Giacomo Oberto

 

La responsabilità contrattuale

nelle relazioni coniugali

 

 

Sommario:

1. Famiglia e responsabilità contrattuale: l’influsso esercitato sul tema dalla «stagione della negozialità» nei rapporti familiari.

2. La definizione della responsabilità contrattuale come dovere di risarcire il danno conseguente alla violazione di un rapporto obbligatorio.

3. Ininfluenza, sulla possibilità di ravvisare ipotesi di responsabilità contrattuale tra coniugi, dell’esistenza di specifiche sanzioni di tipo giusfamiliare. Il ruolo giocato dall’introduzione dell’art. 709-ter c.p.c.

4. La responsabilità contrattuale da violazione del dovere di contribuzione tra coniugi.

5. La responsabilità contrattuale da violazione di accordi sull’indirizzo della vita familiare.

6. Responsabilità contrattuale e comunione legale tra coniugi. I profili attinenti alla determinazione dell’oggetto.

7. Responsabilità contrattuale ed amministrazione della comunione legale tra coniugi. Responsabilità ex art. 184 c.c. e per mala gestio della comunione.

8. Responsabilità contrattuale e scioglimento della comunione legale tra coniugi. Rimborsi e restituzioni ex art. 192 c.c.

9. Responsabilità contrattuale e regime di separazione dei beni. L’esistenza di un mandato ad amministrare.

10. Segue. Responsabilità per il compimento di atti di amministrazione nonostante l’opposizione dell’altro coniuge.

11. Segue. Le obbligazioni a carico del coniuge che gode dei beni dell’altro e la relativa responsabilità.

12. Segue. L’obbligo di indennizzare il coniuge che abbia apportato miglioramenti o addizioni ai beni dell’altro.

13. Responsabilità contrattuale e crisi coniugale.

14. Responsabilità contrattuale e doveri dei genitori.

 

 

1. Famiglia e responsabilità contrattuale: l’influsso esercitato sul tema dalla «stagione della negozialità» nei rapporti familiari.

 

Gli studi che, nel corso degli ultimi anni, sono andati accumulandosi sul tema dei rapporti tra famiglia e responsabilità civile sembrano prediligere la trattazione dei profili aquiliani, lasciando, per così dire, più in ombra i temi della responsabilità contrattuale.

Il che, sia chiaro, appare più che ovvio, attesa la vivacità che caratterizza, da ormai svariati anni a questa parte, il settore dell’illecito extracontrattuale e la velocità con la quale si espandono le sempre più mobili frontiere del danno ingiusto, nonché il superamento di atavici pregiudizi sulla condizione femminile, che avevano in buona sostanza determinato l’idea che la famiglia si trovasse, rispetto all’area della responsabilità civile, in una situazione di vera e propria immunità. D’altro canto, la maggior lentezza del cammino percorso della responsabilità ex artt. 1218 ss. c.c. all’interno del territorio familiare si spiega con le peculiarità di un contesto, come quello dei rapporti giuridici endofamiliari, rispetto a cui l’accostamento di concetti quali quello di «obbligazione» o di «contratto» poteva sembrare – quanto meno sino a non molto tempo addietro – ardito.

Ma il quadro di cui sopra non può non risultare oggi influenzato da quella «stagione della negozialità» che da alcuni anni caratterizza i rapporti familiari, fondati o meno sul matrimonio. Il passaggio, invero, dalla «concezione istituzionale» alla «concezione costituzionale» della famiglia, ha spianato la via ad una nozione di negozio giuridico familiare cui è possibile applicare (in difetto di speciali deroghe normative) la disciplina generale dettata dal codice per il contratto, secondo quell’insegnamento di Francesco Santoro-Passarelli che può ormai dirsi recepito – e da tempo – anche dalla giurisprudenza. Quest’ultima, per esempio, riconosce da svariati anni a questa parte il carattere negoziale dell’accordo di separazione personale, di quello di divorzio su domanda congiunta, nonché di quelle particolari intese di carattere patrimoniale concluse in sede, in occasione, o anche solo in vista della separazione personale, della separazione di fatto, del divorzio o dell’annullamento del matrimonio, qualificate dallo scrivente come «contratti della crisi coniugale».

L’art. 1322 c.c. ha ricevuto concreta applicazione in un’innumerevole serie di casi che hanno portato il «diritto vivente» a determinare, in nome del principio dell’autonomia privata (sovente espressamente menzionato nelle motivazioni delle decisioni), una vera e propria dilatazione dell’usuale contenuto dell’accordo di separazione, ben al di là di quegli angusti limiti in cui alcuni autori lo avrebbero voluto inquadrare:

·       si è così deciso, per esempio, in relazione ad una complessa pattuizione transattiva di tutti i rapporti nati dal vincolo coniugale, che l’accordo dei coniugi sottoposto all’omologazione del tribunale ben può contenere rapporti patrimoniali anche «non immediatamente riferibili, né collegati in relazione causale al regime di separazione o ai diritti ed agli obblighi derivanti dal matrimonio» (Cass., 15 marzo 1991, n. 2788, in Foro it., 1991, I, c. 1787; sempre in materia di transazione cfr. Cass., 12 maggio 1994, n. 4647, in Fam. dir., 1994, p. 660).

·       L’affermazione della negozialità tra coniugi (in crisi e non) è giunta al punto che non destano neppure più stupore, nell’osservatore della giurisprudenza di legittimità, affermazioni del genere di quella secondo cui «i rapporti patrimoniali tra i coniugi sepa­rati hanno rilevanza solo per le parti, non essendovi coinvolto alcun pubblico interesse, per cui essi sono pienamente disponibi­li e rientrano nella loro autono­mia privata» (Cass., 23 luglio 1987, n. 6424, in Giust. civ., 1988, I, p. 459).

·       In un crescendo che conosce ormai ben poche battute d’arresto (Per una vicenda in cui la Corte Suprema, dopo avere ribadito con dovizia di particolari in motivazione la tesi della negozialità della separazione consensuale, con un finale «a sorpresa» ha negato l’impugnabilità del relativo accordo per simulazione cfr. Cass., 20 novembre 2003, n. 7607, in Corr. giur., 2004, p. 309 ss., con nota di Oberto. Si vedano peraltro le successive Cass., 4 settembre 2004, n. 17902, cit., e Cass., 29 marzo 2005, n. 6625, cit., che hanno invece ammesso l’impugnabilità delle medesime intese per vizi del consenso),

·       si sono così fondati i rapporti personali e contributivi dei coniugi sulla regola dell’accordo (cfr. artt. 143 e 144 c.c.),

·       si è consolidata la tesi della natura contrattuale delle convenzioni matrimoniali,

·       si è ammessa una rimarcabile sfera di autonomia con riguardo ai regimi patrimoniali (possibilità di dar vita a regimi patrimoniali atipici),

·       si è concessa la più ampia libertà negoziale nei momenti salienti che caratterizzano il fenomeno della crisi coniugale (trasferimenti immobiliari, negozi a latere, accordi preventivi sulle conseguenze dell’annullamento, transazioni tra coniugi in crisi),

·       mentre, sul versante della famiglia di fatto, si è venuta affermando la validità dei contratti di convivenza e, più in generale, di tutte le intese patrimoniali in seno al rapporto more uxorio, purché rispettose dei canoni previsti per il contratto in generale.

·       Ciò, del resto, conformemente a un’evoluzione che sta caratterizzando le legislazioni di ogni parte d’Europa, se è vero come è vero che proprio nella direzione della negozialità e non certo in quella dell’imposizione di effetti giuridici conseguenti alla sola sussistenza del ménage de fait, si muovono le soluzioni normative che di recente, in vari paesi del nostro continente, si sono prefissate di affrontare e risolvere i problemi giuridici posti dalle convivenze omo- ed eterosessuali. Questa stessa impostazione sembra ormai destinata a lasciare tracce sempre più profonde anche nella normativa sovranazionale.

 

Volgendo nuovamente lo sguardo alla situazione italiana, possiamo infine aggiungere che, quale coronamento della descritta evoluzione, il legislatore

·       non solo ha espressamente riconosciuto l’esistenza della categoria dei «contratti disciplinati dal diritto di famiglia» (Cfr. l’art. 11, d. legis. 9 aprile 2003, n. 70 «Attuazione della direttiva 2000/31/CE relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione nel mercato interno, con particolare riferimento al commercio elettronico», il quale stabilisce l’inapplicabilità della relativa regolamentazione ai «contratti disciplinati dal diritto di famiglia». Il richiamo legislativo, ad avviso dello scrivente, deve intendersi effettuato tanto alle convenzioni matrimoniali, quanto ai contratti della crisi coniugale),

·       ma si è spinto ad introdurre, quale nuovo tipo negoziale, un «patto di famiglia» – espressamente definito quale «contratto» (cfr. art. 768-bis c.c.) – idoneo a disattivare, in relazione a determinati tipi di intese, la tutela riconosciuta da secoli ai legittimari, così «blindando» alcuni negozi volti alla trasmissione endofamiliare della ricchezza, rendendoli impermeabili alla possibile incidenza delle mutevoli vicende che, nel corso degli anni, possono interessare la compagine familiare.

·       Quasi contemporaneamente, altri interventi legislativi sono venuti a consentire «atti di destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità», ex art. 2645-ter c.c.,

·       o, ancora ad aprire ulteriori spazi alla materia degli accordi nell’ambito delle famiglie legittime e di fatto in crisi, pur in un criticabilissimo e dissennato contesto di generalizzazione «forzata» e d’imposizione iussu Principis, contro ogni logica, dell’istituto dell’affidamento congiunto, ribattezzato «condiviso»:

·      si  pensi alle disposizioni del nuovo art. 155, cpv. c.c. (estensibile anche alla materia divorzile, nonché a quella dei figli di soggetti non coniugati, come disposto dall’art. 4, l. 8 febbraio 2006, n. 54, «Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli»), che impone al giudice di «Prende(re) atto, se non contrari all’interesse dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori»,

·      o al nuovo quarto comma dell’art. cit., a mente del quale ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito «salvo accordi diversi, liberamente sottoscritti dalle parti».

 

 

2. La definizione della responsabilità contrattuale come dovere di risarcire il danno conseguente alla violazione di un rapporto obbligatorio.

 

Per affrontare il peculiare profilo dei rapporti tra dinamiche familiari e responsabilità contrattuale, occorre partire dal dato per cui siffatto tipo di responsabilità costituisce l’obbligo di risarcimento del danno conseguente all’inadempimento di un’obbligazione, secondo quanto descritto dall’art. 1218 c.c., che prevede l’ipotesi del «debitore» che non esegue esattamente «la prestazione dovuta».

In effetti, nel linguaggio legislativo, il termine «debitore» indica esclusivamente il soggetto passivo dell’obbligazione, e il termine «prestazione» esprime tipicamente l’oggetto del rapporto obbligatorio. Il fatto dell’inadempimento è così letteralmente riferito all’inesecuzione dell’obbligazione, come risulta anche dalla intitolazione del capo in cui è contenuta la norma e dalla sua collocazione nel titolo che disciplina l’obbligazione in generale.

Sarà poi il caso di sottolineare come, dal punto di vista terminologico, la denominazione invalsa per descrivere il fenomeno in questione, vale a dire «responsabilità contrattuale», sebbene confortata da un lungo uso, sia imprecisa: il contratto, invero, non è che una delle fonti di obbligazione e pertanto non è corretto assegnare l’attributo contrattuale alla responsabilità che può derivare dall’inadempimento di qualsiasi obbligazione, nascente da contratto o da altra fonte, secondo quanto stabilito dall’art. 1173 c.c.

 

La questione è dunque quella di vedere se e in che misura possano darsi, nell’ambito dei rapporti familiari o parafamiliari, vere e proprie obbligazioni.

Ma che cosa intendiamo per «obbligazione»?

Il nostro codice civile, che in generale non sembra mostrarsi poi così restio a fornire definizioni di istituti giuridici (dal testamento alla proprietà, al contratto, a buona parte dei contratti speciali, all’azienda, ecc.), non presenta la nozione di obbligazione; esso si  limita invece, nelle «disposizioni preliminari» (capo I) del titolo del libro quarto, a dettare tre disposizioni (artt. 1173, 1174 e 1175), delle quali una soltanto (il principio della patrimonialità della prestazione) può aiutare l’interprete nella definizione del concetto in esame.

