Giacomo Oberto

 

IL PATTO DI FAMIGLIA*

 

«Qui le sien donne avant mourir

Bientôt s’appreste à moult souffrir».

 

(Antoine Loysel, Institutes coutumières,

in Dupin e Laboulaye, Institutes coutumières d’Antoine Loysel,

II, Paris, 1846, n. 668, p. 98).

 

 

Sommario: Sezione I: Ratio e storia dell’istituto – 1. La ratio dell’istituto. – 2. Patto di famiglia e autonomia privata. Possibili ricadute d’ordine sistematico in merito agli accordi preventivi in vista della crisi coniugale. Autonomia privata «del» e «nel» patto di famiglia. – 3. I precedenti storici del patto di famiglia: divisio inter liberos, démission de biens e  partage d’ascendants. – 4. Patto di famiglia e divisione d’ascendente per atto tra vivi disciplinata dal c.c. 1865: similitudini e differenze. – 5. I progetti di legge che hanno preceduto l’introduzione del patto di famiglia. – Sezione II: Natura dell’istituto 6. La natura del patto di famiglia. Natura contrattuale ed immediata efficacia traslativa del patto. Il rifiuto della tesi del contratto a favore di terzi e della donazione modale. – 7. La natura del patto di famiglia. In particolare: il rifiuto della tesi della donazione modale. – 8. La natura del patto di famiglia. La tesi proposta. – 9. Corollari in tema di forma e di rapporti con la comunione legale tra coniugi. – 10. Patto di famiglia e patti successori. – Sezione III: I profili soggettivi dell’istituto 11. I soggetti del patto di famiglia. La (non necessaria) partecipazione di tutti i legittimari. – 12. I soggetti del patto di famiglia: la posizione del coniuge (e il problema dei contraenti premorti al disponente). – 13. I soggetti del patto di famiglia: il disponente e la qualità di imprenditore. – 14. I soggetti del patto di famiglia: discendenti, ascendenti e legittimari «potenziali». – 15. I soggetti del patto di famiglia: rappresentanza volontaria e rappresentanza legale. Il problema del conflitto d’interessi. I rapporti con l’amministrazione di sostegno. – Sezione IV: I profili oggettivi dell’istituto 16. L’oggetto dell’attribuzione del disponente. Il trasferimento dell’azienda. Beni aziendali e ramo d’azienda. La compatibilità con le disposizioni in materia di impresa familiare. – 17. L’oggetto dell’attribuzione del disponente. Il trasferimento delle partecipazioni societarie. Il rispetto delle differenti tipologie societarie. – 18. L’oggetto dell’attribuzione del disponente. Costituzionalità della limitazione all’azienda e alle partecipazioni societarie. Il caso della divisio inter liberos coinvolgente beni diversi dall’azienda o dalle partecipazioni societarie. – 19. L’oggetto della prestazione dei destinatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie. La liquidazione delle quote dei legittimari e il problema dell’intervento del disponente nella liquidazione. – 20. L’oggetto della prestazione dei destinatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie. La liquidazione delle quote dei legittimari ed il suo pagamento rateizzato o differito nel tempo. Irrilevanza dell’esatta corrispondenza tra determinazione della liquidazione e valore delle quote. – 21. L’oggetto della prestazione dei destinatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie. La liquidazione in natura e l’eventuale assegnazione con successivo contratto. – 22. L’oggetto della prestazione dei destinatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie. Sulla natura di liberalità indiretta della liquidazione in denaro o in natura. – Sezione V: I rapporti con la successione del disponente e le successive vicende del patto 23. Le attribuzioni di cui al patto e la vicenda successoria del disponente. Collazione, riduzione, riunione fittizia e imputazione ex se. Le attribuzioni ricevute dai legittimari non assegnatari. – 24. Le attribuzioni di cui al patto e la vicenda successoria del disponente. Le attribuzioni ricevute dagli assegnatari. – 25. I legittimari sopravvenuti. – 26. Lo scioglimento del patto. – 27. L’impugnativa del patto e le relative controversie.

 


Sezione I

Ratio e storia dell’istituto

 

 

1. La ratio dell’istituto.

 

«Indarno la sottigliezza del dritto opporrebbe che le divisioni anticipate ledano il principio, secondo cui non si può patteggiare su una successione futura; ché la magistratura paterna esercitata per isbandire le discordie dal focolare domestico ha un carattere sì rispettabile e sì tutelare, che non son mica da temere con essa gl’inconvenienti inseparabili da’ patti circa le successioni future. Essa infatti, anziché far nascere, impedisce le controversie (…). E sì cosa è mai più favorevole di cotesto intervento del padre, che previene propiziamente l’ufficio de’ periti, degli arbitri e dei giudici, che dispensa dalle formalità e dalle lentezze ordinarie, pur conservando i dritti di ciascuno? (…) ed è il caso di ripetere con la legge delle XII Tavole: ‘Arbitrium patris summum judicium esto’».

Le parole di Troplong – nella versione di cui alla storica edizione palermitana, curata dagli editori Pedone Lauriel, che poneva l’opera dell’insigne commentatore del Code Napoléon a confronto con le disposizioni del codice del Regno delle Due Sicilie [1] – sembrano tornare alla ribalta all’indomani dell’introduzione nel nostro ordinamento del patto di famiglia; e, con esse, echi e strascichi di dibattiti che ritenevamo ormai consegnati alla storia del diritto successorio, tanto più che l’affrettato iter parlamentare che ha portato un’ormai agonizzante XIV Legislatura ad approvare l’abborracciato testo della l. 14 febbraio 2006, n. 55 («Modifiche al codice civile in materia di patto di famiglia») non aiuta certo l’interprete a sciogliere i molteplici nodi tecnici che l’istituto novellamente introdotto presenta [2].

Abbastanza chiaro appare, comunque, l’intento perseguito (se, e in che misura, realizzato, è ben altro discorso, come si vedrà) dal Legislatore, sicuramente volto a favorire il passaggio generazionale dei beni aziendali tramite uno strumento il più possibile «blindato» contro possibili attacchi da parte di legittimari che dovessero ritenersi, una volta apertasi la successione del disponente, in qualche modo lesi da siffatte disposizioni.

La lettura del resoconto della 552a seduta della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati (26 gennaio 2006) consente di desumere che, come evidenziato dal relatore, «le iniziative in titolo intervengono sulla materia del patti successori che il vigente articolo 458 del codice civile vieta»; più oltre il medesimo relatore osserva che «gli articolati in discussione propongono di conciliare il diritto dei legittimari – che non è in alcun modo posto in discussione – con la giusta esigenza di assicurare continuità all’impresa, in linea con il mutamento dei bisogni della società che richiedono un parziale superamento del divieto d[e]i patti successori». Sempre ad avviso del relatore, le disposizioni in esame assicurano «in modo adeguato la tutela dei diritti dei legittimari che (…) sono chiamati a partecipare all’atto dispositivo dell’impresa ricevendo dal beneficiario della stessa adeguato ristoro patrimoniale».

Qualche indicazione ulteriore proviene dalla lettura delle relazioni che accompagnavano due delle proposte di legge poi confluite nel testo, successivamente rimaneggiato e definitivamente approvato in tema di patto di famiglia, vale a dire il disegno di legge S/1353/XIV («Nuove norme in materia di patti successori relativi all’impresa»), comunicato alla Presidenza del Senato il 23 aprile 2002 e il disegno di legge C/3870/XIV («Introduzione dell’articolo 734-bis del codice civile, in materia di patti successori d’impresa»), presentato l’8 aprile 2003 alla Camera dei Deputati.

Le relazioni, dopo avere evocato il principio ex art. 458 c.c., affermano che «va diffondendosi sempre più, sia nel mondo accademico, sia in quello delle professioni, sia nella pubblica opinione, la convinzione della necessità se non di annullare tali divieti, quanto meno di ridimensionarli, ammettendone deroghe sempre più ampie; infatti la rigidità del nostro ordinamento in materia contrasta non solo con il fondamentale diritto all’esercizio dell’autonomia privata, riconosciuto e tutelato in via generale dal codice civile e, ancor più, dalla Costituzione, ma altresì con la necessità di garantire la dinamicità degli istituti collegati all’attività di impresa, assicurando la massima commerciabilità dei beni nei quali si traduce giuridicamente l’attività stessa: l’azienda, nella quale si realizza l’impresa individuale, e le partecipazioni sociali nelle quali si concretizza l’impresa collettiva, quella svolta cioè in forma societaria» [3].

        La relazione al disegno di legge S/1353, in particolare, evidenzia poi che intento della riforma è quello di «conciliare il diritto dei legittimari con l’esigenza dell’imprenditore (e del titolare di partecipazioni sociali) che intende garantire alla propria azienda (ed alla propria partecipazione societaria) una successione non aleatoria a favore di uno o più dei propri discendenti, prevedendo da una parte la liceità di accordi in tal senso, dall’altra la predisposizione di strumenti di tutela dei legittimari che siano esclusi dalla proprietà dell’azienda stessa».

        La relazione al secondo dei disegni di legge citati (C/3870) ricorda inoltre che «analogo impulso riformatore proviene oggi dalla stessa Commissione europea, come risulta dalla comunicazione n. 98/C 93/02 relativa alla trasmissione delle piccole e medie imprese, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale delle Comunità europee n. C93 del 28 marzo 1998, in cui si rileva che ‘specialmente nel caso delle imprese familiari, gli accordi (interfamiliari) possono essere utilizzati per tramandare determinati criteri gestionali da una generazione all’altra’, così come peraltro già avviene ‘nella maggioranza degli Stati membri’. Ne consegue che ‘gli Stati membri che vietano i patti successori (Italia, Francia, Belgio, Spagna, Lussemburgo) dovrebbero provvedere a consentirli, dal momento che il predetto divieto complica inutilmente la buona gestione del patrimonio (familiare)’. Da qui, dunque, l’esigenza di consentire anche nel nostro Paese all’imprenditore di disporre in vita della propria azienda in favore di uno o più dei propri discendenti, purché con l’accordo dei rimanenti discendenti e dell’eventuale coniuge» [4].

        Si spiega, alla luce di quanto sopra, il favore con il quale la stampa d’opinione ha presentato tale riforma «bipartisan», definendola come «un assist decisivo per il capitalismo italiano, travagliato anche ai suoi piani più alti dal rischio di tormentati passaggi generazionali»; una legge attenta, da un lato, ad esorcizzare l’«effetto-Taittinger» [5], a tutto beneficio delle grandi imprese «dinastiche» (dagli imperi miliardari alle piccole realtà modellate a immagine e somiglianza del fondatore), ma anche, dall’altro, a salvaguardare gli interessi di dipendenti e fornitori, garantendo un passaggio di mano «pilotato» ed evitando i bracci di ferro tra eredi che hanno mandato in rovina più di una società [6]. L’effetto dovrebbe essere particolarmente benefico, si soggiunge, per le realtà imprenditoriali più piccole, posto che coloro che dispongono di maggiori mezzi finanziari riuscivano già a risolvere il problema con il ricorso a trusts creati all’estero o con altre soluzioni più costose, mentre decine di micro-imprese sono scomparse proprio per le liti tra i discendenti; e d’altro canto sarà opportuno tenere presente che «il 58% delle aziende di casa nostra è ancora a carattere familiare. Il 26% della capitalizzazione di Piazza Affari fa capo ad azionisti che appartengono più o meno tutti allo stesso albero genealogico. E anche molti dei big non quotati da Barilla ai Ferrero fino ai Riva (acciaio) sono ancora saldamente in mano ai fondatori o ai loro eredi» [7].

Del resto, il problema del governo dei c.d. passaggi generazionali non è sentito certo solo a livello nazionale. Da indagini svolte nel panorama imprenditoriale statunitense la presenza delle imprese familiari varia tra il 90% e il 98% e in quello italiano raggiunge quasi il 99%  [8], mentre un’analisi svolta in Francia ha dimostrato che la successione nell’impresa commerciale e agricola ha, in termini di litigiosità processuale, un’incidenza percentuale di molto superiore a quella media della popolazione attiva nel settore [9]. Una stima della Commissione Europea, inoltre, fissa solo tra il 5% e il 15% il numero delle imprese familiari che sopravvive alla terza generazione [10], mentre un’indagine della Banca d’Italia, che ha analizzato il decennio 1993-2003, mostra come vi sia una forte concentrazione della proprietà e prevalgano forme di controllo diretto da parte di persone fisiche e mediante legami familiari [11]. Il tutto in una realtà ormai ben diversa da quella che ha visto formarsi gli istituti che tradizionalmente presiedono al passaggio generazionale della ricchezza. Una realtà, quella odierna, caratterizzata dal salto generazionale nella trasmissione ereditaria prodotto dal prolungarsi della vita media, con la conseguenza che oggi si eredita statisticamente in un’età compresa tra i trenta e i cinquant’anni, dunque dopo l’inserimento nel mondo del lavoro; fenomeno, questo, cui si aggiunge l’ulteriore profilo della «successione anticipata», che, dal punto di vista socio-economico, consiste nella trasmissione in vita delle ricchezze da parte dei genitori ai figli imputandole alla futura eredità e riservandosi al contempo una fonte di sostentamento per la vita e, talora, anche una qualche forma di controllo sul patrimonio di cui hanno disposto [12].

        Se dunque almeno due appaiono essere le linee direttrici che conducono all’individuazione della ratio della novella: vale a dire, da un lato, l’interesse generale alla promozione dell’attività di impresa, e dall’altro quello privato di ciascun imprenditore all’autoregolamentazione del proprio assetto patrimoniale, non vi è dubbio che una certa preferenza sembri espressa dal Legislatore verso la prima. Ciò non solo perché «nessuna gradazione assiologica sarebbe concepibile tra le diverse componenti del (…) patrimonio [del disponente]: beni produttivi e beni di mero godimento, mobili e immobili, materiali e immateriali» [13], ma anche (e forse soprattutto) perché il patto di famiglia non pare comunque estensibile ad alcun tipo di bene che non sia costituito dall’universitas aziendale (o, come si vedrà, da un ramo di essa), ovvero da partecipazioni societarie [14].

E questo appare dimostrato non solo dal carattere eccezionale (come pure si avrà modo di dire) delle relative statuizioni, ma anche dal fatto che, al disponente non è neppure consentito di «coprire» con l’ombrello del patto di famiglia le liquidazioni compensatorie delle quote dei legittimari diversi dagli assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie, dovendo necessariamente tali attribuzioni provenire invece dal patrimonio proprio di questi ultimi. Principio, questo, che a tutta prima potrebbe apparire curioso, ma che si giustifica alla luce della ratio testé indicata, posto che, se la liquidazione (in denaro o in natura) delle quote agli altri legittimari fosse stata consentita al disponente, si sarebbe spalancata la via ad una vera e propria divisio inter liberos per atto tra vivi di tutto il patrimonio del disponente, inattaccabile sia prima che dopo l’apertura della successione, malgrado ogni possibile violazione delle norme a tutela dei legittimari. Un passo, questo, per il quale il nostro sistema e la nostra cultura non sembrano ancora pronti, malgrado talune iniziative legislative in questo senso, peraltro rimaste lettera morta [15].

Tale ultimo aspetto costituisce, infatti, il vero profilo di rottura rispetto alla legislazione previgente: non tanto il fatto che il titolare dell’azienda o di partecipazioni societarie possa inter vivos disporre di tali beni in favore dei suoi discendenti; ciò che, da che mondo è mondo, è pur sempre avvenuto. Anzi, sotto questo aspetto, nulla impediva, già prima della legge in commento, che effetti traslativi analoghi a quelli oggi realizzati dal patto di famiglia potessero compiersi [16]. Come si vedrà [17], la vera portata innovativa della novella consiste in una disattivazione dei meccanismi di tutela che l’ordinamento ha predisposto a favore dei familiari e segnatamente la riduzione e la collazione, atteso che nemmeno il ricorso ad uno strumento tradizionalmente invocato per la trasmissione familiare della ricchezza – sebbene di discutibile ammissibilità, sotto diversi profili, nel nostro ordinamento – quale il trust, appare in grado di impedire l’esercizio delle azioni a tutela dei legittimari [18].

Sotto questo profilo la riforma sul patto di famiglia si viene a porre nel solco della precedente iniziativa legislativa che ha portato alla modifica degli artt. 561 e 563 c.c. [19], mediante la previsione che, in riferimento alla donazione di immobili, l’azione di riduzione si prescriva in venti anni dalla donazione, con conseguente affievolimento, se non dell’azione di riduzione in sé, quanto meno dell’effetto «destabilizzante» della conseguente azione di restituzione nei confronti dei terzi aventi causa dal donatario [20]. E non a caso già tale riforma, prefigurando in qualche modo gli spazi di negozialità aperti dal patto di famiglia, sanciva espressamente la libera rinunziabilità del diritto del coniuge e dei parenti in linea retta del donante di opporsi alla donazione, con conseguente eliminazione del diritto di ottenere, tramite la notifica al donatario di siffatta opposizione, la sospensione del termine ventennale.

 

 

2. Patto di famiglia e autonomia privata. Possibili ricadute d’ordine sistematico in merito agli accordi preventivi in vista della crisi coniugale. Autonomia privata «del» e «nel» patto di famiglia.

 

Poste le premesse di cui sopra, non paiono sussistere dubbi sul fatto che l’istituto novellamente introdotto si venga a collocare in quella «stagione della negozialità» che – come ampiamente segnalato dallo scrivente in svariate altre sedi [21] – da alcuni anni caratterizza i rapporti familiari, fondati o meno sul matrimonio. Sotto questo profilo esso non solo si accomuna a quel filone dottrinale e giurisprudenziale che da un po’ di tempo a questa parte esalta l’autonomia negoziale di coniugi e conviventi, sia nella fase «fisiologica» che in quella «patologica» del loro rapporto, ma si affianca anche ad alcune novità legislative che sono venute a riconoscere expressis verbis l’esistenza di «contratti disciplinati dal diritto di famiglia» [22], o a consentire «atti di destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità», ex art. 2645-ter c.c. [23], o, ancora ad aprire ulteriori spazi alla materia degli accordi nell’ambito delle famiglie legittime e di fatto in crisi, pur in un criticabilissimo e dissennato contesto di generalizzazione «forzata» e d’imposizione iussu Principis, contro ogni logica, dell’istituto dell’affidamento congiunto, ribattezzato «condiviso», secondo l’italico costume, che s’illude di risolvere i problemi mutando nome alle cose [24].

Ma la peculiare disciplina del patto di famiglia consente di estrapolare conclusioni che vanno ben al di là della semplice (e, oggidì, addirittura ovvia) constatazione del ruolo che la negozialità è venuta ad assumere nei rapporti e nelle dinamiche familiari.

La prima osservazione che può venire alla mente attiene alla assoluta parità che, anche in relazione a questo istituto – esattamente come per le novità introdotte dalla legge sull’affidamento condiviso – assumono famiglia legittima e famiglia di fatto, posto che l’elemento «familiare» che qui viene in considerazione non è dato tanto dal matrimonio (che nel patto di famiglia può rilevare solo in quanto viene ad aggiungere un legittimario), bensì dal vincolo fondamentalmente «di sangue» che lega tra di loro i contraenti. Il che – specie se visto alla luce di recenti interventi legislativi, che hanno dato luogo, nei più disparati settori, ad un’equiparazione tra convivenza more uxorio e unione matrimoniale: dalle disposizioni in tema di violenza domestica, alla procreazione assistita, all’amministrazione di sostegno, all’affidamento condiviso – conferma ancora una volta come, a dispetto e al di là delle declamazioni «politiche» e di principio, famiglia legittima e famiglia di fatto si presentino sempre di più, anche nella nostra società italiana, come le due facce della stessa medaglia: e ciò appare vero in modo particolare, ancora una volta, proprio sul terreno dell’autonomia privata [25].

Ma l’effetto, se ci si passa l’espressione, moltiplicatore di negozialità endofamiliare del patto di famiglia non si ferma certo qui.

Come si avrà modo di vedere più avanti, una delle (poche) conclusioni sicure che sembra potersi trarre da una prima lettura degli artt. 768-bis ss. c.c. attiene all’assoluta irrilevanza della sopravvenienza rispetto alle eventuali rinunce espresse dai legittimari in sede di stipula del contratto in esame, avuto riguardo ai diritti che – al momento dell’apertura della successione del disponente –potrebbero loro competere per effetto degli atti dispositivi gratuiti a vantaggio di uno solo (o solo di alcuni) di essi [26]. Ciò, ovviamente, a prescindere dal fatto che la situazione patrimoniale del disponente venga a mutare, magari radicalmente, al momento del suo decesso, rispetto a quella presente all’atto della stipula del patto di famiglia.

In altri termini, il discendente non assegnatario dell’azienda (o di quote sociali) potrebbe essere indotto a sottoscrivere un patto di famiglia contenente una rinunzia totale o parziale ai diritti che, come legittimario, gli competerebbero su quei beni, qualora la successione si aprisse in quel momento, «confidando» su di un residuo patrimonio del disponente che in quel momento si presenta, anche a prescindere dall’azienda o dalle quote sociali oggetto del patto, come particolarmente consistente. Ma siffatta rinunzia conserva intatto il suo effetto (cioè quello di precludere irrimediabilmente la possibilità di esperire l’azione di riduzione) anche nel caso in cui, per successive vicende, il patrimonio del disponente dovesse, al momento del suo trapasso, magari molti anni dopo la firma del patto di famiglia, sensibilmente contrarsi o addirittura ridursi a zero.

L’insegnamento che si trae da tanta sovrana indifferenza del Legislatore rispetto alla potenzialmente devastante portata della rinunzia di un soggetto a diritti la cui concreta determinazione è rinviata nel tempo (e ad un tempo che può essere anche molto remoto, rispetto al tempo della rinunzia), non sembra poter rimanere senza effetto anche in altri campi, pure caratterizzati dalla presenza di stretti vincoli familiari.

Si pensi al caso degli accordi preventivi tra coniugi o tra conviventi more uxorio in vista di un’eventuale crisi del legame. Qui, invero, e a prescindere dalle argomentazioni ampiamente in altra sede sviluppate circa la perfetta conformità di siffatto tipo di intese rispetto ai principi del nostro ordinamento [27], non può negarsi che, tra gli argomenti contrari, quelli sicuramente più «ad effetto» fanno leva proprio sull’«ingiustizia» del principio che inchioda coniugi e conviventi al rispetto d’un accordo stipulato magari molti anni prima, nella vigenza di una situazione di fatto che può essere ben diversa rispetto a quella in cui la crisi del rapporto viene successivamente a maturare e ad esplodere.

