III

I BENI PERSONALI

 

1. I beni personali ex art. 179, lett. a), c.c. Generalità. Il problema della prova.  1.1. L’art. 179 c.c. elenca – sulla scorta del precedente art. 217 c.c. – i beni sottratti tanto alla massa in comunione immediata, che a quella in comunione de residuo. La composita enumerazione della norma in oggetto consente di individuare diverse classi di cespiti sottratti al disposto degli artt. 177 e 178 c.c., raggruppabili nelle seguenti categorie di beni, che possono qualificarsi come personali, rispettivamente:

·        in relazione all’epoca dell’acquisto (lett. a));

·        in relazione al titolo di acquisto (lett. b) ed e));

·        per destinazione (lett. c) e d));

·        per surrogazione (lett. f));

·        a queste serie di ipotesi si potrà infine aggiungere quella, non espressamente contemplata dall’art. 179 c.c. (e sulla cui esistenza dottrina e giurisprudenza dibattono), dei beni personali per accordo dei coniugi.

1.2. Iniziando dunque dalla lett. a), rileviamo che, ai sensi di questa disposizione, non entrano a far parte della comunione legale «i beni di cui, prima del matrimonio, il coniuge era proprietario o rispetto ai quali era titolare di un diritto reale di godimento». Qui dovrà subito dirsi che, nonostante il tenore letterale della norma, essa va riferita non tanto al momento dell’instaurazione del vincolo matrimoniale, quanto a quello di inizio del regime di comunione legale. Se, infatti, gli sposi dovessero optare inizialmente per il regime di separazione e solo in un secondo momento adottare quello comunitario, non vi sarebbero dubbi sul fatto che i beni acquistati durante la prima fase – anteriormente, dunque, alla stipula della convenzione costitutiva del regime ex artt. 177 ss. c.c. – continuerebbero a configurarsi come personali (per una più ampia disamina  delle altre possibili ipotesi relative all’instaurazione del regime di comunione legale in un momento successivo alla celebrazione del matrimonio cfr. Ubaldi 1989, 412 ss.; v. inoltre Oberto, L’autonomia negoziale nei rapporti tra coniugi (non in crisi), FA, 2003, 646 ss.). 1.3. Problemi particolari si pongono in caso di trascrizione tardiva del matrimonio canonico, cui l’art. 8, co. 5° e 6°, l. 25 mar. 1985/121 attribuisce efficacia retroattiva, che si estende sino al momento della celebrazione delle nozze, purché ciò non pregiudichi i terzi che legittimamente abbiano acquisito dei diritti. Secondo l’orientamento che appare preferibile, gli acquisti compiuti medio tempore dai coniugi, anche separatamente, ricadono in comunione, ma gli atti di disposizione sui beni così acquistati, posti in essere dall’intestatario (che abbia agito senza l’intervento del coniuge), non potranno essere annullati con l’azione prevista dall’art. 184 c.c., né essere in altro modo pregiudicati (Barbiera 1996, 512 s.; a Beccara 2002, 150). 1.4. La disposizione è applicabile anche alle quote in comunione ordinaria acquisite dai coniugi prima del matrimonio. In questo senso può invocarsi anche un precedente di legittimità, secondo cui la comunione convenzionale, sussistente tra i coniugi al riguardo di un bene e costituitasi prima dell’entrata in vigore del regime legale «non si trasforma in comunione legale, ma continua ad essere disciplinata dagli artt. 1100 e ss. cod. civ. ove non venga posta in essere la convenzione prevista dall’art. 228 cit. (Nella specie è stata esclusa, ai fini della proposizione della domanda di divisione di una comunione convenzionale instaurata prima del 15 gennaio 1978, la necessità di una previa sentenza definitiva di separazione)» (Cass., 1 mar. 1991/2183, GC, 1991, I, 1735). 1.5. Anche il denaro «prematrimoniale», alla stregua degli altri diritti acquistati prima delle nozze, è da considerarsi escluso dalla comunione (v. per tutti Auletta 1999, 174, cui si rinvia anche per la questione, da risolversi negativamente, relativa all’esistenza o meno di un diritto di godimento, in capo a ciascun coniuge, sui beni personali dell’altro, similmente a ciò che era previsto dall’abrogato art. 217 c.c.). 1.6. La dottrina ha esattamente rilevato che talune incertezze, a distanza di tempo, possono discendere dalla difficoltà di individuazione dei beni (mobili) già facenti parte del patrimonio personale prima delle nozze. Al riguardo, va notato che la nuova disciplina non ha ripetuto la prescrizione contenuta nell’abrogato art. 228 c.c., il quale imponeva di procedere ad una «descrizione autentica» dei beni mobili posseduti prima del matrimonio. 1.7. In caso di dubbio dovrebbe soccorrere la presunzione di comunione di cui all’art. 195 c.c. (sul tema dei rapporti tra tale presunzione e quella di cui all’art. 219 c.c., nonché per l’applicabilità della prima al caso di specie cfr. per tutti Oberto 2005, 261 ss., 297 ss., 318 ss.).

 

2. Segue. b) Gli acquisti nelle fattispecie a formazione progressiva. 1.1. Notevole rilievo pratico rivestono le problematiche relative alle modalità di applicazione dell’art. 179, lett. a), c.c. alle fattispecie di acquisto a formazione progressiva, quando, per l’appunto, l’effetto traslativo finale si configura come la risultante di un procedimento complesso. Qui è possibile immaginare una divaricazione temporale tra: (1) il momento in cui la fattispecie negoziale risulta completa di tutti i suoi elementi, (2) quello in cui la parte affronta la spesa per l’acquisto e (3) quello in cui la vicenda acquisitiva si perfeziona. 1.2. Parte della dottrina ha ritenuto di dover indicare, quale momento determinante per l’accertamento della caduta o meno in comunione, quello – sopra individuato sub (2) – in cui «è stato sostenuto l’onere economico giustificativo dell’acquisto» (Schlesinger 1992, 149; in senso analogo Russo 1999, 161 ss., che offre un criterio di ripartizione attinente «alla sostanza del tempo della formazione della ricchezza» in virtù del quale «se la parte economicamente più importante del ‘bene’ è antecedente al matrimonio, il bene non cade in comunione»). 1.3. Siffatta soluzione risulta peraltro contraria allo spirito così come alla lettera della Riforma del 1975, tesa a fornire alla comunione legale la massima capacità espansiva, a prescindere dal concreto contributo prestato da ciascuno dei coniugi non solo al ménage familiare, bensì anche ad ogni acquisto in sé considerato. 1.4. Per le medesime ragioni sembrerebbe inaccettabile pure il criterio sopra indicato sub (1), che peraltro è sostenuto dalla dottrina maggioritaria, la quale fa leva unicamente sul momento di perfezionamento della fattispecie negoziale (Ubaldi 1989, 435 ss.; Gabrielli-Cubeddu 1997, 26 ss., 29; v. inoltre Lemmi, Comunione legale e vendita obbligatoria (sul concetto di «acquisti» ex art. 177, lett. a), c.c.), GI, 1989, IV, 430 ss.; Auletta 1999, 177; a Beccara 2002, 155; per una posizione più articolata v. Rimini 2001, 242 ss., che richiama l’art. 192 co. 3°, c.c.). 1.5. In senso contrario si può osservare che il concetto di «acquisto», contenuto nell’art. 177 c.c., non può riferirsi se non al pieno completamento della vicenda acquisitiva, con il trasferimento del diritto in capo all’acquirente. 1.6. Per ciò che attiene più specificamente alle cosiddette vendite obbligatorie (rectius: ad effetti reali differiti), partendo dalla considerazione secondo cui, a seguito della stipulazione di un contratto di compravendita di cosa futura (art. 1472), di cosa altrui (art. 1478 s. c.c.), di cosa generica, o di cosa alternativa l’acquirente otterrebbe istantaneamente una situazione di titolarità del diritto reale, ancorché differita nel tempo, la dottrina maggioritaria opta per la personalità dell’acquisto (cfr. a Beccara 2002, 156; cfr. inoltre Lemmi, op. cit., 430 ss.; Ubaldi 1989, 444; De Paola 1995, 390 s.; Radice 1997, 128; Auletta 1999, 179 s.; in senso contrario, per la vendita di cosa futura, v. A. – M. Finocchiaro 1984, 895 s.). 1.7. In realtà, se è vero come è vero che la vicenda acquisitiva si perfeziona solo al momento in cui la cosa viene in essere o il venditore procura l’acquisto al compratore, o interviene la specificazione o la scelta, saranno solo questi ultimi momenti a rilevare per la produzione degli effetti ex art. 177 c.c. 1.8. Per quanto attiene, specificamente, alla vendita con patto di riservato dominio e alla vendita con patto di riscatto si fa rinvio a quanto già illustrato nel commento all’art. 177 c.c. (v. supra, sub art. 177, §§ 22 s.).

 

3. Segue. c) Ulteriori fattispecie controverse. Il problema del preliminare (e del definitivo per scrittura privata). 1.1. Tra le ulteriori ipotesi prese in considerazione dalla dottrina rinveniamo quella della divisione di un bene relativamente al quale uno dei coniugi sia titolare di una quota di comproprietà avente natura personale. Tra gli autori vi è assoluta concordia nell’escludere dalla massa comune il cespite assegnato in proprietà individuale al coniuge e ciò in considerazione della natura meramente dichiarativa della divisione stessa, come previsto dall’art. 757 c.c. (per tutti A.-M. Finocchiaro 1984, 877). La soluzione va accolta anche nel caso in cui il coniuge assegnatario sia tenuto al pagamento di conguagli, per i quali si configurerà solo una questione di rimborsabilità ex art. 192, co. 1°, c.c. qualora per il pagamento siano utilizzati denaro o altre risorse della comunione (a Beccara 2002, 159 s.; per un diverso approccio v. Russo 1999, 155 ss., che contesta la tesi della natura dichiarativa della divisione). 1.2. Un altro caso in cui la dottrina  si è espressa contro la caduta in comunione è quello in cui, successivamente all’instaurazione del regime legale, si sia accertata la nullità, ovvero siano stati pronunziati l’annullamento, la risoluzione o la rescissione di un contratto di acquisto concluso da uno dei coniugi in epoca precedente a tale evento, attesa la retroattività degli effetti di quell’accertamento o di quelle pronunce (cfr. Auletta 1999, 184; Russo 1999, 158 s.; a Beccara 2002, 160). 1.3. Venendo al contratto preliminare concluso prima dell’instaurazione del regime legale, seguito dal definitivo stipulato sotto la vigenza della comunione, va riscontrata un’ampia convergenza dottrinale sulla soluzione che assegna alla comunione l’acquisto del diritto oggetto del contratto definitivo; la conclusione è condivisa anche dai sostenitori della tesi che afferma come rilevante il momento di perfezionamento della fattispecie negoziale, posto che qui la vicenda negoziale relativa al contratto definitivo è percepita come distinta da quella racchiusa nella stipula del preliminare (cfr. A.-M. Finocchiaro 1984, 991; Ubaldi 1989, 437; De Paola 1995, 392; Auletta 1999, 182; a Beccara 2002, 155; è orientata in tal senso anche l’unica pronuncia edita: T Parma 1° dic. 1987, GI, 1989, I, 594; contra Barbiera 1996, 475; Di Martino 1997, 73; Radice 1997, 128). 1.4. La conclusione non vale, ovviamente, nel caso in cui si ricada in una delle previsioni delle lett. b)-f) dell’art. 179 c.c. 1.5. Diverso è il caso in cui le parti concludano in forma scritta, ma inidonea alla trascrizione (si pensi ad una mera scrittura privata non autenticata), un contratto definitivo di compravendita (per designare il quale si usa talora l’impropria espressione «compromesso»), provvedendo poi in un secondo momento, seguente alla celebrazione del matrimonio, alla ripetizione del negozio dinanzi al notaio. Qui appare pacifico che l’effetto traslativo si è verificato prima dell’instaurazione della comunione; la soluzione non cambierebbe neppure a voler abbracciare la tesi che fa perno sul «perfezionamento della fattispecie negoziale». Peraltro, nei rapporti con i terzi l’acquisto dovrebbe ritenersi caduto in comunione (Corsi 1979, 98; A.- M. Finocchiaro 1984, 900 s.).