 

Il progetto ministeriale del codice civile, libro delle obbligazioni, del 1940 definiva l’obbligazione come «un vincolo in virtù del quale il debitore è tenuto verso il creditore ad una prestazione positiva o negativa».  Nel secondo progetto ministeriale la definizione sparì e la Relazione al Re (n. 557) chiarì che la soppressione era stata deliberatamente effettuata, dovendo la definizione degli istituti giuridici «essere lasciata alla dottrina».

 

Ora, la dottrina si è tradizionalmente rifatta alle definizioni romanistiche, contenute in due passi delle fonti. Il primo, tratto dalle istituzioni di Giustiniano (I, 3, 13 pr.), suona nella maniera seguente: «obligatio est iuris vinculum quo necessitate adstringimur alicuius solvendae rei, secundum nostrae civitatis iura». Il secondo è tratto dal digesto (D, 44, 7, 3) ed afferma  che «obligationum substantia non in eo consistit, ut aliquod corpus nostrum, vel servitutem nostram faciat; sed ut alium nobis obstringat ad dandum aliquid, vel faciendum, vel praestandum». Come si vede, l’art. 1 del citato progetto ministeriale del codice civile manifestava l’evidente influsso dei suddetti passi, nonché del § 241 BGB che, sotto la rubrica «Natura del rapporto obbligatorio», prevede che «Per effetto del rapporto obbligatorio il creditore è autorizzato a pretendere dal debitore una prestazione, che può anche consistere in un comportamento negativo».

 

In conseguenza di quanto testé illustrato può dunque dirsi che l’obbligazione è un vincolo, cioè un rapporto giuridico (diritto soggettivo patrimoniale e relativo) in virtù del quale un soggetto, il debitore, deve tenere un dato  comportamento nell’interesse di un altro soggetto, detto creditore. Il comportamento, detto prestazione, può consistere a sua volta in un dare, in un fare o in un non fare una determinata cosa.

 

Gli elementi costitutivi dell’obbligazione possono essere sinteticamente individuati nei seguenti cinque:

(a) i soggetti, più precisamente il soggetto attivo (creditore) e quello passivo (debitore);

(b) il contenuto, che nel caso di specie consiste nella prestazione, cioè nel comportamento (dare, fare o non fare) che il debitore deve tenere nell’interesse del creditore;

(c) l’oggetto, che è dato dal bene, dall’utilità, o dal vantaggio che il creditore intende ottenere con l’adempimento dell’obbligazione;

(d) il vincolo giuridico (che riunisce i precedenti tre elementi), in forza del quale il debitore è tenuto ad eseguire la prestazione dovuta ed il creditore ha il diritto di pretenderne l’esecuzione;

(e) l’interesse del creditore, cui deve corrispondere la prestazione dovuta.

 

Il quesito rileva in modo particolare avuto riguardo al necessario requisito della patrimonialità della prestazione, secondo quanto disposto dall’art. 1174 c.c. E’ noto che la ratio di tale norma – secondo cui la disciplina dell’obbligazione è applicabile a quelle sole prestazioni-comportamenti che possono essere valutate in termini pecuniari – è quella di raccordare le regole sulle obbligazioni a quella che è la realtà dei rapporti di mercato, nel senso che i valori tutelati sono quelli di scambio: dunque, non quelli che quel bene o utilità ha per se stesso, ma il valore che esso ha in quanto mezzo di scambio.

In linea di principio potrebbe apparire dunque problematico reperire obbligazioni «endofamiliari», essendo la famiglia luogo d’elezione per rapporti che, sebbene caratterizzati dalla giuridicità e dalla vincolatività, non sono suscettibili di valutazione economica.

Si pensi, ad esempio, all’impegno che due innamorati si prestassero l’un l’altro di  rimanere reciprocamente fedeli o ad analogo vincolo che due conviventi more uxorio intendessero assumere nell’ambito di un contratto di convivenza: promesse di tal genere non potrebbero dar luogo ad un’obbligazione, in quanto la fedeltà ad una persona è un bene che non può essere valutabile in denaro, esattamente come l’impegno a convivere o l’obbligo di non mutare le proprie convinzioni politiche o religiose. Lo stesso è a dirsi per l’impegno, ad esempio, di adottare una certa persona (cfr. Cass., 10 aprile 1964, n. 835, in Giust. civ., 1964, I, p. 1604); la soluzione potrebbe essere reperita mediante la pattuizione di una penale, come pure si dirà oltre.

 

E’ vero, peraltro, che non fanno difetto autorevoli opinioni dottrinali (Bianca, Giorgianni) che, anche in relazione ai doveri giuridici non caratterizzati dalla patrimonialità ammettono, in difetto di un’apposita disciplina legislativa, la possibilità di un’estensione analogica dei principi in tema d’inadempimento, ciò che dovrebbe dirsi anche con riferimento alla sanzione del risarcimento del danno, la quale prescinde dalla patrimonialità dell’obbligo violato.

E questa conclusione potrebbe anche parere confermata dal fatto che non mancano certo norme codicistiche che espressamente prevedono la sanzione del risarcimento del danno per violazioni di obblighi del diritto di famiglia non sempre qualificabili alla stregua di obbligazioni: si pensi al disposto dell’art. 382 c.c., correlato al dovere del tutore (nonché degli altri soggetti indicati dall’art. 424 c.c.) avente ad oggetto quella «cura della persona del minore» (art. 357 c.c.), che non può certo ritenersi limitata ai profili di carattere patrimoniale.

Art. 382 c.c. (RESPONSABILITÀ DEL TUTORE E DEL PROTUTORE)

 

1. Il tutore deve amministrare il patrimonio del minore con la

diligenza del buon padre di famiglia. Egli risponde verso il minore

di ogni danno a lui cagionato violando i propri doveri.

 

2. Nella stessa responsabilità incorre il protutore per ciò che

riguarda i doveri del proprio ufficio.

 

Resta però il fatto, incontestabile, che riconoscere e trattare come inadempimento di un’obbligazione qualsiasi violazione di un dovere giuridico inter coniuges, anche se non caratterizzato dalla patrimonialità, farebbe perdere di vista la possibilità stessa di configurare fattispecie di responsabilità aquiliana tra marito e moglie.

Infatti, ogni violazione di un diritto soggettivo assoluto compiuta da un coniuge contro l’altro (si pensi all’integrità fisica, all’onore, al patrimonio, ecc.) rappresenta sempre, inevitabilmente, anche la violazione di uno dei doveri scolpiti nell’art. 143 c.c., con conseguente «contrattualizzazione» di tutte queste ipotesi.

Appare dunque più corretto ritenere che il fenomeno descritto dall’art. 1218 c.c. trovi applicazione solo con riguardo a quei doveri giuridici tecnicamente qualificabili come «obbligazioni» e dunque caratterizzati dalla patrimonialità, secondo quanto disposto dall’art. 1174 c.c., laddove le violazioni degli altri doveri lasceranno aperto il campo alla valutazione di ingiustizia del danno per una possibile applicazione dell’art. 2043 c.c.: problema, questo, da risolvere tenuto conto dell’opinione che si intenda seguire sui concetti di «danno ingiusto» e di «meritevolezza di tutela» degli interessi in gioco.

Si vedrà tra breve quali effetti siffatto criterio restrittivo è in grado di produrre concretamente, avuto riguardo alle situazioni e ai rapporti giuridici che possono venirsi a creare nell’ambito delle relazioni tra i componenti il nucleo familiare. Per il momento appare invece opportuno accennare brevemente ad un altro degli ostacoli che vengono usualmente frapposti alla possibilità di ravvisare fattispecie di responsabilità endofamiliari, vale a dire la sussistenza (con particolare riferimento al caso dei coniugi) di specifiche sanzioni per violazioni di doveri familiari previste da apposite norme di legge.

 

 

3. Ininfluenza, sulla possibilità di ravvisare ipotesi di responsabilità contrattuale tra coniugi, dell’esistenza di specifiche sanzioni di tipo giusfamiliare. Il ruolo giocato dall’introduzione dell’art. 709-ter c.p.c.

 

E’ innegabile che molti dei doveri endofamiliari a contenuto sia patrimoniale che non patrimoniale siano già muniti di una propria «speciale» sanzione, diversa dal risarcimento del danno, ciò che potrebbe indurre ad escludere il rimedio descritto dall’art. 1218 c.c. anche in relazione a doveri qualificabili alla stregua di obbligazioni ex artt. 1173 ss. c.c. Quanto mai significativa è la vicenda della violazione degli obblighi di carattere personale nascenti dall’art. 143 c.c. e, tra questi – tanto per portare un celebre esempio – il dovere di fedeltà tra coniugi.

 

L’orientamento tradizionale tende ad escludere in tali casi l’azione risarcitoria. Anche la Corte di Cassazione  si è espressa in senso negativo, affermando che «dalla separazione personale dei coniugi può nascere, sul piano economico (a prescindere dai provvedimenti sull’affidamento dei figli e della casa coniugale), solo un diritto ad un assegno di mantenimento dell’uno nei confronti dell’altro, quando ne ricorrono le circostanze specificatamente previste dalla legge. Tale diritto esclude la possibilità di richiedere, ancorché la separazione sia addebitabile all’altro, anche il risarcimento dei danni a qualsiasi titolo risentiti a causa della separazione stessa» (Cass. 6 aprile 1993, n. 4108; cfr. inoltre Cass., 21 marzo 1993, n. 3367, che nega la presenza di una situazione qualificabile come di danno ingiusto, «che presuppone una posizione soggettiva attiva tutelata come diritto perfetto»; contra v. Trib. Milano, 4 giugno 2002).

Secondo la Corte, ciò dipende non tanto dal fatto che «l’addebito del fallimento del matrimonio ad uno soltanto dei coniugi non possa mai acquistare – neppure in teoria – i caratteri della colpa, quanto perché, costituendo la separazione personale un diritto inquadrabile tra quelli che garantiscono la libertà della persona (cioè un bene di altissima rilevanza costituzionale) ed avendone il legislatore specificato analiticamente le conseguenze nella disciplina del diritto di famiglia (cioè nella sede sua propria), deve escludersi – proprio in omaggio al principio secondo cui inclusio unius, exclusio alteriusche a tali conseguenze si possano aggiungere anche quelle proprie della responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c.». Considerazioni, queste, che – ove ritenute accettabili –ben potrebbero estendersi alla responsabilità contrattuale.

 

In proposito si è però obiettato (Ferrando) che una posizione di così netta chiusura non tiene conto delle profonde trasformazioni che hanno investito il diritto di famiglia e la responsabilità civile. Nel passaggio dalla separazione per colpa alla separazione per intollerabilità della convivenza l’istituto ha perso la connotazione «sanzionatoria» che possedeva nel precedente sistema, per acquistare quella di rimedio al fallimento del matrimonio. La pronuncia di addebito ha un carattere meramente eventuale ed intende colpire solo quelle condotte che hanno svolto un ruolo determinante, causale, nel provocare il fallimento dell’unione. D’altro canto, non ogni violazione dei doveri del matrimonio è causa di addebito, ma soltanto quelle che hanno determinato la crisi, dal momento che una violazione anche grave, ma commessa dopo che la vita comune era già irrimediabilmente deteriorata, non costituisce causa di addebito.

Ancora, occorre tenere presente che l’evoluzione giurisprudenziale ha variamente circoscritto e marginalizzato il ruolo dell’addebito, sia dando rilevanza solo a condotte che abbiano questa efficacia causale sul fallimento dell’unione, sia sancendo la fine del «mutamento di titolo» della separazione, sia, da ultimo, decretando l’ammissibilità della sentenza «parziale di separazione», vale a dire l’ammissibilità di una pronuncia di separazione con rinvio a separato giudizio della questione relativa all’addebito.

Può dunque dirsi che, per quanto attiene all’obiezione fondata sull’esistenza, per la violazione dei doveri specifici esistenti inter coniuges, di sanzioni speciali, che, come tali, impedirebbero il ricorso a rimedi di carattere generale e, segnatamente, alle fattispecie della responsabilità civile, non pare esservi un ostacolo di principio al concorso tra i diversi tipi di rimedio, come dimostrano, del resto, in ambiti molto diversi tra loro, l’art. 129-bis c.c. e l’art. 6, ult. cpv., 1. div., l’art. 49 cpv., 1. adoz.