Ora, l’introduzione delle segnalate regole in tema di patto di famiglia sembra voler dimostrare come, per il nostro Legislatore, l’esigenza di stabilità e di certezza nel corso del tempo dei rapporti patrimoniali, all’interno del complesso e mutevole intreccio dei legami familiari e delle alterne vicende che possono intervenire, debba prevalere anche rispetto a considerazioni quali quella della possibile incidenza di siffatte vicende su rinunce dai membri della famiglia eventualmente espresse, magari molto tempo addietro, rispetto a diritti non ancora maturati.

Ma la disamina degli effetti «promotori di negozialità» propri del nuovo istituto non esaurisce di certo il tema dei rapporti tra quest’ultimo e l’autonomia privata. Non vi è, infatti, solo un’autonomia privata «del» patto di famiglia (quella, cioè, che gli artt. 768-bis ss. c.c. per così dire «iniettano» nel tessuto normativo che regge i rapporti familiari), ma vi è anche un’autonomia «nel» patto di famiglia, intendendosi con tale espressione la misura dell’ampiezza dei poteri che l’ordinamento concede ai soggetti legittimati a stipulare questo nuovo tipo negoziale.

Sotto questo profilo appaiono di evidente rilievo non solo le norme speciali contenute negli articoli novellamente introdotti, bensì anche – ed anzi, in primo luogo – i rapporti del nuovo istituto con il paradigma contrattuale, da un lato, e con il divieto dei patti successori, dall’altro. Come si avrà modo di vedere più approfonditamente oltre [28], proprio il carattere eccezionale del patto di famiglia, in quanto negozio in deroga al generale divieto ex art. 458 c.c., può costituire un limite all’applicazione del principio scolpito nell’art. 1322 c.c., per lo meno ogni qualvolta il riconoscimento di effetti alla concorde volontà delle parti presupporrebbe un’(impossibile) estensione analogica delle norme sul patto (si pensi al caso in cui, in ipotesi, tutti i soggetti coinvolti concordassero nella stipula di un accordo che disponesse il trasferimento dell’azienda ad un soggetto non discendente dell’imprenditore, oppure decidessero il trasferimento di beni diversi da quelli descritti nell’art. 768-bis c.c.). Ma, al di là di questo peculiare rilievo e al di là dei limiti eventualmente posti dalle disposizioni speciali degli artt. 768-bis ss. c.c., la regola dell’autonomia potrà e dovrà ricevere applicazione. In questo lavoro non si mancherà pertanto di segnalare, di volta in volta, le singole aree in relazione alle quali la libertà contrattuale potrà pienamente esplicarsi.

Per l’intanto, proprio al fine di meglio rispondere a questo interrogativo, nonché di comprendere i profili salienti e le interazioni della nuova figura con gli istituti tradizionali dei tre grandi settori del diritto civile con cui essa viene a porsi in relazione (contratti, famiglia e successioni), sarà opportuno fare un breve cenno ai suoi precedenti storici.

 

 

3. I precedenti storici del patto di famiglia: divisio inter liberos, démission de biens e partage d’ascendants.

 

Si diceva, in apertura di questo studio, che l’introduzione del patto di famiglia sembra riportare all’attualità l’eco di dibattiti che si riteneva da tempo sopiti. In effetti, alcuni tra i primi commentatori della l. 14 febbraio 2006, n. 55 [29], rilevando che il patto di famiglia ha per scopo l’estromissione di determinati beni dalla futura successione e la loro destinazione a formare una massa a sé stante rispetto all’asse ereditario, hanno sottolineato l’affinità dell’istituto a quella divisio inter liberos, che, conosciuta oggi come «divisione di ascendente», affonda le sue radici nel diritto romano ed era disciplinata anche dagli artt. 1044 ss. c.c. 1865 [30]. Norme, queste, che, a loro volta,  riproducevano sul punto le disposizioni degli artt. 1076 ss. Code Napoléon, nonché quelle di alcuni codici preunitari [31].

 In base a tali disposizioni, invero, il padre, la madre e gli altri ascendenti potevano dividere e distribuire i loro beni tra i figli e i discendenti non solo per testamento, come ancora oggi previsto dall’art. 734 c.c., ma anche per atto inter vivos. A conferma di tali affermazioni si è anche citata la collocazione del nuovo Capo V-bis [32], introdotto dalla riforma in esame all’interno della disciplina della divisione, per concluderne che al patto di famiglia andrebbe riconosciuta la natura giuridica di atto divisionale, o in ogni caso, di atto che, anche se diverso dalla divisione, abbia per effetto di far cessare tra i coeredi la comunione dei beni ereditari, come previsto dall’art. 764 c.c. [33].

La questione necessita diverse puntualizzazioni.

In primo luogo dovrà infatti rimarcarsi che la divisione «fatta dal testatore» (dal testatore, si badi, e non dal solo ascendente), così come conosciuta da noi oggi (cfr. art. 734 c.c.), è negozio sicuramente mortis causa, destinato a prendere effetto solo dal momento dell’apertura della successione, subordinatamente all’accettazione dell’eredità [34]. Una delle innovazioni del c.c. 1942, rispetto alla situazione normativa disciplinata dal c.c. 1865, fu costituita infatti proprio dalla abrogazione della divisione d’ascendente per atto tra vivi, oltre che dall’estensione a qualsiasi testatore, e non già al solo ascendente, del diritto di procedere a siffatto tipo di partage. I lavori preparatori del codice vigente giustificano la scelta con le difficoltà di inquadramento dell’atto tra vivi, in rapporto ai concetti di divisione e successione ereditaria, nonché con la possibilità di conseguire il medesimo intento divisorio mediante atti di donazione [35]. In realtà, la dottrina ha messo in luce il ruolo giocato in tale riforma dalla incompatibilità giuridico-sistematica dell’istituto nei confronti del generale divieto dei patti successori, sancito dall’art. 458 c.c. [36], nonché dall’opportunità di superare la necessità di conciliare divisione a effetto immediato e trapasso ereditario [37].

La riforma del 2006 potrebbe dunque indurre a riconoscere l’intenzione del Legislatore di operare un ritorno al passato: il riferimento ai (soli) discendenti quali beneficiari delle attribuzioni in discorso e il carattere indiscutibilmente inter vivos [38] del patto di famiglia sembrerebbero deporre in questo senso. Ed almeno in parte siffatta constatazione può dirsi rispondere a verità.

Avremo modo di vedere quali importanti conseguenze tale premessa comporti, circa il superamento di alcuni snodi ermeneutici alla luce della ricca ed autorevole elaborazione dottrinale che caratterizzò l’istituto della divisione d’ascendente tanto in Italia che in Francia.

Per il momento va, però, considerato che, alla base dell’istituto disciplinato dagli artt. 1044 ss. c.c. 1865, si ponevano storicamente due ben distinte radici. Da un lato, la divisio inter liberos, risalente al diritto romano e successivamente rielaborata nel partage d’ascendants dell’antico diritto francese e, dall’altro, la démission de biens, per secoli praticata in svariate regioni dell’area di diritto consuetudinario d’Oltralpe. Quest’ultimo istituto, in particolare, veniva definito come «une espèce de disposition qu’on peut faire entre-vifs, en faveur de ses héritiers». Essa era considerata alla stregua di una «succession anticipée quand elle est faite au profit des héritiers présomptifs, et qu’elle donne, à chacun d’eux, ce que la loi auroit donné si elle avoit elle-même déféré la succession» [39]. Nel caso in cui tale attribuzione fosse stata conforme all’ordine delle successioni legittime, essa non era assoggettata alle formalità previste per le donazioni – neppure dopo che la materia delle liberalità venne disciplinata dall’ordonnance di Luigi XV del 1731 sulle donazioni [40] – e, sebbene determinasse l’effetto di trasferire immediatamente la proprietà dei beni che ne formavano oggetto, poteva purtuttavia venire revocata ad nutum, purché non fosse stata effettuata per contratto di matrimonio [41].

D’altro canto, non vi era dubbio che, tanto la divisio inter liberos del diritto romano, che il partage d’ascendants del diritto francese, fossero istituti assai più affini al sistema successorio, che non a quello delle donazioni.

Per la prima valgono le constatazioni del Polacco, il quale, dopo aver rilevato che «tanto il testamentum quanto la divisio parentum inter liberos appartenevano alla medesima categoria di negozi giuridici», in quanto atti di ultima volontà, con la conseguenza che «la revocabilità [era] carattere essenziale ad entrambi», soggiungeva che, se anche nella divisio potevano intervenire i figli, e sottoscrivere essi medesimi l’atto, non per questo sorgeva fra loro e il genitore un rapporto di natura contrattuale. Ciò perché, «quanto ai figli soggetti alla patria potestas, il concetto di una donazione, o di un contratto in genere coll’ascendente ripugnava troppo all’idea romana dell’identitas personae, che si considerava sussistere tra di loro. Ed anche in riguardo ai figli emancipati, ai quali pur tuttavia poteva il padre validamente donare, una divisione dei beni paterni con carattere di contratto successorio irrevocabile non poteva aver luogo. Vi ostava infatti il disposto della l. ult. (30) Cod. Just. de pactis, 2, 3, la quale (…) prescrisse che i patti sopra la successione futura di una qualunque persona (…) non tenessero (…) se non  li aveva ordinati il de cuius medesimo, ma che anche in tal caso non diventassero definitivi se non dopo ch’egli fosse morto persistendo nella medesima volontà» [42].

La situazione non era certo dissimile nella Francia dell’Ancien Régime per quanto attiene al partage d’ascendants: istituto, questo, affine alla démission de biens (e con questa sovente confuso), praticato per lo più nelle regioni di diritto scritto [43], nonché in talune zone di diritto consuetudinario [44], ivi comprese alcune di quelle in cui le coutumes nulla disponevano espressamente al riguardo [45].

In argomento intervenne anche, per dettare disposizioni in tema di forma, l’ordonnance di Luigi XV sui testamenti del 1735 (artt. 15, 16, 17, 18 e 38). L’ordinanza richiedeva, per la validità dei partages, il rispetto, in alternativa, di due formalità: a) che l’atto fosse compiuto in presenza di due notai, o di un notaio e di due testimoni, come disposto dall’art. 15; b) che fosse interamente scritto, datato e sottoscritto e firmato dal disponente, ai sensi dell’art. 16. L’art. 17 faceva inoltre salve le disposizioni delle singole coutumes sull’argomento. Relativamente a queste, in particolare, potrà dirsi che quella di Borgogna conteneva prescrizioni formali simili a quelle di cui all’ordinanza, ma imponeva, per la validità dell’atto, che il disponente sopravvivesse almeno venti giorni all’atto [46]: termine che nella coutume del Borbonese era invece di quaranta giorni [47], laddove la consuetudine di Bretagna consentiva d’effettuare il partage solo ai nobili, mentre quelle di Péronne, d’Amiens e del Nivernese non prescrivevano il rispetto di alcuna particolare formalità [48]; queste ultime due, infine, consentivano la divisione non solo ai genitori nei confronti dei figli, ma a tutti coloro che avessero voluto disporre in tal modo in favore dei loro heritiers présomptifs.

Tra gli Autori vi era divergenza d’opinioni sul fatto che il partage dovesse necessariamente investire tutto il patrimonio del disponente, ovvero potesse riguardare anche solo una parte di esso o determinati beni [49], ovvero ancora se dovesse necessariamente concernere tutti i figli, o se alcuno di essi potesse venire omesso [50]; nel caso di sopravvenienza di un figlio v’era chi affermava la nullità dell’atto, assimilato a questo fine ad una disposizione testamentaria [51], mentre era pacifico che le porzioni avrebbero potuto essere diseguali, purchè fossero rispettate le quote della successione legittima [52].

Pur valendo la regola per cui «les dispositions par lesquelles les ascendans partagent leurs biens entre leurs enfans et descendans ne sont pas proprement des testamens» [53], non foss’altro perché ad esse partecipavano anche i figli, non si dubitava che si trattasse di disposizioni a causa di morte e come tali revocabili fino al trapasso del disponente [54]. Ciò in ossequio ad un principio che, oltre a risalire al diritto romano, aveva trovato conferma in una capitolare di Carlo Magno [55], per essere successivamente avallato dall’autorità del Molineo. Quest’ultimo, nel suo celebre commentario alla coutume di Parigi, trattando dell’istituzione e della diseredazione dei figli (con particolare riguardo alla posizione dei primogeniti), aveva rimarcato che «in omnibus, quae concernunt futuram alicujus successionem, consensus et voluntas ejusdem mutabilis est et ambulatoria usque ad mortem» [56]: principio che, secondo quanto osservato dal Le Brun, si sarebbe dovuto estendere «au cas même que le pere ait donné à sa disposition, la forme et les clauses d’une donation entre-vifs» [57].

Si discuteva poi se il fatto di avere immesso i figli nel possesso dei beni, prevedendo una riserva d’usufrutto in capo al genitore disponente, fosse idoneo a rendere l’atto irrevocabile [58], mentre l’irrevocabilità era comunque certa nel caso il partage fosse stato contenuto in un contratto di matrimonio [59].

Riassumendo, può dunque dirsi che tutti gli istituti che storicamente precedettero la codificazione napoleonica erano caratterizzati da forme di anticipazione della successione, che però presentavano la caratteristica della revocabilità, da parte del disponente, ad nutum, usque ad vitae supremum exitum. Il solo effetto «stabilizzante» era fornito dal vincolo così assunto dai futuri coeredi, che non avrebbero quindi più potuto impugnare le attribuzioni di cui alla démission o al partage, se non per violazione della loro legittima.

 L’unica (o pressochè unica) eccezione alla regola della revocabilità era costituita, come si è detto, dal fatto che la divisione fosse stata compiuta nel contratto di matrimonio: ma ciò era coerente con il principio della trasmissione patrilineare indivisibile dei patrimoni, che voleva necessariamente «blindati» i patti nuziali, come chi scrive ha avuto occasione di chiarire in altre sedi [60]. Sotto questo profilo si potrebbe forse anche instaurare un audace parallelo con la situazione attuale, in cui il tradizionale divieto dei patti successori viene ad essere derogato dai patti di famiglia, esattamente come avveniva un tempo per i patti nuziali. Con la differenza fondamentale, peraltro, che l’odierna «blindatura» degli accordi ex artt. 768-bis ss. c.c. non è funzionale ad una trasmissione «feudale», in linea retta, di patrimoni immobilizzati, tesaurizzati e non «frantumabili» con coniugi, figlie femmine e cadetti, ma, è, al contrario, finalizzata alle esigenze di funzionalità, produttività e competitività, proprie del moderno «Moloch», costituito dall’impresa: dallo jus primigeniorum [61], verrebbe quasi fatto di dire, allo jus mercatorum [62].

 

 

4. Patto di famiglia e divisione d’ascendente per atto tra vivi disciplinata dal c.c. 1865: similitudini e differenze.

 

Fu il Code Napoléon a  rompere con la secolare tradizione sopra descritta. Trattando  agli artt. 1075-1080 del partage d’ascendants, il codice ritenne di dover consentire (oltre a quella per atto mortis causa) una divisione anticipata del patrimonio del de cuius, con un negozio che però – a differenza dei precedenti storici – avesse le caratteristiche proprie della donazione e dunque concernesse solo beni presenti, rivestisse la forma dell’atto donativo e, soprattutto, fosse sempre irrevocabile da parte del disponente (se non, ovviamente, per i motivi che tradizionalmente consentono la revoca delle donazioni). La ragione di ciò venne spiegata nell’exposé des motifs della presentazione al Corps Législatif dal relatore Bigot-Préameneu, il quale osservò come la regola della revocabilità, propria della démission de biens del diritto consuetudinario francese (ma anche, come si è visto, del partage d’ascendants), avesse dato luogo, nella pratica, a non pochi inconvenienti [63].

Nonostante le sostanziali differenze tra i vecchi e i nuovi istituti, dopo la codificazione napoleonica gli Autori mostrarono per parecchio tempo una certa tendenza ad individuare, da un lato, l’antenato della divisione testamentaria d’ascendente nella divisio inter liberos (e nel conseguente partage d’ascendants) e, dall’altro, quello della divisione d’ascendente per atto tra vivi nella démission de biens, sulla base del carattere di negozio mortis causa del primo e di atto inter vivos del secondo [64]. Peraltro, come dimostrato dalla più attenta analisi compiuta sull’istituto in oggetto sotto il vigore del c.c. 1865 [65], il richiamo alla démission de biens quale antenato della divisione d’ascendente per atto tra vivi era, in realtà, improprio, posto che, mentre la démission «era facoltizzata a qualunque disponente in confronto ai suoi successibili ex lege», la divisione d’ascendente del c.c. 1865 (così come del codice francese e di quelli preunitari da cui essa direttamente derivava) era concessa ai soli ascendenti e non già a qualsiasi persona. Ma ciò che veniva a porre addirittura un abisso fra i due istituti (cioè la «nuova» divisione d’ascendente inter vivos, da un lato, e l’antica démission de biens, dall’altro) era la questione della revocabilità, posto che la facoltà di revoca, storicamente essenziale – come si è appena detto – alla dimissione, era invece altrettanto «repugnante alla nostra divisione tra vivi. Questa infatti va sottoposta alle regole e condizioni delle donazioni (Art. 1045). Ora nelle donazioni è requisito imprescindibile lo spoglio attuale e irrevocabile dei beni da parte de donante. La divisione in discorso adunque trasmette ai figli la proprietà attuale e incommutabile del lotto ch’è loro attribuito, il che non avveniva, lo sappiamo, rispetto ai dimissionari» [66].

Ciò premesso, potrà dunque rilevarsi come, sotto il profilo dell’immediata efficacia [67] e della irrevocabilità dell’atto, vi sia una evidente affinità dell’odierno patto di famiglia con l’istituto della divisione d’ascendente per atto tra vivi disciplinata dal c.c. 1865. Lo stesso è a dirsi per quanto attiene al profilo soggettivo: patto tra ascendenti e discendenti questo come quello; con la differenza, peraltro, che (rispetto alla situazione retta dal c.c. 1865) oggi anche il coniuge è legittimario.

Ma le similitudini sembrano arrestarsi qui.

Se, infatti, dalla considerazione del momento soggettivo si passa a volgere l’attenzione al profilo oggettivo, colpisce che, mentre la divisione d’ascendente del c.c. 1865 (così come, del resto, i suoi ascendenti storici) poteva investire ogni tipo di bene, anche se non doveva necessariamente avere ad oggetto tutto il patrimonio del disponente (arg. ex art. 1046), il patto di famiglia odierno può concernere solo aziende o partecipazioni societarie (art. 768-bis c.c.).

        Ciò che sembra però colpire ancora di più l’attenzione dell’interprete è l’impossibilità di ascrivere il patto di famiglia all’istituto della divisione.

Il concetto di divisione presuppone, infatti, che un unico compendio sia attribuito a più soggetti, che vengono ad acquistare la proprietà indivisa dei singoli beni: qui, invece, l’istituto serve ad attribuire ad uno solo dei discendenti (o, eventualmente, a più d’uno, ma tendenzialmente non a tutti) la proprietà dei beni aziendali o delle partecipazioni sociali, laddove gli altri si vedono attribuire somme di denaro o beni che non provengono dall’ascendente, ma dagli assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni.

Ora, la convivenza di due momenti antitetici: quello dispositivo e quello divisionale, era già stata denunciata con la massima chiarezza dal Polacco con riguardo alla divisione d’ascendente sotto il c.c. 1865. L’insigne Autore, invero, notava come nell’istituto vi fosse una commistione «di due elementi tanto diversi, la disposizione, elemento attributivo e la divisione, elemento distributivo», dichiarando senza esitazioni «come principio fondamentale, comune al carattere giuridico così della divisione testamentaria, come di quella tra vivi, il seguente: doversi nel conflitto fra i predetti due elementi dare la preferenza all’elemento disposizione, come quello che costituisce il fondamento dell’atto (donazione o testamento), mentre l’elemento divisione ne costituisce per così dire, una modalità» [68].

In maniera ancora più decisa, circa mezzo secolo dopo, il Tedeschi contestava apertamente la natura divisoria dell’istituto di cui agli artt. 1044 ss. c.c. 1865. Dopo aver notato, infatti, sin dalla prima pagina della sua opera dedicata alla divisione d’ascendente, che «la divisione è lo scioglimento della comunione», l’Autore soggiungeva che «la divisione compiuta dall’ascendente tra i discendenti potrebbe essere vera e propria divisione solo se i discendenti si trovassero ad essere già investiti dalla comproprietà dei beni nel momento in cui la divisione avviene». Ma, soggiungeva, «che una tale comproprietà loro spetti anteriormente al negozio compiuto dall’ascendente si può sicuramente escludere» [69].

Tale ultimo elemento (cioè il «momento divisorio»), già tanto labile nell’antica divisione d’ascendente per atto tra vivi, sembra, nell’odierno patto di famiglia, ancor più evanescente, se è vero che, nonostante l’inserimento (improprio) del patto di famiglia nel titolo del libro II del codice dedicato alla divisione, la disciplina dell’impugnativa del patto si differenzia in modo radicale da quella della divisione. Invero, l’art. 768-quinquies c.c. richiama l’annullamento per vizi del consenso (con una prescrizione peraltro specialmente limitata ad un anno), a differenza dell’impugnativa per (soli) violenza e dolo ex art. 761 c.c., mentre il Legislatore del 2006 neppure menziona l’impugnativa per lesione (art. 763 c.c.), la cui ammissibilità, espressamente sancita dall’art. 1048, seconda parte, c.c. 1865, aveva formato oggetto di accese critiche da parte del Polacco, proprio in riguardo della necessità di garantire il diritto dell’ascendente di liberamente operare, anche in sede di creazione delle porzioni, attribuzioni «ingiuste», purché contenute nei limiti della disponibile [70].