 

4. I beni personali ex art. 179, lett. b), c.c. Ratio della disposizione e acquisti mortis causa. 1.1. La seconda categoria di beni alla quale il legislatore ha riconosciuto il carattere della personalità è  indicata dalla lett. b) dell’art. 179 c.c., ai sensi della quale sono personali «i beni acquisiti successivamente al matrimonio per effetto di donazione o successione, quando nell’atto di liberalità o nel testamento non è specificato che essi sono attribuiti alla comunione». 1.2. Nel tentativo di giustificare la ratio che sta alla base della norma in esame, alcuni autori hanno fatto riferimento al criterio dell’intuitus personae, evidenziando il carattere intrinsecamente personale delle disposizioni a titolo liberale o testamentario, attesa anche la necessità di valorizzare al massimo la volontà del donante o del de cuius (in questo senso Bartolini-Gregori, Donazione e acquisti a titolo gratuito in regime di comunione legale, in Aa. Vv., Il nuovo diritto di famiglia. Contributi notarili, Milano, 1975, 156; Corsi 1979, 99; De Paola 1995, 477). 1.3. Secondo altro orientamento, la norma si giustificherebbe in base al fatto che i beni di cui si parla non sono originati da un contributo solidale dei coniugi direttamente o indirettamente finalizzato al miglioramento del ménage familiare, ma dall’iniziativa di un soggetto di per sé potenzialmente anche estraneo al nucleo familiare formato dai coniugi (cfr. in particolare Detti, Oggetto, natura, amministrazione della comunione legale dei coniugi, RN, 1976, 1158; Schlesinger 1977, 397). 1.4. La vera ragione di siffatta opzione di politica legislativa sembra doversi rinvenire invece in motivi d’ordine storico: invero, già le antiche coutumes francesi stabilivano che gli immobili donati o ricevuti per successione dagli ascendenti avrebbero dovuto ritenersi propres e come tali esclusi dalla communauté. Ciò in quanto «la nature des propres est d’être d’anciens héritages (…) qui se sont transmis dans la famille par succession» (Pothier Traité de la communauté, in Pothier, Traités sur différentes matières de droit civil, III, Paris-Orléans, 1781, 539). 1.5. Per ciò che attiene poi più specificamente agli acquisti mortis causa, la dottrina segnala l’assenza di particolari questioni di carattere interpretativo: non vi sono dubbi in particolare sul fatto che la previsione faccia riferimento sia alle disposizioni a titolo universale, che a quelle a titolo particolare, a prescindere dal titolo, legale o testamentario, del lascito (per tutti v. Gabrielli-Cubeddu 1997, 35; a Beccara 2002, 161). 1.6. Ugualmente, non sussiste dubbio sul carattere personale dei diritti che il coniuge legittimario (in tutto o in parte pretermesso) eventualmente ottenga per effetto dell’utile esercizio dell’azione di riduzione (Gabrielli-Cubeddu 1997, 35; a Beccara 2002, 161).

 

5. Segue. b) Il concetto di donazione di cui alla norma in esame. 1.1. Il richiamo alla figura della donazione pone una serie di problemi legati alla ricca costellazione di ipotesi riconducibili a tale fattispecie, così come a quella, ancora più ampia, delle «liberalità», pure evocata dalla norma in oggetto. Ciò, in primo luogo, per la varietà degli schemi tipologici regolamentati dal legislatore nell’ambito della categoria generale configurata dagli artt. 769 ss. c.c. (donazioni remuneratorie, donazioni obnuziali, ecc.), sia per la fluidità della linea di demarcazione esistente tra questa categoria e altre tipologie di negozi a titolo gratuito, quali i regali d’uso e l’adempimento delle obbligazioni naturali, oppure all’esistenza, anche al di fuori della donazione contrattuale, di procedimenti negoziali alternativi per la realizzazione di attribuzioni liberali, quali le donazioni indirette, miste, contratti gratuiti, ecc. (a Beccara 2002, 162). 1.2. La dottrina maggioritaria non manifesta esitazioni nel riferire la norma in oggetto anche agli acquisti conseguenti a donazione remuneratoria (De Paola 1995, 480; Gabrielli-Cubeddu 1997, 36 Auletta 1999, 192), per la chiara indicazione desumibile dalla formulazione dell’art. 770, co. 1°, c.c. 1.3.  Dovrebbero invece confluire nella comunione de residuo i cd. regali d’uso (art. 770, co. 2°, c.c.), visti quali proventi di attività personale (in questo senso Corsi 1979, 101, nota 73; A.-M. Finocchiaro 1984, 991, nota 7; De Paola 1995, 479; Radice 1997, 131). A quest’impostazione si è però esattamente obiettato che siffatta equiparazione non sembra tenere in conto la totale spontaneità che caratterizza l’esecuzione di tali prestazioni, alla cui base non sussiste un’obbligazione giuridica, ma un dovere prodotto dal costume sociale non sottoponibile a coercizione (a Beccara 2002, 163). Per non dire poi del fatto che, in relazione a molte fattispecie di liberalità d’uso, appare assai difficile reperire un collegamento con un’ «attività separata» di cui i medesimi rappresenterebbero il «provento» (si pensi ai regali di compleanno o di Natale).

 

6. Segue. c) Le donazioni indirette. In particolare l’acquisto con denaro fornito da un terzo. 1.1. L’opinione dei primi commentatori della riforma era senz’altro favorevole alla sottoposizione alla lett. b) dell’art. 179 c.c. anche delle donazioni indirette (Schlesinger 1977, 396, nota n. 3; Corsi 1979, 101; Cian-Villani 1981, 184; Barbiera 1982, 46; Bianca 1985, 156). 1.2. La tesi contraria, propugnata da alcuni autori che si sono invece espressi per la caduta in comunione di tale tipo di liberalità, è basata su  argomentazioni relative essenzialmente alle difficoltà pratiche ed applicative di individuazione della categoria in oggetto, con la conseguenza che la soluzione preferibile andrebbe reperita sulla base della disciplina del c.d. negozio-mezzo (si pensi ad una compravendita, nella quale il prezzo viene corrisposto dal donante indiretto), con correlativa ricaduta del bene in comunione (così Zuddas, L’acquisto dei beni pervenuti al coniuge per donazione o successione, in Bianca (a cura di), La comunione legale, I, Milano, 1989, 411; nello stesso senso, in precedenza, v. anche Bartolini-Gregori, op. cit., 163 s. nello stesso senso Di Transo, Comunione legale, Napoli, 1999, 40). 1.3. Questa impostazione è stata esattamente criticata da quella dottrina che, ponendo innanzi tutto in luce la variegata molteplicità delle ipotesi riconducibili alla donazione indiretta, ha individuato il caso più problematico (in relazione alle possibili ricadute ex artt. 177 e 179 c.c.) soprattutto nell’acquisto di un bene con denaro fornito da un terzo (per tutti v. a Beccara 2002, 163 ss.). 1.4. Al riguardo, va scartato l’argomento incentrato sul favor communionis, posto che l’eventuale volontà del donante di  destinare alla comunione il vantaggio oggetto della disposizione potrebbe sempre concretizzarsi facendo intervenire entrambi i coniugi alla conclusione del contratto (normalmente di compravendita) che fa da tramite per la realizzazione della donazione indiretta. 1.5. Decisivo appare invece il richiamo al dato letterale. In effetti, proprio sull’impiego, da parte del Legislatore, del termine «liberalità» (idoneo, come noto, ad inglobare anche la figura della donazione indiretta: arg. ex art. 809 c.c.), si è fondata la giurisprudenza di legittimità, che nei suoi diversi interventi sul punto, ha sempre manifestato di optare per la tesi tradizionale della personalità dell’acquisto (si sono infatti pronunciate per l’assogettamento delle donazioni indirette all’art. 179, lett. b), c.c. Cass., 15 nov. 1997/11327, FD, 1998, 323; Cass., 8 mag. 1998/4680, RN, 1998, 182; FI, 1999, I, 994, nonché, da ultimo, CC14 dic. 2000/15778, FD, 2001, 289, D FAM, 2001, 938, VN, 2001, 1235; per la giurisprudenza di merito, nello stesso senso, v. T Bari, 12 lug. 1978, GI, 1981, I, 93; T Milano 6 nov. 1996, FD, 1997, 469). 1.6. Anche la dottrina più recente appare maggioritariamente orientata a ritenere che l’art. 179 lett. b) c.c., sia applicabile a tutte le liberalità, includendosi in queste le donazioni indirette (cfr. Basini, Donazione indiretta e applicabilità dell’art. 179 lett. b) c.c., Contratti, 1998, 246; nello stesso senso cfr. anche Caravaglios 1995, 56; De Paola 1995, 477; Morelli, Il nuovo regime patrimoniale della famiglia, Padova, 1996, 104; Gabrielli-Cubeddu 1997, 36; Finelli, Sul difficile rapporto tra donazione indiretta e comunione legale dei beni, NGCC, 2001, I, 274 s.). 1.7. Sotto il profilo della tecnica operativa andrà tenuto presente che l’opinione ormai prevalente individua nel bene acquistato – e non già nel denaro versato – l’oggetto della donazione indiretta che si realizza allorquando un soggetto acquista un bene con denaro altrui (Cass., 14 mag. 1997/4231; Cass., 15 nov. 1997/11327, FI, 1999, I, 994; in dottrina sul tema cfr. Forchielli, Immobile acquistato dal discendente con denaro del «de cuius» e collazione, RDC, 1985, 1395; Bianca, Diritto civile, III, Il contratto, Milano, 1998, 459). 1.8. Sovente capita però che il denaro non sia versato direttamente al terzo, bensì sia corrisposto al donatario, quale mezzo al precipuo scopo di consentire l’acquisto. Peraltro pure in quest’ultima ipotesi la giurisprudenza più recente ravvisa un caso di donazione indiretta dell’immobile (e non già del denaro) (cfr. Cass., 15 nov. 1997/11327; Cass., 24 feb. 2004/3642; contra Cass., 21 gen. 1963/86). La presenza, dunque, di un collegamento negoziale tra il versamento del denaro da parte del donante indiretto e la stipula del contratto d’acquisto a titolo oneroso con il terzo consente, secondo questo orientamento, di non ritenere operante la caduta in comunione che altrimenti si dovrebbe affermare per effetto dell’impiego di denaro personale (per donazione), in assenza delle formalità ex art. 179 lett. f) e cpv. 1.9. Per ciò che attiene alla posizione dei terzi si ritiene (a Beccara 2002, 167) che la proprietà  personale del coniuge donatario non possa essere opposta ai creditori della comunione, salvo il caso di una preventiva trascrizione (ex art. 2653, n. 1 c.c.), da parte del coniuge, della domanda giudiziale di accertamento della proprietà individuale del bene.