·       In particolare, ha sicuramente natura risarcitoria l’ «indennità» che spetta al coniuge in buona fede nel caso in cui l’annullamento del matrimonio sia imputabile all’altro (art. 129-bis c.c.): il che conferma che rimedio giusfamiliare e rimedio risarcitorio non sono, in linea di principio, tra loro incompatibili

·       e analogamente può rilevarsi che pure nell’ambito della promessa di matrimonio l’obbligo risarcitorio previsto dall’art. 81 c.c. – sulla cui natura molto si discute – tranquillamente convive con il rimedio «tipico» della restituzione dei doni, ex art. 80 c.c.

 

Quanto sopra appare, poi, ulteriormente confermato da altre considerazioni. Non sembra infatti che, anche al di fuori del campo specifico del diritto di famiglia, la presenza di una sanzione specifica per determinate violazioni impedisca i rimedi generali previsti per l’istituto di riferimento. Così è del tutto pacifico che, ad esempio, la presenza del rimedio speciale ex art. 2932 c.c. non impedisce certo al creditore di un’obbligazione avente ad oggetto l’impegno a stipulare un contratto definitivo di astenersi dal domandare la sentenza costitutiva, e di chiedere invece il risarcimento ai sensi dell’art. 1218 c.c. Non solo: la giurisprudenza ammette, correttamente, il concorso tra rimedio specifico ed azione risarcitoria, riconoscendo che non ogni forma di danno può essere risarcita dall’esecuzione forzata in forma specifica (Cass., 13 dicembre 1980, n. 6482).

Ai rilievi sin qui svolti potrà infine aggiungersi il dato fornito dall’introduzione, ad opera dell’art. 2, l. 8 febbraio 2006, n. 54, sull’affidamento condiviso, dell’art. 709-ter c.p.c. In forza di tale disposizione, il «giudice del procedimento in corso» può, «in caso di gravi inadempienze o di atti che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità dell’affidamento» (oltre che modificare i provvedimenti in vigore, e/o ammonire il genitore inadempiente, e/o condannare tale genitore ad una sanzione amministrativa pecuniaria) «disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti del minore» e/o «disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti dell’altro».

Ora, a parte le gravissime questioni processuali che la norma in oggetto solleva, rimane il fatto che il legislatore ha inteso chiaramente mostrare che l’inadempimento ai doveri relativi alla potestà genitoriale può essere fonte di danno risarcibile e che siffatto risarcimento ben può accompagnarsi agli usuali rimedi (modifica dei provvedimenti in vigore), così come a quelli novellamente introdotti (ammonimento, sanzione amministrativa pecuniaria).

 

Concludendo sul punto non sembra possa dirsi che la presenza di sanzioni specifiche di tipo giusfamiliare ostacoli di per sé, e in linea di principio, il riconoscimento di una responsabilità inter coniuges, aquiliana o contrattuale che sia.

 

Semmai, occorrerà insistere sulla necessità di riconoscere, per la responsabilità contrattuale, l’esistenza di un rapporto obbligatorio e dunque di contenuto patrimoniale, laddove i doveri coniugali, eccezion fatta per quello di contribuzione ai bisogni della famiglia, hanno, invece, un contenuto di natura personale, il che spiega perché gli artt. 1218 ss. c.c. non possano, in linea di massima, trovare applicazione in questo campo.

 

Sarà d’uopo intrattenersi dunque brevemente

·       sul dovere di contribuzione, per passare successivamente alla responsabilità contrattuale da violazione delle obbligazioni previste

·       dalle disposizioni in tema di regimi patrimoniali,

·       dalle regole (di fonte legale o convenzionale) relative alla crisi coniugale,

·       da quelle concernenti i profili patrimoniali del rapporto con la prole.


 

 

4. La responsabilità contrattuale da violazione del dovere di contribuzione tra coniugi.

 

L’obbligo di contribuire ai bisogni della famiglia, che l’art. 143, terzo comma, c.c. pone a carico di entrambi i coniugi, si presenta come l’attuazione del principio costituzionale di eguaglianza nei rapporti patrimoniali tra di essi.

I coniugi hanno, come noto, il dovere di contribuire ai bisogni della famiglia «ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo». Tale dovere riguarda prestazioni di carattere economico e costituisce, dunque, una vera e propria obbligazione, in stretto collegamento con i doveri di assistenza e di collaborazione nell’interesse della famiglia, rappresentando un completamento di questi ultimi, sia come supporto economico in chiave solidaristica, sia come già ricordata espressione del principio di uguaglianza all’interno della comunità familiare.

 

Il rimedio in caso di inadempimento non può essere rinvenuto, secondo quanto suggerito in dottrina, in «un’azione extracontrattuale al fine di riparare i danni cagionati in violazione del dovere di contribuzione», posto che la citata presenza di un’obbligazione ex lege deve invece qui indurre a riconoscere l’esperibilità dell’azione ex art. 1218 c.c.

A determinare il carattere di vera e propria obbligazione del dovere di contribuzione contribuisce l’idea, condivisa quanto meno da una parte della dottrina, secondo cui un coniuge può convenire in giudizio l’altro per chiederne la condanna ad adempiere.

Né in senso contrario sembra possano valere le obiezioni di chi vorrebbe argomentare il distacco della materia in esame dal diritto comune delle obbligazioni sulla base di considerazioni di tipo puramente terminologico. Proprio su questo piano potrà, anzi, notarsi che il termine «obbligazione» compare non solo negli artt. 148 e 186, lett. c), ma anche nell’art. 218 c.c., così rendendosi chiaro che i rapporti tra coniugi, laddove abbiano ad oggetto una prestazione patrimoniale, ben possono ricadere sotto il disposto degli artt. 1173 ss. c.c.

Inoltre, non sembra possano dispiegare soverchio rilievo le preoccupazioni sollevate in tema di esecuzione coattiva, posto che la coercibilità in forma specifica non è certo elemento imprescindibile del rapporto obbligatorio (ché, altrimenti, non potrebbe considerarsi alla stregua di un’obbligazione l’impegno assunto da un celebre pittore di eseguire il mio ritratto) e dunque anche forme di contribuzione «in natura» (si pensi all’attività lavorativa domestica) ben possono essere sostituite da una prestazione pecuniaria, mercé la condanna al risarcimento del danno.

 

A conforto della soluzione qui proposta circa la natura di vera e propria obbligazione, propria del dovere di contribuzione ex art. 143 c.c., giungono del resto, e da tempo, svariate prese di posizione della giurisprudenza.

Così, già nel 1939, una corte di merito ammetteva l’esperibilità dell’azione revocatoria ordinaria – vale a dire di un tipico rimedio a tutela del creditore di un rapporto ex artt. 1173 ss. c.c. – da parte della moglie contro atti di disposizione del marito tendenti a diminuire la garanzia patrimoniale del credito dalla donna vantato a titolo di mantenimento ai sensi degli abrogati artt. 132 c.c. 1865 e 145 c.c. 1942 (App. Venezia, 10 luglio 1939, in Giur. it., 1940, I, 2, c. 114).

Avviso, questo, successivamente per implicito ribadito dalla Corte di legittimità nel 1971

Cfr. Cass., 18 marzo 1971, n. 755: «L’obbligazione del marito del mantenimento della moglie, a seguito della decisione della Corte costituzionale del 24 giugno 1970, n 133, declaratoria della illegittimità costituzionale dell’art 145 cod. civ., è subordinata alla condizione che ella non abbia mezzi sufficienti per provvedere a se stessa. Non essendo perciò incondizionato e immanente il credito per mantenimento a favore della moglie, costei non è legittimata per la sola sua qualità di coniuge a proporre azione revocatoria nei confronti di atti di disposizione effettuati dal marito». La Cassazione respinse dunque la domanda non già perché la moglie non potesse qualificarsi, in astratto, come «creditrice», ma sol perché tale credito era condizionato alla ricorrenza di determinate circostanze non presenti nel caso di specie

 

, la quale, in epoca ancora più recente, ha mostrato di dare siffatta soluzione per scontata, stabilendo che «Ai fini dell’azione revocatoria promossa nei confronti di un atto con cui il debitore, a seguito della separazione dal coniuge, abbia trasferito a quest’ultimo la proprietà di un bene, in adempimento del proprio obbligo di mantenimento nei confronti del coniuge e dei figli, l’attribuzione deve qualificarsi a titolo oneroso, salvo che non sia intervenuta, anteriormente al trasferimento, una riconciliazione tra i coniugi, nel qual caso si è in presenza di un’attribuzione a titolo gratuito» (Cass., 26 luglio 2005, n. 15603).

 

 

5. La responsabilità contrattuale da violazione di accordi sull’indirizzo della vita familiare.

 

Dottrina e giurisprudenza si presentano divise sull’attribuzione del carattere negoziale all’accordo sull’indirizzo della vita familiare, ex art. 144 c.c.

Peraltro, qualunque sia la soluzione che si vuole dare a tale problema, è comunque innegabile che, con la formulazione attuale dell’art. 144 c.c., il legislatore ha aperto alla regola del consenso e dunque alla sfera dell’autodeterminazione dei coniugi, interi «territori dove regnavano il potere autoritario e la sottomissione» (Rescigno), fissando una regola fondamentale, al punto che può veramente concordarsi con chi afferma che l’art. 144 c.c. costituisce, in sostanza, la fonte di legittimazione di ogni manifestazione negoziale dei coniugi: l’accordo dei coniugi pone le regole del ménage e, per ciò stesso, determina e concretizza il contenuto degli obblighi inderogabili incidendo, quindi, su di essi.

In ogni caso a chi scrive sembra che la vincolatività dell’intesa sia insita nel concetto stesso di accordo normativamente previsto, con inevitabile riferimento al canone scolpito nell’art. 1372 c.c.

Parafrasando un celebre rilievo di Jemolo, con riguardo alle intese di separazione consensuale, l’accordo non vincolante finirebbe con il diventare una «figura metagiuridica, una inutilità per il diritto, se ad un certo momento le parti non restassero vincolate, in quello che sarà l’apprezzamento dei propri interessi convergenti».

Da tale vincolatività discenderanno dunque effetti che, se patrimonialmente apprezzabili (si pensi all’impegno a contribuire alle necessità materiali della famiglia mediante messa a disposizione di determinati beni o versamento di determinate somme) non potranno considerarsi se non alla stregua di obbligazioni, con la conseguenza che il coniuge interessato sarà legittimato a richiederne coattivamente l’adempimento e, in caso di violazione dell’impegno, a domandare il risarcimento del danno ex art. 1218 c.c.

 

 

6. Responsabilità contrattuale e comunione legale tra coniugi. I profili attinenti alla determinazione dell’oggetto.

 

Anche le norme in tema di comunione legale tra coniugi contengono svariate disposizioni che possono prestarsi a individuare l’esistenza di vere e proprie obbligazioni, di fonte legale, la cui violazione può dar luogo a responsabilità contrattuale. Tali obbligazioni possono situarsi

·       sia nel contesto delle norme attinenti all’individuazione dell’oggetto dell’istituto ex artt. 177 ss. c.c.,

·       che (in particolare) in quello delle disposizioni sull’amministrazione del patrimonio comune,

·       che, ancora, nella fase dello scioglimento.

 

Per quanto attiene al primo momento ci si deve chiedere, innanzi tutto, se determinati comportamenti tenuti dai coniugi all’atto della stipula di negozi che portino alla determinazione quantitativa della massa in comunione legale rispetto a ciascuna delle altre due masse qui rilevanti, vale a dire i beni personali e quelli in comunione de residuo, possano ritenersi in violazione di doveri di fonte legale o convenzionale qualificabili come obbligazioni e, come tali, generatori di responsabilità ex art. 1218 c.c.

In linea generale potrà dirsi che la legge provvede ad individuare in maniera obiettiva le situazioni che determinano la ricaduta o meno in comunione legale, a prescindere da comportamenti cui i coniugi possano reputarsi in qualche modo astretti.

Nella giurisprudenza di merito si è però posto il problema circa l’esistenza di un obbligo di prestare il proprio assenso all’acquisto che l’altro intenda effettuare ex art. 179, lett. f) e cpv., c.c., qualora di tale fattispecie ricorrano, obiettivamente, gli estremi.

