INTRODUZIONE *

di Giacomo Oberto

 

Nel momento in cui per il diritto delle relazioni endofamiliari si profilano nuovi scenari, sempre più proiettati verso una dimensione europea ed internazionale – si pensi, per citare un paio d’esempi concreti tra i tanti possibili, all’approvazione del Regolamento CE n. 4/2009 del Consiglio, del 18 dicembre 2008, relativo alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni e alla cooperazione in materia di obbligazioni alimentari, o alla Decisione del Consiglio UE del 12 luglio 2010, che ha autorizzato il ricorso alla enhanced cooperation in materia di diritto applicabile al divorzio ed alla separazione legale (2010/405/EU) – appare più che mai opportuno che un trattato dal taglio teorico-pratico come il presente persegua lo scopo di «fare il punto» su quello che è lo stato attuale, nel sistema italiano, dei rapporti patrimoniali tra coniugi e conviventi, tanto nella fase fisiologica, che in quella patologica del rapporto.

Proprio il campo in questione è quello che ha da sempre attirato la più viva attenzione dei cultori del diritto di famiglia, affaticando per interi millenni legislatori, studiosi, giudici e avvocati, a dimostrazione del fatto che, come ho già avuto modo di chiarire in altre occasioni, la materia giusfamiliare, ben lungi dal costituire la famosa «isola nel mare del diritto», di jemoliana memoria, ha invece rappresentato, sin da tempo immemorabile, il terreno di incontro e scontro sul quale si sono misurate teoria e prassi, sia nell’adattamento di istituti giuridici più generali, che nella creazione di soluzioni ad hoc.

In questa sede non appare possibile procedere ad una ricapitolazione, neppure per sommi capi, della ricchissima evoluzione storica che costituisce il sostrato degli odierni istituti giusfamiliari nel settore patrimoniale. Per gli approfondimenti e per i necessari richiami dottrinali sia pertanto consentito rinviare ai seguenti scritti, che, nel corso dell’ultimo quindicennio, ho inteso dedicare (anche, o esclusivamente) ai profili storici: La promessa di matrimonio tra passato e presente, Padova, 1996, p. 67 ss., 107 ss., 250 ss.; I doni prenuziali e la loro restituzione nella storia e nel diritto vigente, in AA. VV., La volontaria giurisdizione. Casi e materiali a cura della Scuola di Notariato A. Anselmi di Roma. Contributi in onore di Daniele Migliori, Milano, 1997, p. 362 ss.; Gli accordi sulle conseguenze patrimoniali della crisi coniugale e dello scioglimento del matrimonio nella prospettiva storica, nota a Cass., 20 marzo 1998, n. 2955, in Foro it., 1999, I, c. 1306 ss.; Simulazioni e frodi nella crisi coniugale (con qualche accenno storico ad altri ordinamenti europei), nota a Cass., 5 marzo 2001, n. 3149, in Familia, 2001, p. 774 ss.; I precedenti storici del principio di libertà contrattuale nelle convenzioni matrimoniali, in Dir. fam. pers., 2003, p. 535 ss.; Il regime di separazione dei beni tra coniugi. Artt. 215-219, Milano, 2005, p. 265 ss.; La comunione legale tra coniugi, Milano, 2010, p. 3 ss., 225 ss., 408 ss., 518 ss., 651 ss., 711 ss., 929 ss., 1393 ss., 1605 ss.

Nel contesto di questa prefazione basterà riassuntivamente considerare, innanzi tutto, l’attenzione e il livello d’approfondimento con cui interi libri del Digesto e del Codex di Giustiniano disciplinavano le questioni patrimoniali endofamiliari: dagli sponsali al matrimonio, alla dote, ai patti nuziali, alle donazioni tra coniugi, al divorzio, allo status dei figli, alle tutele (cfr., ad esempio, D. 22-27; C. 5). 