 

7. Segue. d) Donazioni simulate e dissimulate. 1.1. La donazione può, in astratto, formare oggetto di negozio tanto simulato che dissimulato. Cominciando dalla prima ipotesi, può immaginarsi che un coniuge, il quale intenda sottrarre un bene alla comunione legale, pur in assenza dei presupposti ex art. 179 lett. f) e/o cpv., induca il terzo a stipulare un’apparente donazione, dissimulante, in realtà, una compravendita (il cui prezzo viene, ovviamente, corrisposto di nascosto). Qui si deve ritenere che l’altro coniuge possa esperire, allo scopo di far ricadere il bene in comunione, l’azione di simulazione in qualità di terzo pregiudicato ai sensi dell’art. 1415, co. 2°, c.c. e con il beneficio della libertà della prova di cui all’art. 1417 c.c. (cfr. Zuddas, op. cit., 464 s., nonché, in obiter, Cass., 11 ago. 1997/7470, cit.; cfr. inoltre Pene Vidari, nota a Cass., 11 ago. 1997/7470, GI, 1998, 1828). 1.2. Per converso, è possibile che un coniuge mascheri una donazione in suo favore sotto le «mentite spoglie» una compravendita. In tale caso non  vi sono dubbi sul fatto che tale coniuge donatario  possa agire allo scopo di far dichiarare la simulazione relativa del contratto e di invocare, nel rispetto dell’inciso finale dell’art. 1414, co. 2°, c.c., gli effetti del negozio dissimulato, cioè appunto della donazione, con conseguente riconoscimento del carattere personale del bene; l’azione in questione dovrà essere proposta nei confronti del donante (simulato venditore) e dell’altro coniuge (formale comproprietario  del bene) (cfr. a Beccara 2002, 168). 1.3. La soluzione è stata accolta anche dalla Suprema Corte, che è stata chiamata a pronunziarsi sull’eventuale applicabilità in favore del coniuge del donatario della tutela prevista dall’art. 1415, co. 1°, c.c. (Cass., 11 ago. 1997/7470, cit.). Al riguardo la Cassazione ha deciso che tale norma si riferisce, a differenza del capoverso, non ai terzi in qualche modo pregiudicati dalla simulazione stessa, ma solo a quelli che, in buona fede, abbiano acquistato diritti dal titolare apparente (salvi gli effetti della trascrizione della domanda di simulazione). Ne consegue, sempre secondo la decisione citata, che, «nel regime della comunione legale fra i coniugi, l’acquisto di un bene personale effettuato da uno dei coniugi per donazione fattagli da un terzo, si sottrae al regime della comunione a norma dell’art. 179 comma primo lett. b) cod. civ. ancorché la donazione sia dissimulata da una vendita, potendo l’acquirente opporre all’altro coniuge il carattere simulato di quest’ultima». 1.4. Negli stessi termini si è espressa una successiva decisione di merito (T Roma 10 nov. 1999, GI, 2000, 1412), la quale ha altresì affermato che, ai fini della prova della simulazione, trattandosi di eccezione proposta non all’interno dei rapporti delle parti contraenti, ma da una delle parti contraenti nei rapporti verso terzi, al fine di provare la sussistenza di un valido negozio dissimulato, occorre richiamarsi alla disciplina disposta dagli artt. 1417 e 2722 c.c. Ricorrendo nella fattispecie un contratto simulato redatto per iscritto ad substantiam, la prova della simulazione deve essere fornita, secondo tale decisione, mediante controdichiarazione che deve essere anteriore o coeva all’atto e la cui data deve essere certa.

 

8. Segue. e) La possibilità di destinare disposizioni testamentarie e donazioni alla comunione legale. 1.1. La seconda parte dell’art. 179, lett. b), c.c. prevede la possibilità di destinare alla comunione (in deroga a quanto affermato dallo stesso art. 179, lett. b) prima parte), i beni acquistati da uno dei due coniugi tramite liberalità o disposizione testamentaria, a condizione che tale destinazione sia specificamente indicata nell’atto (successione o donazione) tramite il quale l’acquisto si è concretizzato. 1.2. L’interrogativo principale al riguardo concerne le concrete formalità tramite le quali tale volontà di attribuzione alla comunione deve manifestarsi, anche al fine di evitare che destinatari dell’attribuzione siano non già i coniugi in comunione legale, ma i medesimi coniugi, quali contitolari di quote in comunione ordinaria. 1.3. La tesi preferibile appare quella secondo cui la semplice istituzione ereditaria a favore dei coniugi, nominativamente indicati e in assenza di riferimenti alla comunione legale, debba intendersi come disposizione a favore del patrimonio personale di ciascuno degli sposi. Ne deriva che tra costoro verrà a costituirsi, relativamente al bene oggetto del lascito, una comunione ordinaria disciplinata dagli artt. 1100 ss. anziché  dagli artt. 177 ss. c.c. (cfr. Schlesinger 1977, 397; Corsi 1979, 100 s.; Cian-Villani 1980, 354 s.; Santosuosso, Beni e attività economica della famiglia, Torino, 1995, 104; Gabrielli-Cubeddu 1997, 37 s.; Auletta 1999, 187; Cera, Sui beni acquisiti dai coniugi in comunione legale per effetto di successione o donazione mediante attribuzione specifica, D FAM, 2001, 404 s.; contra Barbiera 1982, 46, sulla base del principio del cd. favor communionis e A.-M. Finocchiaro 1984, 994). 1.4. Per la donazione, invece, il problema non dovrebbe (almeno in teoria) porsi, atteso il necessario intervento del notaio a cui la legge impone il compito di individuare e formalizzare in termini giuridicamente inequivoci la volontà delle parti; nei casi di incertezza la soluzione sarà comunque la stessa suggerita in materia di successioni (a Beccara 2002, 169). 1.5. Tornando alle disposizioni testamentarie, si afferma in dottrina che la volontà del disponente di far ricadere il bene in comunione legale deve, per conseguire tale effetto, concretarsi tramite la peculiare ed esplicita previsione che la disposizione è rivolta ai due coniugi in comunione legale (ovvero alla comunione legale tout-court). A tale soluzione si perviene innanzi tutto in base all’analisi letterale della norma, la quale richiede la specificazione della attribuzione del bene alla «comunione», al posto della più generale destinazione ai due coniugi. Ne consegue che, nel dubbio circa la reale volontà del de cuius, l’attribuzione ai due coniugi deve essere intesa come rivolta al loro patrimonio personale (Schlesinger 1977, 397, nota n. 4, che segnala la contraria presunzione dettata nell’ordinamento francese dall’art. 1405, 2° co., del Code Civil; Zuddas, op. cit., 459; Gabrielli-Cubeddu 1997, 38; Radice 1997, 133; a Beccara 2002, 172, cui si fa rinvio anche per la trattazione della complessa questione delle modalità di accettazione dell’istituzione a titolo d’erede dei coniugi in comunione legale).

 

9. I beni di uso strettamente personale di ciascun coniuge ed i loro accessori ex art. 179, lett. c), c.c. 1.1. Il riferimento ai beni di uso strettamente personale operato dalla lett. c) dell’art. 179 c.c. è inteso da un parte della dottrina in senso restrittivo. In sostanza, per evitare facili elusioni della regola dettata dall’art. 177, lett. a), si è sostenuto che rispetterebbero il dettato normativo solo gli acquisti di beni dotati di caratteristiche oggettive, tali da rendere possibile l’utilizzo da parte di uno solo dei coniugi (si pensi ad esempio ad occhiali da vista, al rasoio, al vestiario, ecc.). Sarebbero invece destinati alla massa comune tutti i beni che, pur essendo di fatto usati in modo prevalente, se non addirittura esclusivo, da uno solo dei coniugi, sono potenzialmente fruibili anche dall’altro (cfr. Schlesinger 1977, 398; Corsi 1979, 104 s.; Gabrielli-Cubeddu 1997, 64 s.; De Paola 1995, 481 ss.; Anelli, Il matrimonio. Lezioni, Milano, 1998, 159). 1.2. A livello giurisprudenziale sembra aver aderito alla prospettiva testé esposta una pronunzia di merito, che ha giudicato ricompresa in comunione un’autovettura acquistata separatamente dal marito e dal medesimo utilizzata in via esclusiva (la moglie, nel caso di specie, era infatti priva di patente), sulla base della considerazione secondo cui il mezzo era comunque destinato al soddisfacimento di esigenze familiari (T Monza 10 mag. 1995, GC, 1996, I, 1158). 1.3. Tale ratio decidendi è stata però rovesciata sul punto dal giudice di secondo grado (che ha però confermato per altre ragioni la sentenza), con sentenza  a sua volta confermata dalla Suprema Corte, la quale ha pertanto ribadito la qualità personale (del marito) del veicolo (Cass., 9 nov. 2000/14575, inedita; in tema di proprietà personale di un autoveicolo cfr. anche Cass., 6 feb. 1998/1292, GI, 1999, 647, la quale però non affronta il tema qui in esame, liquidato alla stregua di una mera «questione di fatto»). In particolare la Cassazione, nella pronuncia del 2000, ha precisato che «per uso personale del bene, a norma dell’art. 179, lett. c), c.c. deve intendersi la disponibilità esclusiva  della sua utilizzazione, anche se tramite altro soggetto; detta disponibilità esclusiva, precisa la Corte, non viene meno se il coniuge, che ne è titolare, permetta che l’altro coniuge possa utilizzare il bene in specifiche circostanze e condizioni, come un terzo». 1.4. La dottrina favorevole alla sopra illustrata lettura oggettiva (cfr. Schlesinger 1977, 398; Gabrielli-Cubeddu 1997, 65) ha anche prospettato un’interpretazione abrogatrice del disposto dell’art. 179, co. 2°, nella parte in cui fa riferimento alle lettere c) e d) del co. 1°, e ciò perché non sembrerebbero ipotizzabili casi d’immobili (o di mobili registrati) di uso strettamente personale. La considerazione è peraltro smentita dagli esempi della garçonnière, dell’atelier di pittura o del «pensatoio» dello scrittore, nonché, sul piano normativo, oltre che dall’art. 179 cpv. c.c., dal chiaro richiamo contenuto nell’art. 2647 c.c. 1.5. La dottrina maggioritaria sembra invece optare per l’utilizzo di un criterio soggettivo (cfr. per tutti a Beccara 2002, 177; v. inoltre A.-M. Finocchiaro 1984, 997; Bellelli, I beni d’uso strettamente personale, in Bianca (a cura di), La comunione legale, I, Milano, 1989, 468 ss.; Santosuosso, op. cit., 106 s.; Dogliotti, L’oggetto della comunione tra i coniugi: beni in comunione de residuo e beni personali, FD, 1996, 338; Radice 1997, 138 s.; Auletta 1999, 202 s.; Russo 1999, 196 ss.); in base ad esso, anche quei beni che, pur essendo potenzialmente suscettibili di utilizzo promiscuo, risultino concretamente utilizzati esclusivamente (o in maniera assolutamente prevalente) da uno dei coniugi, sono sottratti alla regola del coacquisto ai sensi dell’art. 177, lett. a), a prescindere dal loro valore. 1.6. Nella giurisprudenza di merito ha poi aderito a tale orientamento dottrinale, ispirandosi dunque ad un criterio soggettivo (basato essenzialmente sul concetto di «utilizzo»), una decisione della corte d’appello di Milano, che ha qualificato come personale una collezione di minerali raccolta per hobby da uno dei coniugi (A Milano 24 mag. 1991, GC, 1992, I, 3175). 1.7. La dottrina che suggerisce il ricorso al criterio soggettivo ha peraltro introdotto numerosi temperamenti, al fine di negare la personalità a quei beni il cui valore risulti sproporzionato rispetto ad un utilizzo e ad una qualificazione meramente personale che andrebbe a scapito delle risorse del nucleo familiare, sulla base di un parametro di normalità sociale, rispetto alle condizioni economiche della famiglia (cfr. Detti, op. cit., 1159; Gabrielli-Cubeddu 1997, 66; Lepri, Il regime patrimoniale della famiglia, Torino, 1999, 112), o all’indirizzo di vita prescelti dai coniugi (cfr. Auletta 1999, 202). 1.8. In assenza di supporti a livello normativo, sembra tuttavia preferibile ritenere che l’unica condizione sia costituita dal fatto che il bene venga effettivamente utilizzato e goduto in considerazione ed in funzione delle sue specifiche caratteristiche tipologiche. Si può dunque affermare che dovranno essere considerati personali, ad esempio, pellicce e gioielli, ancorché di rilevante valore, concretamente ed abitualmente indossati dal coniuge in occasione d’appuntamenti mondani, ma non sicuramente i gioielli acquistati e custoditi in una cassetta di sicurezza quale forma d’investimento nell’attesa che arrivi il momento giusto per la rivendita (a Beccara 2002, 177 s.).