Nella specie, dopo il provvedimento del presidente del tribunale, urgente e provvisorio, che autorizzava i coniugi (in regime di comunione legale) a vivere separati, il coniuge non assegnatario dell’abitazione familiare intendeva acquistarne un’altra con fondi di sua esclusiva titolarità. Si rendeva, tuttavia, necessaria la partecipazione all’atto di acquisto dell’altro coniuge, ai sensi delle disposizioni citate, al fine di qualificare come personale il bene; in caso contrario, il bene sarebbe entrato in comunione, non essendo ancora intervenuta una sentenza definitiva di separazione, ma soltanto l’ordinanza interinale di cui all’art. 708 c.p.c.

Orbene, l’ingiustificato rifiuto, da parte del coniuge assegnatario della casa coniugale, di partecipare all’atto di acquisto (rifiuto che ha, poi, determinato la rinuncia al bene), è stato ritenuto contrario a buona fede e come tale fonte di responsabilità extracontrattuale, ex art. 2043 c.c. Al riguardo, è stato accordato il risarcimento per le spese sostenute per la trattativa (danno emergente), mentre, a causa della mancanza di prova, è stato negato il risarcimento del lucro cessante (Trib. Terni, 3 febbraio 1993, in Rass. giur. umbra, 1993, p. 369).

 

Ad avviso dello scrivente, la soluzione del problema, anziché in un generico richiamo al concetto di buona fede, va piuttosto trovata nell’accertamento dell’esistenza o meno di un preciso dovere per il coniuge non acquirente di partecipare all’atto. Inutile dire che, se la risposta al quesito dovesse essere positiva, tale (supposto) dovere giuridico specifico, di contenuto patrimoniale, andrebbe considerato alla stregua di un’obbligazione ex lege e pertanto la relativa violazione darebbe luogo a responsabilità non già aquiliana (come ritenuto dal giudice di merito nel caso testé mentovato), ma contrattuale. Peraltro si può convenire con chi conclude nel senso che tale dovere non è previsto da alcuna delle disposizioni in tema di comunione legale e, d’altra parte, chi scrive ha cercato in altra sede di dimostrare che – contrariamente a quella che è ormai l’opinione prevalente in dottrina e in giurisprudenza – la partecipazione del coniuge non acquirente non è in alcun modo necessaria per l’acquisto personale ai sensi dell’art. 179 cpv. c.c.

La Cassazione, peraltro, dopo alcune oscillazioni, è approdata alla tesi della necessaria partecipazione dell’altro coniuge, così concedendo a quest’ultimo un vero e proprio (potenzialmente anche capriccioso) diritto di veto: cfr. Cass. 24 settembre 2004, n. 19250, in Fam. dir., 2005, p. 12.

 

Un’ipotesi di responsabilità contrattuale potrebbe invece darsi nel caso in cui i coniugi, in regime di separazione, mediante apposito accordo si fossero impegnati a non compiere acquisti di un certo tipo prima della stipula di una convenzione di comunione convenzionale. Il compimento dell’acquisto in violazione del patto impedirebbe la caduta del bene in comunione (a meno che, ovviamente, i coniugi non si accordassero per la stipula di una convenzione comprendente anche tale bene), con conseguente danno per violazione di un’obbligazione ex contractu, ai sensi degli artt. 1218 ss. c.c.

 

Per quanto attiene alla comunione de residuo non vi sono certamente doveri ex lege di conservazione dei beni nel patrimonio di ognuno dei coniugi sino al momento dello scioglimento, ma potrebbero esservene ex contractu. In tal caso, però, le parti dovrebbero prevederli con il rispetto dei requisiti formali ex art. 162 c.c., venendosi così ad alterare una delle caratteristiche proprie dell’istituto in esame, data dalla libera disponibilità dei beni sino al momento dello scioglimento del regime. In tal caso l’alienazione dei beni medesimi, ancorché non sanzionabile ex art. 184 c.c., esporrebbe il coniuge agente a responsabilità contrattuale verso l’altro.

 

 

7. Responsabilità contrattuale ed amministrazione della comunione legale tra coniugi. Responsabilità ex art. 184 c.c. e per mala gestio della comunione.

 

Venendo al profilo dell’amministrazione dei beni in comunione legale, va osservato come un’ipotesi specifica di responsabilità sia rinvenibile nella fattispecie disciplinata dall’art. 184 c.c., che riguarda gli atti compiuti senza il consenso dell’altro coniuge relativamente a beni immobili o mobili registrati. La norma prevede che il coniuge non consenziente possa agire nei confronti del terzo per l’annullabilità dell’atto, così ripristinando la precedente situazione patrimoniale. Tuttavia, se l’atto riguarda un bene mobile non registrato, e quindi l’azione di annullamento non è esperibile, il coniuge che lo ha compiuto è obbligato, ad istanza dell’altro coniuge, a ricostituire la comunione nello stato precedente all’atto non consentito, e, se ciò non è possibile, al pagamento dell’equivalente secondo i valori correnti.

La disposizione si pone quale sanzione per il mancato rispetto di quanto stabilito dall’art. 180 c.c., che prevede il consenso di entrambi i coniugi per il compimento di atti eccedenti l’ordinaria amministrazione.

Come rimarcato in dottrina (Corsi), la norma si occupa, curiosamente, dei soli profili «esterni», per quanto attiene agli atti concernenti i beni immobili o mobili registrati (cfr. i commi primo e secondo), e dei soli rapporti «interni» per quanto riguarda gli altri beni (cfr. il terzo comma). Con particolare riguardo a questi ultimi è previsto un particolare obbligo risarcitorio «in forma specifica» descritto, per l’appunto come segue: «Se gli atti riguardano beni mobili diversi da quelli indicati nel primo comma, il coniuge che li ha compiuti senza il consenso dell’altro è obbligato su istanza di quest’ultimo a ricostruire la comunione nello stato in cui era prima del compimento dell’atto o, qualora ciò non sia possibile, al pagamento dell’equivalente secondo i valori correnti all’epoca della ricostituzione della comunione».

L’art. cit. prevede dunque un vero e proprio risarcimento in forma specifica e, subordinatamente all’impossibilità di questo, un ristoro patrimoniale consistente, per l’appunto, nel «pagamento dell’equivalente secondo i valori correnti all’epoca della ricostituzione della comunione».

 

Nulla è detto, invece, relativamente al risarcimento dell’eventuale danno ulteriore. Sul punto si ritiene da parte di taluno che l’obbligo di recuperare alla comunione il bene alienato senza il consenso dell’altro coniuge – quando questo era necessario – od il suo corrispondente valore economico, esaurisce, se adempiuto, ogni ulteriore conseguenza a carico del coniuge autore dell’atto illegittimamente dispositivo. Ad analoga conclusione perviene parte della dottrina anche nell’ipotesi che il bene non sia più recuperabile e sia corrisposto il pagamento dell’equivalente.

Si deve, tuttavia, dare atto della contraria opinione fondata sulla considerazione che il compimento di un atto di disposizione compiuto da un coniuge senza il necessario consenso dell’altro, perpetrando la violazione di un preciso obbligo legale ed arrecando una lesione al diritto di comproprietà dell’altro coniuge sul bene alienato, costituirebbe un atto illecito da cui conseguirebbe un obbligo di risarcire il danno.

Questo secondo indirizzo risulta sicuramente preferibile

La natura contrattuale della responsabilità in esame va, e con forza, ribadita, per effetto della constatazione secondo cui il coniuge che ha disposto di un bene comune, anche senza appropriarsene materialmente

Cass., 19 marzo 2003, n. 4033, in Foro it., 2003, I, c. 2745, la quale ha stabilito che, per gli atti di disposizione su beni mobili, «l’art. 184, terzo comma, cod. civ. non prevede detto consenso, limitandosi a porre a carico del coniuge che ha effettuato l’atto in questione l’obbligo di ricostituire, ad istanza dell’altro, la comunione nello stato in cui era prima del compimento dell’atto o, qualora ciò non sia possibile, di pagare l’equivalente del bene secondo i valori correnti all’epoca della ricostituzione della comunione, senza stabilire alcuna sanzione di annullabilità o di inefficacia per l’atto compiuto in assenza del consenso del coniuge, atto che resta, pertanto, pienamente valido ed efficace».

 

, viola per ciò solo il disposto dell’art. 180 c.c. e dunque un dovere giuridico specifico (ex lege), avente sicuro contenuto patrimoniale e che, come tale, appare definibile alla stregua di una vera e propria obbligazione, con conseguente applicazione dell’art. 1218 c.c.

 

Si noti che la stessa regola dovrebbe valere non solo per gli atti dispositivi di beni mobili non registrati, ma anche per quelli su beni immobili o mobili registrati, in quanto il coniuge pretermesso non sia riuscito – per una ragione qualsiasi (intervenuto decorso del breve periodo prescrizionale previsto dall’art. 184 cpv. c.c., distruzione del bene stesso, successiva rivendita ad un terzo cui la domanda d’annullamento non sia opponibile) – a recuperare il bene stesso o semplicemente non voglia esperire l’azione d’annullamento. In tal caso si porrebbe peraltro il problema d’un eventuale concorso di colpa, ex art. 1227 c.c., per non avere il coniuge legittimato proposto azione d’annullamento

Cfr. Cass., 26 novembre 1994, n. 10072, in Dir. lav., 1995, II, p. 14, con nota di Facchini, secondo cui «In tema di risarcimento del danno nei rapporti obbligatori, nella nozione di ordinaria diligenza del creditore di cui all’art. 1227, secondo comma, cod. civ., rientra anche il tempestivo esercizio del proprio diritto, ossia l’esercizio non differito fino al limite del termine di prescrizione, qualora il trascorrere del tempo possa determinare un incremento del danno».

 

Per quanto attiene al danno concretamente risarcibile in questa particolare fattispecie si è affermato che qui si potrebbe ipotizzare anche il risarcimento del danno esistenziale per il disagio e lo stress provocato dal comportamento del coniuge che ha effettuato l’atto di disposizione di un bene di valore affettivo: ma la soluzione appare difficilmente conciliabile con il disposto dell’art. 2059 c.c.

 

In conseguenza dell’affermata natura contrattuale del danno in oggetto, l’azione risarcitoria sarà sottoposta al termine prescrizionale generale ex art. 2946 c.c., nonché alla sospensione ex art. 2941, n. 1, c.c.

 

Non appare qui applicabile il rationale di una decisione di legittimità, risalente al 1987, che ha stabilito l’inapplicabilità della sospensione ex art. 2941, n. 1, c.c. all’azione di annullamento, proposta ai sensi dei primi due commi dell’art. 184 c.c., relativamente a beni immobili o mobili registrati.

Cfr. Cass., 22 luglio 1987, n. 6369, in Dir. fam. pers., 1988, I, p. 786; in Giust. civ., 1988, I, p. 135, con nota di M. Finocchiaro: «Con riguardo all’azione di annullamento proposta da un coniuge contro l’atto con cui l’altro coniuge abbia disposto di un bene immobile, oggetto di comunione legale, senza il necessario consenso di esso istante, il termine di un anno, fissato dall’art. 184 secondo comma cod. civ. con decorso dalla data della conoscenza dell’atto stesso, ed in ogni caso dalla data della sua trascrizione non è soggetto alla sospensione nel rapporto fra coniugi contemplata dall’art. 2941 cod. civ. per la prescrizione in considerazione del carattere speciale della prima delle citate norme, e manifestamente non si pone in contrasto con l’art. 24 della costituzione, tenuto conto che il termine medesimo, nonostante la sua brevità, giustificata dal contemperamento delle esigenze del coniuge leso con quelle del terzo, ha consistenza e decorrenza idonee ad assicurare un adeguato esercizio del diritto di difesa».

 

Sempre rimanendo in tema di responsabilità contrattuale collegata ai profili di amministrazione della comunione legale, va detto che un obbligo risarcitorio può sorgere anche a prescindere dalla violazione del dovere giuridico specifico di ottenere il consenso dell’altro coniuge per l’alienazione dei beni della comunione (così come dell’obbligo di contribuzione), qualora un coniuge abbia male amministrato i beni della comunione.

Al riguardo, l’art. 193 c.c. prevede che la separazione giudiziale dei beni possa essere pronunciata anche nel caso di cattiva amministrazione della comunione (primo comma); inoltre, lo stesso articolo dispone che la separazione dei beni possa essere pronunziata quando «il disordine degli affari di uno dei coniugi o la condotta da questi tenuta nell’amministrazione dei beni mette in pericolo gli interessi dell’altro o della comunione o della famiglia oppure quando uno dei coniugi non contribuisce ai bisogni di questa in misura proporzionale alle proprie sostanze e capacità di lavoro» (cfr. art. 193 cpv. c.c.).