In comune, rispetto alla divisione d’ascendente per atto tra vivi del codice abrogato, il patto di famiglia conserva invece l’esclusione dall’obbligo di effettuare la collazione di quanto ricevuto. Effetto, questo, espressamente stabilito dall’art. 768-quater, ult. cpv., c.c. e ritenuto concordemente applicabile già alla divisione operata per atto tra vivi dal testatore ex art. 1044 c.c. 1865, per effetto di una «dispensa virtuale» da collazione: una dispensa «che nasce cioè colla stessa disposizione, in quanto è ispirata e determinata nella mente del de cuius da un pensiero di attribuzione definitiva della liberalità al donatario» [71].

        Queste considerazioni inducono ad asserire l’esistenza di un ulteriore e fondamentale elemento differenziatore tra l’odierno patto di famiglia e la divisione d’ascendente del c.c. 1865. Mentre, invero, ai sensi del citato abrogato art. 1048, la divisione fatta dall’ascendente poteva essere impugnata nel caso di lesione della legittima, il patto di famiglia si sottrae a tale forma di impugnativa, fatta salva, ovviamente, l’azione per eventuali lesioni della legittima che siano il frutto di altre disposizioni inter vivos o mortis causa del de cuius: ma, anche in questo caso, l’azione non potrà configurarsi in alcun modo come impugnativa del patto, le cui disposizioni rimarranno comunque inattaccabili.

Quanto sopra si pone invero come naturale effetto del disposto dell’art. 768-quater, ult. cpv., c.c., che espressamente esclude l’esperimento dell’azione di riduzione (oltre che l’obbligo di collazione) in relazione a «quanto ricevuto dai contraenti». Il tutto, naturalmente, a condizione che il patto rispetti quanto prescritto dalla legge per la sua validità. Ma anche in caso contrario non sembra esservi spazio per un’azione di riduzione. Come si vedrà meglio oltre, lo stesso art. 768-quater c.c., al secondo comma, sembra voler configurare l’obbligo di liquidazione delle quote dei legittimari non assegnatari dell’azienda o delle quote sociali (o, in alternativa, la relativa, espressa, rinunzia totale o parziale) alla stregua di un elemento essenziale del patto. In mancanza di tale elemento, dunque, non potrà ritenersi sussistente una rinunzia implicita e il patto dovrà reputarsi, puramente e semplicemente, nullo [72].

 

 

5. I progetti di legge che hanno preceduto l’introduzione del patto di famiglia.

 

Come si apprende dalla relazione al già citato disegno di legge S/1353/XIV, la proposta che ha portato all’introduzione degli artt. 768-bis ss. c.c. riprendeva il disegno S/2799, presentato dal medesimo firmatario il 2 ottobre 1997, nel corso della XIII legislatura. Quest’ultima proposta legislativa, a sua volta, si ispirava ai risultati di un convegno di studio, tenutosi a Macerata il 24 marzo 1997, organizzato dall’Università degli Studi di Macerata in collaborazione con il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (CNEL), con il Consiglio Nazionale del Notariato e con il Gruppo di ricerca del Consiglio nazionale delle ricerche, in tema di «Successione ereditaria nei beni produttivi». Nell’ambito di tale giornata era stata presentata e discussa una proposta di riforma elaborata dal citato Gruppo di ricerca sotto il coordinamento di Antonio Masi e Pietro Rescigno [73].

Anche se la ratio dei citati progetti era sostanzialmente identica a quella propria dell’attuale patto di famiglia, essa veniva perseguita tramite un procedimento diverso, consistente nella predisposizione di due distinte discipline, di cui una («patto di famiglia») propria dell’impresa individuale, collocata nell’ambito delle norme successorie (più esattamente: tra quelle in tema di divisione – disposizioni generali) e l’altra («patto d’impresa»), rivolta alle imprese esercitate in forma societaria, collocata nell’ambito delle disposizioni codicistiche sulle società. Per la prima veniva escogitato un meccanismo traslativo immediato, sostanzialmente riprodotto negli attuali artt. 768-bis ss. c.c., mentre per la seconda si immaginava la possibilità di introdurre nell’atto costitutivo un diritto di riscatto «a favore della società, dei soci o di terzi» delle azioni nominative cadute in successione.

Per quanto attiene al «patto d’impresa», si trattava di una proposta ritenuta non particolarmente innovativa, atteso che sanzionava una prassi già in uso, che vedeva (e vede) gli statuti di molte società ispirarsi a tali criteri [74], pur di fronte alle critiche di chi ravvisa in siffatte clausole una violazione del divieto dei patti successori [75]. La disciplina del patto di famiglia di cui alle citate iniziative era invece assai simile alla versione attuale dell’istituto, con la fondamentale differenza, però, che oggi gli artt. 768-bis ss. c.c. si applicano anche, come si è già visto, anche alla trasmissione delle partecipazioni sociali, vista ora non già come oggetto di un negozio mortis causa, ma quale contenuto di un atto immediatamente efficace [76].

Per il resto potranno mettersi in luce gli aspetti salienti delle modifiche introdotte, ponendo direttamente a confronto il progetto originario in tema di patto di famiglia, elaborato sotto il coordinamento di Antonio Masi e Pietro Rescigno, con il successivo disegno di legge S/2799/XIII e con l’attuale disciplina, secondo lo schema che si propone qui di seguito:

 

Proposta elaborata sotto il coordinamento di Masi e Rescigno

Disegno di legge S/2799/XIII, di iniziativa dei senatori Pastore ed altri

L. 14 febbraio 2006, n. 55.

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Art. 1.

1. Al primo periodo dell’articolo 458 del codice civile sono premesse le seguenti parole: «Fatto salvo quanto disposto dagli articoli 768-bis e seguenti,».

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Art. 2.

1. Al libro II, titolo IV, del codice civile, dopo l’articolo 768 è aggiunto il seguente capo:

«Capo V-bis.

DEL PATTO DI FAMIGLIA

Art. 734-bis (Patto di famiglia). 1. L’imprenditore può assegnare, con atto pubblico, l’azienda a uno o più discendenti.

 

 

Art. 734-bis. Patto di famiglia.     1. L’imprenditore può assegnare, con atto di donazione, l’azienda a uno o più discendenti.

(…)

7. Il presente articolo si applica anche alle partecipazioni sociali.

 

Art. 768-bis. - (Nozione). – È patto di famiglia il contratto con cui, compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa familiare e nel rispetto delle differenti tipologie societarie, l’imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, l’azienda, e il titolare di partecipazioni societarie trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote, ad uno o più discendenti.

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Art. 768-ter. - (Forma). – A pena di nullità il contratto deve essere concluso per atto pubblico.

2. Al contratto devono partecipare oltre all’imprenditore i discendenti che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione.

2. Al contratto devono partecipare anche i discendenti che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione; possono parteciparvi, ai soli effetti di cui al sesto comma, il coniuge dell’imprenditore e coloro che potrebbero divenirne legittimari a seguito di modificazioni del suo stato familiare.

Art. 768-quater. - (Partecipazione). – 1. Al contratto devono partecipare anche il coniuge e tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell’imprenditore.

3. Coloro che acquistano l’azienda devono corrispondere agli altri discendenti legittimari e non assegnatari, ove questi non vi rinunzino in tutto o in parte, una somma non inferiore al valore delle quote previste dagli articoli 536 e seguenti.

3. Gli assegnatari dell’azienda devono liquidare gli altri partecipanti al contratto, ove questi non vi rinunzino in tutto o in parte, con il pagamento di una somma corrispondente al valore delle quote previste dagli articoli 536 e seguenti; i contraenti possono convenire che la liquidazione, in tutto o in parte, avvenga in natura.

 

Art. 768-quater. – 2. Gli assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie devono liquidare gli altri partecipanti al contratto, ove questi non vi rinunzino in tutto o in parte, con il pagamento di una somma corrispondente al valore delle quote previste dagli articoli 536 e seguenti; i contraenti possono convenire che la liquidazione, in tutto o in parte, avvenga in natura.    

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4. Salvo patto contrario, i beni assegnati con lo stesso contratto agli altri partecipanti non assegnatari dell’azienda, secondo il valore attribuito in contratto, sono imputati alle quote di legittima ad essi spettanti; l’assegnazione può essere disposta anche con successivo contratto che sia espressamente dichiarato collegato al primo e purché vi intervengano i medesimi soggetti che hanno partecipato al primo contratto o coloro che li abbiano sostituiti.

Art. 768-quater. – 3. I beni assegnati con lo stesso contratto agli altri partecipanti non assegnatari dell’azienda, secondo il valore attribuito in contratto, sono imputati alle quote di legittima loro spettanti; l’assegnazione può essere disposta anche con successivo contratto che sia espressamente dichiarato collegato al primo e purché vi intervengano i medesimi soggetti che hanno partecipato al primo contratto o coloro che li abbiano sostituiti.

4. Quanto ricevuto dai contraenti non è soggetto a collazione o riduzione.

5. Quanto ricevuto dai contraenti non è soggetto a collazione o riduzione.

 

Art. 768-quater. – 4. Quanto ricevuto dai contraenti non è soggetto a collazione o a riduzione.

5. All’apertura della successione, il coniuge e gli altri legittimari che non vi abbiano partecipato possono chiedere il pagamento della somma prevista dal terzo comma, aumentata degli interessi legali, a tutti i beneficiari del contratto.

6. All’apertura della successione dell’imprenditore, il coniuge e gli altri legittimari che non vi abbiano partecipato possono chiedere ai beneficiari del contratto il pagamento della somma prevista dal terzo comma, aumentata degli interessi legali.

Art. 768-sexies. - (Rapporti con i terzi). – 1. All’apertura della successione dell’imprenditore, il coniuge e gli altri legittimari che non abbiano partecipato al contratto possono chiedere ai beneficiari del contratto stesso il pagamento della somma prevista dal secondo comma dell’articolo 768-quater, aumentata degli interessi legali.

2. L’inosservanza delle disposizioni del primo comma costituisce motivo di impugnazione ai sensi dell’articolo 768-quinquies.

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Art. 768-quinquies. - (Vizi del consenso). – 1. Il patto può essere impugnato dai partecipanti ai sensi degli articoli 1427 e seguenti.

2. L’azione si prescrive nel termine di un anno.

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Art. 768-septies. - (Scioglimento). – Il contratto può essere sciolto o modificato dalle medesime persone che hanno concluso il patto di famiglia nei modi seguenti:

1) mediante diverso contratto, con le medesime caratteristiche e i medesimi presupposti di cui al presente capo;

2) mediante recesso, se espressamente previsto nel contratto stesso e, necessariamente, attraverso dichiarazione agli altri contraenti certificata da un notaio.

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Art. 768-octies. - (Controversie). – Le controversie derivanti dalle disposizioni di cui al presente capo sono devolute preliminarmente a uno degli organismi di conciliazione previsti dall’articolo 38 del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5.

 

Sezione II

Natura dell’istituto

 

 

6. La natura del patto di famiglia. Natura contrattuale ed immediata efficacia traslativa del patto. Il rifiuto della tesi del contratto a favore di terzi e della donazione modale.

 

Una notevole divergenza di vedute si registra già nei primissimi commenti agli artt. 768-bis ss. c.c. sulla natura del patto di famiglia. In particolare, se è vero che la pacificamente immediata (nel senso di non legata al decesso del tradens) operatività delle attribuzioni oggetto del patto, unita alla sicura riconducibilità del negozio che lo sostanzia allo schema ex art. 1321 c.c. induce (e non può che indurre) ad attribuire al negozio la natura di contratto, come del resto espressamente stabilito dall’art. 768-bis c.c. («E’ patto di famiglia il contratto…»), e di contratto inter vivos [77], non vi è dubbio che dal predetto accordo scaturiscano anche effetti mortis causa. Si pensi, in particolare, a quanto disposto dall’ult. cpv. dell’art. 768-bis cit., a mente del quale «Quanto ricevuto dai contraenti non è soggetto a collazione o a riduzione». A ciò potrà aggiungersi anche il primo comma dell’art. 768-sexies c.c., secondo cui «All’apertura della successione dell’imprenditore, il coniuge e gli altri legittimari che non abbiano partecipato al contratto possono chiedere ai beneficiari del contratto stesso il pagamento della somma prevista dal secondo comma dell’articolo 768-quater, aumentata degli interessi legali». E’ dunque certo che il contratto in oggetto appare idoneo a produrre anche effetti per il periodo successivo alla morte del disponente.

Sia consentita, a questo punto, una brevissima puntualizzazione sul carattere immediatamente efficace dell’atto. Qui, invero, vi è da dire che la tesi di un negozio i cui cui effetti potrebbero prodursi solo una volta apertasi la successione – pure da taluno prospettata – si scontra irrimediabilmente con più di un dato. In primo luogo, la considerazione dell’evoluzione storica dell’istituto [78] evidenzia la tendenza, dalla codificazione napoleonica in poi, a consentire l’anticipazione della successione a mezzo negozi irrevocabili, in quanto dotati di immediata efficacia. In secondo luogo, la ratio dell’istituto [79], volta a favorire e «blindare» un passaggio generazionale dell’azienda e delle partecipazioni societarie verrebbe frustrata ogni volta in cui l’imprenditore volesse (come del resto per lo più accade nella pratica) privarsi in vita della titolarità, o anche solo della nuda proprietà [80], dei beni e concedersi la «meritata pensione». Vi è da chiedersi che cosa tale soggetto potrebbe fare e la risposta non potrebbe essere individuata se non nel ricorso ad uno dei «tradizionali» strumenti sino ad ora in uso e, tra questi, in primis alla donazione. Una donazione che, però, non beneficerebbe della disattivazione della tutela dei legittimari propria del patto, con conseguente evidente ed ingiustificata disparità di trattamento rispetto al passaggio, in ipotesi (nell’ipotesi, cioè, che qui si contesta), legato al momento della morte del disponente. Non solo. Se il disponente, dopo la stipula del patto (sempre nella denegata ipotesi in cui, per absurdum, si ritenesse il patto non dotato di effetti traslativi immediati), dovesse decidere di «ritirarsi» e di «passare la mano», egli non potrebbe farlo se non risolvendo (con il consenso, ovviamente, di tutti i contraenti) il patto di famiglia, e stipulando una donazione, soggetta, questa volta, a collazione e a riduzione…

Il miglior partito è dunque quello di seguire il tenore letterale dell’art. 768-bis c.c., dove il Legislatore ha reso nel modo più evidente l’intento di dotare il patto di effetto traslativo immediato, mediante l’impiego dell’espressione «trasferisce», che, secondo il significato reso evidente dall’uso del tempo presente, denota proprio siffatto intento. Ma vi è di più. L’interpretazione sistematica dimostra che là ove il Legislatore ha inteso riferirsi ad un negozio dotato di efficacia successiva al decesso della parte, tale intenzione è stata esplicitata mediante un’espressione del genere «per il tempo in cui avrà cessato di vivere» (cfr. art. 587 c.c.). Il mancato impiego di siffatta espressione rende dunque evidente che il patto di famiglia ha ad oggetto un effetto traslativo non differito al momento della morte del disponente. Ma la prova decisiva della bontà di tale assunto viene dal fatto che l’art. 768-quater, ult. cpv., c.c. esonera espressamente da collazione i trasferimenti oggetto del patto. Ora, non si riesce a comprendere quale significato avrebbe l’esonero da collazione se riferito ad una disposizione che dovesse prendere effetto solo dalla morte del disponente, posto che l’istituto ex artt. 737 ss. c.c. ha tratto, per sua essenza e definizione, solo ed esclusivamente ad attribuzioni liberali compiute in vita e con efficacia inter vivos dal de cuius.

Quanto sopra non toglie, naturalmente, che il patto dispieghi anche effetti mortis causa, ma questi ultimi risiedono nella esistenza di un patto successorio dispositivo (e, per certi aspetti, anche rinunziativo), ma non certo di un patto successorio istitutivo [81].

Una volta chiarita la natura di vero e proprio contratto, sebbene con effetti almeno in parte mortis causa, del patto di famiglia, occorrerà subito sgombrare il campo dalla figura del negozio a favore di terzi [82]. A questa conclusione potrebbe infatti indurre la circostanza che la legge preveda, quale effetto principale, un trasferimento avente ad oggetto un’azienda o quote societarie in favore di uno o più discendenti e, dall’altra, l’obbligo di tali ultimi beneficiari di effettuare determinate prestazioni verso gli altri legittimari, non destinatari dei predetti trasferimenti. Ma è chiaro che, mentre necessario presupposto dell’archetipo negoziale ex artt. 1411 ss. c.c. è un accordo tra due (o più) soggetti, per il quale taluni effetti si produrranno verso uno o più soggetti estranei alla pattuizione, in questo caso gli effetti prodotti dal patto di famiglia verso i legittimari non destinatari del trasferimento d’azienda (o delle quote sociali) investono dei soggetti che – come meglio si vedrà oltre [83] – se decidono di aderire all’intesa tra disponente e destinatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie, sono vere e proprie parti del contratto e che quindi (per la… «contradizion che nol consente») terzi non possono essere.

Ciò è tanto più vero se si pensa al fatto che, ai sensi dell’art. 768-quater c.c., la mancata partecipazione di uno o più legittimari (e dunque la loro obiettiva situazione di «terzi» rispetto al contratto) esclude in apicibus la produzione di qualsiasi effetto nei loro riguardi, almeno sin tanto che gli stessi non decidano di aderirvi, non potendosi in altro modo interpretare il disposto dell’art. 768-sexies c.c. [84]. E d’altro canto non andrà dimenticato che i legittimari (partecipanti al patto) non assegnatari non sono comunque destinatari di soli effetti favorevoli [85], bensì subiscono anche un effetto negativo, costituito dal fatto che, con la stipula del contratto, essi rinunziano per sempre ed irrevocabilmente a far valere le loro ragioni di legittimari sull’azienda o sulle partecipazioni sociali. Neppure potrebbe ricorrersi alla figura del contratto a favore di terzi per qualificare il rapporto verso i legittimari non partecipanti al patto, espressamente qualificati «terzi» dalla rubrica dell’art. 768-sexies c.c. Se infatti, a tutta prima, si potrebbe essere tentati di considerare i diritti loro spettanti in base a tale norma alla stregua di un effetto a favore di terzi, andrà tenuto presente che questi soggetti ben possono far valere in pieno i diritti di legittimari, non vincolati, per l’appunto, al patto: nel momento in cui gli stessi dovessero decidere di  aderirvi ex post, essi verrebbero a disporre proprio di tali diritti e dunque a porre sul piatto della bilancia una prestazione che non consente in alcun modo di ridurre il contenuto dell’accordo ad un mero effetto favorevole nei loro confronti [86].

Si noti, per incidens, che un’adesione successiva dei legittimari che siano già tali al momento della stipula del patto, ma che non vi abbiano preso parte, sembra ammissibile non solo sulla base di quanto disposto dall’art. 768-sexies c.c., e dunque alla morte del disponente, bensì anche prima, sulla base dell’art. 768-septies, n. 1, c.c., laddove è prevista una modifica del patto «mediante diverso contratto, con le medesime caratteristiche e i medesimi presupposti di cui al presente capo». Ora, l’ingresso dei legittimari «pretermessi» dal patto soddisfa sicuramente le caratteristiche ed i presupposti del patto medesimo: esso, pertanto, potrà attuarsi, a condizione che, come richiesto dalla norma, vi aderiscano le medesime persone che hanno concluso l’accordo originario.

Tutto al contrario rispetto allo schema del contratto a favore di terzi, rimane dunque confermata, anche per tale nuova figura negoziale, la sottoposizione al fondamentale principio della privity of contract (art. 1372 c.c.).

 

 

7. La natura del patto di famiglia. In particolare: il rifiuto della tesi della donazione modale.

 

L’incertezza maggiore riguarda però sicuramente il richiamo alla figura della donazione.

Secondo alcuni, in senso contrario militerebbero, da un lato, l’impiego, da parte dell’art. 768-sexies c.c., del termine «beneficiari», per designare gli assegnatari dell’azienda o delle quote, ciò che evidenzierebbe che nella specie si dovrebbe trattare di «negozio gratuito con cui si anticipano in vita disposizioni di tipo testamentario» [87]; d’altro canto, occorrerebbe tenere conto anche della collocazione sistematica delle disposizioni al di fuori del titolo consacrato alle donazioni, nonché dell’assenza di animus donandi, avuto riguardo al fatto che, in questo caso, l’essenziale gratuità del negozio non corrisponderebbe all’intento di arricchire la sfera giuridica altrui, ma denoterebbe solo il desiderio di anticipare la propria successione nell’interesse dell’impresa [88]. Quanto sopra contribuirebbe, dunque, ad escludere il carattere donativo dell’attribuzione [89].

Di contro si potrebbe obiettare che l’utilizzo del termine «beneficiari» non sembra fornire  argomenti esegetici di sorta. Un’analisi delle disposizioni codicistiche in cui tale espressione – vuoi al singolare, vuoi al plurale – compare (cfr. artt. 1865, 1873, 1900, 1920, 1921, 1922, 1923, 2435 c.c.) non appare, invero, foriera di particolari frutti sul piano ermeneutico. Inoltre, non sembra che l’animus donandi sia escluso dall’intento di anticipare la propria successione. Da secoli, nella pratica dei rapporti familiari, le successioni vengono anticipate da donazioni, senza che ciò abbia mai sollevato dubbi sulla sussistenza di un intento liberale, tanto che una delle ragioni della soppressione, da parte del c.c. 1942, dell’antica divisione d’ascendente per atto tra vivi venne autorevolmente rinvenuta, sulla scorta dei lavori preparatori, proprio nel fatto che l’intento del disponente di anticipare la propria successione «può ugualmente essere conseguito mediante atti di donazione» [90].

        Del resto, numerosi sembrerebbero gli elementi in grado di orientare l’interprete – ad una prima analisi – proprio verso la donazione [91], per lo meno avuto riguardo all’attribuzione effettuata dal disponente al discendente destinatario dell’azienda o delle quote sociali. Si pensi, in primo luogo, all’assenza di ogni riferimento ad un corrispettivo della cessione da corrispondersi al cedente i beni aziendali o le partecipazioni societarie. Si ponga mente poi al fatto che il disposto dell’art. 768-quater, ultimo comma, c.c. sottrae alla collazione ed all’azione di riduzione l’oggetto del patto di famiglia, mentre il testo del già ricordato disegno di legge del 2 ottobre 1997, proposto su iniziativa dei Senatori Pastore ed altri, definiva espressamente il patto di famiglia come atto di donazione.