 

10. I beni che servono all’esercizio della professione del coniuge ex art. 179, lett. d), c.c. 1.1. La disposizione di cui all’art. 179, lett. d), c.c., che si ispira – come quella di cui alla precedente lett. c) – alla ratio di tutelare la personalità del soggetto, non si riferisce ad ogni genere di attività del coniuge. Secondo l’opinione maggioritaria, infatti, il termine «professione» non è da intendersi come limitato alle sole occupazioni liberali, ma comprende lo svolgimento (non semplicemente occasionale) di qualsiasi attività lavorativa autonoma o subordinata (per quest’ultimo caso si pensi al dipendente che si compri un computer per sbrigare a casa parte del lavoro, o si formi una biblioteca personale d’aggiornamento, ecc.), ad eccezione delle attività imprenditoriali (Gionfrida Daino 1989, 481 s.; De Paola 1995, 485; Gabrielli-Cubeddu 1997, 63; Radice 1997, 144; Auletta 1999, 198; Russo 1999, 200 ss., che allarga la disposizione addirittura alle attività del tempo libero e a quelle senza scopo di lucro). 1.2. Per le attività imprenditoriali l’inciso finale della norma fa salva l’applicazione delle regole di cui all’art. 177, lett. d) e co. 2° c.c. in caso di cogestione, e dell’art. 178 c.c. in caso di gestione individuale. Si è sostenuto però da parte di taluno che gli acquisti destinati ad aziende a gestione individuale sarebbero assoggettati all’art. 179, lett. d) medesimo, con la conseguenza (molto rilevante sul piano pratico) che, in caso di immobili o mobili registrati, l’esclusione dalla comunione richiederebbe il rispetto delle formalità dettate dall’art. 179, co. 2°, c.c. (in questo senso Gionfrida Daino 1989, 482 ss.; Santosuosso, op. cit., 109). 1.3. La questione ha formato oggetto, ormai diversi anni or sono, di un intervento della giurisprudenza di legittimità (Cass., 29 nov. 1986/7060, FI, 1987, I, 810; GC, 1987, 293; su tale decisione v. le osservazioni svolte da Oberto, Comunione legale, regimi convenzionali e pubblicità immobiliare, RDC, 1988, II, 187 ss.; la soluzione è stata confermata successivamente, da Cass., 21 mag. 1997/4533 e da Cass., 19 set. 2005/18456; nello stesso senso, nella giurisprudenza di merito, v. T Vigevano, 20 feb. 1979, RN, 1979, 625; T Monza 14 nov. 1988, GC, 1989, I, 696; T Piacenza 9 apr. 1991, RN, 1993, 124; T Monza, 1° giu. 1995, GIUS, 1995, 3911), che ha evidenziato la correttezza della scelta legislativa, fondata sulla distinzione tra beni aziendali (cui si riferisce l’art. 178 c.c.) e beni relativi all’attività professionale del coniuge (cui si riferisce l’art. 179 c.c.), giustificandola in base al maggior valore normalmente rivestito dal complesso dei beni destinati all’esercizio dell’impresa, rispetto a quelli che servono allo svolgimento di un’attività professionale non imprenditoriale. 1.4. Per quanto attiene al «nesso di servizio» tra il bene e l’esercizio della professione, si è talvolta sostenuta una tesi piuttosto restrittiva, tale da ridurre il carattere della personalità ai soli beni strettamente indispensabili al compimento di tale attività. Ne segue che, ad esempio, sarebbe ricompreso nella comunione l’eventuale immobile acquistato per essere adibito a studio professionale (attesa la sufficienza della disponibilità di un ufficio in semplice locazione), unitamente ai relativi arredi ed ornamenti, specie se di lusso (Schlesinger 1977, 399; De Paola 1995, 485 s.; Santosuosso, op. cit., 109 s.; Barbiera 1996, 497). 1.5. Di contro si è posto peraltro in rilievo che, laddove il Legislatore intende seguire una tesi più «rigoristica», lo rende evidente con l’impiego di espressioni che mettano in luce l’indispensabilità dei beni per l’esercizio della professione. E’ il caso, ad esempio, dell’art. 514, n. 4, c.p.c., ove l’uso da parte di un criterio di giudizio rigoristico è reso evidente dal riferimento ai soli strumenti «indispensabili per l’esercizio della professione, dell’arte o del mestiere  del debitore» (Barbiera 1982, 39). 1.6. Un’ulteriore questione relativa al «nesso di servizio» tra beni ed attività concerne la sua eventuale cessazione, in relazione a possibili mutamenti di destinazione del bene di uso personale. Per converso ci si chiede se la destinazione di un cespite comune all’uso esclusivo o all’esercizio della professione di uno dei coniugi valga a trasformarlo in personale. In relazione alla seconda ipotesi, la dottrina (Gabrielli-Cubeddu 1997, 62; Radice 1997, 142; Auletta 1999, 197 s.; Russo 1999, 191 s.) sembra concordare sul fatto che il cambio di destinazione sia del tutto inidoneo a far uscire il bene dal patrimonio comune. Maggiori incertezze sussistono in relazione alla prima delle due ipotesi qui delineate: in quella, cioè, di cessazione dell’utilizzo personale o professionale dei beni (sul tema v. per tutti Auletta 1999, 205).

 

11. I beni ottenuti a titolo di risarcimento del danno ex art. 179, lett. e), c.c. 1.1. La disposizione dell’art. 179, lett. e),  c.c. sottrae al regime della comunione legale i beni ottenuti dal coniuge «a titolo di risarcimento del danno, nonché la pensione attinente alla perdita parziale o totale  della capacità lavorativa». Si discute se le due parti di cui si compone la disposizione vadano lette come un tutto unitario, con la conseguenza che personale sarebbe solo il risarcimento del danno alla persona e non anche quello eventualmente subito dal patrimonio (personale) del coniuge. 1.2. Se la consultazione dei lavori preparatori fa sicuramente propendere per la natura congiunta, e dunque per la limitazione dell’ipotesi normativa al danno alla persona (v. per tutti Russo 1999, 212 s.), l’analisi del dato letterale, con particolare riguardo all’impiego al singolare dell’aggettivo «attinente», porta a considerare il riferimento alla capacità lavorativa come circoscritto alla sola pensione, con conseguente lettura disgiunta delle due parti di cui si compone la disposizione della lett. e) dell’art. 179 c.c. (Auletta 1999, 207). Ne conseguirà pertanto, secondo questa interpretazione, che sarà escluso dalla comunione anche il risarcimento di quel danno che non investa la capacità lavorativa della persona: si pensi, ad esempio, al risarcimento del danno da distruzione di un bene personale. 1.3. Per identità di ratio, dovrebbero ricadere sotto la norma in oggetto anche le indennità ex artt. 2045 e 2047 c.c., l’indennità di espropriazione per pubblica utilità ed il risarcimento per occupazione abusiva, le utilità conseguite ex art. 2058 c.c. nel caso di risarcimento in forma specifica. Naturalmente, anche il risarcimento del danno da responsabilità contrattuale per inadempimento di obbligazioni che vedano come creditore il solo coniuge rileverà a tal fine. Lo stesso è a dirsi per eventuali penali incassate e caparre incamerate (che altro non costituiscono se non la forfetizzazione del danno subito). 1.4. Per ciò che attiene al risarcimento corrisposto dall’assicuratore, questo andrà ricondotto al disposto dell’art. 179 lett. e) nel caso di assicurazione contro i danni o per la responsabilità civile; la somma corrisposta nel caso di assicurazione sulla vita potrebbe essere invece ritenuta personale ex art. 179 lett. b), in quanto oggetto di donazione indiretta (sul tema dei rapporti tra donazione indiretta e art. 179, lett. b), c.c. v. supra, sub § 6). 1.5. In giurisprudenza, poi, si è posto il problema della sorte delle somme corrisposte a titolo di indennità di accompagnamento istituita dalla l. 11 feb. 1980/18. Sul punto la S.C. ha stabilito che tale indennità non è indirizzata al sostentamento dei soggetti minorati nelle loro capacità di lavoro, ma è configurabile come misura di integrazione e sostegno del nucleo familiare, incoraggiato a farsi carico di tali soggetti, evitando così il ricovero in istituti di cura e assistenza, con conseguente diminuzione della relativa spesa sociale. Di conseguenza è stato deciso che tali somme rientrano nella comunione legale, non essendo equiparabili alla pensione attinente alla perdita totale o parziale della capacità lavorativa, prevista dall’art. 179, lett. e), c.c. Né in proposito è possibile l’interpretazione analogica di tale disposizione, che contempla ipotesi tassative di eccezione al principio generale di inclusione dei beni nella comunione legale (Cass., 27 apr. 2005/8758).