Appare evidente che, nel caso in cui la cattiva amministrazione, da parte di un coniuge, abbia cagionato un pregiudizio all’altro, quest’ultimo avrà azione per il risarcimento del danno, a prescindere dalla proposizione della domanda di cui all’art. 193 c.c. Tale azione può essere proposta anche quando, a causa della cattiva amministrazione, i creditori, ai sensi dell’art. 190 c.c., agiscono sui beni personali di ciascun coniuge, allorché i beni della comunione non sono sufficienti a soddisfare i debiti gravanti su di essa.

Anche la responsabilità in discorso può dirsi di natura contrattuale, derivando dalla violazione del dovere giuridico specifico, esistente ex lege tra coniugi in comunione legale (e desumibile dal citato art. 193 c.c.), di gestire in maniera «non disordinata» la comunione legale.

 

 

8. Responsabilità contrattuale e scioglimento della comunione legale tra coniugi. Rimborsi e restituzioni ex art. 192 c.c.

 

Precisi rapporti obbligatori aventi contenuto patrimoniale sono poi riscontrabili tra i coniugi nella fase dello scioglimento del regime.

In particolare, l’art. 192 c.c. dispone che «ciascuno dei coniugi è tenuto a rimborsare alla comunione le somme prelevate dal patrimonio comune per fini diversi dall’adempimento delle obbligazioni previste dall’art. 186».

Ai sensi del secondo comma, ognuno dei coniugi «E’ tenuto altresì a rimborsare il valore dei beni di cui all’articolo 189, a meno che, trattandosi di atto di straordinaria amministrazione da lui compiuto, dimostri che l’atto stesso sia stato vantaggioso per la comunione o abbia soddisfatto una necessità della famiglia».

Il terzo comma della disposizione citata prevede poi che «ciascuno dei coniugi può richiedere la restituzione delle somme prelevate dal patrimonio personale ed impiegate in spese ed investimenti del patrimonio comune».

Ai sensi del quarto comma, «I rimborsi e le restituzioni si effettuano al momento dello scioglimento della comunione; tuttavia il giudice può autorizzarli in un momento anteriore se l’interesse della famiglia lo esige o lo consente». Infine, l’ultimo capoverso prevede che «Il coniuge che risulta creditore può chiedere di prelevare beni comuni sino a concorrenza del proprio credito, in caso di dissenso si applica il quarto comma. I prelievi si effettuano sul denaro, quindi sui mobili e infine sugli immobili».

Rinviando alle trattazioni monografiche sul tema per i necessari approfondimenti, si dovrà precisare che, mentre con il termine «rimborsi» si indicano quelle obbligazioni aventi ad oggetto somme che il singolo coniuge deve rifondere «alla comunione», cioè a dire, in buona sostanza, per metà all’altro coniuge, con l’espressione «restituzioni» vengono designate quelle obbligazioni che vedono il singolo coniuge creditore «nei confronti della comunione» (e dunque, per metà dell’altro coniuge) della rifusione di spese dallo stesso effettuate a vantaggio della massa (già) sottoposta al regime legale.

Ora, il principale problema ermeneutico posto dalla materia dei rimborsi contemplati dai primi due commi dell’art. 192 c.c. concerne i suoi rapporti con l’azione risarcitoria ai sensi dell’ult. cpv. dell’art. 184 c.c.: trattasi di figure  i cui reciproci contorni non sembrano poi così nitidi, se è vero che esse vengono da molti presentate come tra di loro fungibili..

Ora, se nessun dubbio può sollevarsi sul fatto che l’operatività dell’art. 192, primo comma, c.c. è circoscritta  alle somme di denaro, è altrettanto indubbio che tra gli atti per i quali è necessario il consenso di entrambi i coniugi rientrano pure quelli di disposizione del (bene mobile costituito dal) denaro comune: ne deriva dunque una possibilità di sovrapposizione tra le due fattispecie in relazione a tutte le ipotesi in cui un coniuge si sia appropriato di denaro comune.

La soluzione che appare preferibile, assegna invece alle norme due diversi campi d’azione anche in relazione agli atti dispositivi di somme di denaro: l’elemento differenziatore è qui dato dal fatto che l’art. 184, ult. cpv., c.c. prende pur sempre le mosse dal presupposto che il coniuge agente abbia posto in essere un atto senza l’accordo richiesto dall’art. 180 c.c. Ne consegue che la sfera d’azione dell’art. 192, primo comma, c.c. si riduce ai prelievi consentiti dall’altro coniuge. 

Sarà appena il caso di rilevare come, da un punto di vista più generale, la delimitazione delle sfere di operatività delle due discipline appaia indispensabile anche in relazione ad una cospicua serie di conseguenze pratiche:

·       si pensi, tanto per fare due esempi, all’individuazione del  momento in cui i rispettivi diritti possono essere esercitati (immediatamente quello ex art. 184 c.c., di regola solo al momento dello scioglimento quello nascente dall’art. 192 c.c.),

·       al termine di prescrizione, se si dovesse seguire la tesi prospettata da una parte della dottrina – ma rigettata dallo scrivente – circa la natura aquiliana dell’illecito di cui all’art. 184 c.c.

 

Fatte queste precisazioni potrà concludersi sul punto rilevando che, in caso di atto dispositivo di denaro comune compiuto da un solo coniuge senza il consenso dell’altro, a quest’ultimo sarà consentito agire ex art. 184, ult. cpv., c.c. per la sola quota di sua spettanza, dimostrando (e il relativo onere graverà su di lui) il carattere comune del denaro prelevato. Il credito in questione è senz’altro di valore.

Il coniuge «consenziente» non potrà invece agire se non una volta sciolta la comunione, salvo che il giudice autorizzi il rimborso (art. 192, quarto comma, c.c.) «in un momento anteriore se l’interesse della famiglia lo esige o lo consente».

 

Ciò detto potrà concludersi sul tema rilevandosi come i rimborsi e le restituzioni ex art. 192 c.c. formino comunque oggetto di una vera e propria obbligazione ex lege da atto (questa volta, e a differenza di quanto stabilito dall’art. 184 c.c.) lecito, con applicabilità, per l’ipotesi di mancata loro effettuazione (e, questa volta, conformemente al caso descritto dall’art. 184 c.c., secondo l’interpretazione proposta dallo scrivente), della disciplina ex art. 1218 c.c., nonché della prescrizione ordinaria ex art. 2946 c.c.

 

Si noti che un’altra obbligazione restitutoria, rispetto a quelle descritte dall’art. 192 c.c., può nascere a carico del singolo coniuge al momento della divisione del patrimonio già in comunione legale, a seguito dell’intervenuto scioglimento ex art. 191 c.c., relativamente al corrispettivo pro quota del godimento che un coniuge abbia in via esclusiva avuto di beni fruttiferi comuni. 

In proposito, infatti, la Cassazione ha stabilito che «All’esito dello scioglimento della comunione legale ciascun coniuge può domandare la divisione del patrimonio comune, da effettuarsi secondo i criteri stabiliti agli artt. 192 e 194 c.c., e il coniuge rimasto nel possesso esclusivo dei beni fruttiferi (nel caso, bene immobile) già appartenenti alla comunione legale è tenuto, in base ai principi generali (art. 820, terzo comma, c.c.), al pagamento, in favore dell’altro coniuge, del corrispettivo pro quota di tale godimento, quali frutti spettanti ex lege, a prescindere da comportamenti leciti o illeciti altrui. Tali frutti civili si acquistano giorno per giorno in ragione della durata del diritto (art. 821, terzo comma, c.c.), a far data dalla domanda di divisione, quale momento d’insorgenza del debito di restituzione (pro quota) del bene medesimo (art. 1148 c.c.). (La S.C., dando atto che la corte di merito, facendo esercizio dei poteri ad essa spettanti, aveva nell’impugnata sentenza correttamente interpretato la domanda, dall’appellante incidentale erroneamente qualificata come di risarcimento danni, ha enunciato il principio di cui in massima)».

Cass., 24 maggio 2005, n. 10896, in Vita notar., 2005, I, p. 1524.

 

E’ evidente, dunque, che pure la mancata restituzione dei frutti per il periodo indicato esporrà il coniuge percettore dei medesimi a responsabilità contrattuale per inadempimento di un’obbligazione di fonte legale.

 

Lo stesso è a dirsi per quanto attiene al già ricordato credito alla restituzione delle somme prelevate dal patrimonio personale ed impiegate in spese ed investimenti del patrimonio comune: credito spettante al coniuge ai sensi dell’art. 192, terzo comma, c.c. all’esito dello scioglimento della comunione legale. In relazione a questa ipotesi la medesima sentenza testé citata ha stabilito che tale rapporto è di natura nominalistica (art. 1277 c.c.), essendo determinato nel suo ammontare all’atto della divisione, previa ripartizione in parti uguali tra i condividenti delle passività di cui all’art. 186 c.c., e diventando da tale momento liquido ed esigibile. Come tale, il credito in questione produce interessi ex art. 1282 c.c., salvo il diritto alla rivalutazione monetaria in caso di prova di sofferto danno maggiore di quello dai medesimi interessi coperto (art. 1224 c.c.) (Cfr. Cass., 24 maggio 2005, n. 10896).

 

 

9. Responsabilità contrattuale e regime di separazione dei beni. L’esistenza di un mandato ad amministrare.

 

Azioni per il risarcimento del danno inter coniuges sulla base di ipotesi di responsabilità contrattuale possono derivare anche

·       in regime di separazione dei beni (art. 217 c.c.),

·       oppure in regime di comunione, ma con riguardo all’amministrazione, da parte di un coniuge, dei beni personali dell’altro (art. 185 c.c., che richiama l’art. 217 c.c.).

Si tratta di ipotesi destinate ad assumere un peso statistico sempre più rilevante, a fronte della vera e propria «fuga» delle nuove coppie italiane dal regime di comunione dei beni, dallo scrivente segnalata in altre sedi.

Al riguardo stabilisce l’art. 217 cpv. c.c. che «Se ad uno dei coniugi è stata conferita la procura ad amministrare i beni dell’altro con l’obbligo di rendere conto dei frutti, egli è tenuto verso l’altro coniuge secondo le regole del mandato». Ai sensi del terzo comma, «Se uno dei coniugi ha amministrato i beni dell’altro con procura senza l’obbligo di rendere conto dei frutti, egli ed i suoi eredi, a richiesta dell’altro coniuge o allo scioglimento o alla cessazione degli effetti civili del matrimonio, sono tenuti a consegnare i frutti esistenti e non rispondono per quelli consumati».

Il capoverso dell’art. 217 c.c. prende dunque in esame il caso in cui ad uno dei coniugi sia stata conferita la procura ad amministrare i beni dell’altro con l’obbligo di rendere conto dei frutti, mentre nel successivo terzo comma viene contemplata l’ipotesi in cui uno dei coniugi abbia amministrato i beni dell’altro con procura, ma senza l’obbligo di rendere conto dei frutti.

Tra i dubbi principali spicca la riferibilità dell’art. 217 cpv. c.c. non solo al caso del mandato con rappresentanza, ma, come appare preferibile, anche a quello del mandato senza rappresentanza, come d’altronde induce a ritenere il richiamo all’obbligo a rendere conto di frutti (1713 c.c.). Per quanto concerne invece la forma dell’eventuale procura, dovrà farsi richiamo alla regola generale di cui all’art. 1392 c.c.

 

In base all’art. 217, secondo comma, c.c., se è stato convenuto l’obbligo di rendiconto, il coniuge amministratore sarà tenuto verso l’altro secondo le regole del mandato. Troverà quindi applicazione in primo luogo l’art. 1710, primo comma, c.c., in base al quale il mandatario deve eseguire il mandato con la diligenza del buon padre di famiglia: da quanto detto si arriva dunque alla conclusione che il coniuge sarà responsabile qualora ometta colposamente di percepire i frutti dei beni affidatigli, oppure ne cagioni il perimento o il deterioramento. Il coniuge sarà anche tenuto a corrispondere gli interessi legali sulle somme riscosse (art. 1714 c.c.) e a provvedere alla custodia dei beni (art. 1718 c.c.).