Le fonti romane attestano, in particolare, l’esistenza di svariate forme di accordi che, inseriti nei patti dotali, consentivano di regolare ex ante talune questioni patrimoniali conseguenti ad un’eventuale crisi coniugale. L’attenzione principale era ovviamente focalizzata sull’istituto della dote, cioè quel certo complesso di beni che, apportati dalla moglie (o dalla sua famiglia) al marito ad onera matrimonii ferenda, andavano da quest’ultimo (o dai suoi eredi) restituiti alla cessazione del rapporto. Per il vero, sembra che, nel periodo più antico, la dote non andasse restituita. Sarebbe stato proprio il consistente incremento dei divorzi nel corso del III sec. a.C. ad indurre le parti ad inserire nei patti nuziali apposite cautiones, vale a dire stipulazioni con le quali il marito si impegnava alla restituzione dell’apporto muliebre in caso di scioglimento del vincolo coniugale. Questo sistema non era però sufficiente: se ne poteva giovare infatti solo il costituente che si fosse precostituito il rimedio. Si addivenne così ad uno strumento più generale, l’actio rei uxoriae, introdotta, a quanto pare, all’inizio del II secolo a.C., la quale permise di ottenere la restituzione della dote anche ove questa non fosse stata promessa.

All’argomento della restituzione della dote conseguente allo scioglimento del vincolo coniugale il Digesto dedica un apposito titolo («Soluto matrimonio quemadmodum dos petatur»: D. 24, 3). In esso, così come in quello intitolato «De pactis dotalibus» (D. 23, 4; cfr. anche, sullo stesso argomento, C. 5, 18, «Soluto matrimonio quemadmodum dos petatur», e C. 5, 14, «De pactis conventis tam super dote, quam super donatione ante nuptias et paraphernis»), affiorano numerose tracce di accordi stipulati all’atto della costituzione della dote circa il tempo e il modo di restituzione della medesima in caso di scioglimento dell’unione per morte o, soprattutto, per divorzio. Qui, già sotto il profilo terminologico, è interessante notare l’impiego al riguardo di espressioni quali «pactum conventum ante nuptias» (D. 23, 4, 17; v. inoltre D. 23, 4, 28), o «post nuptias» (D. 23, 4, 28), destinate a transitare pressoché inalterate nei sistemi di common law, per designare – ancora a diversi secoli di distanza – proprio quegli accordi preventivi (o successivi) alle nozze contenenti, tra l’altro, la regolamentazione ex ante dei rapporti economici tra gli ex coniugi soluto matrimonio, che, come si è illustrato in altra sede, non sembrano per nulla scandalizzare – diversamente da quanto avviene da noi – i giuristi di quegli ordinamenti.

Diversi sono i brani del Digesto che inducono a ritenere che l’espressione soluto matrimonio, inserita nei pacta dotalia, fosse di regola riferita dai contraenti proprio al divorzio, inteso come la causa per eccellenza di scioglimento del legame e nei confronti del quale occorreva pertanto premunirsi sin dal momento della stipula del contratto di matrimonio, ciò che conferma quanto sopra osservato in ordine all’origine delle cautiones rei uxoriae. Tanto per cominciare, le fonti attestano un contrasto d’opinioni sul problema se il citato ablativo assoluto (soluto matrimonio) «non tantum divortium sed etiam mortem contineret» (D. 50, 16, 240); ora, a prescindere dalla soluzione in concreto adottata, di cui dà atto Paolo, il modo stesso in cui viene impostata la questione evidenzia nella maniera più eloquente che proprio la crisi coniugale era l’evenienza risolutiva del vincolo tenuta in maggior conto dagli interpreti.

Per citare poi un altro esempio concreto, si potrà ricordare quel passo che postulava un accordo, in sede di costituzione della dote, in forza del quale la restituzione dell’apporto dotale conseguente al divorzio avrebbe dovuto essere effettuata al suocero, anziché alla ex moglie. Verificatasi invece l’ipotesi (non prevista) della morte del marito, se ne concludeva nel senso che il diritto di richiedere agli eredi del defunto la restituzione della dote sarebbe spettato alla vedova, anziché al padre di quest’ultima (D. 24, 3, 22). La soluzione si inquadrava del resto nel principio di carattere più generale (D. 23, 4, 3) secondo cui «Pacta conventa, quae in divortii tempus collata sunt, non facto divortio locum non habent». Il coordinamento con il già citato passo D. 50, 16, 240 induce a ritenere che, mentre l’espressione soluto matrimonio, ancorché intesa per lo più dai contraenti come riferita al divorzio, poteva estendersi ad abbracciare anche il caso della morte di un coniuge, altrettanto non poteva dirsi nel caso l’accordo fosse stato stipulato – anziché in relazione, genericamente, allo scioglimento del vincolo – con specifico richiamo all’ipotesi del divorzio. A parte questa conseguenza di carattere sistematico, è importante notare l’ulteriore conferma dell’ammissibilità (data, anzi, per scontata) di accordi stipulati ex ante in vista di un eventuale divorzio.