 

12. I beni personali «per surrogazione» ex art. 179, lett. f), c.c. Generalità. Irrilevanza della destinazione funzionale dei beni surrogati. 1.1. Ai sensi dell’art. 179, lett. f), c.c. sono altresì esclusi dalla comunione i beni «acquisiti con il prezzo del trasferimento dei beni personali» elencati nel contesto delle precedenti previsioni dell’art. 179 c.c. medesimo, ovvero «col loro scambio», alla condizione che «ciò sia espressamente dichiarato all’atto di acquisto». La disposizione in esame necessita di essere integrata con le prescrizioni aggiuntive dettate dal capoverso del medesimo art. 179 c.c., per il caso di acquisto di beni immobili o mobili registrati. 1.2. Avuto riguardo alla formulazione lessicale della disposizione («prezzo del trasferimento dei beni personali sopraelencati»), in dottrina si è posto innanzi tutto il problema della sorte degli acquisti operati facendo impiego del corrispettivo ricavato dalla cessione dei beni personali ai sensi della lettera f) dell’art. 179 c.c. (ossia di beni personali per surrogazione), anziché delle (espressamente menzionate) lett. a) - b). 1.3. D’altro canto, è sorta questione circa la surrogabilità del denaro facente ab origine parte del patrimonio individuale del coniuge (perché per esempio, antecedente al matrimonio ovvero frutto di donazione), senza costituire il risultato di un’operazione di smobilizzo di un cespite personale di altra natura. In proposito prevale la tesi favorevole alla facoltà di surrogazione con riferimento a tutti i beni personali (ivi compreso, ovviamente, il denaro) ai sensi dell’art. 179 c.c., senza eccezioni di sorta (v. per tutti a Beccara 2002, 188; cfr. inoltre Scarano, I beni acquistati con il prezzo o lo scambio di beni personali (art. 179, lett. f) c.c.), in Bianca (a cura di), La comunione legale, I, Milano, 1989, 532; Gabrielli-Cubeddu 1997, 49 s.; Auletta 1999, 215; Russo 1999, 222 s.). 1.4. Rimangono estranei alla previsione normativa i beni in comunione de residuo, pur se questi non possono considerarsi comuni, almeno fin tanto che non è intervenuta una causa di scioglimento del regime legale (il tema è trattato ampiamente supra, sub artt. 177-178, § 41). 1.5. Un particolare requisito per la surrogazione viene poi imposto da quegli autori secondo i quali l’esclusione potrebbe avere luogo solo nell’ipotesi in cui il bene sostitutivo di bene personale ex art. 179 lett. c) e d) sia a sua volta destinato ad uso strettamente personale o all’esercizio della professione, poiché diversamente troverebbe applicazione la regola dell’art. 177, lett. a), c.c. (Corsi 1977, 114; Bellelli, op. cit., 474; Gionfrida Daino 1989, 491 s.; Gabrielli-Cubeddu 1997, 49; Auletta 1999, 206 s.). 1.6. La tesi non solo non trova fondamento nella lettera norma, ma, anzi, pare logicamente in contrasto con essa, posto che non si spiegherebbero le ragioni del richiamo operato dalla lett. f) dell’art. 179 c.c. alle lettere c) e d) dello stesso articolo (che rimanda ai «beni personali sopraelencati»). Invero, se il bene cd. sostitutivo possiede già i requisiti richiesti dalle previsioni delle citate lett. c) e d), la sua attribuzione al patrimonio deriva proprio dalla diretta applicazione dei relativi precetti normativi, senza alcuna necessità di verificare la provenienza della provvista impiegata per l’acquisto e di compiere la relativa dichiarazione. L’unico modo per dare significato all’art. 179 lett. f) nella parte appena richiamata, consiste proprio nel riconoscimento che i beni acquistati reinvestendo il ricavato della vendita di un bene d’uso personale o destinato all’esercizio della professione sono personali a prescindere dalla loro destinazione funzionale, a condizione, ovviamente, che siano rispettate le formalità di cui all’art. 179,  lett. f) (cfr. A.-M. Finocchiaro 1984, 1007; De Paola 1995, 484 s.; Radice 1997, 143 s.; Russo 1999, 215 s.; a Beccara 2002, 182).

 

13. Segue. b) La dichiarazione di esclusione e il problema della sua necessità. 1.1. La condizione cui l’art. 179, lett. f), c.c. espressamente subordina l’esclusione dalla comunione consiste nel fatto che venga emessa una apposita dichiarazione di esclusione «all’atto dell’acquisto», in funzione della provenienza personale delle risorse impiegate. 1.2. Secondo taluni, la norma potrebbe essere intesa come finalizzata alla tutela della posizione dei terzi aventi causa dal coniuge acquirente ovvero creditori. Ma una simile prospettiva mal si concilia con il rilievo secondo cui la dichiarazione stessa – riferita ad una vicenda negoziale avente per oggetto beni mobili non registrati – non risulta assoggettata ad alcun requisito di forma, rivelandosi per tal motivo strutturalmente inadeguata rispetto all’ipotizzata finalità divulgativa (così a Beccara 2002, 190). 1.3. Altri autori mettono poi in evidenza come la disposizione in esame non si possa considerare come preordinata alla tutela del coniuge dell’acquirente, nel senso che la stessa avrebbe lo scopo  di renderlo consapevole che il consorte sta per effettuare un acquisto con provvista di risorse personali, e di consentirgli in tal modo di sollevare eventuali opposizioni. In effetti la dichiarazione di esclusione non deve essere effettuata in contraddittorio con l’altro coniuge, ma solamente all’atto di acquisto e dunque, almeno di norma, in presenza di un diverso soggetto, l’alienante, cui tra l’altro verosimilmente poco o nulla importa della provenienza del capitale impiegato per l’acquisto (a Beccara 2002, 190). 1.4. Sembra dunque che, con la prescrizione in esame, il legislatore abbia semplicemente voluto predisporre un vero e proprio «meccanismo di difesa della comunione» (Gabrielli-Cubeddu 1997, 48; sottolinea il rilievo, nel caso di specie, del principio del favor communionis anche Barbiera 1996, 455), subordinando il diritto soggettivo del coniuge di proteggere la titolarità individuale dei beni acquistati mediante l’impiego di risorse personali alla rigida osservanza di un onere formale la cui omissione, da qualsiasi causa determinata, produce la conseguenza della inevitabile ricaduta del cespite nel patrimonio comune. 1.5. Peraltro la Cassazione, almeno in un primo tempo, ha negato la necessità della dichiarazione in questione in due decisioni pronunciate, rispettivamente, su una fattispecie di permuta di bene personale e su una vicenda di acquisto di un cospicuo quantitativo di titoli azionari tramite investimento di un ingente capitale ricevuto in donazione dal padre di uno dei due coniugi (Cass., 8 feb. 1993/1556, GC, 1993, I, 2425, D FAM, 1993, I,  980; GI, 1994, 270; RN, 1994, II, 1023; Cass., 18 ago. 1994/7437, VN, 1995, I, 800; GC, 1995, I, 2503; RN, 1995, II, 939). 1.6. In queste sentenze la Corte sembrava partire dall’idea di una ratio della disposizione volta a fare chiarezza sulla provenienza dei mezzi impiegati per l’acquisto: se, dunque, il carattere personale del corrispettivo è certo, la dichiarazione in esame si risolverebbe in un onere formale del tutto superfluo. 1.7. Questa giurisprudenza si è però venuta a scontrare con l’orientamento dominante della dottrina, secondo cui la dichiarazione in oggetto rappresenterebbe, in ogni caso, la conditio sine qua non affinché l’acquisto possa qualificarsi come personale e, pertanto, le andrebbe riconosciuto carattere costitutivo ai fini dell’esclusione del cespite dalla comunione (Quadri, L’oggetto della comunione tra coniugi: i beni in comunione immediata, FD, 1996, 183; Radice 1997, 151 s.; Auletta 1999, 216; a Beccara 2002, 192; contra Bianca, Diritto civile, II, La famiglia. Le successioni, 3° ed., Milano, 2001, 106, sulla base del presupposto che la dichiarazione si renderebbe necessaria «in quanto può essere obbiettivamente incerto se l’acquisto realizzi o meno il reinvestimento di denaro o beni personali», onde sarebbe superflua quando tale funzione non possa essere svolta per la certezza della personalità delle risorse). 1.8. Le citate pronunce di legittimità sono state peraltro superate da un successivo revirement, con il quale la Corte Suprema ha tra l’altro espressamente affermato – occupandosi di una situazione attinente al secondo comma dell’art. 179 c.c. – che «la dichiarazione di cui è onerato il coniuge acquirente, prevista nella lettera f) del primo comma dell’art. 179 cod. civ. al fine di conseguire l’esclusione, dalla comunione, dei beni acquistati con il prezzo del trasferimento dei beni strettamente personali o con il loro scambio, non è meramente facoltativa» (Cass., 24 set. 2004/19250, FD, 2005, 12). 

 