 

Ai sensi dell’art. 217, terzo comma, c.c., qualora non sia stato convenuto l’obbligo di rendere conto dei frutti, il coniuge amministratore e i suoi eredi, a richiesta dell’altro coniuge o al momento del scioglimento o alla cessazione degli effetti civili del matrimonio, saranno tenuti a consegnare unicamente i frutti esistenti e non risponderanno invece per quelli che siano già stati consumati.

 

Venendo ai caratteri che il mandato ad amministrare conferito da un coniuge all’altro deve avere affinché possano trovare applicazione le norme di cui all’art. 217, cpv. e terzo comma, c.c., potrà riassuntivamente dirsi che la tesi preferibile appare quella che riferisce la disposizione predetta tanto al mandato generale che a quello speciale eventualmente conferito da un coniuge all’altro, purché si tratti di mandato sempre revocabile.

 

In base alla norma generale di cui all’art. 1709 c.c. il mandato si presume oneroso: si tratta quindi di stabilire se detto principio possa essere applicato anche relativamente ai casi previsti dall’art. 217, secondo e terzo comma, c.c.

Parte della dottrina opta per la soluzione affermativa, dedotta dalla citata regola generale, sostenendo che il coniuge amministratore avrà diritto ad un compenso. In senso contrario si è osservato che la presunzione di onerosità può in via generale essere vinta sia offrendo la prova di un patto contrario, sia nei casi in cui il carattere gratuito possa desumersi dalle circostanze e dal comportamento delle parti. Visto che normalmente si accetta di amministrare i beni del proprio coniuge per spirito di solidarietà, in adempimento del dovere di collaborazione nell’interesse della famiglia, sembra preferibile presumere che il mandato conferito da un coniuge all’altro sia gratuito, tanto più che la presunzione di onerosità fissata dall’art. 1709 c.c. non ha certo carattere assoluto, cosicché la responsabilità per colpa andrà valutata con minor rigore ai sensi dell’art. 1710, primo comma, c.c.

 

 

10. Segue. Responsabilità per il compimento di atti di amministrazione nonostante l’opposizione dell’altro coniuge.

 

L’art. 217, quarto comma, c.c., prende in considerazione l’ipotesi in cui uno dei coniugi, nonostante l’opposizione dell’altro, amministri i beni di questo o comunque compia atti relativi a tali beni, stabilendo che egli risponde dei danni cagionati e della mancata percezione dei frutti. Trattasi, come rilevato in dottrina, di previsione superflua, perché pone a carico del coniuge in questione l’obbligo di risarcimento del danno, conformemente ai principi generali in materia di fatto illecito.

 

La disposizione fa riferimento ad una condotta illecita del coniuge, che può consistere in uno o più atti di amministrazione, di godimento, di disposizione (ad esempio di alienazione di beni mobili, che possono essere efficaci in base all’art. 1153 c.c.), oppure nell’inosservanza della diligenza richiesta per assicurare la custodia o la manutenzione o l’efficienza produttiva dei beni, o ancora nella consumazione o nella mancata percezione dei frutti.

Trattasi peraltro di ipotesi di responsabilità aquiliana, per violazione del diritto soggettivo all’integrità del patrimonio, anche se l’esistenza di un rapporto di coniugio inter partes viene sicuramente ad agevolare, di fatto, il verificarsi di siffatte situazioni. Ne consegue che all’obbligo di risarcire i danni si applicheranno le usuali regole relative all’illecito extracontrattuale. Gli altri danni, diversi dalla mancata percezione dei frutti, cui fa riferimento l’art. 217, quarto comma, c.c., saranno gli eventuali danni materiali che i beni abbiano subito.

 

 

11. Segue. Le obbligazioni a carico del coniuge che gode dei beni dell’altro e la relativa responsabilità.

 

L’art. 218 c.c. si occupa, sempre in relazione ai coniugi in regime di separazione, dell’ipotesi in cui uno goda dei beni dell’altro, stabilendo a carico del primo l’applicabilità delle obbligazioni che la legge pone a carico dell’usufruttuario. Ne consegue che tale coniuge risponderà, in caso di mancato adempimento ad uno o più di tali obblighi, ai sensi degli artt. 1218 ss. c.c. La dottrina rileva in proposito che la prescrizione in commento costituisce il naturale completamento dell’art. 217 c.c.: come, invero, l’art. 217 c.c. attiene al compimento di atti giuridici coinvolgenti il patrimonio dell’altro coniuge, così l’art. 218 c.c. investe il profilo del godimento materiale.

Non vi è poi dubbio sul fatto che i coniugi, nell’esercizio dell’autonomia che viene riconosciuta loro dall’ordinamento, possano anche concedersi il diritto d’usufrutto (o di abitazione) su uno o più beni: in tal caso si dovrà riconoscere la diretta applicabilità della relativa normativa.

Le obbligazioni a carico del coniuge che gode dei beni dell’altro sono, secondo l’opinione prevalente, quelle di cui agli artt. 981, 1001, 1002, 1004, 1005, terzo comma, 1008, 1009, 1012 e 1013 c.c.

 

Il riferimento limitato alle sole obbligazioni – e non anche ai diritti – nascenti dall’usufrutto esclude la possibilità di assimilare la posizione del coniuge a quella di un vero e proprio usufruttuario.

D’altro canto, in dottrina si afferma che anche le norme dettate in materia di obbligazioni nascenti dall’usufrutto sono applicabili solo in quanto compatibili con la peculiarità della situazione. In particolare si ritiene unanimemente applicabile l’art. 1001 c.c., che impone l’obbligo di usare la diligenza del buon padre di famiglia nel godimento del bene.

Alcuni Autori, invece, ritengono non applicabile l’art. 1002 c.c. sull’obbligo di redigere l’inventario e di prestare idonea garanzia, in considerazione del tipo di rapporto intercorrente fra le parti e della naturale spontaneità che caratterizza tale situazione.

Più convincente appare peraltro il parere della dottrina maggioritaria, favorevole all’estensione al coniuge degli obblighi di redigere l’inventario e di prestare idonea garanzia, di fronte alla evidente assenza sul punto di dati testuali che consentano di pervenire all’opposta soluzione. Né d’altro canto appare possibile escludere l’applicabilità della norma in oggetto sulla base del rilievo per cui la già avvenuta ingerenza del coniuge sui beni dell’altro non lascerebbe spazio né per l’inventario né per la garanzia. Il godimento potrebbe, invero, protrarsi anche per un lungo periodo e che il coniuge proprietario potrebbe avere interesse, magari in una situazione in cui i reciproci diritti non appaiono ancora accertati con sufficiente certezza, a premunirsi in tal modo (cioè, appunto, mediante la predisposizione dell’inventario e la concessione di idonea garanzia) contro possibili abusi.

 

La dottrina reputa altresì applicabili, come si diceva,

·       gli artt. 1004 e 1005, terzo comma, c.c., relativi alle spese,

·       gli artt. 1008 e 1009 c.c., in tema di imposte e pesi,

·       l’art. 1013 c.c., in tema di concorrenza nelle spese delle liti.

 

A parere di chi scrive, neppure la considerazione del particolare rapporto di coniugio esistente tra le parti, con il conseguente inderogabile dovere di contribuire ai bisogni della famiglia e la relativa regola dell’accordo, consente di escludere l’applicabilità delle disposizioni da ultimo citate, specie di fronte al carattere assolutamente generale del rinvio operato dall’art. 218 c.c. alle disposizioni (tutte, senza eccezione alcuna) in tema di obblighi dell’usufruttuario.

Senza dubbio, poi, sarà applicabile l’art. 1012 c.c., in materia di denuncia delle altrui usurpazioni.

La dottrina pressoché uniforme afferma poi la necessità che venga osservato il disposto dell’art. 981, primo comma, c.c., che impone all’usufruttuario di non alterare la destinazione economica del bene.

 

 

12. Segue. L’obbligo di indennizzare il coniuge che abbia apportato miglioramenti o addizioni ai beni dell’altro.

 

Un’ulteriore forma di responsabilità contrattuale per i coniugi in regime di separazione dei beni può darsi nel caso di inadempimento all’obbligazione ex lege che può gravare su di un coniuge, avente ad oggetto l’indennizzo, in favore dell’altro per i miglioramenti e le addizioni da quest’ultimo apportati a beni del primo.

L’art. 218 c.c. non prende in considerazione l’eventualità che un coniuge, godendo dei beni dell’altro, o comunque per effetto di intromissione nella sfera patrimoniale di quest’ultimo, abbia apportato miglioramenti o addizioni. Si pone qui il problema di sapere se per tali miglioramenti o addizioni sia dovuta una qualche forma di indennizzo.

In primo luogo andrà ricordato che tra coniugi esiste un preciso dovere di contribuzione «ai bisogni della famiglia» che l’art. 143, terzo comma, c.c. parametra «alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo». Si pone dunque il problema se, nell’ipotesi in cui il coniuge sostenga di tasca propria le spese per effettuare migliorie o addizioni sui beni dell’altro, in adempimento del proprio obbligo di contribuzione, sulla base di un accordo precedente circa le modalità di ripartizione fra entrambi dell’onere contributivo stesso (si pensi ad esempio al caso in cui i coniugi abbiano concordato di dividersi le spese per la ristrutturazione della casa coniugale appartenente al solo marito), l’indennizzo debba ritenersi escluso.

Applicando questo principio, una decisione di merito ha respinto la richiesta di pagamento per le prestazioni professionali rese, avanzata dal marito architetto il quale si era dato carico di svolgere tutte le attività occorrenti per la ristrutturazione della casa coniugale, appartenente alla sola moglie. Considerando l’attività svolta come prestazione non contrattuale posta in essere nell’interesse della famiglia da ricondursi all’adempimento dell’obbligo di contribuzione, il giudice ne ha così affermato la totale gratuità (cfr. Trib. Napoli, 4 luglio 2001, in Fam. dir., 2002).

In precedenza la Corte Suprema aveva invece riconosciuto la possibilità di ottenere un’indennità ex art. 1150 c.c. per il contributo in denaro fornito dalla moglie al marito per il restauro della casa di quest’ultimo adibita a residenza familiare, pur avendo affermato che tale contributo era stato prestato in adempimento dell’obbligo di contribuzione di cui all’art. 143 c.c. (Cass., 26 maggio 1995, n. 5866, in Dir. fam. pers., 1997, p. 87).

 

La soluzione del problema dovrà trovarsi, in linea di massima, nelle norme in tema di gestione d’affari altrui, salvi i casi in cui nel comportamento tollerante sia eventualmente possibile ravvisare gli estremi di un mandato tacito (nel qual caso dovrebbe essere applicato l’art. 1720, primo comma, c.c.). La norma di riferimento dovrebbe dunque essere costituita, in linea generale, dall’art. 2031, primo comma, c.c., che impone all’interessato, qualora la gestione sia stata utilmente iniziata, di rimborsare al gestore tutte le spese necessarie o utili, con gli interessi dal giorno in cui le spese sono state fatte.

Queste conclusioni paiono ricevere conforto da quella giurisprudenza che riconduce proprio al paradigma della gestione d’affari altrui le spese affrontate da un coniuge che abbia integralmente adempiuto all’obbligo di mantenimento dei figli pure per la quota facente capo all’altro.

Cfr., ex multis, Cass., 11 novembre 1978, n. 5169; Cass., 25 maggio 1981, n. 3416; Cass., 1 giugno 1982, n. 3344; Cass., 8 marzo 1983, n. 1687;  Cass., 19 marzo 1984, n. 1862; Cass., 21 giugno 1984, n. 3660; Cass., 16 marzo 1990, n. 2199; Cass., 11 luglio 1990, n. 7211; Cass., 12 marzo 1992, n. 3019; Cass., 5 dicembre 1996, n. 10849; Cass., 4 settembre 1999, n. 9386.

 

Sempre secondo la predetta impostazione, se il coniuge abbia agito senza procura o con l’opposizione dell’altro, in virtù dell’art. 2031, secondo comma, c.c. – che esclude che si possa procedere al rimborso integrale con gli interessi qualora gli atti di gestione siano stati eseguiti contro il divieto dell’interessato – non potrà, invece, farsi riferimento alla normativa in materia di gestione d’affari.

 

E’ dunque chiaro che, ogni qualvolta si dovrà ravvisare nella fattispecie gli estremi di un’obbligazione da gestione d’affari altrui, la relativa violazione seguirà le regole dell’illecito contrattuale, ex artt. 1218 ss. c.c.