In quest’ottica si è, anzi, voluto qualificare il patto di famiglia alla stregua di una donazione modale, in cui il modus sarebbe costituito dall’obbligo di liquidazione di cui all’art. 768-quater cpv. c.c., con la conseguenza che siffatto onere, secondo quanto stabilito dall’art. 793 c.c., dovrebbe produrre i suoi effetti anche qualora il suo ammontare arrivasse ad assorbire l’intero arricchimento del donatario [92].

        Ma l’insostenibilità di quest’ultima tesi è resa palese non solo e non tanto dal fatto che l’adempimento dell’onere sia contestuale alla conclusione del contratto (ciò che potrebbe spiegarsi in base al fatto che gli stessi beneficiari del modo sono presenti in atto [93]), quanto dalla considerazione che, se i legittimari non rinunziano in tutto o in parte ai loro diritti, la liquidazione della quota di costoro è elemento costitutivo ad validitatem (e non già meramente accidentale) del patto: ciò che evidentemente appare incompatibile con il concetto stesso di modo [94]. In altri termini, e anche a voler prescindere dalla diatriba sulla validità della tradizionale distinzione tra elementi essenziali, naturali ed accidentali del negozio – criticata dagli studi meno risalenti sul tema, che hanno evidenziato come i c.d. elementi naturali non stiano sullo stesso piano degli altri due, atteso che non sono riconducibili alla volontà privata ma dipendono da norme suppletive [95] – rimane il fatto che il modo è, per definizione, elemento non essenziale, rimesso dalla legge alla discrezione del donante. Tutto al contrario, nel caso di specie, la decisione sulla liquidazione della quota ai legittimari non è certo lasciata all’ascendente, ma è imposta dalla legge a pena, con ogni probabilità, di nullità dell’atto. In questo senso, si potrebbe, a tutto concedere, parlare di una singolare forma di naturale negotii: di un elemento, cioè, che potrebbe essere eventualmente escluso non già da un accordo tra tutte le parti, come normalmente avviene in tali ipotesi, ma dalla rinunzia dei destinatari dell’attribuzione che forma normale oggetto dell’obbligazione gravante sull’assegnatario dell’azienda o delle quote sociali.

 

 

8. La natura del patto di famiglia. La tesi proposta.

 

        Chiarito quanto sopra, non vi è dubbio che, se il patto di famiglia consistesse nella sola attribuzione in favore dei destinatari dell’azienda o delle quote sociali, magari «compensata» da attribuzioni effettuate dallo stesso ascendente nei riguardi degli altri legittimari, la figura di riferimento più sicura sarebbe la donazione. Ed in questo senso potrebbero deporre i già evidenziati elementi costituiti dalla sottrazione delle attribuzioni di cui al patto alla collazione ed all’azione di riduzione, nonché il dato «storico» fornito dal disegno di legge S/2799/XIII. Elementi, questi, peraltro, «reversibili», nel senso che la sancita esclusione della collazione e dell’azione di riduzione potrebbe semplicemente sottolineare l’esigenza di fugare ogni dubbio sul carattere non donativo dell’atto, mentre il mancato inserimento del richiamo espresso all’istituto ex artt. 769 ss. c.c. potrebbe essere letto come una prova dell’intenzione del Legislatore di dar vita ad un contratto del tutto nuovo.

        E’, però, innegabile che – al di là dell’attribuzione dell’azienda o delle partecipazioni societarie – un altro elemento essenziale del contratto è costituito dalla liquidazione delle quote degli altri legittimari, o, in alternativa, dalla rinunzia da parte di costoro. Al riguardo si è prospettata [96] la presenza di una causa non già liberale, ma solutoria, dal momento che le attribuzioni in cui si sostanzia la liquidazione dei diritti dei legittimari non destinatari dell’azienda o delle quote sociali, pur se avvengono senza corrispettivo, sono in realtà finalizzate a consentire che la cessione dell’azienda (o delle partecipazioni societarie) non possa essere in futuro messa in discussione. Tali liquidazioni non possono dunque qualificarsi come atti di liberalità, in quanto è assente nell’assegnatario di azienda l’animus donandi. Nel caso, poi, alternativo di rinunzia, si potrebbe parlare di liberalità, ma di una liberalità che non proviene certo dall’ascendente che assegna l’azienda o le quote sociali, bensì proprio dai legittimari. Come si avrà poi modo di vedere oltre [97], neppure può parlarsi di donazione indiretta da parte del disponente, attesa l’impossibilità di ravvisare, da parte dei legittimari, la presenza di un «puro» arricchimento, dal momento che il vantaggio da essi conseguito si scambia con il loro sacrificio, consistente nella definitiva rinunzia a far valere pretese successorie sui beni trasferiti, in cambio di quanto ricevuto (o, addirittura, in caso di rinunzia, in cambio di nulla).

La soluzione all’interrogativo circa la natura del patto di famiglia – considerato nei suoi due fondamentali rapporti giuridici di cui si compone: l’attribuzione dal disponente al destinatario dell’azienda (o delle quote sociali) e l’attribuzione effettuata da quest’ultimo agli altri legittimari (ovvero, in alternativa, la rinunzia di costoro) – non può essere trovata se non considerando che il patto di famiglia costituisce un nuovo negozio giuridico. Un nuovo negozio giuridico che, oltre tutto, sottrae i beni che ne formano oggetto alla successiva delazione ereditaria, così ponendo una deroga al principio di unità della successione e realizzando un fenomeno di successione anomala, in quanto ha per oggetto beni che vengono separati dalla massa ereditaria [98].

Se quanto sopra è vero, siffatto nuovo tipo di negozio è sicuramente distinto tanto dalla donazione che dal testamento, ed appare dotato di una sua autonoma disciplina, che realizza finalità distinte. Così a quella di liberalità, che contraddistingue il trasferimento dell’azienda (o di partecipazioni) a favore del (o dei) discendenti, s’affianca una finalità solutoria (nei termini sopra precisati), che concerne la liquidazione – imposta dalla legge – dei diritti di legittima spettanti ai legittimari non assegnatari dell’azienda (o delle partecipazioni societarie), salvo loro rinuncia [99].

Questa tesi non appare incompatibile con quella, sicuramente convincente, già prospettata in dottrina [100], che ravvisa nella nuova figura una causa unitaria, rappresentata dalla funzione di regolamentazione dei futuri assetti successori dei legittimari in ordine all’azienda ceduta, ad instar di quanto da tempo proposto dallo scrivente  in relazione ai contratti della crisi coniugale [101]. La causa di questi negozi consiste, invero, nella determinazione definitiva dell’assetto dei rapporti tra coniugi in crisi, ma, come tale, può coinvolgere anche attribuzioni in favore di terzi soggetti (si pensi ai figli), rispetto ai quali siffatti atti dispositivi assolvono finalità solutorie dell’obbligo di mantenimento, ovvero, quando tali finalità travalicano, possono anche manifestare un intento liberale [102].

Del resto – e a prescindere dal tema dei contratti della crisi coniugale – la realizzazione di funzioni diverse all’interno di negozi giuridici nominati non è sconosciuta al diritto di famiglia. Si pensi a quanto accade, ad esempio, nella stipula di una convenzione costitutiva del regime di comunione convenzionale, nel quale le parti pattuiscano il «conferimento» in comunione di uno o più beni di cui il coniuge sia già titolare. Qui, invero, la soluzione preferibile induce ad affermare che, pur non potendosi ravvisare nell’attribuzione patrimoniale in oggetto una donazione, dal momento che la translatio dominii trova la sua causa in un ben preciso negozio tipico (art. 210 c.c.), siffatto trasferimento della titolarità di una quota sul bene può qualificarsi alla stregua di una liberalità, che parte della dottrina non esita a ricondurre alla specie della donazione indiretta [103].

Concludendo sul punto sembra quindi potersi affermare che la necessità di individuare una figura negoziale nuova, dotata di una sua causa tipica – quale indiscutibilmente si realizza con il patto di famiglia – non escluda la possibilità di riconoscere la presenza di distinte funzioni,  per i rapporti che possono (o, come nel caso di specie, debbono) comporlo, la cui combinazione viene a porre in essere il nuovo tipo di negozio: una funzione liberale, nell’attribuzione a favore del destinatario (o dei destinatari) dell’azienda o delle quote sociali, ed una funzione solutoria, nelle attribuzioni in favore degli altri legittimari.

 

 

9. Corollari in tema di forma e di rapporti con la comunione legale tra coniugi.

 

Le conclusioni che si sono raggiunte nel paragrafo precedente consentono di affrontare il tema, non certo agevole, posto dalle ricadute della tesi prescelta sulla natura del patto di famiglia in tema di forma del contratto e di rapporti con il regime di comunione legale dei beni tra coniugi.

        Per il primo profilo, stabilisce l’art. 768-ter che «A pena di nullità il contratto deve essere concluso per atto pubblico». La legge non impone peraltro la forma dell’atto pubblico notarile, né la presenza di testimoni. Esclusa la possibilità di configurare il patto, per le ragioni sopra illustrate, alla stregua di una donazione [104], va detto che, per quanto attiene al primo aspetto (cioè alla forma necessariamente, o meno, notarile), il richiamo alla «dichiarazione agli altri contraenti certificata da un notaio» (di cui all’art. 768-septies, n. 2, c.c.) consente di desumere, con una certa dose di buona volontà, l’intento del Legislatore di imporre ad substantiam la forma dell’atto notarile per la stipula del patto: se, infatti, l’intervento del notaio è espressamente richiesto per l’esercizio del diritto di recesso, a maggior ragione deve ritenersi che siffatto intervento sia domandato per la stipula di quell’atto che siffatto diritto potestativo di recesso può prevedere (ed anzi deve espressamente prevedere, perché il recesso possa validamente compiersi).

Non sarà dunque possibile dar vita al patto ex artt. 768-bis ss. c.c., in sede, ad esempio, di stipula di un contratto della crisi coniugale di fronte a cancelliere in verbale di separazione o di divorzio su domanda congiunta: ciò ancora a prescindere, naturalmente, dal profilo della possibilità o meno della partecipazione all’udienza anche di soggetti che non sono parti, in senso tecnico, della procedura, quali i figli [105].

Per ciò che attiene poi alla presenza dei testimoni, va ricordato che l’attuale versione dell’art. 48 l.notar., così come riformata dall’art. 12, lett. b) e c), l. 28 novembre 2005, n. 246 («Semplificazione e riassetto normativo per l’anno 2005»), non consente in alcun modo un’estensione analogica al patto di famiglia della disposizione dettata in tema di forma della donazione o della convenzione matrimoniale, atteso il carattere pacificamente eccezionale – ricavabile dal raffronto con il precedente art. 47 – che la disposizione è venuta ad assumere [106].

Resta comunque il fatto che, iniziandosi già in dottrina a prospettare, come si è visto, la tesi, non condivisibile, della donazione, appare opportuno, dal punto di vista pratico, suggerire ai notai di disporre comunque l’intervento in atto dei testimoni. La loro presenza, invero, sebbene del tutto superflua, allo stato attuale della legislazione, non determina comunque l’invalidità dell’atto, laddove la loro assenza comporterebbe rischi di nullità, ove avesse ad affermarsi la tesi della donazione.

        Venendo al tema dei rapporti con l’istituto ex artt. 177 ss. c.c., si pone il problema della caduta o meno in comunione di quanto ricevuto sia dai soggetti destinatari dell’azienda (o delle quote sociali), sia dagli altri legittimari. Per quanto attiene al primo gruppo, sembra potersi affermare, che, in considerazione del già evidenziato carattere indubbiamente liberale dell’attribuzione, dovrebbe trovare applicazione il disposto dell’art. 179, lett. b), c.c., tanto più che, come noto, l’interpretazione prevalente (ed al momento assolutamente unanime nella giurisprudenza di legittimità) estende l’applicazione della norma in oggetto al campo delle donazioni indirette [107]. Siffatto profilo dovrebbe dunque risultare assorbente anche in relazione alla possibile prospettazione di tali acquisti alla stregua di beni destinati all’esercizio dell’impresa del coniuge acquirente (o incrementi dell’azienda di quest’ultimo), ex art. 178 c.c. 

A diverse conclusioni si dovrebbe invece pervenire per le attribuzioni in favore degli altri legittimari, atteso che il denaro o i beni ricevuti sono trasmessi dall’assegnatario dell’azienda o delle partecipazioni societarie non già per spirito di liberalità, ma per adempiere ad un preciso obbligo imposto dalla legge, mentre, per quanto attiene al rapporto verso il disponente, neppure può parlarsi di donazione indiretta da parte sua [108].

D’altro canto non può nemmeno invocarsi l’art. 179, lett. b), c.c. in relazione al disposto concernente i beni acquisiti «per effetto di (…) successione», posto che il fenomeno acquisitivo descritto dall’art. 768-quater c.c., sebbene in qualche modo legato a profili successori, non è certo riconducibile all’acquisto mortis causa. Con ogni probabilità, anche in questo caso sarebbe opportuno prevedere una modifica legislativa, attesa l’evidente «prossimità» delle attribuzioni in discorso al campo successorio. Dal punto di vista pratico sarà comunque opportuno che il notaio prospetti tale problema ai legittimari ed eventualmente – avuto riguardo al noto revirement operato nel 2003 dalla Corte di legittimità, che è venuta a sottrarre la possibilità di impedire la caduta in comunione mediante l’espressione di un rifiuto preventivo di coacquisto [109] – consigli agli interessati di previamente procedere alla stipula di una convenzione di separazione dei beni.

Concludendo su questo punto specifico potrà solo farsi qui cenno al fatto che il rifiuto della tesi che vede nel patto di famiglia una donazione porta inevitabilmente anche ad escludere dal novero dei relativi partecipanti i figli nascituri concepiti o non ancora concepiti, come si avrà modo di vedere trattando del tema dei soggetti del patto [110]. D’altro canto, per le stesse ragioni, dovrebbe ritenersi fuori gioco l’art. 437 c.c., per cui il destinatario dell’azienda o delle partecipazioni sociali non sarebbe tenuto, per effetto del patto, a prestare gli alimenti all’ascendente. Ancora, come si dirà in seguito, dovrebbe risultare inapplicabile l’art. 774 c.c. [111], così come l’art. 778 c.c.

 

 

10. Patto di famiglia e patti successori.

 

Sempre rimanendo in tema di natura giuridica del patto di famiglia e di individuazione dei limiti entro cui l’autonomia privata può operare, si potrà cercare di delineare ora brevemente i rapporti di siffatta figura con i patti successori [112].

Al rapporto con i patti successori fa espresso richiamo, innanzi tutto, la relazione alla proposta di legge n. 3870 dell’8 aprile 2003 – da cui ha preso le mosse il provvedimento normativo in commento – nella quale si legge, come già evidenziato in apertura del presente lavoro, che «la ratio del provvedimento deve essere rinvenuta nell’esigenza di superare in relazione alla successione di impresa la rigidità del divieto dei patti successori, che contrasta non solo con il fondamentale diritto all’esercizio dell’autonomia privata, ma altresì e soprattutto con la necessità di garantire la dinamicità degli istituti collegati all’attività d’impresa». A tale notazione fa poi eco, sul piano normativo, l’espressa modifica, disposta dall’art. 1, l. 14 febbraio 2006, n. 55, dell’art. 458 c.c., che ha inserito nel primo comma della norma l’inciso: «Fatto salvo quanto disposto dagli articoli 768-bis e seguenti».

Questo richiamo non è però rimasto esente da critiche.

In effetti, già in relazione al citato progetto stilato sotto il coordinamento di Antonio Masi e di Pietro Rescigno [113], parte della dottrina aveva ritenuto di dover affermare «con assoluta certezza che il patto di famiglia (…) non configura un patto successorio perché ciò che forma oggetto dell’attribuzione è l’azienda nella consistenza che ha al momento dell’atto dispositivo, l’effetto attributivo è immediato e allo stesso modo immediata è anche la determinazione del soggetto o dei soggetti beneficiari». Nella sostanza, continuava il contributo citato, «il risultato che si realizza è identico a quello che già oggi si potrebbe realizzare con una donazione in quote indivise a tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione e con una contestuale cessione dei diritti a titolo oneroso da parte di alcuni donatari a colui o a coloro che sono destinati a gestire l’azienda di famiglia». Poste tali premesse, il contributo concludeva rilevando – con osservazione sicuramente valida ancora oggi – che «La vera portata innovativa della norma (…) non consiste in una deroga al divieto dei patti successori, bensì in una disattivazione dei meccanismi di tutela che l’ordinamento ha predisposto a favore dei familiari e segnatamente la riduzione e la collazione» [114].

Più di recente, a commento della novella sul patto di famiglia, si è pure negato che l’istituto ex artt. 768-bis ss. c.c. si ponga in qualche modo in deroga al divieto dei patti successori, dal momento che il diritto di legittima non sarebbe dismesso, ma sarebbe, anzi, reso immediatamente esercitabile, con la conseguenza che non potrebbe scorgersi, nell’operazione, una corrispondente rinuncia [115].

        A questa impostazione si può però obiettare [116] che, nella disciplina introdotta dal nuovo testo legislativo, è possibile individuare quanto meno un patto successorio dispositivo, rappresentato dalla convenzione in base alla quale il destinatario dei beni aziendali o delle quote, all’atto della stipulazione, soddisfa le ragioni di legittimario dei non assegnatari, versando una somma corrispondente al valore della legittima, contestualmente calcolata fingendo che la successione del donante si fosse testé aperta. Tale previsione introduce una deroga ad un principio dell’ordinamento in forza del quale la determinazione dei diritti dei legittimari ai fini della riduzione si compie in base al valore dei beni oggetto di disposizioni al momento di apertura della successione (art. 556 c.c.) [117]: diritti dei legittimari che non vengono neppure in essere se non al momento della morte del de cuius [118].

Qui il patto successorio dispositivo è ravvisabile proprio nel fatto che l’assegnatario, in vita del de cuius, anticipa ai suoi fratelli o sorelle ed all’altro genitore quanto di loro spettanza sui beni, oggetto del patto, che altrimenti cadrebbero in successione. In cambio di ciò, i soggetti non assegnatari, nel momento in cui accettano la liquidazione della quota, in denaro o in natura, assumono il ruolo di disponenti, in quanto, in sostanza, alienano al donatario, dietro corrispettivo, la porzione di legittima sul bene oggetto del patto di famiglia. In tal modo, è innegabile che i non assegnatari stanno disponendo dei diritti che possono loro competere su una successione altrui non ancora aperta [119]. E, ovviamente, a nulla vale replicare che, con il patto, il diritto alla legittima viene immediatamente esercitato, proprio perché esercitare un diritto, in cambio di una determinata prestazione, significa inevitabilmente disporre del medesimo e dunque disporre di un’entità che l’art. 458 c.c. vuole intangibile usque ad vitae (del de cuius) supremum exitum.

Da un secondo punto di vista può poi ravvisarsi nel patto di famiglia un patto successorio rinunziativo. Al riguardo si è sostenuto che, qualora i non assegnatari rinuncino alla liquidazione, si realizza un patto successorio rinunziativo poiché, in sostanza, tali soggetti rinunciano preventivamente a diritti di legittima che possono loro competere sulla successione del genitore non ancora aperta [120]. A quest’affermazione può contrapporsi quella di chi ha rilevato come, in tal caso, la rinunzia investa invece il diritto ad ottenere la liquidazione: diritto, che, sorgendo con il contratto, deve definirsi diritto attuale [121]. In realtà, il profilo rinunziativo del patto va visto anche qui nel fatto che, con la sottoscrizione del medesimo, il legittimario rinunzia sempre e comunque (indipendentemente dalla posizione che possa avere assunto in merito alla liquidazione) alla possibilità di pretendere la legittima che a lui su quei determinati beni competerebbe all’atto dell’apertura della successione, anche se questa dovesse eventualmente rivelarsi, in quel momento, di valore ben diverso rispetto alla somma accettata in sede di stipula del patto [122].

Va da séche il patto di famiglia non costituisce, invece, un patto successorio istitutivo (o confermativo), non producendo effetti mortis causa sul patrimonio del disponente [123].

La conclusione circa la natura eccezionale del patto di famiglia è foriera di evidenti conseguenze sul piano ermeneutico, come si vedrà in dettaglio oltre. La regola di cui all’art. 14 prel. verrà così a costituire un limite al principio d’autonomia privata che, in base all’art. 1322 c.c., al patto di famiglia è sicuramente applicabile. Ne deriva dunque che, ogni qualvolta l’esercizio della libertà contrattuale nell’ambito del patto di famiglia dovesse portare a conseguenze in contrasto con l’art. 458 c.c., non riconducibili a quelle disciplinate dagli artt. 768-bis ss. c.c., le relative clausole dovrebbero ritenersi nulle per contrasto con norme imperative.

 

 

Sezione III

I profili soggettivi dell’istituto

 

 

11. I soggetti del patto di famiglia. La (non necessaria) partecipazione di tutti i legittimari.

 

Volgendo ora l’attenzione al profilo soggettivo del patto, va subito detto che, in alcuni dei primi commenti alla novella in esame, è stata proposta l’opinione secondo cui la partecipazione al patto di famiglia da parte di tutti i legittimari sarebbe necessaria ad validitatem. Così, si sottolinea, da un lato, il carattere necessariamente plurilaterale del negozio [124], avuto altresì riguardo alla denominazione prescelta dal Legislatore (patto di famiglia), che indurrebbe a ritenere, per l’appunto, la partecipazione di tutti i legittimari del disponente (rectius: di tutti coloro che sarebbero legittimari, se si aprisse la successione nel momento della stipula del patto), anche ai sensi degli artt. 1420 e 1446 c.c., con la conseguenza che l’omessa partecipazione, in questo caso, determinerebbe non l’inefficacia, ma la nullità ab origine del contratto [125].

        Ad avviso di chi scrive la soluzione di cui sopra va però verificata alla luce del disposto dell’articolo 768-sexies c.c., secondo il quale «all’apertura della successione dell’imprenditore, il coniuge e gli altri legittimari che non abbiano partecipato al contratto possono chiedere ai beneficiari del contratto stesso il pagamento della somma prevista dal secondo comma dell’articolo 768-quater, aumentata degli interessi legali. L’inosservanza delle disposizioni del primo comma costituisce motivo di impugnazione ai sensi dell’articolo 768-quinquies».