Alcuni pacta conventa ante nuptias servivano poi a determinare il tempo in cui la restituzione degli apporti avrebbe dovuto essere compiuta, una volta sciolto il matrimonio, stabilendo, per esempio, che il diritto alla ripetizione sarebbe maturato soltanto una volta decorso un certo termine a partire dalla data del divorzio. Proprio con riferimento a quest’ultimo caso si precisava però che il termine convenzionalmente fissato non avrebbe potuto eccedere quello determinato dalla legge: regola, questa, dalla quale sembra emergere addirittura un principio di tutela della moglie, vista quasi come «coniuge debole» ante litteram (cfr. D. 23, 4, 17). Il principio restrittivo ora enunciato valeva però solo con riguardo agli accordi antenuziali, così come per quelli conclusi «manente matrimonio»: «post divortium tamen, si iusta causa conventionis fuerit, id pactum  (scil.: quello secondo cui longiore die dos reddatur) debet custodiri» (D. 23, 4, 18). Nonostante la difficoltà di attribuire, nel caso concreto, all’espressione «si iusta causa conventionis fuerit» un preciso significato, non appare arbitrario individuare in questo passo le tracce di possibili accordi tra i coniugi all’atto dello scioglimento del legame, dal contenuto (almeno per taluni aspetti) addirittura più ampio di quello dei pacta conventa ante nuptias.

Lo stesso favor nei confronti di pattuizioni concluse in vista dello scioglimento delle nozze si può riscontrare con riguardo agli accordi di tipo (evidentemente) transattivo conclusi «ob res quoque donatas, vel amotas, vel impensas factas» (D. 23, 4, 20).

A questo punto sarà interessante rimarcare, con specifico riguardo agli accordi postnuziali, che il diritto romano sembrava a tal punto vedere con favore una «liquidazione globale delle pendenze» in fase di divorzio, da consentire una espressa deroga al noto divieto delle donazioni tra coniugi (cfr. D. 24, 1, 60, 1: «Divortii causa donationes inter virum et uxorem concessae sunt: saepe enim evenit, uti propter sacerdotium, vel etiam sterilitatem»; v. inoltre D. 24, 1, 11, 10 s.; D. 24, 1, 26, 1; D. 24, 1, 53).

Rimanendo in tema di attribuzioni a titolo gratuito, un ruolo, per così dire, postmatrimoniale poteva essere svolto anche dalle sponsalitiae largitates e dalle donationes propter nuptias, istituti che si caratterizzavano proprio per la specifica sorte, soluto matrimonio, di queste attribuzioni compiute prima della celebrazione delle nozze. Nelle prime, infatti, la regola della «definitività» dell’acquisto dei doni in capo all’uno o all’altro degli sposi poteva essere esclusa da un’apposita pattuizione, secondo quanto del resto è pacificamente ammesso anche oggi. L’esplicita contemplazione dell’ipotesi del divorzio consentiva così di predeterminare, in un modo o nell’altro, la sorte dei reciproci rapporti economici al momento della fine dell’unione (C. 5, 3, 12). Talora simili accordi sembravano addirittura assumere una valenza «penale», ricollegandosi in essi la risoluzione del trasferimento gratuitamente effettuato da uno degli sposi alla imputabilità all’altro dell’eventuale rottura dell’unione (cfr. D. 24, 1, 57).

Per quanto riguarda il secondo tipo di liberalità, occorre premettere che queste, diffusesi in epoca postclassica, assunsero ben presto il ruolo di controdote, di apporto, cioè, da parte del marito, o della famiglia di costui, ad onera matrimonii ferenda. Per questo motivo si affermò la regola che esse avrebbero dovuto subire la medesima sorte dell’apporto della sposa, cioè a dire essere restituite soluto matrimonio. Proprio in considerazione dello stretto vincolo tra scioglimento del matrimonio e donatio propter nuptias molti videro in questo istituto la possibilità di istituire una sorta di «penale» in caso di divorzio a carico del marito che avesse inteso sbarazzarsi del vincolo coniugale: la conclusione pare avvalorata dalla valenza lato sensu sanzionatoria che le regole in tema di restituzione dei rispettivi apporti matrimoniali sembrano assumere in diritto postclassico, in cui venne acquistando un crescente rilievo la circostanza che il divorzio fosse «addebitabile» all’uno o all’altro (cfr. C. 5, 17, 8, 4; Nov. 117, 8; Nov. 117, 9; Nov. 117, 13); si noti peraltro che, quanto meno nel caso di costituzione da parte di un terzo, l’autonomia delle parti poteva spingersi ad escludere la possibilità che il marito trattenesse la dote nel caso di divorzio per colpa della moglie (cfr. C. 5, 12, 24).

