui il tribunale per i minorenni, ex art. 38 disp. att. c.c., che dovrà pronunciare sentito il p.m., secondo quanto disposto dall’art. 32 disp. att. c.c. 1.2. Le norme in tema di amministrazione cui fa riferimento l’art. 171 c.c. possono consistere, per esempio, nel conferimento dei poteri di amministrazione ad uno solo dei coniugi (per esempio: l’affidatario dei figli) o ad un estraneo (come potrebbe avvenire, sempre per esempio, nel caso di morte di entrambi). Dalla disposizione in commento è altresì desumibile l’inammissibilità di una costituzione del fondo successiva al verificarsi di una causa di scioglimento o di annullamento del matrimonio, quantunque esistano figli minori (Auletta 1990, 351; sul tema cfr. inoltre De Paola 1996, 132 ss.; Auletta 1997, 405 ss.; Vianello, Lo scioglimento convenzionale del fondo patrimoniale in presenza di figli minori, nota a TM Venezia 17 nov. 1997, cit.; Demarchi 2005, 427 ss.). 1.3. A notevoli perplessità ha dato luogo la disposizione di cui al terzo comma dell’art. 171 c.c., secondo cui, considerate le condizioni economiche dei genitori e dei figli ed ogni altra circostanza, il giudice può altresì attribuire ai figli, in godimento o in proprietà, una quota dei beni del fondo. In particolare, una parte della dottrina ha affermato che la norma costituirebbe un gravissimo attentato all’autonomia privata, contemplando un’ipotesi di vera e propria espropriazione per motivi di interesse particolare, e dunque in contrasto con l’art. 42 Cost. (A.-M. Finocchiaro 1984, 841 ss.; secondo Corsi 1994, 107 ss., che pure condivide le predette perplessità, la norma va vista come una possibilità di eliminazione del vincolo prima del raggiungimento della maggiore età, così consentendo l’immediata cessazione del fondo, ma assicurando altresì ai figli i vantaggi che deriverebbero dal suo permanere; cfr., per questa lettura dell’art. 171 c.c., anche Auletta 1990, 368 ss.; ritengono superabili le perplessità in ordine alla legittimità costituzionale della disposizione Gabrielli-Cubeddu 1997, 290). 1.4. Secondo una parte della dottrina la norma non troverebbe applicazione nei riguardi dei figli minori, i cui interessi sarebbero già tutelati dal fatto che il fondo permane sino al raggiungimento della maggiore età e dal fatto che, ai sensi del capoverso dell’art. 171 c.c., il giudice può dare provvedimenti sull’amministrazione (Attardi, Aspetti processuali del nuovo diritto di famiglia, COM. RDF, I, 2, Padova 1977, 957 ss.; Santosuosso 1983, 151 ss.). 1.5. Secondo altri, invece, la disposizione troverebbe applicazione solo a beneficio dei figli maggiorenni ma economicamente non autosufficienti (Cian-Casarotto 1982, 835 ss.). 1.6. Rimane comunque il fatto che competente in ordine a tale intervento è il tribunale per i minorenni (ex art. 38 disp. att. c.c.), il che sembra fornire elementi in senso contrario alla tesi dell’applicabilità ai figli maggiorenni. D’altro canto la norma va letta «in parallelo» con quanto disposto dall’art. 194 cpv. c.c. in relazione, pacificamente (cfr. il riferimento all’«affidamento della prole»), alla tutela degli interessi dei figli minorenni (per l’inapplicabilità dell’art. 171, co. 3°, c.c. ai figli maggiorenni è anche Auletta 1990, 366).

 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

 

Demarchi, Fondo patrimoniale, Milano, 2005; Cenni, Il fondo patrimoniale, Tr. ZAT., III, Milano, 2002; Ieva, Le convenzioni matrimoniali, Tr. ZAT., III, Milano, 2002; Dogliotti-Figone, Il fondo patrimoniale, in Aa. Vv., Il diritto di famiglia, II, Tr. BES., IV, Torino, 1999, 575 ss.; Auletta, Il fondo patrimoniale, in Il diritto di famiglia, Tr. B.C., II, Il regime patrimoniale della famiglia, Torino, 1997; Gabrielli, Regime patrimoniale della famiglia, D CIV, XVI, Torino, 1997; Gabrielli-Cubeddu, Il regime patrimoniale dei coniugi, Milano, 1997; De Paola, Il diritto patrimoniale della famiglia coniugale, III, Il regime patrimoniale della famiglia, Milano, 1996; Santosuosso, Beni ed attività economica della famiglia, Torino, 1995; Carresi, Del fondo patrimoniale, COM. DIF, III, Padova, 1992; Auletta, Il fondo patrimoniale, Milano, 1990; Oberto, Comunione legale, regimi convenzionali e pubblicità immobiliare, RDC, 1988; Corsi, Il regime patrimoniale della famiglia, II, Le convenzioni matrimoniali. Famiglia e impresa, Tr. C.M., Milano, 1984; A.-M. Finocchiaro, Diritto di famiglia, I, Milano, 1984; Santosuosso, Il regime patrimoniale della famiglia, COM UTET, Torino, 1983; Cian-Casarotto, voce Fondo patrimoniale della famiglia, NNDI – App., III, Torino, 1982; Gabrielli, Patrimonio familiare e fondo patrimoniale, EdD, XXXII, Milano, 1982; Grasso, Il fondo patrimoniale, Tr. RES., III, Torino, 1982; Corsi, Il regime patrimoniale della famiglia, Tr. C.M., I, 1, Milano, 1979; Russo, Il fondo patrimoniale, Studi sulla riforma del diritto di famiglia, Milano, 1973.

 

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