        Secondo i sostenitori della tesi della necessaria partecipazione, ad validitatem, di tutti i legittimari, questo articolo potrebbe riferirsi ai soli legittimari sopravvenuti (si pensi ai figli nati o adottati successivamente, o al nuovo coniuge) [126]. A chi scrive sembra però che debba prospettarsi un’altra interpretazione: vale a dire quella secondo cui, proprio dal tenore di questa norma, può ricavarsi che la sanzione per la mancata partecipazione di uno o più legittimari già esistenti al momento della stipula del patto non consiste nella nullità del patto medesimo, ma nell’applicazione delle sole conseguenze di cui all’art. 768-sexies c.c. [127]. Ora, il tenore letterale della disposizione da ultimo citata sembra suffragare proprio questa seconda soluzione. Come si avrà modo di vedere meglio oltre, lungi dallo stabilire che gli effetti del patto si estendano anche ai legittimari che non lo abbiano sottoscritto, l’art. 768-sexies c.c. si limita a prevedere che tali terzi  «possono» chiedere ai beneficiari del contratto stesso il pagamento della somma prevista dal secondo comma dell’articolo 768-quater, aumentata degli interessi legali. Da ciò è desumibile l’intento del Legislatore di consentire a costoro di aderire al patto, fermo restando che, in caso contrario, ad essi il patto non sarà opponibile, in applicazione, del resto, del generale principio scolpito nell’art. 1372 cpv. c.c. [128].

D’altro canto, il riferimento testuale ai «legittimari che non abbiano partecipato al contratto», anziché ai (soli) «legittimari che non abbiano potuto partecipare al contratto» e la predisposizione della speciale sanzione dell’inefficacia del patto verso quei legittimari che – per qualsiasi ragione e senza differenziazione alcuna in merito al momento d’acquisto della loro qualità di legittimari – «non abbiano partecipato al contratto», consente di superare la tesi della «nullità virtuale» per «violazione di norma imperativa (art. 768-quater c.c.), in quanto sottratta alla disponibilità delle parti» [129]. Di nullità virtuale non appare invero possibile parlare allorquando il Legislatore commini espressamente, come si è visto, una diversa sanzione, incompatibile con la nullità.

A ciò s’aggiunga che non può neppure giustificarsi la tesi della nullità virtuale sulla base del rilievo [130] secondo cui la partecipazione dei soggetti non assegnatari è necessaria al fine di rendere inattaccabile il patto di famiglia, poiché gli assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni devono liquidare i primi, ove questi non rinunzino in tutto o in parte alla stessa liquidazione, con una somma corrispondente al valore delle quote previste dagli artt. 536 e ss. c.c. Siffatta liquidazione, invero, è concessa dal Legislatore – come si è appena visto – anche nel caso di pretermissione, per qualsiasi motivo, di uno o più dei legittimari, quale precipuo effetto di quanto disposto dall’art. 1372 c.c. In assenza di tale liquidazione successiva alla morte del disponente – sollecitata, evidentemente, dagli interessati che nel frattempo avranno aderito al patto – il patto sarà non già nullo, ma annullabile su iniziativa dei legittimari «pretermessi» (cfr. art. 768-sexies cpv. c.c.), che potranno, in alternativa, anche non impugnare il negozio, ma sfruttare la loro posizione di terzi rispetto al contratto per utilizzare tutti i rimedi loro concessi dalla normativa in tema di legittima.

Ancora, si potrà osservare che anche l’argomento storico sembra condurre a questa soluzione. Invero, l’art. 1047 c.c. 1865 – ai sensi del quale la divisione d’ascendente per atto tra vivi era «interamente nulla», qualora non fossero stati «compresi tutti i figli che saranno chiamati alla successione e i discendenti dei figli premorti» – sembra proprio dimostrare che, allorquando il Legislatore intese elevare la preterizione di uno dei legittimari a causa di nullità dell’attribuzione anticipatoria della successione, lo disse espressamente [131].

Le conclusioni di cui sopra non coincidono con i risultati dell’analisi svolta da quella dottrina che, sostenendo l’essenziale bilateralità del negozio in oggetto, ha affermato che il patto si perfezionerebbe esclusivamente con l’accordo della parte che compie l’assegnazione e della parte che l’assegnazione riceve, mentre il coniuge e gli ulteriori legittimari del disponente andrebbero sempre e comunque ritenuti terzi, anche nel caso in cui gli stessi dovessero partecipare all’atto [132]. Ora, se è vero che la partecipazione di tali soggetti al patto di famiglia può far difetto, per le ragioni sopra illustrate, è altrettanto vero che la novella non sembra voler porre i legittimari partecipanti al patto su di un piano diverso rispetto a quello dei destinatari dell’azienda o delle quote. Non appare infatti sostenibile la tesi secondo cui l’utilizzo del verbo «partecipare» denoterebbe l’ «intervento ad una entità fenomenica già completamente formatasi ad opera di altri, cui ontologicamente appartiene» [133]. Il rilievo è infatti smentito dal testo della disposizione codicistica di riferimento in materia di contratto plurilaterale (art. 1420 c.c.), ove il termine impiegato per denotare la posizione di ciascuno dei soggetti di tale contratto – posti tutti, evidentemente, su di un piede di esatta parità – è proprio il sostantivo «partecipazione».

Ne consegue che è da escludersi che ai legittimari non assegnatari competa la posizione di terzi quando costoro, come previsto dall’art. 768-quater c.c., partecipino al patto di famiglia. La loro veste sarà invece quella di vere e proprie parti del contratto che, per effetto della loro presenza, andrà qualificato come plurilaterale. Peraltro, non postulando la legge, come si è detto, la necessaria partecipazione di questi soggetti, potrebbero darsi casi di patto di famiglia aventi una struttura meramente bilaterale (quando, cioè, in atti compaiano il solo genitore disponente ed il figlio destinatario dell’attribuzione dell’azienda o delle partecipazioni sociali), ovvero plurilaterale (con la partecipazione, quindi, di uno o più degli altri legittimari, non assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie), ancorché in assenza di tutti i legittimari esistenti e come tali titolati ad essere soggetti del negozio, senza che ciò dispieghi effetti sulla validità del medesimo, per le ragioni e con le conseguenze illustrate.

Le conclusioni sono del resto confermate dalla rubrica dell’art. 768-sexies («Rapporti con i terzi»), che qualifica «terzi» proprio e solo quel coniuge e quei legittimari che non abbiano partecipato al contratto, così definitivamente confermando che il termine «terzo» può essere qui impiegato esclusivamente in relazione al fatto di avere o non avere sottoscritto il patto di famiglia, a prescindere dalla posizione che si sia eventualmente assunta nel medesimo.

Ciò premesso, è chiaro che, dal punto di vista pratico, l’effettiva partecipazione di tutti i legittimari alla stipula del patto di famiglia consentirà a quel nucleo familiare, in sede di apertura della successione, se non di evitare del tutto (viste le numerose incertezze che sul piano ermeneutico l’istituto in esame pone), quanto meno di attenuare gli inconvenienti e le diatribe legati alle pretese che costoro potrebbero far valere. E’ dunque di tutta evidenza che il notaio dovrà prospettare tali scenari ai propri clienti, raccomandando loro l’opportunità di convincere tutti i potenziali contraenti a prendere parte effettiva al negozio.

 

 

12. I soggetti del patto di famiglia: la posizione del coniuge (e il problema dei contraenti premorti al disponente).

 

        Del tutto peculiare appare la posizione del coniuge del disponente, quale soggetto che può trovarsi a perdere, successivamente alla stipula del patto, la qualità di legittimario, non solo per effetto di predecesso rispetto alla scomparsa del disponente, ma anche in conseguenza di divorzio. Proprio per questo motivo la già ricordata proposta elaborata dal gruppo di studio in tema di «Successione ereditaria nei beni produttivi» non aveva incluso tale soggetto tra i legittimati a partecipare al patto, attribuendo peraltro al (solo) coniuge superstite il diritto di ottenere la liquidazione al momento dell’apertura della successione del disponente.

Da taluno [134] si è sollevato l’interrogativo circa la sussistenza di un obbligo, in capo al coniuge firmatario del patto, di restituire quanto eventualmente ricevuto, una volta che il rapporto di coniugio dovesse venire meno per effetto della cessazione degli effetti civili o dello scioglimento del matrimonio. Ma la tesi favorevole all’esistenza di quest’obbligo sembra priva di fondamento normativo.

        Le attribuzioni in esame posseggono infatti una loro giustificazione ben precisa, riscontrabile non già nelle disposizioni in tema di successione, ma nell’attribuzione inter vivos oggetto del patto di famiglia. Gli artt. 768-bis ss. c.c. non solo non prevedono alcun obbligo di restituzione nel caso la qualità di legittimario dovesse venire a cessare, ma danno chiaramente ad intendere che l’eventuale presenza, all’atto del decesso del disponente, di un «parco legittimari» diverso da quello esistente al momento della firma del patto, non costituisce in alcun modo ragione di scioglimento del contratto. Tutto al contrario, all’apertura della successione del disponente, il coniuge e gli altri legittimari che non abbiano partecipato al negozio «possono chiedere ai beneficiari del contratto stesso il pagamento della somma prevista dal secondo comma dell’articolo 768-quater, aumentata degli interessi legali», in base ad una norma (art. 768-sexies c.c.), che, come si avrà modo di vedere in seguito [135], offre ai legittimari «terzi» solo l’alternativa tra la possibilità di aderire al patto e quella di avvalersi degli strumenti ordinari a tutela della quota di legittima, senza alcuna possibilità di impugnare il patto medesimo (a meno che, una volta che il legittimario abbia aderito allo stesso, le altre parti non adempiano all’obbligo di liquidazione previsto dalle norme citate) [136].

Se questo è vero, non si vede per quale ragione la premorienza di uno dei legittimari rispetto al disponente dovrebbe determinare il diritto degli altri partecipanti di chiedere agli eredi non discendenti del premorto (si pensi al coniuge, in assenza di figli) la restituzione di quanto ricevuto per effetto del patto da parte del legittimario predeceduto [137]. E lo stesso, naturalmente, vale anche per il coniuge che venga a cessare di essere tale per effetto di divorzio dal disponente.

La conclusione di cui sopra riceve del resto conforto anche dallo studio dell’evoluzione storica dell’istituto. Come si è visto, nel sistema francese prenapoleonico era pacifico che, tanto nella démission de biens che nel partage d’ascendant, in caso di premorienza di uno dei figli (privo di discendenti che potessero succedergli per rappresentazione), le relative disposizioni divenissero inefficaci relativamente a tale figlio premorto, con conseguente accrescimento delle porzioni degli altri figli che avevano partecipato all’atto, con la conseguenza che gli eredi non legittimari del figlio premorto non succedevano nei beni attribuiti a quest’ultimo con la démission o il partage [138]. Ma questo era il portato del carattere mortis causa delle attribuzioni in discorso, direttamente connesso alla loro revocabilità. Proprio per questa ragione, quando, come si è visto, con il Code Napoléon, la divisione d’ascendente per atto tra vivi venne dotata del carattere dell’irrevocabilità, i primissimi commentatori, dopo essersi interrogati sulla perdurante vigenza del principio sopra illustrato, conclusero che, poiché il nuovo partage dava luogo a «un dessaisissement de la part du partageant, de la portion assignée dans le partage à l’enfant prédécédé sans enfans», questa porzione non poteva più trovarsi nella successione dell’ascendente che aveva effettuato inter vivos la divisione: «elle compose la succession même de l’enfant prédécédé, ou au moins, elle en fait partie, parce qu’il peut laisser d’autres biens» [139].

Tornando alla posizione peculiare del coniuge, da un punto di vista meramente pratico, potrebbe aggiungersi che l’impatto effettivo del dubbio sopra prospettato appare modesto, posto che, assai sovente (per lo meno, avuto riguardo alle ipotesi paradigmatiche che la normativa sul patto di famiglia intendeva disciplinare), è da presumere che il coniuge rinunzierà ad ogni forma di liquidazione che, come noto, andrebbe posta a carico proprio di quei discendenti che, con il patto, tanto il disponente che, con ogni probabilità, il relativo coniuge, vorrebbero avvantaggiare.

Peraltro, in correlazione con la più volte ribadita natura contrattuale del patto di famiglia e in applicazione dei principi in tema di autonomia privata, si potrebbe ipotizzare l’apposizione di una condizione risolutiva al patto di famiglia, in forza della quale la partecipazione del coniuge al patto verrebbe meno in caso di suo divorzio, con conseguente obbligo di restituzione di quanto eventualmente ricevuto.

La conclusione sembra rafforzata dalle conclusioni cui la dottrina unanime perviene in caso di donazioni tra coniugi. Non vi è infatti incertezza tra gli Autori sulla liceità della donazione, sia obnuziale che in costanza di matrimonio, risolutivamente condizionata alla pronunzia di divorzio: la condizione avente ad oggetto lo scioglimento del matrimonio per divorzio (ma anche, è da ritenere, per separazione legale o di fatto), invero, non può intendersi come divietante quello scioglimento, quindi non è illecita. Essa non coarta una libertà fondamentale e preziosa, né può ipotizzarsi costituisca una remora alla richiesta di divorzio, vista la perdita del vantaggio conseguente alla donazione. Più semplicemente, è il fatto in sé, eventuale e futuro, eletto a condizione, ad operare in termini risolutivi [140]. Quanto sopra riceve del resto conferma dalla comparazione con l’ordinamento tedesco, in cui si ammette la piena validità del negozio di trasferimento di un bene mobile da un coniuge all’altro, con riserva di un Rückforderungsrecht für den Fall der Scheidung [141].

        Un problema piuttosto delicato sembra porsi con riguardo ad un eventuale secondo (o terzo, quarto e così via…) coniuge, soggetto sicuramente «estraneo» alla compagine familiare che stipulò il patto originario. Peraltro, quale legittimario «sopravvenuto», il nuovo coniuge potrebbe aderire a quel contratto, con il consenso di tutte le altre parti, che darebbero così luogo ad una modifica del patto iniziale, ex art. 768-septies c.c. In caso contrario, il nuovo coniuge potrebbe aderire al patto al momento della morte del disponente: questa volta, però, anche contro la volontà degli altri legittimari, ai sensi e per gli effetti dell’art. 768-sexies c.c.; in alternativa, egli potrebbe però sempre valersi dei rimedi a tutela dei legittimari. Sarà bene dire a questo punto che, secondo un’opinione [142], il nuovo coniuge sarebbe legittimato a chiedere la somma ex art. 768-sexies c.c. solo al coniuge precedente (o, è da ritenere, agli eredi di quest’ultimo, in caso di suo predecesso). Ma la tesi contrasta, da un lato, con le conclusioni sopra illustrate sulla definitività delle attribuzioni oggetto del patto e, dall’altro, non spiega cosa succederebbe nell’ipotesi in cui il coniuge che aveva partecipato al contratto avesse rinunziato ai diritti ex artt. 536 ss. c.c., ovvero si fosse accontentato di una liquidazione in misura inferiore, magari di molto, al dovuto.

        E’ più che evidente che, in caso di accordo tra tutte le parti, subito dopo le nuove nozze converrebbe procedere ad una modifica del patto, con la partecipazione del nuovo coniuge che, aderendo al contratto originario, potrebbe esprimere una rinunzia totale o parziale alla liquidazione spettantele. D’altro canto, una volta celebrato il matrimonio, i diritti di legittimario competenti al nuovo coniuge in relazione al patto stipulato in epoca precedente non sono certo disponibili, se non con il consenso di tale soggetto, che potrebbe quindi tranquillamente «rimangiarsi» eventuali promesse di sottoscrivere l’accordo generosamente rilasciate in epoca precedente alle nozze, magari al solo fine di ingraziarsi il «beneplacito» dei figli del disponente alla celebrazione del nuovo matrimonio.

        Come impedire, dunque, che il passaggio del disponente a nuove nozze venga ad alterare l’equilibrio espresso dal patto?

        Andrà subito detto che sembra difficile ipotizzare la vincolatività di una promessa di adesione al patto (con rinunzia totale o parziale ai propri diritti) rilasciata dal futuro coniuge in epoca precedente alle nozze. Se, invero, da un lato, si potrebbe propendere per la validità di una simile «prova d’amore» richiesta dal disponente (e, forse, più di lui, dai suoi discendenti), configurando la fattispecie alla stregua di un contratto preliminare unilaterale [143], dall’altro vi è da tener conto del fatto che anche per la stipula di un preliminare di patto di famiglia sembra necessario che i soggetti posseggano, già in quel momento, le qualità richieste dagli artt. 768-bis e 768-quater c.c., mentre non vi è dubbio che coniuge (e come tale, legittimario) sia solo colui che ha celebrato le nozze e non certo il semplice promesso sposo. Per la stessa ragione non sembra possibile ipotizzare, anche a prescindere dallo schema del preliminare, un accordo (definitivo) di modifica del patto di famiglia sottoscritto nei termini sopra indicati dal futuro coniuge e sottoposto alla condizione delle future nozze, sebbene la considerazione di quanto accade con riguardo alle convenzioni matrimoniali [144] potrebbe forse fornire qualche elemento nel senso dell’ammissibilità (con efficacia, ovviamente, condizionata non solo ex contractu, ma addirittura ex lege, alla celebrazione del matrimonio). Così, se in qualche modo si riuscisse a superare l’impasse legata alla già evidenziata specialità delle disposizioni in commento, con conseguente impossibilità di estensione analogica, si potrebbe immaginare una legittimazione del futuro coniuge ad assumere un impegno preliminare in sede di stipula di accordi prematrimoniali, anche se occorre ammettere che, de iure condito, la soluzione appare difficilmente sostenibile.

        Andrà poi anche scartata – cela va de soi – la via astrattamente più idonea a garantire i figli dai rischi connessi ad «ardori senili» del disponente, vale a dire l’impegno da parte di quest’ultimo, nel contesto del patto di famiglia, a non sposarsi (o a non risposarsi, in caso di sopravvenuta vedovanza o di divorzio). La nullità di un siffatto impegno per violazione della regola d’ordine pubblico che tutela la libertà personale non potrebbe essere evitata neppure tramite il ricorso ad una penale, la cui presenza altro non farebbe se non confermare l’assunzione dell’impegno, di per sé radicalmente nullo [145]. D’altro canto, la previsione di una condizione risolutiva del patto in caso di celebrazione delle nozze, sicuramente valida, non varrebbe a soddisfare gli interessi in gioco, ed anzi sarebbe foriera di conseguenze rovinose, poiché non farebbe altro che determinare il ritorno allo status quo ante, con conseguente obbligo di restituzione anche dell’azienda o delle partecipazioni societarie al disponente.

        Appare quindi chiaro che il notaio rogante dovrà sempre prospettare ai contraenti i rischi connessi alla celebrazione di nuove nozze da parte del disponente, anche se tale fattispecie dovesse presentarsi come del tutto improbabile al momento della stipula del negozio (oltre che foriera di situazioni imbarazzanti, magari di fronte al coniuge attuale!). Ma l’esperienza insegna che nessun mutamento di scenario familiare (anche di quello apparentemente più stabile) può essere escluso in partenza, per cui v’è da chiedersi, addirittura, se – a fronte delle osservazioni sopra sviluppate – non sia consigliabile inserire nel patto di famiglia un espresso impegno del disponente a garantire l’adesione di un eventuale nuovo coniuge all’intesa, con rinunzia alla liquidazione. Tale clausola potrebbe forse essere considerata alla stregua di una promessa dell’obbligazione o del fatto del terzo (art. 1381 c.c.). Ne deriverebbe che, nel caso il terzo – cioè il futuro coniuge, determinabile come soggetto ex post, in base alla scelta matrimoniale operata dal promittente – non dovesse aderire al patto con rinunzia alla liquidazione, sorgerebbe in capo al disponente l’obbligo di indennizzare gli altri contraenti, esposti alle pretese del nuovo coniuge. Tale obbligazione potrebbe dunque transitare (ancorchè, ovviamente, pro quota) proprio in capo al nuovo coniuge, il quale potrebbe essere così dissuaso dal far valere i suoi diritti relativamente a quel patto di famiglia, per non dover poi rispondere come erede del disponente.

In ogni caso è indubbio che l’impegno così espresso potrebbe avere una sua «vincolatività» sul piano morale, ancora di un certo peso all’interno di determinate realtà familiari.

 

 

13. I soggetti del patto di famiglia: il disponente e la qualità di imprenditore.

 

Il tenore letterale dell’art. 768-bis c.c. («…l’imprenditore trasferisce…») può far sorgere il dubbio che una delle condizioni necessarie per la stipula di un patto di famiglia sia costituita dal necessario possesso, in capo al trasferente, della qualità – in alternativa alla titolarità di partecipazioni societarie – di imprenditore.

        A ben vedere, però, il termine «imprenditore» compare non solo nella norma citata, ma anche negli artt. 768-quater e 768-sexies c.c.: disposizioni, queste, dalle quali appare evidente l’utilizzo di quell’espressione per designare comunque il disponente, visto che nessuna menzione è fatta del «titolare di partecipazioni societarie». Ne esce rafforzata l’impressione che il termine «imprenditore» sia utilizzato qui in modo improprio e atecnico, con la conseguenza che il nuovo istituto sarà applicabile anche alle ipotesi in cui il trasferente sia, sì, titolare d’azienda (o di un ramo di essa), ma non sia qualificabile come imprenditore ex art. 2082 c.c. D’altro canto, la tesi dell’inapplicabilità della normativa a ipotesi in cui il trasferente sia proprietario dell’azienda, sebbene non imprenditore, lascerebbe comunque insoddisfatti. Basti pensare all’esclusione che ne deriverebbe nel caso di azienda affittata allo stesso discendente candidato assegnatario della stessa [146].

        Neanche per ciò che attiene, poi, al «titolare di partecipazioni societarie», la legge richiede la qualifica di imprenditore. Del resto non si reperiscono nel sistema indici sicuri e condivisibili che consentano di limitare la disciplina a partecipazioni qualificate in senso quantitativo o qualitativo, anche se che tali elementi avranno, probabilmente, un’influenza pratica, nel senso che non sarà frequente il ricorso all’istituto in esame per partecipazioni economicamente poco rilevanti.