Risulta dunque confermato come vari istituti tipicamente legati al momento genetico dell’unione coniugale (dote, sponsalitiae largitates, donationes ante e propter nuptias) potessero assumere in diritto romano una chiarissima connotazione postmatrimoniale.

Queste linee di tendenza, favorevoli ad un pieno dispiegamento della libertà negoziale relativamente agli assetti patrimoniali endofamiliari ricevettero conferma nel corso dell’evoluzione storica dei secoli successivi, pur in assenza del rimedio del divorzio per effetto dell’affermazione del principio dell’indissolubilità matrimoniale imposto dalla Chiesa cattolica. Ebbene, neppure l’indisponibilità di tale istituto sortì l’effetto di inibire alle parti dei pacta nuptialia di premunirsi dalle conseguenze nefaste di una situazione di crisi coniugale che fosse dovuta eventualmente sopravvenire.

Fa fede sul punto la ricchissima, plurisecolare, giurisprudenza della Rota Romana su temi che spaziavano dalla separatio tori, alla dotis restitutio, così come l’imponente congerie di sentenze degli altri «Grandi Tribunali» italiani (dal Senato Piemontese, alla Rota Genovese, al Sacro Consiglio Napoletano, alla Magna Regia Curia del Regno di Sicilia, al Senato di Mantova, alle Rote di Lucca, Firenze e Bologna, ecc.) sulle doti, sui patti matrimoniali, sui fedecommessi e sui retratti di famiglia, sulle pretese patrimoniali tra coniugi, sui rapporti di concubinato e così via. Proprio un’attenta disamina di questa quanto mai consistente massa di decisioni consente d’intravedere i tratti di soluzioni moderne ed ardite.

Si pensi, a titolo d’esempio, alla decisione (Bononien. restitutionis dotis, 16 maggio 1595) con la quale la Rota Romana riconobbe la validità del patto nuziale diretto a configurare la restituzione della dote alla stregua di una vera e propria clausola penale per il caso di mancata solutio della somma periodica prevista a carico del marito a titolo di alimenta nell’ipotesi di un’eventuale separatio tori. E che dire di quella sentenza del Supremo Tribunale del Regno di Sicilia che, in applicazione delle consuetudini di Messina, il 20 giugno 1612 affermò la validità di quella clausola di un contratto di matrimonio che escludeva la comunione dei beni normalmente prevista dallo statuto locale «casu (quod absit) di separatione di matrimonio, tanto senza figli come nati figli, & quelli morti in minori età, vel maiori ab intestato», stabilendo altresì che, in tale ultima ipotesi, «detta sposa non possa disponere, nisi tantum di unzi trenta»? L’accordo in oggetto, vero e proprio prenuptial agreement in contemplation of divorce (ante litteram!) non rappresenta certo un caso unico nella storia del diritto italiano e trova un singolare pendant in quella che Oltralpe si è definita per secoli e continua a definirsi «clausola alsaziana» (su cui v. il mio La comunione legale dei beni tra coniugi, cit., p. 386, 1671, 2152).

Ora, proprio con riguardo alla ricchissima esperienza giuridica francese in materia di rapporti patrimoniali endofamiliari potrà ricordarsi che la locale tradizione consuetudinaria, rielaborata nei grandi trattati sulla communauté (di Pothier, certo, ma, ancor prima, di Le Brun e di Renusson, per non parlare dei più illustri commentatori delle coutumes, da Molineo a Duplessis, da Tiraqueau a Bourjon, da Choppin a de Ferrière e tanti altri, che sul regime di comunione scrissero pagine memorabili), filtrata dalla giurisprudenza dei Parlamenti (e basti citare al riguardo l’influenza del Cancelliere D’Aguesseau o di un avvocato come Cochin), tramandata dalla paziente opera degli arrêtistes, fu saggiamente condensata in quel Code Napoléon al quale il nostro odierno diritto di famiglia tanto deve.