14. Segue. c) Requisiti di forma e sostanza della dichiarazione di esclusione. 1.1. Per quanto attiene ai requisiti formali della dichiarazione in questione, va rilevato che – a parte le ipotesi (riconducibili per lo più all’ambito applicativo del co. 2° dell’art. 179) dei negozi traslativi assoggettati a prescrizioni di forma (art. 1350 c.c.) – non sussiste alcun motivo per disconoscere la validità di una dichiarazione di esclusione effettuata verbalmente o anche solo per facta concludentia. 1.2. Si noti che, a prescindere dalle contingenti difficoltà probatorie, la regola potrà trovare applicazione solo nelle vicende relative a rapporti tra coniugi, perché, nei confronti dei terzi il disposto dell’art. 197 c.c. rende comunque necessaria la formazione di un atto scritto dotato di data certa (cfr. Corsi 1979, 115 s.; Silvestri, Formalità degli acquisti in surrogazione di cui alla lett. f) dell’art. 179 c.c., in Bianca (a cura di), La comunione legale, I, Milano, 1989, 534; Gabrielli-Cubeddu 1997, 54 s.; Auletta 1999, 218). 1.3. Quanto al momento in cui la dichiarazione va effettuata, dubbi sono stati affacciati circa la legittimità di una dichiarazione rilasciata antecedentemente all’acquisto. Il problema nasce per effetto della formulazione letterale della lett. f), la quale fa riferimento esclusivamente al momento perfezionativo della vicenda acquisitiva. Appare però più ragionevole, al fine di alleggerire il più possibile gli oneri posti a carico dell’acquirente, optare per la legittimità di una dichiarazione emessa antecedentemente alla vicenda acquisitiva (Silvestri, op. cit., 567; De Paola 1995, 494; Gabrielli-Cubeddu 1997, 53; Radice 1997, 152; a Beccara 2002, 195). 1.4. In merito al profilo contenutistico non pare trovare sufficiente supporto normativo l’opinione (cfr. Regine, nota a Cass., 18 ago. 1994/7437, NGCC, 1995, I, 564; Montesano, nota a Cass., 18 ago. 1994/7437, SOC, 1995, 499) che richiede l’indicazione specifica e dettagliata dei beni personali costituenti (direttamente ovvero previa alienazione) la risorsa dell’acquisto che si intende sottrarre alla comunione tramite la surrogazione. 1.5. Esigenze di semplificazione dell’esercizio del diritto soggettivo del coniuge di mantenere la titolarità individuale dei propri cespiti inducono per contro la dottrina maggioritaria a considerare sufficiente una dichiarazione di contenuto generico (v. per tutti; Segni, Gli atti di straordinaria amministrazione del singolo coniuge sui beni immobile della comunione, RDC, 1980, 623, nota n. 65; Gabrielli-Cubeddu 1997, 54, che peraltro, in relazione agli acquisti immobiliari, ritengono necessario «un livello adeguato di determinatezza»; Auletta 1999, 218; a Beccara 2002, 194). 1.6. Così, ad esempio, in una fattispecie di acquisto immobiliare, il tribunale di Parma si è accontentato della dichiarazione del coniuge acquirente di «impiegare denaro proprio» e di quella del coniuge non acquirente di «ben conoscere la provenienza personale del denaro stesso» (T Parma 28 mar. 1985, RN 1985, 1204), mentre il tribunale di Napoli ha stabilito che «La dichiarazione del coniuge acquirente richiesta dall’art. 179 lett. f) c.c. non deve indicare specificamente i beni in surrogatoria dei quali si opera l’acquisto, essendo sufficiente, al fine di escludere la sottoposizione dell’acquisto alla comunione immediata ai sensi dell’art. 177, lett. a), c.c., anche una dichiarazione generica. In tale ipotesi, però, incomberà sul coniuge acquirente l’onere di dimostrarne la corrispondenza alla realtà effettiva» (T Napoli, 17 nov. 1993, D GIUR, 1995, 218). 1.7. Per ciò che attiene alle possibili forme di tutela dei creditori personali del coniuge rispetto all’eventualità che il loro debitore, nell’effettuare un acquisto con risorse del proprio patrimonio individuale, si astenga – volontariamente o meno – dall’adempimento dell’onere di cui all’art. 179 lett. f), provocando la ricaduta in comunione del cespite, la dottrina discute sull’ammissibilità del ricorso all’azione surrogatoria (per tutti v. a Beccara 2002, 196 s.).

 

15. L’acquisto personale di beni immobili o mobili registrati ex art. 179 cpv. c.c. Generalità. La partecipazione dell’altro coniuge all’atto di acquisto e le dispute sul suo carattere necessario. 1.1. L’esclusione dalla comunione di un acquisto effettuato ai sensi delle lettere c), d) ed f) dell’art. 179 c.c. è vincolato dal capoverso del citato articolo al rispetto di una particolare formalità, consistente nella previsione che «tale esclusione risulti dall’atto di acquisto se di esso sia stato parte anche l’altro coniuge». 1.2. La prima parte di tale frase viene intesa nel senso che sarebbe normativamente imposto al coniuge che si accinga ad operare un acquisto personale di carattere immobiliare di inserire nel negozio una dichiarazione di estrinsecazione di tale propria volontà, corredata dall’indicazione delle cause giustificative (ossia della categoria di appartenenza) dell’invocata personalità. 1.3. Per i beni personali per surrogazione tale dichiarazione si identifica totalmente con quella già prescritta dall’art. 179, lett. f), tanto che, in realtà, il capoverso dell’art. 179 nulla aggiunge a quanto già necessario ai sensi del co. 1°, mentre, per quel che attiene ai beni di uso strettamente personale, ovvero destinati all’esercizio della professione, il capoverso dell’art. 179 c.c. impone un requisito formale aggiuntivo (Gabrielli-Cubeddu 1997, 93; a Beccara 2002, 199) 1.4. Sulla necessità o meno della partecipazione al negozio del coniuge escluso dall’acquisto va detto che, in fase di primo commento alla riforma, era stata suggerita un’interpretazione riduttiva della norma, alla stregua della quale la formalità sarebbe necessaria solamente nei casi in cui l’acquisto del bene venga operato congiuntamente dai coniugi con risorse provenienti dai rispettivi patrimoni personali, ed avrebbe la funzione di subordinare la costituzione sul bene di una comunione ordinaria (il luogo di quella legale) ad un’espressa dichiarazione in tale senso delle parti (Cian, Sulla pubblicità del regime patrimoniale della famiglia. Una revisione che si impone, RDC, 1976, I, 44; Cian-Villani 1980, 400 s.; Barbiera 1982, 37). 1.5. Questa opinione ha riportato anche il favore della (più risalente) giurisprudenza, compresa quella di legittimità. Infatti la Cassazione, affrontando nel 1993 il caso della permuta di un immobile di proprietà personale di un coniuge (in quanto proveniente da donazione), ha optato per la personalità del bene conseguito come corrispettivo, considerando irrilevante (oltre all’assenza della dichiarazione di esclusione) la mancata partecipazione del consorte (Cass., 8 feb. 1993/1556, cit.). L’affermazione è stata successivamente ribadita da una decisione di merito (T Firenze 2 feb. 1998,  R FI, 1999 voce Famiglia (regime personale della), n. 62) e da una di legittimità (Cass., 9 nov. 2000/14575), entrambe relative a casi di acquisto di un bene mobile registrato (un’autovettura) personale ai sensi dell’art. 179, lett. c). 1.6. In senso contrario si esprime però la dottrina assolutamente prevalente, la quale, ponendo l’accento sulla necessità (cui si ispirerebbe la norma) di rafforzare la tutela del coniuge escluso, ha rilevato come la lettura proposta finisca per negare la funzione prospettata proprio con riferimento alle ipotesi (gli acquisti separati) nelle quali la possibilità di abusi è sensibilmente più alta. A livello letterale sembrerebbe – sempre ad avviso di alcuni studiosi – maggiormente plausibile che il «se» della parte conclusiva equivalga in realtà ad un «purché», nel senso che i due presupposti della presenza nell’atto della dichiarazione di esclusione e della partecipazione dell’altro coniuge fungerebbero entrambi da condizioni necessarie di verificazione dell’effetto finale e dunque dell’entrata del bene nel patrimonio personale in luogo di quello comune (Oppo, Responsabilità patrimoniale e nuovo diritto di famiglia, RDC, 1977, I, 111; Corsi 1979, 108; Segni, op. cit., 616 s.; A.-M. Finocchiaro 1984, 1016; Schlesinger 1992, 158; De Paola 1995, 498; Gabrielli-Cubeddu 1997, 89; Auletta 1999, 221). 1.7. Per le stesse considerazioni la medesima dottrina maggioritaria non condivide le interpretazioni propense ad attribuire alla partecipazione del coniuge non acquirente una valenza sul piano meramente probatorio, nel senso che la stessa avrebbe solamente la funzione di semplificare l’onus probandi del coniuge acquirente in caso di successiva contestazione, mentre la sua mancanza non impedirebbe il perfezionamento della fattispecie acquisitiva a titolo personale (in questo senso v. invece Rocchetti March, L’intervento dell’altro coniuge negli acquisti di beni personali immobili e mobili registrati, in Bianca (a cura di), La comunione legale, I, Milano, 1989, 581 ss., secondo la quale la partecipazione non sarebbe essenziale in quanto la sua mancanza non farebbe venire meno la personalità dell’acquisto, ma addosserebbe semplicemente al coniuge acquirente l’onere della prova della personalità medesima in caso di contestazione da parte dell’altro). 1.8. Anche la giurisprudenza, dopo le già ricordate decisioni nel senso della non necessaria partecipazione dell’altro coniuge, ha finito con l’allinearsi sulle posizioni dottrina. Per la precisione andrà innanzi tutto ricordato che già alcune pronunce di merito si erano espresse nel senso della necessità di tale partecipazione (cfr. T Monza 14 nov. 1988, cit.; T Catania 14 nov. 1989, D FAM, 1990, 556; T Pistoia 21 ott. 1995, FD, 1996, 50). 1.9. Nel 2004 la Cassazione, facendo perno sulle particolari esigenze di certezza caratterizzanti il traffico giuridico immobiliare, ha espressamente affermato la necessità della partecipazione di entrambi i coniugi all’atto d’acquisto ex art. 179 cpv. c.c., dovendo il coniuge non acquirente esprimere «un’ ‘adesione’ alla dichiarazione resa dal coniuge acquirente», avente altresì valore ricognitivo «del ricorso dei presupposti per l’operatività della natura meramente ‘personale’ dell’acquisto». Da ciò emergerebbero «i tratti di una fattispecie complessa, al cui perfezionamento, in un disegno normativo del tutto compatto ed unitario, concorrono, ad un tempo, il ricorso effettivo dei presupposti di cui alla lettera f) (o delle lettere c) e d) ) dell’art. 179 cod. civ.); la relativa dichiarazione resa dal coniuge il quale si rende ‘acquirente esclusivo’, e la partecipazione all’atto dell’altro coniuge» (Cass., 24 set. 2004/19250, cit.).