In senso contrario si è osservato [147] che considerare il patto di famiglia estensibile a qualsiasi donazione di partecipazioni – e non già limitato a quella donazione di quote/azioni che rappresentino la partecipazione al capitale sociale della società nella quale il donante esplica la propria attività imprenditoriale – consentirebbe di «rivestire con l’involucro del patto di famiglia qualsiasi trasmissione patrimoniale». Così, se Tizio è titolare di denaro, strumenti finanziari e immobili (cioè di «beni-patrimonio», non inerenti, in altri termini, all’esercizio di alcuna gestione imprenditoriale), allora basterebbe conferire tali beni in una società-cassaforte le cui quote siano poi fatte oggetto appunto di un patto di famiglia. Questo approdo potrebbe apparire però eccessivo, avuto riguardo alla ratio della riforma, tesa a garantire la sola trasmissione generazionale delle aziende. Ne conseguirebbe, quindi, che, anche dal punto di vista oggettivo, partecipazione societaria oggetto del patto potrebbe essere quella sola «partecipazione rilevante ai fini della gestione dell’impresa» [148], o che «assicuri il controllo su una azienda di famiglia» [149].

A questa impostazione, che già sembra prospettarsi come maggioritaria, si può però agevolmente obiettare che, come rilevato da altri osservatori, risulta enormemente difficile rinvenire una discriminante che, per ogni tipo di società, in modo esaustivo valga a far discernere, nell’ambito delle partecipazioni societarie, quelle dotate di apprezzabile peso nella cura dell’attività sociale e quelle che, invece, ne siano sprovviste; ne consegue pertanto che, per non sacrificare alle ragioni della disciplina successoria le une, appare preferibile accettare l’eventualità che, del nuovo regime, beneficino anche le altre [150]. Un indizio in questo senso pare del resto desumibile dalla Relazione al citato progetto C/3870, in cui, a commento del proposto settimo comma dell’art. 734-bis c.c. – a mente del quale le disposizioni del patto di famiglia si sarebbero dovute applicare «anche alle partecipazioni sociali» – si affermava che «Il settimo comma parifica alla fattispecie dell’assegnazione di azienda quella di assegnazione di partecipazioni, in società di qualsiasi specie» (corsivo d. a.). Sembra dunque doversi escludere che queste partecipazioni debbano anche costituire lo strumento per l’esercizio, da parte del disponente, dell’attività di impresa, di modo che il disponente possa anche qualificarsi come imprenditore.

Dal momento che nessun requisito viene richiesto in capo al trasferente partecipazioni societarie, deve concludersi che la normativa potrà trovare applicazione anche per il socio di minoranza e addirittura per il socio «risparmiatore» o solo nudo proprietario. Per contro, l’espressione usata dall’art. 768-bis c.c. («…trasferisce, in tutto o in parte, l’azienda, (…) trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote…») può far sorgere il dubbio che non possa essere oggetto del patto un diritto di usufrutto sulle stesse partecipazioni [151]. Ad avviso di chi scrive, peraltro, la norma in esame – proprio avuto riguardo al già sottolineato atecnicismo delle espressioni usate – ben può essere estensivamente letta come facente riferimento al «titolare di diritti (di ogni genere, purché disponibili), su aziende o rami d’azienda, nonché su partecipazioni societarie». D’altro canto, proprio la riserva d’usufrutto costituisce, anche alla luce della normativa novellamente introdotta, l’unico sistema in grado di consentire all’imprenditore di riservarsi, usque ad vitae supremum exitum, il controllo dell’impresa e pertanto (non solo il trasferimento del diritto d’usufrutto, ma) anche il trasferimento della sola nuda proprietà potrebbe ritenersi rientrare nella fattispecie in questione [152].

 

       

14. I soggetti del patto di famiglia: discendenti, ascendenti e legittimari «potenziali».

 

        Il più volte citato art. 768-bis c.c. prevede che i soggetti destinatari del trasferimento dell’azienda o delle partecipazioni societarie siano «discendenti». Ne consegue che non solo il figlio, ma anche il discendente nipote o pronipote può essere beneficiario delle attribuzioni in discorso, e ciò indipendentemente dall’eventuale premorienza del suo ascendente, legittimario del disponente. Peraltro quest’ultimo (cioè il diretto legittimario del disponente: vale a dire il padre dell’accipiens, o il nonno, a seconda che il destinatario del trasferimento sia, rispettivamente, nipote o pronipote del disponente) dovrà necessariamente sottoscrivere il patto, come stabilito dal successivo art. 768-quater, primo comma, c.c., ove si prevede testualmente che al contratto debbano partecipare anche il coniuge e «tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell’imprenditore» [153]. L’imprenditore, dunque, ben potrebbe decidere di trasferire l’azienda (o la società di cui è «titolare») al nipote che nell’attività manageriale abbia dato miglior prova del proprio padre, «saltando» così una generazione nella titolarità e nell’amministrazione dell’impresa di famiglia (ma, in tal caso, anche gli appartenenti alla «seconda generazione» dovrebbero comunque partecipare, come legittimari del disponente, all’atto). D’altro canto, la previsione dei soli discendenti esclude la possibilità che il disponente possa valersi delle norme del patto per trasferire azienda o partecipazioni societarie al coniuge o ai suoi fratelli [154], o ai discendenti di costoro, o, ancora, agli eventuali ascendenti. La scelta è stata giustificata come legata alla necessità di realizzare «un effettivo passaggio generazionale nella gestione dell’impresa» [155], anche se tale ratio non sembra in grado di spiegare la motivazione dell’inestensibilità del patto al passaggio zio-nipote o prozio-pronipote. Rimane comunque in tal modo confermata un’antica tradizione che, come si è visto, risale al diritto romano ed aveva ricevuto una (quasi) costante applicazione nell’antico diritto francese [156]. Quanto sopra, naturalmente, non esclude che un trasferimento verso questi soggetti avvenga, pur se con strumenti (e con effetti) diversi da quelli descritti dagli artt. 768-bis ss. c.c.

Se abbastanza chiara è la situazione dei soggetti per quanto attiene ai destinatari dell’effetto traslativo dell’azienda o delle partecipazioni societarie, maggiore incertezza sussiste sul versante degli altri soggetti che, ex art. 786-quater c.c. debbono pure partecipare al contratto, vale a dire «il coniuge e tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell’imprenditore». Qui, in particolare, ci si pone il problema se al contratto debbano (o, quanto meno, possano) partecipare anche gli ascendenti del disponente, posto che costoro non rientrano nel novero dei soggetti che «sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione», ma che potrebbero diventarlo nel caso di premorienza dei discendenti.

Sul punto si può registrare anche un «piccolo giallo», certamente dovuto alla disattenzione ed all’approssimazione con la quale il Legislatore ha messo mano ad una materia tanto delicata.

Nella relazione alla citata proposta di legge C/3870 si precisa testualmente, infatti, che «possono partecipare inoltre al contratto coloro che potrebbero divenire legittimari a seguito di modificazioni dello stato familiare dell’imprenditore (ad esempio, gli ascendenti in caso di scomparsa o rinuncia all’eredità da parte di tutti i discendenti, ovvero i discendenti di secondo grado in caso di premorienza o incapacità a succedere o rinuncia dei figli), con il risultato di rendere il contratto opponibile anche a costoro e di escludere il diritto di cui al sesto comma» (ora art. 768-sexies, primo comma, c.c.). Alla luce di questa osservazione si è affermato che gli ascendenti, se è vero che non devono intervenire all’atto, potrebbero comunque parteciparvi. L’utilità di una loro partecipazione potrebbe essere costituita dal fatto che essi potrebbero da subito rinunziare ai diritti di legittima loro eventualmente spettanti in futuro, evitando quindi una possibile eventuale futura ipotesi di impugnazione dell’atto ai sensi dell’art. 768-sexies, secondo comma, c.c. [157].

        Ora, sarà bene chiarire che la frase appena citata, tratta dalla relazione alla proposta di legge C/3870, si trova ad essere copiata di sana pianta dalla relazione al disegno di legge S/2799 della XIII legislatura, cui faceva effettivamente riscontro, nell’articolato, una disposizione (art. 734-bis c.c.) che, al secondo comma, stabiliva: «Al contratto devono partecipare anche i discendenti che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione; possono parteciparvi, ai soli effetti di cui al sesto comma, il coniuge dell’imprenditore e coloro che potrebbero divenirne legittimari a seguito di modificazioni del suo stato familiare». Peccato che siffatta disposizione non sia stata, invece, riprodotta nel progetto C/3870 (della XIV legislatura) e, di conseguenza, neppure nella legge oggi vigente. Il citato inciso della relazione d’accompagnamento alla proposta di legge C/3870 non si può spiegare, dunque, se non come una svista dei proponenti, atteso che la partecipazione di «potenziali» legittimari non era prevista da alcuna disposizione di quell’articolato, così come non è prevista nelle norme oggi in vigore.

Non solo. Siffatta partecipazione deve ritenersi esclusa dal fatto che, nell’art. 768-quater, primo comma, c.c., vengono richiamati soltanto coloro che sarebbero legittimari «ove in quel momento» si aprisse la successione nel patrimonio dell’imprenditore. Ogni partecipazione «eventuale» di altri soggetti, anche di quelli che potrebbero essere legittimari a seguito di modificazioni dello stato familiare del disponente, è impedita dal già ricordato carattere eccezionale (rispetto al divieto ex art. 458 c.c.: cfr. la modifica a tale disposizione introdotta dall’art. 1, l. 14 febbraio 2006, n. 55) delle norme in tema di patto di famiglia. L’eventuale manifestazione di volontà da parte (e le conseguenti eventuali attribuzioni in favore) di un soggetto estraneo alla cerchia di quelli che avrebbero la qualità di legittimario al momento della stipula del patto sarebbe pertanto colpita da nullità per violazione di norma imperativa, mentre la sorte del patto nel suo complesso sarebbe in tal caso determinata dall’applicazione dei principi ex art. 1420 c.c.

Per concludere sul punto potrà dirsi che appare del resto criticabile l’osservazione contenuta nella relazione alla proposta di legge C/3870, secondo cui la partecipazione al contratto di coloro che «potrebbero divenire legittimari a seguito di modificazioni dello stato familiare dell’imprenditore (ad esempio, gli ascendenti in caso di scomparsa o rinuncia all’eredità da parte di tutti i discendenti, ovvero i discendenti di secondo grado in caso di premorienza o incapacità a succedere o rinuncia dei figli)» sarebbe utile al fine di «rendere il contratto opponibile anche a costoro e di escludere il diritto di cui al sesto comma» (ora art. 768-sexies, primo comma, c.c.). Tale ultimo diritto, invero, sembra comunque da escludersi, a prescindere dalla partecipazione al contratto. I legittimari «sopravvenuti» cui fa richiamo oggi l’art. 768-sexies, primo comma, c.c. non possono invero essere quelli divenuti tali per premorte del loro dante causa, legittimario del disponente (per intenderci, quelli cui fa richiamo l’art. 536 ult. cpv., c.c.), bensì – come si avrà modo di vedere [158] – solo quelli direttamente legittimari del disponente medesimo: dal nuovo coniuge, al figlio (del disponente) nato, riconosciuto o dichiarato successivamene al patto, a quello che comunque, benchè già in vita al momento del patto, non vi avesse in qualche modo partecipato.

Ai discendenti, invece, dei figli legittimi e naturali, cui l’art. 536 ult. cpv. c.c. riserva i medesimi diritti che competono ai figli legittimi e naturali del disponente, il patto è comunque opponibile, posto che essi succedono iure repraesentationis e pertanto si trovano nella medesima situazione del loro dante causa, cui il diritto verso il disponente era a suo tempo già stato (ovviamente: solo per la parte relativa all’oggetto del patto) liquidato, o che a tale diritto aveva rinunziato. In altre parole, i discendenti predetti non potrebbero mai ritenersi «terzi» rispetto al patto, posto che i diritti dagli stessi vantati sono per l’appunto «gli stessi» (così, infatti, si esprime il citato art. 536, ult. cpv., c.c.) già vantati dal soggetto da essi rappresentato: le limitazioni (o addirittura, le eventuali esclusioni, vuoi per effetto di iniziale rinunzia, vuoi per successiva estinzione determinata dall’intervenuto adempimento dell’obbligo di liquidazione) di tali diritti varranno dunque, tali quali, nei riguardi dei discendenti del rappresentato, sia nel caso di sua rinunzia all’eredità, che di sua premorienza rispetto al disponente [159]. Come il rappresentato non avrebbe potuto pretendere alcunchè alla morte del disponente sui beni oggetto del patto, per avere egli già ricevuto soddisfazione, così i suoi discendenti non potranno vantare per tale peculiare titolo alcuna pretesa.

Non sembra, infine, condivisibile l’affermazione secondo cui la disciplina ex artt. 768-bis ss. c.c. non sarebbe applicabile nel caso di inesistenza di legittimari diversi dall’assegnatario [160]. Invero, l’eventualità che legittimari possano sopravvenire (per la nascita di un figlio o la celebrazione di nozze), alla luce della disposizione dell’art. 768-sexies c.c., deve indurre a ritenere che il patto sia liberamente stipulabile tra il solo disponente e l’assegnatario. In tale accordo le parti dovranno pertanto fissare il valore dell’attribuzione, fermo restando che gli eventuali legittimari sopravvenuti potranno aderire al patto stesso, ovvero rimanerne estranei, senza in tal modo dover subire alcuna eventuale conseguenza pregiudizievole [161].

 

 

15. I soggetti del patto di famiglia: rappresentanza volontaria e rappresentanza legale. Il problema del conflitto d’interessi. I rapporti con l’amministrazione di sostegno.

 

        Sempre rimanendo sul versante dei profili soggettivi del patto, avuto riguardo a quanto disposto dall’art. 768-quater c.c., gli interpreti si sono chiesti se al negozio possa attribuirsi natura personalissima, necessitante, in quanto tale, della presenza personale delle parti. Al riguardo, si è affermato che, per ciò che attiene al disponente, avendo la relativa attribuzione carattere donativo, ad intervenire nel patto dovrebbe essere il solo trasferente, potendosi unicamente discutere sulla ammissibilità di un semplice nuncius [162]. Quanto agli altri partecipanti, la soluzione del problema risulterebbe invece meno scontata: la definizione anticipata della trasmissione dell’azienda e/o delle partecipazioni, quale delineata dal legislatore, presenterebbe invero profili negoziali e patrimoniali non diversi da quelli che emergono normalmente in sede di successione. Pertanto, come accade in questa, non sarebbe a priori da escludere che uno dei partecipanti al patto non intervenga personalmente, salvo il rispetto delle regole generali in materia di rappresentanza volontaria e legale (forma della procura e autorizzazioni richieste) [163].

Ad avviso dello scrivente conservano, tutto al contrario, piena validità per il patto di famiglia le considerazioni sviluppate oltre un secolo fa dal Polacco in relazione alla divisione d’ascendente per atto tra vivi: «Altra questione è se l’ascendente possa effettuare la divisione per mezzo di un procuratore. E’ ovvia la negativa per la divisione testamentaria, non potendosi dare testamenti fatti per procura. Il contrario deve dirsi della divisione per atto tra vivi», posto che «dare un mandato di dividere non è abdicare il diritto che la legge accorda all’ascendente, è anzi un modo di esercitarlo» [164].

        Le conclusioni di cui sopra sono confortate dalla considerazione della natura contrattuale (e non già testamentaria) del patto. Se è vero come è vero che proprio la scelta di concludere (o meno) a mezzo rappresentante un contratto costituisce una tipica forma di manifestazione dell’autonomia privata [165], non si vede per quale ragione, in assenza di disposizioni in senso contrario, tale esercizio di libertà contrattuale dovrebbe ritenersi inibito.

Per analoghe ragioni deve concludersi nel senso dell’ammissibilità – quanto meno in linea di massima – della stipula del patto da parte del legale rappresentante dell’incapace o con l’intervento del curatore del semi-incapace. A tal riguardo, va ricordata l’eliminazione, nel testo definitivo della legge, della disposizione di cui al disegno di legge C/3870-A/XIV, che prevedeva l’introduzione di un art. 768-ter c.c. del seguente tenore: «Il contratto può essere concluso dal rappresentante legale dell’incapace»; disposizione, questa, che deve evidentemente essere stata ritenuta superflua. Secondo quanto correttamente rilevato in dottrina, l’importanza e la portata, anche economica, degli effetti del patto di famiglia inducono a ritenere che l’atto vada inquadrato tra quelli di straordinaria amministrazione, per il compimento dei quali la legge richiede la «necessità o utilità evidente» e la preventiva autorizzazione giudiziale [166]. Ciò vale, naturalmente, per tutti i soggetti coinvolti nel patto, a cominciare dal disponente. Ne deriva che, sebbene a costui non sia applicabile l’art. 774 c.c., per effetto della negazione della natura donativa del patto [167], sarà comunque problematico riconoscere l’esistenza di una situazione di necessità o utilità evidente in un atto dispositivo, che, per il disponente (in ipotesi, appunto, incapace o semi-incapace), appare essenzialmente a titolo gratuito [168].

Per quanto attiene invece alla posizione dei destinatari del trasferimento dell’azienda o delle partecipazioni societarie, ovvero ancora degli altri legittimari, che si trovino eventualmente in situazione di incapacità o semi-incapacità, ulteriore quesito da risolvere è se tra costoro ed i rispettivi rappresentanti legali (o i curatori assistenti) ricorra o meno un conflitto di interessi.

Qui, sebbene la già più volte illustrata non riconducibilità del patto di famiglia alla figura della donazione [169] non consenta una meccanica trasposizione dei principi elaborati in tema di donazioni da parte del (o dei) legali rappresentanti, e in particolare dei genitori [170], resta il fatto che il problema sembra porsi in termini assai analoghi, per quanto attiene, in particolare, ai rapporti tra destinatario del trasferimento d’azienda o delle partecipazioni societarie (incapace o semi-incapace), da un lato, e disponente, dall’altro.

Aderendo pertanto alla tesi che, per la donazione, appare preferibile, secondo cui «il carattere gratuito della donazione ed il vantaggio che essa offre, almeno in via di regola, per il donatario escludono che si profili un conflitto d’interessi tra donante e donatario» [171], dovrà escludersi tale situazione, in linea di principio, in relazione al trasferimento dell’azienda o delle partecipazioni sociali: trasferimento che, pur non possedendo il carattere donativo, ha comunque natura di attribuzione gratuita. Peraltro, avuto riguardo all’imprescindibile dualismo proprio di ogni contratto, con riguardo alla posizione del minore, analogamente a quanto suggerito dalla tesi preferibile (ancorchè rigettata dalla giurisprudenza, che ravvisa qui un conflitto d’interessi in capo ad entrambi i genitori), la rappresentanza del minore dovrebbe concentrarsi in capo all’altro genitore, ai sensi dell’art. 317, comma primo, c.c., mentre, nell’ipotesi di rifiuto o di impossibilità dell’altro genitore così come nel caso in cui donante sia il genitore che esercita in via esclusiva la potestà, dovrebbe trovare applicazione l’art. 321 c.c. [172].

Se però l’altro genitore è un legittimario (ciò che del resto appare costituire la regola: non sarebbe questo il caso se costui fosse, invece, convivente more uxorio del disponente), la sussistenza di un obbligo ex lege a carico del destinatario dell’attribuzione di procedere alla liquidazione verso gli altri legittimari – unitamente alla possibilità che l’entità di tale liquidazione non corrisponda alla quota stabilita dagli artt. 536 ss. c.c. [173] – viene a porre un conflitto di interessi anche nei confronti dell’altro genitore, con conseguente necessità di ricorso al giudice per la nomina di un curatore speciale affinché intervenga nella stipulazione del patto di famiglia.

Nel caso di rinuncia totale alla liquidazione da parte del genitore, coniuge del disponente, il conflitto d’interessi verso il figlio destinatario dell’azienda o delle partecipazioni societarie dovrebbe ritenersi escluso, a meno che non si intenda aderire ad una nozione di conflitto anche solo potenziale, secondo l’interpretazione suggerita dalla giurisprudenza di legittimità, ancorchè in fattispecie non esattamente coincidenti con quella in esame [174]. La già ricordata inapplicabilità della normativa in tema di donazione dovrebbe invece escludere le ragioni che hanno portato, relativamente all’atto ex artt. 769 ss. c.c., parte della dottrina e della giurisprudenza [175] ad affermare sempre e comunque la sussistenza di un conflitto di interessi anche in capo al genitore non donante, per via dell’obbligo alimentare che dalla donazione nasce in capo al donatario: un obbligo che però, nel caso del patto di famiglia, dovrebbe ritenersi insussistente. Sono del resto certamente escluse nel patto di famiglia quelle conseguenze successorie (si pensi all’obbligo di collazione ed alla riducibilità delle donazioni: cfr., per quanto attiene al patto, quanto disposto dall’art. 768-quater, ult. cpv., c.c.), che pure potrebbero indurre a ravvisare un quanto meno potenziale conflitto d’interessi verso il genitore non donante, nel caso di donazione dall’altro genitore al figlio minore [176].

Naturalmente il trasferimento dell’azienda, o di partecipazioni societarie comportanti l’acquisto dello status di imprenditore in capo all’incapace o al semi-incapace necessita di apposita autorizzazione per la continuazione dell’esercizio dell’impresa commerciale (cfr. artt. 320, quinto comma, 371, n. 3, 397, 424, 425, 2198 c.c.) [177].

Volgiamo ora l’attenzione alla situazione dell’incapace o del semi-incapace che intervengono semplicemente quali legittimari (non destinatari del trasferimento dell’azienda o delle partecipazioni societarie). In tal caso, provenendo l’attribuzione non già dal genitore, ma dal destinatario dell’azienda o delle partecipazioni societarie, il conflitto sembra ravvisabile nella sola ipotesi in cui quest’ultimo sia per ipotesi anche legale rappresentante o curatore del destinatario della liquidazione: si pensi al caso in cui il disponente abbia un figlio imprenditore, in favore del quale soltanto viene trasferita l’azienda, ed un altro figlio interdetto, di cui il fratello imprenditore sia tutore. Qui, in effetti, avuto riguardo al carattere sinallagmatico del rapporto (la liquidazione si incrocia, infatti, con l’effetto rinunziativo proprio del patto di famiglia verso possibili pretese successorie a titolo di riduzione o collazione), ed attesa la possibilità che la determinazione comporti anche valori diversi da quelli reali, con rinunzie totali o parziali, la presenza di un conflitto d’interessi va riconosciuta, con conseguente necessità di nomina dell’apposito curatore.