 

Ancora diversa è la questione se tra coniugi, così come tra conviventi more uxorio, possano darsi ipotesi di arricchimento ingiustificato. E’ ovvio che, nei casi e per le fattispecie in cui dovessero ritenersi configurabili obbligazioni ex art. 2041 c.c., le relative inadempienze darebbero luogo a responsabilità contrattuale.

o    Siffatti casi andranno rinvenuti soprattutto nelle ipotesi in cui un coniuge si sia arricchito per essersi ingerito nella sfera patrimoniale dell’altro, ovviamente ove non ricorrano dolo o colpa (altrimenti si verterebbe nel caso previsto dall’art. 2043 c.c.): si pensi a casi di gestione patrimoniale complessa, di svariati conti bancari, ecc.

o    Più complessa è la risposta all’interrogativo se sia ammesso il rimedio dell’arricchimento per le utilità conseguite allorquando è l’impoverito che si è ingerito nella sfera patrimoniale dell’altro coniuge, apportandovi vantaggi.


 

Qui sembra doversi escludere il rimedio in oggetto, in relazione a quelle prestazioni lavorative che eventualmente superassero la misura del dovere di contribuzione fissata dall’art. 143 c.c. Sembra, infatti, che il contesto nel quale le prestazioni in discorso si vengono a collocare non possa dirsi caratterizzato dall’onerosità, se si eccettuano, naturalmente, le prestazioni riconducibili alla fattispecie descritta dall’art. 230-bis c.c., nonché quelle riferibili a specifici rapporti obbligatori quali quello lavorativo o societario.

Come accade nelle relazioni more uxorio, per le prestazioni di facere eccedenti la misura della contribuzione in forza dell’obbligazione naturale parametrata sul criterio posto (per i coniugi) dall’art. 143 c.c., anche nell’ambito della famiglia legittima dovrà trovare applicazione il principio che, al fine di escludere lo scambio imposto, nega l’azione di arricchimento ingiustificato a chi si sia impoverito spontaneamente ingerendosi nella sfera patrimoniale altrui. Andrà dunque escluso il rimedio in oggetto, nell’ambito delle relazioni matrimoniali, con riguardo a quelle prestazioni lavorative che eventualmente superassero la misura del dovere di contribuzione fissata – questa volta sub specie obligationis civilis – dall’art. 143 c.c. Se si parte dal presupposto, infatti, che qui l’adempimento reciproco del dovere di contribuzione è comunque garantito dalla natura «civile» (e non naturale) della relativa obbligazione, pare, invero, potersi concludere che il contesto nel quale le prestazioni in discorso (cioè, si ripete, quelle di facere eccedenti la contribuzione fissata dall’art. 143 c.c.) si vengono a collocare non possa dirsi caratterizzato dall’onerosità, cioè dalla ragionevole aspettativa, in capo a chi presta, conoscibile dalla controparte, che pure il beneficiario di tali prestazioni effettuerà contribuzioni in misura superiore al limite di cui al citato art. 143. Ne consegue che, proprio per l’assenza di un «affidamento» dell’impoverito, conosciuto o conoscibile dalla controparte, nell’onerosità dell’attività prestata, il rimedio ex art. 2041 c.c. dovrebbe essere negato.

Neppure sembra potersi lasciare spazio alla categoria delle obbligazioni naturali, atteso che quei doveri morali e sociali cui il vincolo matrimoniale dà vita sono stati trasfusi dal legislatore nel (positivo e «civile») regime primario della famiglia, per cui non residua alcuno «spazio libero» per obbligazioni che non siano azionabili, ma unicamente legate al fenomeno della soluti retentio.

         Quanto sopra non esclude – come si è già detto – che il rapporto possa eventualmente reperire un suo idoneo inquadramento in una diversa fattispecie, quale, ad esempio, quella descritta dall’art. 230-bis c.c., oppure quelle riferibili al rapporto lavorativo (subordinato o parasubordinato), ovvero societario. Questione, tale ultima, che, del resto, andrebbe comunque esaminata per prima, avendo il rimedio dell’arricchimento ingiustificato carattere meramente residuale.

 

 

13. Responsabilità contrattuale e crisi coniugale.

 

Svariate sono le fattispecie in cui si può ipotizzare la presenza di una responsabilità contrattuale inter coniuges per violazione di obbligazioni nascenti dalla situazione di crisi coniugale. La mente corre qui, in primo luogo,

·       al contributo per il mantenimento del coniuge separato ex art. 156 c.c.,

·       all’assegno di divorzio ai sensi dell’art. 5 l.div.,

·       o, ancora, alle prestazioni patrimoniali dovute ai sensi degli artt. 129 e 129-bis c.c. per il caso di invalidità del vincolo.

 

Ciò che preme sottolineare è che la natura contrattuale della responsabilità per inadempimento di una qualsiasi di siffatte prestazioni si giustifica non solo nel caso in cui queste siano determinate da un contratto della crisi coniugale, ma anche nell’ipotesi in cui esse siano previste da una statuizione giudiziale, definitiva o provvisoria che sia. Anche qui, invero, si può parlare di obbligazione nel senso proprio del termine, come dimostrato dal fatto che la giurisprudenza non esita a fare applicazione, a tutela della posizione del coniuge titolare del credito a titolo di mantenimento o di assegno divorzile, del più classico degli strumenti a protezione del creditore (di un’obbligazione) nei confronti degli atti fraudolenti posti in essere dal debitore: vale a dire l’azione revocatoria.

Cfr. Trib. Milano, 22 luglio 1993, in Gius, 1994, p. 98: «È ammissibile l’azione revocatoria proposta dalla moglie, anche per conto del figlio minore, nei confronti del marito il quale abbia venduto la casa coniugale ad un terzo recando pregiudizio sia al diritto al mantenimento nascente del matrimonio sia al diritto di credito da determinare in sede di separazione. (Nella specie è stato ritenuto che al momento della vendita sussistessero da parte del debitore e del terzo sia il consilium fraudis, relativo all’attuale diritto al mantenimento, che la dolosa preordinazione, relativa al futuro diritto di credito nascente dalla separazione, posto che per quanto riguarda il debitore la vendita risultava di quattro giorni successiva all’allontanamento della moglie dalla casa coniugale a seguito di pesanti contrasti familiari, e di un solo giorno antecedente la data apposta in calce al ricorso per separazione personale proposto dal marito e per quanto riguarda il terzo acquirente questi era risultato essere la moglie dell’avvocato che assisteva il coniuge cedente nel giudizio di separazione)».

 

D’altro canto, la stessa giurisprudenza non ha difficoltà ad ammettere la risarcibilità del danno conseguente all’inadempimento di siffatto tipo di obbligazioni.

Cfr. App. Perugia, 8 marzo 1986, in Dir. fam. pers., 1989, I, p. 102: «L’inadempimento dell’obbligazione alimentare, tra coniugi separati, è soggetto alla medesima disciplina che regola l’inadempimento delle obbligazioni in genere. Nel caso in cui detta obbligazione sia consacrata in un titolo esecutivo, quale il provvedimento emesso dal presidente del tribunale nella fase preliminare del giudizio di separazione personale, il coniuge creditore può pertanto, a sua scelta, agire esecutivamente per conseguire l’esatta prestazione di quanto a lui dovuto, oppure agire per il risarcimento del danno, al fine di ottenere una prestazione in denaro equivalente a quella dovuta, qualora la prestazione abbia per oggetto una somministrazione imprecisata e non agevolmente determinabile, al coniuge creditore non rimane che avvalersi dell’azione risarcitoria».

 

Naturalmente, quanto sopra vale pure con riguardo al caso in cui le parti abbiano eventualmente stabilito che la corresponsione dei contributi in oggetto sia compiuta in una delle svariate modalità «non tradizionali»:

·       dalla fissazione del quantum in misura «fluttuante», legata al reddito dell’obbligato,

·       alla determinazione in termini non monetari,

·       all’attribuzione diretta di redditi o proventi dell’obbligato, all’effettuazione di rimborsi di spese, alla diretta somministrazione dei mezzi di sussistenza,

·       al pagamento diretto del canone di locazione e delle spese accessorie,

·       alla corresponsione di beni in natura.

 

Con particolare riguardo a quest’ultima ipotesi potrà ricordarsi che il trasferimento di diritti su beni, mobili o immobili, in sede di contratto della crisi coniugale – ormai pacificamente ammesso – ove non attuato con effetto reale, può compiersi per il tramite di un impegno assunto in sede di accordo di separazione o divorzio e successivamente adempiuto con distinto e separato negozio attuativo.

 

Anche l’eventuale inadempimento di tale obbligazione può dar luogo a responsabilità contrattuale, salvo il rimedio specifico contemplato nell’art. 2932 c.c. Conformemente a quanto sopra illustrato, deve però ritenersi che la parte in favore della quale l’impegno traslativo era stato assunto, possa optare per il risarcimento del danno (contrattuale) nelle forme ordinarie, rinunziando al rimedio specifico, oppure agire ex artt. 1218 ss. c.c., in concorso con l’azione ai sensi dell’art. 2932 c.c., quando il danno di cui si intenda chiedere il risarcimento sia, ad esempio, quello da ritardo, per la mancata disponibilità del bene per un determinato periodo.

 

A prescindere dai rimedi risarcitori ex artt. 1218 ss. c.c., le obbligazioni qui in discorso sono rafforzate da una serie di garanzie speciali a tutela dell’adempimento degli obblighi di carattere pecuniario derivanti dalla separazione e dal divorzio:

·       obbligo di prestare idonea garanzia reale o personale,

·       iscrizione dell’ipoteca giudiziale ai sensi dell’ articolo 2818 c.c.,

·       sequestro di parte dei beni del coniuge obbligato,

·       ordine ai terzi, tenuti a corrispondere anche periodicamente somme di danaro all’obbligato, che una parte di esse venga versata direttamente agli aventi diritto, ex artt. 156, quarto, quinto e sesto comma, c.c., 8, primo, secondo e settimo comma, l.div.,

·       distrazione dei redditi ed azione diretta esecutiva ex art. 8, terzo, quarto, quinto e sesto comma, l.div.

 

Dovrà poi ammettersi che i coniugi, nell’ambito di un contratto della crisi coniugale, aggiungano alle garanzie predisposte dal legislatore ulteriori mezzi di tutela preventiva e coazione all’adempimento non previsti dalle speciali norme dettate per la separazione o il divorzio. Nulla esclude invero (ed anzi l’esperienza delle controversie in materia di crisi coniugale sembra caldamente suggerirlo) che i coniugi prevedano la dazione di una caparra confirmatoria, ovvero il pagamento di una penale, magari nella forma di penalità di mora determinate sulla base dei giorni di ritardo, in relazione all’adempimento dell’assegno di separazione o di divorzio, ovvero di altre prestazioni di tipo patrimoniale.

 

Un’ulteriore forma di garanzia è infine rappresentata dal vincolo ex art. 2645-ter c.c.

In particolare potrà qui dirsi che una recente decisione di merito è arrivata ad ammettere la norma citata consenta l’effettuazione di un atto traslativo a beneficio del coniuge (o ex tale), ma nell’interesse della prole, mercé apposito vincolo ad essa imposto.

 

 

14. Responsabilità contrattuale e doveri dei genitori.

 

Come nei rapporti tra coniugi ex art. 143 c.c., anche nelle relazioni tra genitori e figli i primari doveri che vengono in considerazione in forza degli artt. 30 Cost., 147 e 148 c.c. presentano eminenti profili di non patrimonialità. Di conseguenza si dovrà fare rinvio a quanto già illustrato circa la non ravvisabilità di una responsabilità ex artt. 1218 ss. c.c per il caso di eventuale violazione di siffatti doveri.

 

Sarà però necessario rilevare in questa sede come la violazione del dovere di mantenimento della prole, in quanto relativa ad un obbligo eminentemente patrimoniale, ancorché di fonte legale, non possa sottrarsi alla categoria dell’illecito contrattuale.