Ed è esattamente in relazione a quel contesto che, già diversi secoli or sono – nelle diverse realtà europee in cui regimi di comunione coniugale (immediata, differita, dei soli acquisti, dei mobili e degli acquisti, universale, ecc.) ebbero applicazione (dalla Francia coutumière alla Spagna, dal Portogallo ai Paesi Bassi ed alle Fiandre, a svariate zone della Germania, alla Sicilia ed alla Sardegna) – vennero trattate ed approfondite dalla dottrina e giurisprudenza moltissime delle questioni che affaticano ancora oggi gli interpreti e che sovente vengono da noi spacciate per «nuove».

Si potranno citare in proposito (facendo rinvio per gli approfondimenti al già ricordato lavoro La comunione legale tra coniugi, cit.) temi che spaziano dall’interrogativo sulla natura della comunione legale, a quello sull’operatività ipso iure del coacquisto automatico a prescindere dalla partecipazione di entrambi i coniugi al negozio acquisitivo, alla qualità che il coniuge non agente dovrebbe (o meno) assumere di contraddittore legittimo (e/o necessario) nelle cause contro terzi, all’esperibilità di rimedi possessori, interinali ed urgenti inter coniuges in comunione, alla questione della «gratuità» del coacquisto, a prescindere dal contributo prestato al pagamento del prezzo e dalla spendita del nome del coniuge, all’applicabilità del regime legale al matrimonio dichiarato nullo, alla ricaduta in comunione dei crediti (come, ad esempio, quelli relativi a censi e rendite di vario genere, ovvero di salari, stipendi e dei proventi lavorativi in genere), alla caduta in comunione degli acquisti a titolo originario, alla caduta in comunione degli acquisti «a formazione progressiva», al dibattito sulla possibilità per la moglie di esprimere valida rinunzia, in qualsiasi momento, ai diritti derivantile dalla comunione, o a determinati acquisti, ai rimedi nei confronti della mala gestio, alla automatica ricostituzione del regime già sciolto per separazione personale, in caso di riconciliazione dei coniugi, e così via.

Sfortunatamente la tardiva ricezione del regime legale comunitario da parte del riformatore italiano del 1975, realizzata, oltre tutto, mercé il ricorso ad una tecnica legislativa tutt’altro che raffinata, non adeguatamente consapevole del rilievo che la negozialità potrebbe e dovrebbe giocare anche in questo settore, non ha certo aiutato la comunione italiana a resistere in maniera adeguata alla «prova del fuoco» costituita dall’esplosione del contenzioso coniugale. Ciò anche per effetto della presenza di alcune pervicaci rigidità giurisprudenziali (e non solo) sul versante, da un lato, degli accordi in vista della crisi coniugale e, dall’altro, sul tema della libertà negoziale dei coniugi in comunione. Si è così dovuto assistere, nel corso di questi ultimi anni, al massiccio ricorso, da parte delle nuove coppie, al regime di separazione dei beni, in chiave di vero e proprio prenuptial agreement in contemplation of divorce. Sistema, quest’ultimo, il quale a sua volta non è certo scevro da problemi, specie allorquando l’effettiva gestione del rapporto matrimoniale sia stata effettuata in concreto, in modo promiscuo o «comunitario», in assenza di chiare e dettagliate intese (inammissibili, alla luce di una non condivisibile giurisprudenza) sulle determinazioni da assumere in caso di naufragio dell’unione. Da qui lo stimolo a compiere uno sforzo per tentare di «salvare» il nostro regime patrimoniale legale, introducendovi quei correttivi (se ne veda un elenco nel mio La comunione legale dei beni tra coniugi, cit., p. 380 ss.) la cui adozione, tanto de jure condito che de jure condendo, appare ormai assolutamente indilazionabile.