        La novella, oltre a non occuparsi delle situazioni di incapacità, non disciplina il caso dell’esistenza di una situazione di amministrazione di sostegno. Al riguardo si potrà però tenere presente che, ai sensi delle novità introdotte dalla l. 9 gennaio 2004, n. 6, nel caso di amministratore di sostegno, il soggetto assistito conserva una capacità negoziale generale, salvo che per gli atti espressamente indicati nel decreto di nomina, che l’amministratore di sostegno ha il potere di compiere in nome e per conto del beneficiario (art. 405 n. 3) c.c.); oppure per gli atti che il beneficiario può compiere solo con l’assistenza dell’amministratore di sostegno (art. 405 n. 4) c.c.). Si deve ritenere quindi, che il soggetto assistito, come conserva la capacità matrimoniale e quindi la capacità di partecipare al contratto di matrimonio e di stipulare convenzioni matrimoniali [178], così conservi anche la capacità di stipulare il patto di famiglia, salva diversa disposizione da parte del giudice tutelare. Tale diversa disposizione ben potrebbe però essere ravvisata nel fatto che il decreto di nomina preveda, anche genericamente, la necessità di assistenza per tutti gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione, che potranno pertanto essere compiuti solo con l’assistenza dell’amministratore di sostegno. Ancora, tale diversa disposizione potrebbe intervenire ad hoc, su istanza dell’amministratore di sostegno o del soggetto interessato, secondo quanto deciso dalla giurisprudenza di merito, relativamente alla promozione di un giudizio di separazione personale ed alla partecipazione in esso [179].

        Per concludere il tema dei soggetti, potrà ricordarsi che il già sottolineato rifiuto della tesi che vede nel patto di famiglia una donazione porta inevitabilmente anche ad escludere l’applicabilità dell’art. 784 c.c. Ne consegue che nel novero dei partecipanti al contratto (a qualsiasi titolo: sia come destinatari dell’azienda o delle partecipazioni sociali, sia quali destinatari delle liquidazioni in denaro o in natura) non potranno ritenersi inclusi i soggetti nascituri, siano essi concepiti o non ancora concepiti.

 

 

Sezione IV

I profili oggettivi dell’istituto

 

 

16. L’oggetto dell’attribuzione del disponente. Il trasferimento dell’azienda. Beni aziendali e ramo d’azienda. La compatibilità con le disposizioni in materia di impresa familiare

 

L’oggetto dell’attribuzione del disponente è descritto dall’art. 768-bis c.c. come un trasferimento che investe «in tutto o in parte, l’azienda», o «in tutto o in parte, le (…) quote» del «titolare di partecipazioni societarie». Si tratta dunque di un effetto reale, che investe il diritto di proprietà [180] sui beni descritti dalla disposizione citata, che ben potrebbe essere preceduto da un obbligo di tipo meramente preliminare. Nulla osta, infatti, nel sistema, a che si possa ipotizzare, con il rispetto, ex art. 1351 c.c., della medesima forma prescritta dalle norme in commento, un preliminare di patto di famiglia, consistente nell’impegno tra i medesimi soggetti avente ad oggetto l’obbligo di stipulare un contratto definitivo qualificabile come patto di famiglia, sempre che in esso le relative, future, prestazioni siano esattamente delineate, con la predeterminazione non solo dell’attribuzione del disponente, ma anche dei diritti competenti ai legittimari partecipanti all’atto. Inutile dire che la conclusione di cui sopra dovrebbe essere invece negata, se si dovesse accedere alla tesi che configura il patto di famiglia alla stregua di una donazione [181]: conclusione, questa, peraltro a suo tempo confutata [182].

In base alla sicura applicabilità della disciplina generale del contratto, non contraddetta in parte qua da elementi normativi in senso contrario, dovrà pure ammettersi che l’efficacia del patto nel suo complesso, così come anche del solo effetto reale, possano essere sottoposti a termine o a condizione. Così, ad esempio, le parti potranno prevedere che l’effetto traslativo dell’azienda o delle partecipazioni societarie si produrrà solo nel momento in cui i destinatari di siffatte attribuzioni avranno interamente liquidato le quote degli altri legittimari, secondo le stime previste in contratto, oppure che la nascita di un nuovo legittimario determinerà automaticamente il venir meno degli effetti del patto. Come si è già avuto modo di vedere trattando della possibilità di prevedere l’obbligo della restituzione di quanto ricevuto dal coniuge in caso di divorzio [183], termini e condizioni possono apporsi anche all’efficacia delle singole partecipazioni dei vari contraenti. Del resto, è noto che anche la possibilità di dare ingresso, nell’atto negoziale, alle ragioni individuali per cui esso è compiuto, arricchendo la trama degli elementi imposti dalla legge con l’aggiunta di elementi accidentali costituisce sicuramente una tipica forma di espressione del principio di autonomia privata [184], cui il patto di famiglia, pur nei limiti indicati, si ispira.

Venendo ai possibili beni oggetto dell’effetto reale, il primo interrogativo concerne l’azienda. Trattandosi qui di un complesso di beni dotato, come noto, del carattere di universitas, ci si chiede se il patto possa rigurdare anche solo singoli beni aziendali. Sul punto il richiamo alla ratio della riforma – tesa, come si è ampiamente visto [185], a conciliare il diritto dei legittimari con l’esigenza di assicurare continuità all’impresa, garantendo «la dinamicità degli istituti collegati all’attività di impresa, assicurando la massima commerciabilità dei beni nei quali si traduce giuridicamente l’attività stessa: l’azienda, nella quale si realizza l’impresa individuale, e le partecipazioni sociali nelle quali si concretizza l’impresa collettiva, quella svolta cioè in forma societaria» – sembra indurre a circoscrivere l’espressione «in parte» al solo caso della cessione di ramo d’azienda.

Dovrà trattarsi, dunque, di una parte dell’azienda che di quest’ultima riproduca, in scala più o meno ridotta, tutte le caratteristiche e che possegga un grado di autonomia tale da poter essere gestita separatamente dal corpo principale. In proposito sarà possibile ricorrere al concetto di ramo d’azienda, come elaborato con riguardo al disposto dell’art. 2112 c.c., nel testo successivo alle modifiche di cui alla l. 2 febbraio 2001, n. 18 , in applicazione della direttiva  CE  n. 98/50.

Così, per ramo d’azienda dovrà intendersi ogni entità economica organizzata in maniera stabile la quale, in occasione del trasferimento, conservi la sua identità: il che presuppone una preesistente realtà produttiva autonoma e funzionalmente esistente, e non anche una struttura produttiva creata ad hoc, in occasione del trasferimento, o come tale identificata dalle parti del negozio traslativo [186]. D’altro canto – purché si tratti di un insieme di elementi produttivi organizzati dall’imprenditore per l’esercizio di un’attività, che si presentino prima del trasferimento come una entità dotata di autonoma ed unitaria organizzazione, idonea al perseguimento dei fini dell’impresa e che conservi nel trasferimento la propria identità – potrà ammettersi anche un trasferimento aziendale che abbia ad oggetto anche solo un gruppo di dipendenti stabilmente coordinati ed organizzati tra loro, la cui capacità operativa sia assicurata dal fatto di essere dotati di un particolare know how (o, comunque, dall’utilizzo di copyright, brevetti, marchi etc.), realizzandosi in tale ipotesi una successione legale di contratto non bisognevole del consenso del contraente ceduto, ex artt. 1406 ss. c.c. [187].

Requisito indefettibile resta comunque, anche in siffatte ipotesi, l’elemento della organizzazione, intesa come legame funzionale che rende le attività dei dipendenti appartenenti al gruppo interagenti tra di esse e capaci di tradursi in beni o servizi ben individuabili, configurandosi altrimenti la vicenda traslativa come cessione del contratto di lavoro, richiedente per il suo perfezionamento il consenso del contraente ceduto [188]. Cessione di ramo d’azienda potrà poi anche aversi, sempre rispettando le caratteristiche di cui sopra, anche nel caso in cui il nuovo titolare debba eventualmente integrare l’insieme dei beni trasferiti con ulteriori fattori produttivi, a patto che i beni mancanti non siano tali da alterare l’unità economica e funzionale del complesso aziendale: come rilevato già diversi anni fa dalla Cassazione, non basta «che i beni conferiti abbiano fatto parte di una azienda, ma è altresì necessario che essi, per le loro caratteristiche e il loro collegamento funzionale, rendano possibile lo svolgimento di una specifica impresa» [189].

Fermo restando quanto sopra, si può convenire con chi ha affermato che non sembrano sussistere limiti all’autonomia privata nel configurare l’oggetto del trasferimento di azienda e le relative pattuizioni. Conseguentemente, sarà legittimo, ad esempio, escludere dal trasferimento i crediti e debiti aziendali preesistenti, o, nei limiti consentiti dall’art. 2558 c.c., i contratti aziendali; potrà essere liberamente pattuito il trasferimento o meno di ditta, insegna, marchi, brevetti, singoli beni mobili ed immobili facenti parte del complesso, alla sola condizione che permanga l’idoneità produttiva ed organizzativa del complesso dei beni costituenti l’azienda ai fini della continuazione dell’attività d’impresa [190].

Nel caso l’azienda afferisca ad una impresa ex art. 230-bis c.c., l’art. 768-bis c.c. impone che il trasferimento avvenga «compatibilmente con le disposizioni in materia», per l’appunto, di impresa familiare. Ora, anche senza assegnare all’istituto la qualifica di donazione, sembra potersi affermare che il carattere gratuito e liberale dell’attribuzione in discorso escluda che in capo ai partecipanti all’impresa familiare sorga il diritto di prelazione sull’azienda trasferita (ex artt. 230-bis, quinto comma, 732 c.c.) [191], il quale, per sua natura spetta solo a fronte di contratti a titolo oneroso [192]. Sorge a questo punto l’interrogativo sul significato dell’inciso appena citato. In proposito è stato correttamente osservato che il riferimento alla disciplina dell’impresa familiare può essere interpretato alla stregua di una deroga di quanto disposto dal primo comma dell’art. 230-bis c.c., nel senso che quanto attribuito ai legittimari non assegnatari non deve costituire corrispettivo dell’attività da loro svolta nell’ambito dell’impresa familiare e comunque non deve integrare una partecipazione agli utili dell’impresa od agli incrementi dell’azienda proporzionale alla quantità e qualità del lavoro prestato [193]. D’altro canto, determinando comunque il patto una alienazione dell’azienda, il titolare dovrà procedere a liquidare preventivamente i familiari che collaborano nell’impresa, secondo quanto previsto dal quarto comma dell’art. 230-bis c.c.

 

 

17. L’oggetto dell’attribuzione del disponente. Il trasferimento delle partecipazioni societarie. Il rispetto delle differenti tipologie societarie.

 

Per quanto attiene invece alle partecipazioni societarie, occorre prendere atto della circostanza che il Legislatore non ha ritenuto di introdurre alcuna distinzione, per cui la norma sarà applicabile anche alle c.d. «società di godimento» [194], nelle quali non si ha esercizio organizzato di attività economica [195], pur con tutti i problemi di validità che le medesime possono suscitare alla luce del disposto dell’art. 2248 c.c.: norma, del resto, facilmente eludibile e quotidianamente elusa mediante «società di comodo», costituite mediante la fittizia enunciazione, nel contratto costitutivo, dell’intento di esercitare una data attività di impresa [196]. Un indizio in questo senso pare del resto desumibile dalla Relazione al citato progetto C/3870, in cui, a commento del proposto settimo comma dell’art. 734-bis c.c. – a mente del quale le disposizioni del patto di famiglia si sarebbero dovute applicare «anche alle partecipazioni sociali» – si affermava che «Il settimo comma parifica alla fattispecie dell’assegnazione di azienda quella di assegnazione di partecipazioni, in società di qualsiasi specie» (corsivo d. a.). La considerazione viene qui a toccare un punto assai delicato, poiché è chiaro che la più volte ricordata ratio della riforma, volta a proteggere i soli beni «nei quali si traduce giuridicamente l’attività d’impresa» potrà venire agevolmente aggirata mediante la costituzione di società di comodo, il cui scopo non sia altro se non quello di consentire il trasferimento di beni non aziendali (si pensi, ad esempio, al caso di proprietà immobiliari).

Sempre rimanendo in tema di determinazione della prestazione del disponente, comuni alle attribuzioni tanto d’azienda che di partecipazioni societarie sono le osservazioni circa la necessità  (desumibile dal dovere di liquidazione di cui all’art. 768-quater c.c.) di una valutazione concordata e quindi definitiva dell’azienda o delle partecipazioni oggetto del trasferimento [197].

Ciò sembra trovare conferma dall’art. 768-sexies c.c., che presuppone, ai fini della liquidazione dei legittimari non intervenuti nel patto, che il rinvio allo stesso consenta con precisione e chiarezza la possibilità di individuare la somma agli stessi dovuta, dando per scontato così che il patto chiaramente individui il valore dell’azienda o delle partecipazioni sociali su cui calcolare la somma (corrispondente alla quota di legittima rapportata a tale valore) dovuta agli assegnatari secondo i criteri della legittima. Tale valutazione risulterà pertanto vincolante per i suddetti legittimari non stipulanti il patto, con la conseguenza che, se questi ultimi decideranno di aderirvi, si vedranno attribuito il diritto di essere liquidati proprio in relazione a tale valore, con il solo riconoscimento degli interessi legali [198].

Da quanto sopra deriva che si dovrà avere cura, nella stesura del patto, qualora la somma concordata a favore dei non assegnatari non coincida con la loro legittima, sia per difetto (per rinuncia parziale), sia per eccesso, di evidenziare tutto ciò, dovendosi presumere altrimenti che quanto liquidato corrisponda alla legittima, con le conseguenze evidenziate [199]. Nel caso non vi sia alcuna liquidazione, il notaio, ad avviso dello scrivente, dovrà curare l’inserimento di una rinunzia espressa. L’inciso «ove questi non vi rinunzino in tutto o in parte» sembra infatti presupporre, per l’essenza stessa del patto, una chiara manifestazione di volontà da parte dei legittimari, e pertanto, mentre da una liquidazione determinata può ricavarsi per implicito, tramite il raffronto con il valore dichiarato, una rinunzia implicita alla differenza, assai più difficile appare desumere dal silenzio la presenza di una rinunzia totale ad ogni diritto derivante dal patto.

        Per ciò che attiene, poi, al profilo traslativo, va ricordato che l’art. 768-bis c.c. richiede che la convenzione rispetti le «differenti tipologie societarie». Al riguardo si è rimarcato che tale previsione assume una diversa connotazione nelle società di persone e nelle società di capitali. Nelle prime, la cessione di una quota sociale rappresenta una fattispecie modificativa del contratto sociale che, in assenza di una diversa pattuizione, deve essere approvata da tutti i soci all’unanimità (art. 2252 c.c.). Solo per la quota del socio accomandante l’art. 2322 c.c. prevede che il trasferimento sia approvato dalla maggioranza dei soci che rappresentano la maggioranza del capitale sociale. Ne consegue che il patto di famiglia potrà trovare attuazione solo qualora sia stato preventivamente acquisito il consenso unanime dei soci o della maggioranza degli stessi nel caso previsto dall’art. 2322 c.c. oppure vi sia nei patti sociali una clausola di libera trasferibilità tra vivi della quota [200].

Nelle società di capitali, il trasferimento di una partecipazione sociale non costituisce modifica dell’atto costitutivo e, in generale, l’anzidetta partecipazione è liberamente trasferibile, in assenza di un’espressa previsione statutaria [201]. Qualora tuttavia i patti sociali prevedano limiti alla trasferibilità, oppure una clausola di gradimento, la conclusione del patto di famiglia (nel caso di clausole limitative al trasferimento) deve essere sottoposta al rispetto di detti limiti e (nel caso di clausola di gradimento) richiede la preventiva acquisizione del placet da parte degli organi sociali [202].

 

 

18. L’oggetto dell’attribuzione del disponente. Costituzionalità della limitazione all’azienda e alle partecipazioni societarie. Il caso della divisio inter liberos coinvolgente beni diversi dall’azienda o dalle partecipazioni societarie.

 

Si è già avuto modo di mettere in luce come il patto di famiglia possa avere ad oggetto solo i beni descritti dall’art. 768-bis c.c., con esclusione, pertanto, di qualsiasi altro tipo di bene. La conformità a Costituzione di siffatta scelta normativa è stata argomentata in sede di lavori preparatori, rilevandosi in proposito che l’art. 3 della Carta Fondamentale «consente trattamenti differenziati in presenza di situazioni diverse», mentre «oggetto del patto di famiglia è l’azienda, la quale per la sua funzione economica – che trova un’apposita tutela nel principio espresso dall’articolo 41 della Costituzione – si distingue rispetto agli altri beni, mobili o immobili, che possono essere oggetto di successione. Conseguentemente la diversa disciplina dell’azienda rispetto agli altri beni che costituiscono l’asse ereditario giustifica il diverso regime giuridico cui essa può essere sottoposta» [203].

Ha peraltro destato perplessità nei primi commentatori la circostanza che la legge non abbia previsto l’ipotesi forse più frequente nella pratica: cioè quella del genitore che, mentre attribuisce ad alcuni figli l’azienda (o un ramo di essa, o le partecipazioni sociali), agli altri trasferisca altri tipi di beni [204]. Ed effettivamente, tale fattispecie non viene in alcun modo disciplinata dalla legge.

D’altra parte la deroga al divieto di patti successori è prevista limitatamente al solo patto di famiglia, così come disciplinato dagli artt. 768-bis ss. c.c., per cui un’interpretazione che coinvolga nella disciplina dello stesso altri beni, pur se funzionali al patto, non sembra conforme alla lettera della novella; né, tanto meno, sembra ipotizzabile nella specie il ricorso all’estensione analogica, di fronte al carattere eccezionale delle norme in discorso: carattere reso evidente dal già evidenziato rapporto dialettico regola-eccezione rispetto al principio generale ancora contenuto nell’art. 458 c.c. [205]. Ne segue che, nel patto di famiglia, l’autonomia negoziale, pur indiscutibilmente presente, in quanto legata alla natura contrattuale dell’atto, non potrà spingersi al di là dei limiti sopra indicati. Essa potrà quindi muoversi esclusivamente nel perimetro dell’interpretazione estensiva [206], ma non potrà certo colmare le vistose lacune di questa normativa abborracciata, mediante l’unico procedimento ermeneutico astrattamente idoneo all’uopo, cioè appunto, l’analogia, vietata ogni qualvolta ampliare spazi alla negozialità delle parti significherebbe porre in essere un patto successorio dai contenuti più ampi di quello (malamente) delineato dagli artt. 768-bis ss. c.c.

Se, dunque, non potrà qualificarsi come patto di famiglia l’attribuzione con la quale un soggetto operi una divisio inter liberos per atto tra vivi, disponendo immediatamente [207] il trasferimento dell’azienda (o di partecipazioni sociali) nei confronti di uno o più discendenti, immediatamente e contestualmente cedendo beni diversi agli altri legittimari, non può neppure escludersi, almeno in linea di principio, che i due negozi possano di fatto coesistere, magari «fisicamente» contenuti nel medesimo rogito, nel senso che potremo avere un patto di famiglia per il primo profilo e una donazione per il secondo. Del resto non si dimentichi che la possibilità che un unico rogito notarile contenga più «negozi giuridici» (sì: questa volta al Legislatore è proprio scappata l’espressione che il codice aveva inteso evitare con tanta cura!) è esplicitamente concessa dall’art. 17,  l. 27 febbraio 1985, n. 52 [208].

Il genitore A che si trovi ad essere coniugato con B e ad avere come figli C e D ben potrà dunque, in unico atto, trasferire la sua azienda a C, contestualmente donando altri beni a B e a D. D’altro canto, nulla osta a che, a fronte dell’attribuzione dell’azienda dal genitore al figlio C e di altri beni a B e a D, questi ultimi dichiarino di rinunziare alla liquidazione che competerebbe loro per effetto del trasferimento dell’azienda al solo figlio C. Ovviamente la disattivazione delle tutele dei legittimari potrà valere solo per il primo negozio, per cui i rapporti potranno risultare, alla fine, «disequilibrati», pur in presenza di attribuzioni di pari valore. Peraltro, il «vantaggio riducibile» attribuito a B e D (visto che il valore dell’azienda trasferita a C non potrà più venire in considerazione nella riunione fittizia ai fini del calcolo della legittima, come si avrà modo di vedere [209]) potrebbe annullarsi o scemare, per effetto di successive donazioni o disposizioni testamentarie, questa volta a favore del solo C.

 

 

19. L’oggetto della prestazione dei destinatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie. La liquidazione delle quote dei legittimari e il problema dell’intervento del disponente nella liquidazione.

 

L’oggetto della prestazione dei destinatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie è descritto come segue dall’art. 768-quater cpv. c.c.: «Gli assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie devono liquidare gli altri partecipanti al contratto, ove questi non vi rinunzino in tutto o in parte, con il pagamento di una somma corrispondente al valore delle quote previste dagli articoli 536 e seguenti; i contraenti possono convenire che la liquidazione, in tutto o in parte, avvenga in natura».

Fermo restando quanto chiarito nel paragrafo precedente, circa l’impossibilità di un utilizzo del patto di famiglia per operare una divisio inter liberos con assegnazione di beni diversi dall’azienda o dalle partecipazioni societarie, ne segue che nel caso (tutt’altro che infrequente) in cui il figlio imprenditore non possegga i beni o il denaro necessari per operare la liquidazione dei diritti spettanti agli altri legittimari, si potrà ipotizzare un intervento da parte del disponente che, in alternativa, doni denaro e/o beni vuoi al figlio imprenditore, vuoi direttamente agli altri legittimari. Per ciò che attiene alla prima ipotesi si sono esattamente poste in luce in dottrina le controindicazioni fiscali del doppio trasferimento, nel caso in cui, per l’appunto, il genitore intendesse donare all’assegnatario il denaro e/o i beni necessari perché costui effettui la liquidazione del dovuto agli altri legittimari [210].