Peraltro, un precedente di legittimità risalente al 2000 ha affermato la responsabilità aquiliana del padre naturale che, successivamente alla dichiarazione giudiziale, per anni aveva ostinatamente rifiutato di corrispondere al figlio i mezzi di sussistenza; al riguardo la Corte ha riconosciuto la «lesione in sé» di fondamentali diritti della persona inerenti alla qualità di figlio e di minore, affermando che l’art. 2043 c.c., correlato agli articoli 2 ss. Cost., va necessariamente esteso fino a ricomprendere il risarcimento non solo dei danni in senso stretto patrimoniali, ma di tutti i danni che almeno potenzialmente ostacolano le attività realizzatrici della persona umana, con la conseguenza che la lesione di diritti di rilevanza costituzionale va incontro alla sanzione risarcitoria per il fatto in sé della lesione (danno evento), indipendentemente dalle eventuali ricadute patrimoniali che la stessa possa comportare (danno conseguenza) (cfr. Cass., 7 giugno 2000, n. 7713, in Fam. dir., 2001, p. 159).

La lettura della motivazione della pronunzia consente peraltro di accertare che il genitore aveva in effetti corrisposto tutto quanto da lui dovuto a titolo di mantenimento, seppure in ritardo. La lesione lamentata non riguardava il profilo patrimoniale consistente nel danno da mancata o ritardata corresponsione dei mezzi di sussistenza, quanto il diritto fondamentale del figlio, come persona umana, ad essere, si potrebbe dire, «trattato come tale».

 

Naturalmente, vere e proprie obbligazioni concernenti la prole minorenne (o maggiorenne, ma non autosufficiente) possono scorgersi anche nella fase patologica del rapporto coniugale, laddove le determinazioni giudiziali o, in alternativa, la volontà delle parti, prevedano la corresponsione di assegni per il contributo al mantenimento dei figli.

Basti ricordare qui l’enfasi posta dalla legge sul rilievo, anche in subiecta materia, degli accordi tra i coniugi (o ex tali), al punto che l’obbligo – oggi sussistente a seguito della riforma dell’art. 155 c.c. per effetto della legge sull’affidamento condiviso – per il giudice di «prendere atto», ancor di più di quello, precedente, di «tener conto», sembra tradursi prevalentemente in un dovere di motivazione delle ragioni per le quali l’intesa viene eventualmente disattesa, motivazioni che non potranno trovare altro punto di riferimento se non quello dell’eventuale violazione dei canoni fondamentali espressi dagli artt. 30 Cost., 147 e 148 c.c., o della regola dell’ «interesse del minore».

 

Si noti peraltro che il nuovo art. 155, quarto comma, nel prevedere che ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito «salvo accordi diversi, liberamente sottoscritti dalle parti», sembra voler addirittura smentire il criterio di necessaria proporzionalità scolpito nell’art. 148, norma sino ad oggi ritenuta inderogabile, venendo altresì a porre (quanto a tale limitato aspetto) forse anche un problema di conformità all’art. 30 Cost.

 

Venendo alle determinazioni specifiche concernenti i profili patrimoniali, è pacifico che gli accordi tra i coniugi potranno concernere la determinazione dell’assegno e delle relative scadenze di corresponsione, mentre non sembra possibile escludere ogni forma di adeguamento automatico.

Il principio di cui un tempo all’art. 6, undicesimo comma, l.div. e ora all’art. 155, quinto comma, c.c. (estensibile al divorzio ex art. 4, secondo comma, l. 8 febbraio 2006, n. 54) pareva invero non solo analogicamente applicabile alla materia della separazione (ma la questione è stata risolta dalle norme testé citate), bensì anche munito del carattere dell’inderogabilità, posto che pure in questo caso un’esclusione a priori della possibilità di adeguare l’assegno al reale valore della somma inizialmente pattuita appare in contrasto con l’interesse del minore a vedersi mantenuto quanto meno costante, in termini reali, il contributo del genitore non affidatario. Anche la giurisprudenza sembrava orientata in questo senso, negando – in caso di soluzione contenziosa della crisi coniugale, ma con argomentazioni che paiono estensibili pure alla definizione consensuale – la possibilità di escludere la rivalutabilità dell’assegno per la prole, pure in caso di palese iniquità, a differenza di quanto stabilito invece con riferimento all’assegno di divorzio in favore di uno degli ex coniugi dall’art. 5, ottavo comma, l.div. (cfr. A. Brescia 20 gennaio 1990, in Giust. civ., 1990, I, p. 824).

 

Un’altra previsione ritenuta dai giudici inammissibile è quella concernente una rivalutazione dell’assegno in misura inferiore rispetto a quella assicurata dall’ «aggancio» agli indici ISTAT (cfr. Cass., 3 novembre 1994, n. 9047, in Giust. civ., 1995, I, p. 743), anche se sul punto il nuovo tenore letterale dell’art. 155, quinto comma, c.c. («L’assegno è automaticamente adeguato agli indici ISTAT in difetto di altro parametro indicato dalle parti o dal giudice») sembrerebbe indurre a conclusioni differenti.

 

Il riconoscimento della natura di negozio familiare all’accordo relativo ai figli, in tutti gli aspetti in cui il medesimo può manifestarsi, consente anche di estendere ad esso la disciplina in materia contrattuale.

Di grande utilità in proposito, di fronte alla comprovata maggior sensibilità di tanti genitori (e dei rispettivi legali) ai profili pecuniari rispetto a quelli affettivi, potrebbe manifestarsi l’inserimento di una o più clausole penali a garanzia dell’adempimento non solo di doveri di carattere patrimoniale, ma anche di quelli connessi ai profili personali della potestà. Al riguardo, come già suggerito in altra sede, potrebbero ipotizzarsi vere e proprie penalità di mora per ogni giorno di ingiustificato ritardo nella «consegna» o nella «riconsegna» (per usare i brutti termini in voga nell’ambiente) del minore. Non vengono in questo caso in considerazione preoccupazioni attinenti alla necessità di garantire il rispetto di diritti inderogabili della persona, quale quello della libertà in merito a decisioni di carattere strettamente personale, facendo, anzi, «premio» su ogni altra considerazione la necessità di salvaguardare in primo luogo l’interesse della prole.

Il suggerimento in esame, già presentato dall’autore di questo studio, è stato criticato da chi ha rimproverato allo scrivente di voler «eludere l’ostacolo» della vincolatività delle intese non patrimoniali inter coniuges, cercando invece di «liquidare il problema degli effetti dell’accordo a contenuto non patrimoniale (e della sua violazione), ricollegandovi sanzioni di natura economica». L’equivoco di una siffatta analisi consiste nel focalizzarsi esclusivamente su di una parte del tutto circoscritta di un’opera ben più complessa, per poterne poi predicare l’insufficienza. Ora, non risponde in alcun modo a verità che chi scrive abbia mai inteso far derivare la vincolatività dell’impegno dei coniugi su profili non patrimoniali dall’introduzione di clausole penali. Come evidenziato dall’analisi – significativamente omessa dal citato Autore – del profilo causale delle pattuizioni qui in discorso, la vincolatività delle intese non patrimoniali in oggetto (non qualificabili alla stregua di contratti, alla luce del disposto dell’art. 1321 c.c.) deriva dal semplice fatto che è il legislatore, con l’espressa ed inequivocabile attribuzione di rilevanza alle «condizioni della separazione consensuale» (art. 711 c.p.c.), e alle «condizioni inerenti alla prole e ai rapporti economici» in sede di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio (art. 4, sedicesimo comma, l.div.), a fornire carattere vincolante ai comportamenti cui le parti intendono astringersi, a prescindere, dunque, dalla patrimonialità o non patrimonialità degli stessi.

Il richiamo, dunque, alla clausola penale – contrariamente a quanto ritenuto dalla surriferita opinione – lungi dall’essere compiuto nel tentativo (superfluo) di dotare di giuridica vincolatività intese che tale carattere vincolante già di per se stesse posseggono per effetto delle citate norme (non prese in considerazione dall’Autore dello scritto cui qui si replica), deriva dalla semplice applicazione di principi da tempo enunciati in dottrina e giurisprudenza (per i rinvii all’una e all’altra si rimanda il paziente lettore ai citati passi dello scrivente: si pensi, tanto per citare qualche esempio, alle opinioni, ivi riferite, di Santoro-Passarelli, Gangi e Bianca, oppure alla decisione di legittimità che nel 1983 ritenne applicabili ad un negozio eminentemente personale, quale l’accordo di riconciliazione tra coniugi separati, i principi in tema di formazione del consenso contenuti agli artt. 1326-1328 c.c.: cfr. Cass., 29 aprile 1983, n. 2948, in Dir. fam. pers., 1983, p. 910; in Giur. it., 1983, I, 1, c. 1233). Ci si intende, cioè, riferire alla regola secondo cui le norme in tema di parte generale del contratto, proprio perché costituenti l’«ossatura» del negozio giuridico in generale nel nostro sistema, sono applicabili anche ai negozi giuridici familiari (ivi compresi quelli a contenuto non patrimoniale), ove non esistano (come nel caso in esame) principi speciali in deroga. Ma ciò, evidentemente (e nonostante gli indiscutibili risvolti pratici), non aggiunge di per sé sul piano giuridico una sola oncia di vincolatività al rapporto in discussione e con il tema della vincolatività de iure ha assai poco a che vedere.

 

Un peculiare obbligo di contenuto patrimoniale, gravante sui genitori, è rappresentato dal dovere di amministrare correttamente il patrimonio dei figli minorenni.

Nel caso in cui il patrimonio del minore sia male amministrato, l’autorità giudiziaria può stabilire le condizioni a cui i genitori devono attenersi nell’amministrazione o può rimuovere entrambi o uno solo di essi dall’amministrazione stessa e privarli, in tutto o in parte, dell’usufrutto legale (art. 334, primo comma, c.c.).

 Nel caso in cui sia disposta la rimozione di entrambi i genitori, l’amministrazione è affidata ad un curatore (art. 334, secondo comma, c.c.).

 

Si rileva al riguardo che i fatti che possono giustificare l’intervento del giudice non sono sostanzialmente diversi da quelli che legittimano la pronuncia di decadenza dalla potestà; sono soltanto meno gravi, secondo la valutazione discrezionale compiuta dal giudice. La diversa gravità dei fatti, inoltre, costituisce il parametro non solo per scegliere tra la pronunzia di decadenza e l’applicabilità dei provvedimenti di cui all’art. 334 c.c., ma anche, nell’ambito di quest’ultima norma, per graduare le misure da adottare.

Il giudice, infatti, quando le irregolarità non sono gravi ed appaiono correggibili, può limitarsi a stabilire le condizioni cui i genitori devono attenersi nell’amministrazione, sotto la vigilanza del giudice tutelare; può, altresì, privare entrambi i genitori o solo uno di essi dell’amministrazione dei beni del minore, lasciandoli nell’esercizio della potestà, quando entrambi o uno solo di essi risultino inidonei al compito che la legge loro affida. La rimozione dall’amministrazione può a discrezione del tribunale, accompagnarsi alla privazione totale o parziale dell’usufrutto legale.

 

Nel caso il patrimonio del minore abbia subito un pregiudizio a causa di atti di cattiva amministrazione compiuti dai genitori, questi ultimi potranno essere chiamati a rispondere dei danni cagionati, non già ex art. 2043 c.c., bensì in forza dei principi in tema di responsabilità contrattuale: i genitori sono invero soggetti passivi di un rapporto obbligatorio ex lege di carattere patrimoniale che li lega ai figli minorenni, quale uno dei profili componenti la potestà genitoriale: un rapporto avente ad oggetto la rappresentanza dei figli stessi e l’amministrazione dei relativi patrimoni (cfr. art. 320, primo comma, c.c.). Ora, questa amministrazione non può svolgersi se non nel rispetto del canone della diligenza (e il richiamo al concetto del «buon padre di famiglia» assume qui un significato quanto mai pregnante!) ex art. 1176 c.c.

Si tenga, inoltre, in considerazione che l’art. 570, secondo comma, n. 1, c.p., prevede e punisce la condotta del genitore che «malversa o dilapida i beni del figlio minore», con la conseguenza che, nel caso in cui ricorrano gli estremi di tale reato, vi potrà essere anche la condanna al risarcimento del danno morale.

 

Per concludere sul punto dovrà ricordarsi che, in caso di crisi coniugale, la questione dell’eventuale violazione dei doveri genitoriali, ed in particolare dei provvedimenti dettati dal giudice relativamente alla prole, così come degli accordi eventualmente raggiunti inter partes, andrà affrontata – nel caso di attuale pendenza di un giudizio di separazione, di divorzio, di modifica delle relative condizioni, ovvero ancora di annullamento del matrimonio – con ricorso al già citato procedimento ex art. 709-ter c.p.c.

 

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