 

16. Segue. b) La natura della partecipazione del coniuge escluso all’atto di acquisto. 1.1. La dottrina si è a lungo cimentata sul tema della natura della partecipazione del coniuge. Specie in un primo tempo, essa ne ha asserito il carattere negoziale, nel senso che l’esclusione dell’immobile dal patrimonio comune dipenderebbe da una dichiarazione discrezionale di volontà in senso conforme da parte dell’escluso (Detti, op. cit., 1170; Krogh, Gli acquisti del coniuge imprenditore in regime di comunione legale dei beni, in Aa. Vv., Scritti in onore di Guido Capozzi, Milano, 1992, II, 723 ss.; ulteriori riferimenti in Radice 1997, 155, nota 120). 1.2. Tale inquadramento è stato tuttavia rifiutato dalla dottrina maggioritaria, sulla base del rilievo secondo cui l’assoggettamento dell’effetto acquisitivo al patrimonio personale e alla manifestazione del consenso del consorte finirebbe per vanificare di fatto il diritto soggettivo del coniuge di trasformare – nel rispetto dei presupposti di cui all’art. 179, lett. f), c.c. – la composizione del patrimonio individuale per quanto concerne gli acquisti immobiliari per surrogazione, ovvero di effettuare acquisti finalizzati al soddisfacimento delle proprie esigenze (relativamente a valori di espresso riconoscimento costituzionale) personali ovvero lavorative nei casi di cui alle lett. c) e d) (in questo senso v. per tutti Segni, op. cit., 623 s.; De Paola 1995, 499; Gabrielli-Cubeddu 1997, 90; Radice 1997, 156; Auletta 1999, 223). 1.3. Per quanto attiene alla giurisprudenza va rilevato che la natura negoziale della partecipazione del coniuge è stata espressamente esclusa nel 2000 da una pronuncia di legittimità (Cass., 19 feb. 2000/1917, GC, 2000, I, 1365; FI, 2000, I, 2247; VN, 2000, I, 896), che ha configurato l’intervento del coniuge non acquirente come «atto giuridico in senso stretto privo di contenuto negoziale, volto ad attestare che quanto dichiarato dall’acquirente corrisponde a verità», sottolineando il «carattere ricognitivo, e non negoziale» della mancata contestazione, da parte del coniuge, in detta sede. Tale comportamento costituirebbe pur sempre «un atto giuridico volontario e consapevole, cui il legislatore attribuisce la valenza di testimonianza privilegiata, ricollegandovi l’effetto di una presunzione iuris et de iure di esclusione della contitolarità dell’acquisto». Il vincolo derivante da detta presunzione non sarebbe peraltro «assoluto, potendo essere rimosso per errore di fatto o per violenza, nei limiti in cui ciò è consentito per la confessione, cui può equipararsi il riconoscimento di una situazione giuridica». 1.4. L’«irruzione» nello scenario giurisprudenziale della già citata decisione del 2004 (Cass., 24 set. 2004/19250, cit.) sembra portare un elemento decisivo, nella posizione della Corte di legittimità, in favore della tesi della natura negoziale della partecipazione del coniuge, ormai vista come un elemento assolutamente imprescindibile della fattispecie descritta dall’art. 179 cpv. c.c., ancorché la medesima Corte, in tale ultimo arresto, non prenda posizione esplicita sul punto e non chiarisca se e quali strumenti siano a disposizione del potenziale acquirente in caso di rifiuto del coniuge non acquirente, né dica, viceversa, di quali strumenti quest’ultimo si possa avvalere nel caso la sua partecipazione «favorevole» all’atto dovesse dimostrarsi in seguito per qualche ragione non giustificata. 1.5. Di contro alla tesi negoziale si pone quella della natura meramente ricognitiva. In suo favore si è espressa parte della giurisprudenza più risalente (cfr. ad es. Cass., 8 feb. 1993/1556, cit.; per le decisioni di merito v. T Pistoia 21 ott. 1995, cit.; T Napoli 17 nov. 1993, cit.), nonché la dottrina minoritaria (in questo senso cfr. De Paola 1995, 499 s.; Radice 1997, 155; Santosuosso, op. cit., 117).

 

17. Segue. c) Ammissibilità e limiti di una successiva contestazione della personalità dell’acquisto. 1.1. La questione relativa all’ammissibilità ed ai limiti di una successiva contestazione della personalità dell’acquisto da parte del coniuge escluso viene variamente risolta dalla dottrina, pur profilandosi come maggioritaria la tesi favorevole (per una panoramica delle varie opinioni v. a Beccara 2002, 205 ss.). 1.2. Parte di essa, peraltro, fa discendere dalla partecipazione del coniuge non acquirente al negozio di acquisto concluso dall’altro una vera e propria inversione dell’onere della prova in sede di eventuale successiva contestazione, nel senso che graverebbe su di lui il rischio della mancata dimostrazione in giudizio dell’insussistenza dei fatti giustificativi della personalità dell’acquisto non contestati al momento della conclusione del negozio (per tale impostazione si vedano Rocchetti March, op. cit., 586; Schlesinger 1977, 406; Id. 1992, 161; Auletta 1999, 224). 1.3. Quest’opinione è stata criticata da chi ha osservato che nessun accenno a variazioni della regolamentazione legale dell’onere della prova predisposta dall’art. 2697 c.c. è rinvenibile nello specifico dettato normativo dell’art. 179, co. 2°, c.c.; d’altro canto, nell’eventuale procedimento giurisdizionale di accertamento troveranno applicazione le regole ordinarie, per cui al coniuge non acquirente sarà sufficiente invocare l’operatività del precetto generale dell’art. 177, lett. a), c.c., mentre competerà all’altro allegare e provare in giudizio i fatti costitutivi della personalità dell’acquisto (a Beccara 2002, 206 s.)  1.4. Venendo alla posizione dei terzi che abbiano acquistato diritti dal coniuge risultante dai registri immobiliari (e dal titolo di acquisto) come proprietario esclusivo, ovvero dei creditori che abbiano pignorato il bene come personale, rispetto all’eventualità che ne venga successivamente dichiarata la proprietà comune, va rilevato che parte della dottrina ha cercato di salvaguardare la posizione di tali soggetti ipotizzando un’applicazione analogica degli artt. 1415 e 2652, n. 4, c.c. (Schlesinger 1977, 408 s.; Corsi 1979, 118). 1.5. In senso contrario si è peraltro esattamente obiettato che le due situazioni non possono essere equiparate, difettando in particolare, nel caso dell’acquisto falsamente personale, quel requisito dell’accordo simulatorio tra le parti che nell’impostazione legislativa sembrerebbe giustificarne l’assogettamento ai rischi derivanti dalle inopponibilità sancite dagli artt. 1415 e 1416 c.c. Trattandosi di un’azione di mero accertamento occorrerà fare invece riferimento all’art. 2653, n. 1, c.c. (si richiamano a tale disposizione Radice 1997, 157 s.; Auletta 1999, 230 s.). 1.6. In ogni caso occorre tenere presente che, essendo intervenuto un negozio dispositivo da parte del coniuge unico intestatario, l’accertamento di cui sopra non potrà che riguardare lo stato di comunione esistente prima del compimento di tale atto: la proprietà del terzo non potrà quindi essere posta in discussione se non travolgendo il negozio dispositivo medesimo con l’unico strumento posto a disposizione del coniuge pretermesso, vale a dire l’azione di annullamento prevista dall’art. 184 c.c. In tal caso, il terzo acquirente dal coniuge non potrà ritenersi «terzo» ai sensi degli artt. 1445-2652 n. 6 c.c., essendo parte del negozio colpito dalla pronunzia di annullamento (Bruscuglia, La separazione dei beni, in Aa. Vv., Il diritto di famiglia, II, Tr. BES., IV, Torino, 1999, 300 s.); egli non potrà pertanto avvalersi della tutela accordata da tali norme, che opererà invece solo a vantaggio di eventuali successivi acquirenti dalla controparte contrattuale del coniuge alienante (Bruscuglia, op. loc. ultt. citt.; a Beccara 2002, 208).

 

18. Segue. d) Il problema dell’eventuale rifiuto di partecipare all’atto. 1.1. La dottrina chiarisce che l’ipotesi del rifiuto va tenuta distinta da quella della semplice assenza (per dimenticanza, errata valutazione di superfluità della sua presenza, ecc.), dovendosi ritenere che di un diniego in senso tecnico è possibile parlare solamente nel momento in cui il coniuge sia stato formalmente invitato a partecipare, ed abbia ciononostante deciso di non intervenire (Gabrielli, Acquisto in proprietà esclusiva di beni immobili o mobili registrati da parte di persona coniugata, VN, 1984, 666; a Beccara 2002, 208). 1.2. Per chi si pone nell’ottica della necessaria partecipazione del coniuge la soluzione più radicale del problema non può consistere se non nell’impossibilità di escludere la caduta in comunione in caso di rifiuto e proprio a questa conclusione sembra condurre il ragionamento svolto dalla Cassazione nella più volte ricordata sentenza del 2004. Il coniuge non avrebbe quindi scelta diversa dall’astenersi da un atto che, ove ugualmente compiuto, condurrebbe inevitabilmente ad un incremento del patrimonio comune. 1.3. La dottrina che ritiene necessaria la partecipazione all’atto dell’altro coniuge ammette che sia possibile l’acquisto personale anche in caso di ingiustificato rifiuto del coniuge, purché venga ottenuto un accertamento giudiziale della presenza dei presupposti di cui all’art. 179, co. 1°, lett. c) e d), ovvero f). Vi è tuttavia divergenza tra quanti reputano necessario che tale accertamento venga effettuato prima del compimento dell’acquisto (così Schlesinger 1992, 160; Radice 1997, 157), e quanti considerano sufficiente anche un accertamento successivo (De Paola 1995, 502; Gabrielli-Cubeddu 1997, 92; in favore dell’ammissibilità di un accertamento successivo si è espressa anche Cass., 2 giu. 1989/2688, che peraltro era stata chiamata a pronunziarsi sul diverso tema del c.d. rifiuto preventivo del coacquisto, su cui v. infra, sub § 19). 1.4. La tesi, poi, che ha sicuramente riscosso meno successo è quella che fa leva sul ricorso alla speciale procedura giudiziaria delineata dall’art. 181 c.c. (in questo senso v. invece Barbiera 1996, 461): soluzione, questa, inaccettabile, non essendo consentito regolare l’eventuale esclusione di un acquisto alla comunione sulla base di una norma di carattere eccezionale inerente l’amministrazione dei beni che già ne fanno parte (sul tema v. per tutti Auletta 1999, 226 s.).

 