Il ricorso alla via negoziale si presenta poi come una soluzione più che apprezzabile anche nel settore delle relazioni tra conviventi, sia etero- che omosessuali. Qui il problema, più che dall’applicazione di istituti ad hoc (sostanzialmente inesistenti nel nostro ordinamento), è dato dall’adattamento di principi di carattere generale, tratti dal diritto «comune» delle obbligazioni e dei contratti, nell’attesa che il nostro legislatore sappia finalmente aprire gli occhi (cosa che comunque, volente o nolente, sarà ben presto costretto a fare, a seguito dell’inevitabile confronto con i sistemi stranieri a noi più vicini, in un contesto europeo ed internazionale caratterizzato da un livello di interazione sempre crescente). Ebbene, anche in questo campo lo studio dei precedenti storici appare quanto mai istruttivo. La preventiva soluzione per via negoziale dei numerosi e complessi problemi patrimoniali della famiglia di fatto registra precedenti costituiti da testimonianze di contrats de concubinat, in Francia, e cartas de mancebía e compañería, in Spagna, risalenti addirittura ai secoli XIII e XIV, mentre già all’inizio del Cinquecento persino un giurista «cattolicissimo» come Juan Lopez de Palacios Rubios (sì, proprio l’autore del famigerato requerimiento: di quel documento, cioè, che i conquistadores leggevano alle popolazioni amerindie per intimare la sottomissione alla Corona di Spagna, minacciando, in caso contrario, gravi ritorsioni e che, di fatto, venne utilizzato nel Nuovo Mondo quale «giustificazione» per lo sterminio e la riduzione in schiavitù di milioni di persone) non esitava ad applicare il regime della comunione legale degli acquisti al caso di «duobus amasiis simul habitantibus».

Del resto, come dimostrato in altra sede,  già sotto l’Ancien Régime, nelle regioni francesi rette da coutumes che prevedevano un espresso divieto di liberalità tra concubinaires – e comunque in tutto il territorio francese, allorquando, a partire dalla seconda metà del XVII secolo, ebbe ad affermarsi la tesi della nullità di tali atti per contrarietà ai buoni costumi – non mancarono certo autori e giudici favorevoli alla validità di quei contratti a titolo gratuito che fossero giustificati dall’intento rimuneratorio, ovvero da quello di risarcire la ex convivente per il «disonore» arrecatole dal rapporto concubinario, specie allorquando si trattasse di prestazioni alimentari.

In conclusione mi sia dunque consentito ripetere, ancora una volta, che no: la famiglia non è e non è mai stata un’isola nel mare del diritto. Ciò che Jemolo voleva evocare, con la fortunata immagine «isolana», non era tanto l’estraneità della compagine familiare alle regulæ iuris, quanto piuttosto un certo livello di «separatezza» del diritto di famiglia rispetto a quella «terra ferma», a quel «continente», costituito dal «tradizionale» diritto civile comune (quello dei diritti reali, delle obbligazioni e dei contratti, per intenderci), per la specialità dei principi che lo caratterizzavano e che ancora continuano, almeno in parte, a contraddistinguerlo. Non per nulla, proprio nello scritto dal quale tale immagine è tratta (cfr. La famiglia e il diritto, in Pagine sparse di diritto e storiografia, a cura di Lombardo, Milano, 1957, p. 222 ss.), lo stesso Jemolo chiariva che «in realtà fin dalle origini fu avvertito che trattavasi di un diritto per il quale non valevano integralmente le regole del diritto contrattuale». Ora, proprio questa peculiarità del diritto di famiglia sta venendo per tanti aspetti meno, dopo che il passaggio dalla «concezione istituzionale» alla «concezione costituzionale» (su cui sia consentito rinviare al mio I contratti della crisi coniugale, Milano, 1999, p. 103 ss.) ha permesso l’irruzione dell’autonomia privata nei rapporti endofamiliari. Autonomia privata che, come lo scrivente ha cercato in altre sedi di dimostrare, non significa certo «mercantilizzazione» delle relazioni domestiche, ma esaltazione dell’autoresponsabilità, nell’ambito di ben precisi limiti normativi.

E proprio l’autoresponsabilità nella gestione delle relazioni domestiche sembra l’obiettivo cui puntare, quale reazione ad una situazione legislativa caratterizzata dall’incertezza più assoluta, in conseguenza di interventi normativi scomposti, affrettati, abborracciati, quali quelli che – in un crescendo tutt’altro che rossiniano… – abbiamo dovuto subire nel corso degli ultimi anni. Ne deriva un ulteriore sprone alla conclusione di quelli che lo scrivente per primo ha definito (con espressione che sembra aver avuto un certo successo) «contratti della crisi coniugale», nonché di accordi tra conviventi, sul versante di quell’unione di fatto che della famiglia legittima rappresenta ormai anche in Italia – a dispetto della miopia di molti – l’altra «faccia della medaglia» della famiglia del ventunesimo secolo.

 

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* Il presente scritto costituisce una breve prefazione storica al volume collettaneo dal titolo Gli aspetti patrimoniali della famiglia. I rapporti patrimoniali tra coniugi e conviventi nella fase fisiologica ed in quella patologica, a cura di Giacomo Oberto, Cedam, Padova, 2011.