19. Beni personali per accordo tra i coniugi. Il problema del rifiuto preventivo del coacquisto ex lege in comunione legale. La tesi favorevole. 1.1. Un’ulteriore categoria di beni personali potrebbe essere costituita da quegli acquisti che, pur non rientrando in una delle ipotesi descritte dall’art. 179 c.c., i coniugi in comunione legale decidessero di comune accordo di non sottoporre al regime legale. Il tema è usualmente conosciuto come «rifiuto preventivo del coacquisto ex lege ex art. 177 c.c.». 1.2. Questa possibilità, sebbene negata dalla giurisprudenza di merito (escludono l’ammissibilità del rifiuto preventivo del coacquisto T Piacenza 9 apr. 1991, cit.; T Napoli 17 nov. 1993, cit.; T Parma 21 gen. 1994, FD, 1994, 310), venne sostenuta ormai diversi anni or sono da un celebre leading case della Cassazione (CC, 2 giu. 1989/2688, FI, 1990, I, 608; RN, 1990, II, 172, con nota di Laurini; GC, 1990, I, 1359; GI, 1990, I, 1, 1307). 1.3. La tesi era stata del resto prima ancora prospettata e adeguatamente dimostrata dalla dottrina (Gabrielli, Scioglimento parziale della comunione legale fra coniugi. Esclusione dalla comunione di singoli beni e rifiuto preventivo del coacquisto, RDC, 1988, I, 341 ss., spec. 356 ss.; nello stesso senso v. anche Gabrielli-Cubeddu 1997, 95 ss.; cfr. inoltre, sempre nello stesso senso, Montesano, Rifiuto del coacquisto. Altre ipotesi di esclusione di un bene dalla comunione legale e riconoscimento dell’autonomia negoziale nei rapporti patrimoniali familiari, VN, 1991, LXXVIII ss.; Lamberti, Ipotesi di riducibilità convenzionale della comunione legale, ivi, 1992, 384 ss.; Lo Sardo, Il rifiuto preventivo del coacquisto, ivi, 395 ss., e Id., Ma la comunione legale non è una prigione!, RN, 1993, 124 ss.; Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, Milano, 1999, 156 s.; Valignani, I limiti all’autonomia dei coniugi nell’assetto dei loro rapporti patrimoniali, FA, 2001, p. 391 ss.; De Falco, Separazione dei beni, comunione convenzionale e fondo patrimoniale, relazione presentata all’incontro di studio sul tema «I rapporti patrimoniali della famiglia» organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura, Nona commissione – tirocinio e formazione professionale, svoltosi a Roma nei giorni 14 – 16 aprile 2003 (testo dattiloscritto), 7 ss.; Oberto, L’autonomia negoziale nei rapporti tra coniugi (non in crisi), cit., 656 ss.; per la dottrina contraria alla decisione di legittimità del 1989 v. Galletta, Estromissione dei beni dalla comunione legale e consenso del coniuge, nota Cass., 2 giu. 1989/2688, GI, 1990, 1307 ss.; Parente, Il preteso rifiuto del coacquisto ex lege da parte di coniuge in comunione legale, nota Cass., 2 giu. 1989/2688, FI, 1990, I, 608 ss.; Bargelli-Busnelli, voce Convenzione matrimoniale, EdD, Aggiornamento, IV, Milano, 2000, 445 ss.; per ulteriori richiami dottrinali si fa rinvio a Caravaglios 1995, 177 s.). 1.4. Interessante sarà notare che il rationale di questa soluzione si fonda essenzialmente sul principio generale secondo cui nemo potest locupletari invitus, oltre che sulla constatazione che l’autonomia dei coniugi può spingersi, ex art. 2647 c.c. (ma anche ex art. 210 c.c.), ad escludere dalla comunione singoli beni, se non addirittura l’intero regime comunitario. Le argomentazioni addotte dalla dottrina vanno dalla considerazione della possibilità (concessa dall’art. 159 c.c.), di escludere in toto il regime comunitario, a quella (ammessa dall’art. 210 c.c.) di dar luogo a convenzioni «riduttive», a quella (argomentabile ex art. 191 cpv. c.c.) di effettuare scioglimenti parziali del regime legale, a quella (espressamente contemplata dall’art. 2647 c.c.) di stipulare convenzioni che escludano singoli beni dalla comunione, a quella (consentita dall’abrogazione dell’art. 781 c.c.) di stipulare donazioni tra coniugi (cfr. per tutti Gabrielli, Scioglimento parziale della comunione legale fra coniugi. Esclusione dalla comunione di singoli beni e rifiuto preventivo del coacquisto, loc. ultt. citt.). 1.5. Le critiche a tale posizione si sono essenzialmente imperniate sul rischio che il «meccanismo di funzionamento della comunione legale, che prevede, al suo interno, i casi e le modalità con cui i coniugi possono attribuire carattere personale a determinati beni» sia «snaturato ed alterato» (così Bargelli-Busnelli, voce Convenzione matrimoniale, cit., p. 446); ma a tale osservazione si può replicare che alla sovrana volontà delle parti è concesso, addirittura, derogare in ogni momento in toto al regime legale (cfr. per tutti Oberto, L’autonomia negoziale nei rapporti tra coniugi (non in crisi), cit., 659 ss.). 1.6. Non solo: il principio di autonomia negoziale applicabile alle convenzioni matrimoniali consentirebbe comunque ai coniugi di pervenire al medesimo risultato, determinando, per esempio «il carattere della categoria in modo che essa sia idonea a comprendere proprio e soltanto quel bene» (Gabrielli, Scioglimento parziale della comunione legale fra coniugi. Esclusione dalla comunione di singoli beni e rifiuto preventivo del coacquisto, cit., p. 348 s.).

 

20. Segue. b) Il revirement della Cassazione in senso contrario all’ammissibilità di un rifiuto preventivo del coacquisto ex lege in comunione legale. 1.1. Nel 2003 la Cassazione (Cass., 27 feb. 2003/2954, FD, 2003, p. 559), tornando sulla precedente giurisprudenza, ha stabilito che «la partecipazione alla stipula del coniuge formalmente non acquirente e l’eventuale dichiarazione di assenso, da parte sua, all’intestazione personale del bene, immobile o mobile registrato, all’altro coniuge, non hanno efficacia negoziale o dispositiva, sotto forma di rinuncia, del diritto alla comunione legale sul bene acquisendo, né sono elementi di per sé sufficienti a escludere l’acquisto dalla comunione, ma hanno carattere ricognitivo degli effetti della dichiarazione, resa dall’altro coniuge, circa la natura personale del bene, se e in quanto questa oggettivamente sussista, ex art. 179 c.c.». 1.2. Partendo da queste premesse la Corte ha deciso che «ove tale natura personale dei beni manchi (e tale mancanza si ha allorché il bene, senza essere di uso strettamente personale o destinato all’esercizio della professione del coniuge, venga acquistato con denaro del coniuge stesso, ma non proveniente dalla vendita di beni personali), la caduta in comunione legale non è preclusa da dette partecipazione e dichiarazione, tanto più che, nella pendenza di tale regime, il coniuge non può rinunciare alla comproprietà di singoli beni acquistati durante il matrimonio (e non appartenenti alle categorie elencate nel co. 1° dell’articolo 179 del c.c.) salvo che sia previamente o contestualmente mutato, nelle debite forme di legge e nel suo complesso, il regime patrimoniale della famiglia». 1.3. Si è rilevato in senso critico (Oberto, L’autonomia negoziale nei rapporti tra coniugi (non in crisi), cit. 659 ss.) che la motivazione del testé citato revirement della giurisprudenza di legittimità si snoda attraverso una serie di affermazioni apodittiche. In primo luogo, la decisione in esame dichiara expressis verbis di discostarsi dal citato precedente del 1989, laddove, in realtà, quest’ultimo – a differenza del caso più recente, relativo ad un problema di «surroga» del carattere personale di un bene – riguardava un caso pacificamente non riferibile al disposto dell’art. 179 c.c., in cui l’esclusione dalla comunione legale non era fatta risalire alla riconducibilità della fattispecie ad una delle ipotesi contemplate in tale norma, bensì esclusivamente alla volontà concorde dei coniugi. 1.4. I Supremi Giudici, nella decisione del 2003, proseguono poi affermando che l’elenco di cui all’art. 179 c.c. avrebbe carattere tassativo, contemplando «poche eccezioni» alla regola fissata dall’art. 177 c.c., tra le quali non rientrerebbe il caso in cui un coniuge «rinunzi (…) alla contitolarità di un singolo bene». Un argomento testuale, in questo senso – sempre ad avviso della Cassazione – sarebbe ricavabile dall’articolo 210, 3° co., c.c., a mente del quale le norme della comunione legale non sono derogabili relativamente, fra l’altro, all’uguaglianza delle quote di comproprietà sui beni che formerebbero oggetto della comunione legale. Ne conseguirebbe che, a maggior ragione, un coniuge, in regime di comunione legale, non potrebbe rinunziare all’intera quota a lui spettante su un bene che ne forma oggetto, non rientrando tale ipotesi nelle categorie elencate dall’articolo 179 c.c. 1.4. La decisione non presta peraltro alcuna attenzione al fatto che i coniugi potrebbero in ogni momento addirittura escludere in toto l’operatività del regime legale, ovvero escluderlo per tutti gli acquisti da compiersi in quel dato giorno e/o aventi quelle determinate caratteristiche idonee ad eliminare l’operatività del regime comunitario in relazione a quel determinato bene. 1.5. I Supremi Giudici propongono poi un inaccettabile riferimento ad un supposto «carattere pubblicistico» della disciplina della comunione legale, legato all’art. 160 c.c. Tesi, questa, clamorosamente smentita, peraltro, in parte qua, dall’art. 159 c.c., che consente ai coniugi di optare, tutto al contrario, addirittura per un regime interamente e rigorosamente separatista. 1.6. Ancora, osserva la Cassazione che, argomentando diversamente, «il regime di comunione legale, assunto come normale dalla legge (in mancanza di diversa convenzione) sarebbe, in realtà, modificabile ad nutum, secondo l’opzione estemporanea di ciascuno dei coniugi in relazione all’acquisto di singoli beni». L’affermazione manifesta peraltro nella maniera più evidente con il richiamo ad una supposta modificabilità «ad nutum, secondo l’opzione estemporanea di ciascuno (corsivo d.a.) dei coniugi»come la fattispecie tenuta presente dalla Corte fosse quella (diametralmente opposta rispetto a quella di cui qui si discute) dell’inesistenza di un accordo tra i coniugi. 1.7. Si noti, infine, che la stessa Cassazione ha ammesso, a pochi mesi di distanza, che coniugi in comunione legale possano operare un acquisto in comunione ordinaria (così estromettendo in via preventiva uno o più beni dalla comunione) senza previamente procedere in alcun modo al passaggio al regime separatista, ed anzi desumendo tale intenzione semplicemente dal fatto che ciascuno dei coniugi abbia acquistato «ciascuno a proprio nome, in comune e pro indiviso» titoli del debito pubblico (nella specie, CCT) «ricevendone un titolo cointestato» (Cass., 10 set. 2003/13213, FD, 2003, 533). 1.8. Peraltro la ancora successiva Cass., 24 feb. 2004/3647, VN, 2004, I, 971 ha stabilito che «I coniugi in regime patrimoniale di comunione legale, al fine di effettuare l’acquisto anche di un solo bene in regime di separazione (tale essendo l’eventuale acquisizione in comunione ordinaria, che esige un regime di separazione) sono tenuti a previamente stipulare una convenzione matrimoniale derogatoria del loro regime ordinario, ai sensi dell’art. 162 cod. civ., sottoponendola alla specifica pubblicità per essa prevista, non essendo al riguardo viceversa sufficiente una più o meno esplicita indicazione contenuta nell’atto di acquisto, posto che questo non viene sottoposto alla pubblicità delle convenzioni matrimoniali, le quali solo conferiscono certezza in ordine al tipo di regime (patrimoniale) cui sono sottoposti gli atti stipulati dai coniugi». 1.9. Nello stesso solco sembra poi collocarsi anche Cass., 19 set. 2005/18456, la quale ha cassato una decisione di merito che aveva riconosciuto alla dichiarazione della moglie sul carattere personale dell’acquisto operato dal marito l’effetto di sottrarre l’acquisto alla comunione legale. Nella specie la dichiarazione era stata espressamente riferita al disposto dell’art. 179, lett. d), c.c., in relazione all’acquisto di un immobile destinato ad attività imprenditoriale di autocarrozzeria (e dunque non professionale, intesa come relativa all’esercizio di professione liberale) del marito. La Suprema Corte, affermando (correttamente) l’applicabilità alla fattispecie dell’art. 178 c.c., ha (con asserzione sostanzialmente immotivata e, ad avviso dello scrivente, non condivisibile) ritenuto irrilevante la chiara manifestazione di volontà del coniuge nell’atto d’acquisto diretta ad escludere dalla comunione il bene, concludendo per l’appartenenza alla comunione de residuo dell’immobile.

 

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