Ma ancora più sconcertanti appaiono i risvolti sul piano civilistico: queste attribuzioni gratuite, invero, non sono definibili se non come donazioni e pertanto sono soggette a collazione (salvo che il donante, magari consigliato all’uopo dal notaio, escluda tale effetto, peraltro nel rispetto del disposto dell’art. 737 cpv. c.c.), nonché a riduzione, a differenza di quanto stabilito per i beni aziendali o per le partecipazioni sociali. L’esperimento dell’azione di riduzione potrà essere evitato (per lo meno: a condizione che non intervengano alterazioni successive, per effetto di donazioni o disposizioni testamentarie lesive della legittima) mediante una donazione di denaro in parti uguali a tutti i legittimari. A questo punto i discendenti assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni potranno utilizzare la loro parte per liquidare gli altri legittimari. Tale sequenza, se risulta corretta dal punto di vista normativo, incontra delle possibili controindicazioni fiscali, trattandosi – come già evidenziato – di doppio trasferimento, avuto altresì riguardo al fatto che, come pure si è già avuto modo di dire, il trasferimento da parte dell’assegnatario a favore degli altri legittimari è qualificabile quale trasferimento oneroso [211].

        Nel caso invece in cui il disponente provvedesse egli stesso alla liquidazione della quota in favore degli altri legittimari, si potrebbe configurare una donazione indiretta a favore dell’assegnatario dell’azienda o delle partecipazioni societarie, in base al principio secondo cui l’adempimento del debito altrui costituisce, per l’appunto, liberalità indiretta, se eseguito animo donandi [212], cui non sarebbero, con ogni probabilità, applicabili le norme che escludono l’esenzione da collazione [213] e da riduzione, non rientrando siffatta operazione nello schema negoziale delineato dagli artt. 768-bis ss. c.c. [214]. Al riguardo vi è, anzi, da chiedersi, se tale ipotesi consenta di ritenere ancora valido il patto di famiglia. A ben vedere, però, non sembrano esistere ragioni per escludere che l’adempimento di quanto dovuto dagli assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni ai non assegnatari possa essere effettuato da un terzo (si pensi ai nonni, che, come si è visto, ad avviso dello scrivente non sono parti del contratto) o addirittura da parte dello stesso disponente. Se è vero, infatti, che l’art. 768-quater c.c. stabilisce che «Gli assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie devono liquidare gli altri partecipanti al contratto, ove questi non vi rinunzino in tutto o in parte, con il pagamento di una somma corrispondente al valore delle quote previste dagli articoli 536 e seguenti…», è altrettanto vero che questa disposizione si limita a prevedere un’obbligazione a carico di quei soggetti, senza escludere l’intervento di altri. Ne segue che quell’obbligazione, secondo le regole generali, ben potrà essere soddisfatta da un soggetto diverso (cfr. art. 1180 c.c.), tanto più se le parti saranno (come prevedibile) d’accordo. Quanto sopra non sembra possa snaturare il patto di famiglia, né comunque porre problemi di validità dello stesso [215].

Il pagamento da parte del terzo o del disponente non costituisce patto successorio, per il semplice fatto che il pagamento non è un contratto. Ma, anche a prescindere dalla diatriba sulla natura negoziale o meno del pagamento, esso non sarebbe comunque ascrivibile alla categoria dei negozi contemplati dall’art. 458 c.c., non disponendosi di diritti rientranti in una successione. Per questa stessa ragione non si vedono ostacoli alla stessa partecipazione del terzo (il disponente, è invece, ovviamente, parte necessaria del negozio) all’atto, quale soggetto che – pur non essendo parte del patto di famiglia – corrisponda la liquidazione gravante sugli assegnatari dell’azienda o delle quote sociali.

        Ciò che può apparire problematica è l’estensione dell’art. 768-quater ult. cpv. c.c. al caso della liquidazione operata dal disponente [216]. La disposizione stabilisce che «Quanto ricevuto dai contraenti non è soggetto a collazione o a riduzione». Ad avviso dello scrivente, diversa è la risposta a seconda che consideriamo i legittimari che hanno ricevuto tale liquidazione, da un lato, e gli assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie, dall’altro, nei confronti dei quali, come si è detto, la liquidazione operata dal disponente ha la natura di donazione indiretta.

Per ciò che attiene ai primi, già rimanendo sul terreno dell’interpretazione letterale sembra possibile far rientrare nella citata dizione normativa quanto ricevuto dai legittimari non destinatari dell’azienda o delle partecipazioni sociali, visto che l’accento è posto dalla legge, per l’appunto, su «quanto ricevuto», anche se tale pagamento è stato effettuato, anziché dai cessionari dell’azienda o delle partecipazioni, dal disponente.

Diversa è la conclusione per quanto attiene invece agli assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie. Qui, a ben vedere, l’arricchimento conseguito da costoro per effetto della donazione indiretta (effettuata dal disponente) dipende dal versamento di una somma di denaro che, in realtà, non è stata «ricevuta» da loro (essendo stata ricevuta, invece, dagli altri legittimari), per lo meno nel senso in cui tale espressione va intesa nella norma in oggetto. Inoltre non sembra esservi dubbio sul fatto che questa donazione indiretta, se dovesse ritenersi «coperta» dall’art. 768-quater c.c., e dunque non soggetta a collazione né a riduzione, verrebbe a violare il divieto dei patti successori, in quanto il suo trattamento alla stregua dell’atto di trasferimento dell’azienda o delle partecipazioni societarie si scambierebbe pur sempre con il consenso prestato dagli altri legittimari alla loro liquidazione, con l’effetto di inibire, per il tempo successivo alla morte del disponente, l’esercizio delle azioni a tutela dei legittimari medesimi. Ne deriva che tale attribuzione dovrà ritenersi sottoposta tanto a collazione che a riduzione.

 

 

20. L’oggetto della prestazione dei destinatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie. La liquidazione delle quote dei legittimari ed il suo pagamento rateizzato o differito nel tempo. Irrilevanza dell’esatta corrispondenza tra determinazione della liquidazione e valore delle quote.

 

Come si è detto per il caso del pagamento da parte del disponente o del terzo di quanto dovuto a titolo di liquidazione da parte degli assegnatari, così pure l’eventuale ipotesi di un pagamento rateizzato o differito nel tempo (magari collegato ad un effetto sospensivo dell’efficacia del trasferimento dell’azienda o delle partecipazioni societarie) appare compatibile con la struttura del patto di famiglia, né comunque sembra in grado di porsi in contrasto con norme imperative.

Al riguardo potrà dirsi che, sebbene il testo dell’art. 786-quater, secondo comma, c.c., sembri presupporre la contestualità della liquidazione, offrendo solo l’alternativa che al denaro possano, su accordo dei partecipanti, sostituirsi beni in natura, il comma successivo del citato articolo ammette espressamente la possibilità di un contratto di assegnazione che, anche se strettamente collegato al primo, può concludersi in un momento successivo. Appare dunque ragionevole supporre che tale concessione all’autonomia privata contenga in sé anche la previsione della possibilità di un pagamento della somma rappresentante la liquidazione dei diritti dei legittimari in forma dilazionata, o rateizzata [217].

L’adempimento differito, dal canto suo, se da eseguirsi in natura, si configurerà come negozio traslativo di adempimento [218], del quale, a beneficio della certezza – e prescindendo dalle divergenti opzioni espresse, in generale, con riguardo ai negozi a causa esterna [219] e alla fenomenologia delle prestazioni isolate [220] – l’art. 768‑quater, terzo comma, c.c. postula come necessaria l’expressio causae. Come già accennato, non può del resto neppure escludersi l’ipotesi di un trasferimento differito, ma ad efficacia reale, nel senso che la vicenda traslativa (sia dell’azienda o delle partecipazioni societarie, che della liquidazione in natura dei diritti dei legittimari) si operi automaticamente allo scadere di una certa data o al verificarsi di un determinato avvenimento futuro ed incerto.

D’altro canto, è anche ipotizzabile che le parti concludano un accordo novativo con il quale l’obbligazione pecuniaria venga sostituita con un’obbligazione avente ad oggetto un bene diverso dal danaro, ovvero che gli obbligati (cioè gli assegnatari) adempiano la loro prestazione originariamente prevista in denaro mediante datio in solutum, trattandosi di diritti pacificamente disponibili [221]. In tal caso, trattandosi di istituti di carattere generale, non sembra richiesta la partecipazione all’accordo di tutti i soggetti del patto, bensì solo del debitore e del creditore della prestazione in discorso.

Uno dei quesiti attinenti alla liquidazione delle quote dei legittimari non assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie concerne la possibilità che i partecipanti al patto concordino l’attribuzione a favore dei non assegnatari di somme di denaro (o beni) di ammontare minore o maggiore rispetto a quanto corrisponda al risultato matematico legislativamente previsto.

La prima ipotesi è sicuramente autorizzata dal richiamo dell’art. 768-quater cpv. c.c. alla possibilità che i legittimari rinunzino «in tutto o in parte» ai loro diritti. La questione sarà semmai quella di vedere se tale rinunzia (totale o parziale, a seconda dei casi) possa darsi per implicita nel caso in cui la liquidazione in loro favore (pur partecipando gli stessi, ovviamente, al contratto) sia, rispettivamente, assente o inferiore rispetto al dovuto. Ora, anche avuto riguardo alla già ricordata necessità che il valore della prestazione del trasferente sia specificato, appare necessario che la rinunzia totale risulti formulata in maniera chiara ed è quanto meno opportuno che lo stesso accada per la rinunzia parziale [222].

 Per quanto attiene, invece, alla liquidazione di somme superiori, si è correttamente affermato [223] che sembra difficile dire che si fuoriesca in tal caso dall’istituto, e che appaia più logico sostenere che anche questa ipotesi possa considerarsi protetta dalla disciplina di cui alla legge. Al riguardo si è rimarcato che, come può rientrare nella disciplina del patto di famiglia la liquidazione a favore dei non assegnatari di somma inferiore a quella astrattamente determinabile, non si vede ragione di escludere dagli effetti ed opportunità dischiuse dall’istituto un accordo che preveda una liquidazione più generosa a favore dei non assegnatari. L’esigenza di stabilità e certezza del trasferimento che l’istituto cerca di soddisfare sussiste e va soddisfatta anche di fronte a questa evenienza [224].

Sempre secondo il cennato avviso, la disposizione in forza della quale quanto attribuito ai non assegnatari è imputabile alla loro legittima (sia pure al valore concordemente stimato al momento di detta assegnazione), come stabilito dall’art. 768-quater, terzo comma, c.c., sembrerebbe delineare una fattispecie che può realizzarsi proprio sul presupposto che quanto dato ai non assegnatari del bene impresa non corrisponda esattamente al risultato del calcolo automatico indicato dalla legge. La previsione di un rilievo di quanto liquidato dall’assegnatario dell’azienda o delle quote societarie agli altri legittimari ai fini del computo della legittima sul rimanente patrimonio del disponente sembrerebbe dare per scontata la possibilità che, in realtà, sia stato attribuito qualcosa di più di quanto possa risultare dal calcolo che la legge impone come obbligatorio [225].

Ma è chiaro che questo ragionamento potrebbe essere rovesciato. L’imputazione cui si riferisce la norma in oggetto grava sui non assegnatari a prescindere dal fatto che il valore determinato sia esattamente corrispondente alla quota sui beni aziendali o sulle partecipazioni. E dunque anche nel caso in cui tale valore risulti inferiore (e magari di molto) a quello reale. Inoltre, come si avrà modo di vedere, ciò che appare contestabile è il punto di partenza stesso di siffatta argomentazione: vale a dire che l’imputazione alle quote di legittima di cui all’art. 786-quater, terzo comma, c.c. si riferisca alle quote di legittima del residuo patrimonio del disponente e non già solo a quelle – come sembra più logico, se si considera il contesto in cui la norma si colloca – relative all’azienda o alle partecipazioni societarie [226]. 

Malgrado questa obiezione, sembra doversi comunque concludere per l’ammissibilità di una liquidazione in misura superiore a quella prevista per legge. L’istituto giuridico di riferimento è, come si è detto più volte, quello contrattuale, per cui, in assenza di una disposizione proibitiva, è la regola dell’autonomia negoziale che deve trovare espressione, magari con l’ulteriore ausilio del già ricordato procedimento di interpretazione estensiva delle norme in tema di patto di famiglia. Peraltro, dal momento che le attribuzioni di cui qui si parla provengono non già dal disponente, ma dai destinatari dell’azienda o delle quote, potrà porsi il problema della ravvisabilità, per la parte eccedente al valore determinato ai sensi di legge, degli estremi di una liberalità da parte di colui che effettua la liquidazione agli altri legittimari. Dovrebbe qui trattarsi in particolare di una liberalità indiretta, poiché l’attribuzione è causalmente «coperta» dal patto di famiglia, ma determina comunque un arricchimento non previsto da tali disposizioni.

Chiudendo sul punto sarà appena il caso di ricordare, a scanso d’equivoci, che la base di calcolo della valutazione delle quote non sarà data dal patrimonio del disponente nel suo complesso, ma dal solo valore della azienda (o del ramo di essa) o delle partecipazioni cedute con il patto di famiglia [227].

 

 

21. L’oggetto della prestazione dei destinatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie. La liquidazione in natura e l’eventuale assegnazione con successivo contratto.

 

        Ai sensi dell’art. 768-quater, cpv., seconda parte, c.c., «i contraenti possono convenire che la liquidazione, in tutto o in parte, avvenga in natura». Al riguardo la dottrina si è chiesta quale sia la valenza normativa di una disposizione che si limita a ribadire la possibilità per le parti di novare l’obbligazione pecuniaria: possibilità che già discende direttamente dal principio di autonomia privata [228]. Ma all’osservazione potrebbe obiettarsi che la novazione – sicuramente ammissibile – presupporrebbe comunque la conclusione di un diverso e successivo negozio, laddove la legge consente qui direttamente, nello stesso patto di famiglia, di prevedere la liquidazione in natura. Il significato precipuo della norma viene dunque ad essere quello di autorizzare l’impugnazione per errore anche per il caso di errore sul valore, non solo dell’azienda o delle partecipazioni, ma pure del bene sostitutivo del danaro: valore altrimenti (in via di principio) irrilevante [229].

        Stabilisce poi l’art. 768-quater, terzo comma, seconda parte, c.c. che «l’assegnazione può essere disposta anche con successivo contratto che sia espressamente dichiarato collegato al primo e purché vi intervengano i medesimi soggetti che hanno partecipato al primo contratto o coloro che li abbiano sostituiti». Si è sostenuto in proposito che, poiché il bene oggetto del patto di famiglia è già trasferito definitivamente in capo all’assegnatario, non è ravvisabile un patto successorio dispositivo. Infatti i legittimari non assegnatari, ricevendo la liquidazione, alienano una porzione della quota di riserva su un bene già uscito dalla massa ereditaria [230]. Proprio l’esclusione del carattere di patto successorio deve indurre l’interprete ad ammettere l’estensione analogica della disposizione in oggetto al caso, non previsto dalla norma, in cui con atto successivo sia effettuata una liquidazione in denaro (ovvero anche in denaro) e non già mediante (o solo mediante) l’assegnazione di beni.

In relazione alla disposizione in commento si rileva altresì che il legislatore ha previsto un caso di collegamento negoziale [231]. Si tratta di un collegamento volontario e non necessario, poiché, malgrado sia espressamente previsto dalla legge, la creazione del nesso, che accomuna i due negozi, è affidata alla libera scelta delle parti. E’, inoltre, un collegamento unilaterale, poiché il secondo negozio è subordinato e accessorio rispetto al primo e ne segue la medesima sorte [232].

La fattispecie va collegata con quanto osservato rispetto alla necessità che i legittimari, ove non liquidati, esprimano chiaramente una rinunzia ai loro diritti, non essendo tale rinunzia desumibile dal solo fatto che della liquidazione non sia fatta menzione. Ne segue che l’ipotesi in oggetto presuppone necessariamente che le parti, nel patto di famiglia, abbiano fissato e determinato il valore dell’azienda o delle partecipazioni societarie, nel contempo rinviando ad un atto successivo non già il mero adempimento della prestazione, esattamente determinata in contratto, a favore dei legittimari (cosa peraltro, come si è già rilevato, sicuramente ammissibile), ma la stessa liquidazione di tali diritti: liquidazione che, come si è visto, potrebbe essere effettuata in misura più o meno ampia rispetto ai criteri fissati dalla legge. Naturalmente, risponde all’interesse dei legittimari che i criteri di tale liquidazione siano predeterminati nel patto (e sarà quanto mai opportuno che il notaio inviti le parti ad effettuarla), ma l’eventuale assenza di tali criteri – alla luce delle norme vigenti – non sembra possa determinare la nullità del patto.

In definitiva, sul punto, potranno immaginarsi le opzioni seguenti:

·         un patto di famiglia che disponga la liquidazione in denaro e/o in natura, con immediato pagamento del dovuto e/o immediata operatività [233] dei trasferimenti della proprietà sui beni assegnati;

·         un patto di famiglia che disponga la liquidazione in denaro e/o in natura, con previsione di un pagamento rateizzato o differito della liquidazione in denaro [234] e/o con previsione (con efficacia reale o obbligatoria) di un trasferimento differito di tutti o alcuni soltanto dei beni eventualmente assegnati;

·         un patto di famiglia che contenga una rinunzia parziale o totale alla liquidazione;

·         un patto di famiglia contenente l’impegno delle parti a stabilire con successivo contratto la liquidazione, in denaro e/o in natura, dei diritti dei legittimari, ferma restando la valutazione dell’azienda o delle partecipazioni societarie effettuate con il patto e con predeterminazione dei criteri cui ci si dovrà attenere in sede di determinazione della liquidazione (ad es.: liquidazione pari alle quote di legittima, o inferiore di x%, superiore di x%, ecc.);

·         un patto di famiglia contenente l’impegno delle parti a stabilire con successivo contratto la liquidazione, in denaro e/o in natura, dei diritti dei legittimari, ferma restando la valutazione dell’azienda o delle partecipazioni societarie effettuate con il patto, ma senza la predeterminazione dei criteri cui ci si dovrà attenere in sede di determinazione della liquidazione. In tale ultimo caso la liquidazione andrà effettuata in base al criterio fissato dall’art. 786-quater, cpv., c.c.

        Sarà il caso di ribadire che il rigore formale imposto dalla norma in esame per il contratto successivo, ed in particolare il requisito della necessaria partecipazione di tutti i soggetti, appare riferibile alle sole due ipotesi sopra elencate per ultime. In quella, invece, in cui l’effetto differito investe il solo negozio di adempimento della prestazione già predeterminata nel patto di famiglia, tale negozio richiederà la sola partecipazione delle parti interessate (vale a dire, nel caso di liquidazione in natura, il tradens e l’accipiens).

        Infine, non potrà concordarsi con la soluzione di chi propone che l’autonomia della parti possa spingersi, addirittura, ad una concorde decisione di non procedere in sede di patto di famiglia alla determinazione del valore dell’azienda [235], atteso che la voluntas legis sembra diretta ad imporre una «cristallizzazione» del valore della quota al momento della stipula del patto medesimo ed elevare tale determinazione ad elemento costitutivo del negozio.

Venendo all’inciso relativo a «coloro che li abbiano sostituiti», cioè che abbiano «sostituito» i legittimari non assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie, si pone il problema se questi soggetti possano essere, genericamente, gli eredi dei legittimari eventualmente premorti. Ora, secondo la Relazione al citato disegno di legge C/3870, «sostituti» dovrebbero essere «i legittimari nel frattempo subentrati». In tal senso si è rilevato [236] che se al legittimario (deceduto nelle more tra il patto di famiglia ed il successivo contratto) non sono subentrati altri legittimari (si pensi al decesso del coniuge, che lasci come erede un suo fratello), nessuna assegnazione andrà effettuata a favore dei suoi eredi. Alle medesime conclusioni perviene chi osserva che [237] la norma implica un richiamo all’istituto della sostituzione, che prevede, in caso di mancato intervento di un chiamato, il possibile subentro di altro successibile, presupponendo un legame diretto tra quest’ultimo e il de cuius, con la precisazione che non tutti i successori del partecipante premorto possano e debbano partecipare, ma solo coloro che siano particolarmente qualificati nei confronti del trasferente tali da potersi definire sostituti. Ne deriva, secondo tale opinione, che la sostituzione opera, a questi fini, nel caso di morte di un legittimario figlio (partecipando al contratto il di lui figlio), ma non nel caso del decesso del coniuge (non avendo i successori dello stesso in quanto tali titolo per partecipare al contratto).

In definitiva, occorre convenire con la posizione di chi rileva che la disposizione non può riferirsi a tutti gli eredi, ma solo a coloro che abbiano assunto la qualifica di legittimari già spettante a quelli che siano intervenuti nel patto [238]. In altri termini, il riferimento va qui inteso ai soggetti menzionati dall’art. 536, ult. cpv., c.c., che sono proprio quei legittimari che, pur non avendo partecipato al patto, sarebbero agli effetti di quest’ultimo comunque vincolati [239].

 

 

22. L’oggetto della prestazione dei destinatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie. Sulla natura di liberalità indiretta della  liquidazione in denaro o in natura.

 

        Sempre rimanendo in tema di liquidazione dei diritti dei legittimari esclusi, si è affermato da una parte della dottrina [240] che questa liquidazione sarebbe una liberalità indiretta da parte dell’assegnante. Ciò spiegherebbe il fatto che essa va attribuita alle quote di legittima che i beneficiari vantano verso il disponente, nonché la dispensa da collazione e imputazione.

        In realtà, questi effetti sono legati alle specifiche norme in tema di patto di famiglia ed all’interpretazione che delle stesse si voglia dare [241], mentre rimane il fatto che appare assai difficile scorgere una liberalità là ove, come nel caso di specie, l’ «arricchimento» di chi riceve la liquidazione s’incrocia con un ben preciso sacrificio da parte sua, consistente nella rinunzia a far valere ogni pretesa che su quell’attribuzione dovesse nascere sulla base delle norme a tutela dei legittimari. Sul punto non potrà farsi rinvio se non alle considerazioni già svolte sul carattere eminentemente oneroso di tale attribuzione [242], ciò che evidentemente impedisce ogni possibile ricostruzione alla stregua di una donazione indiretta.

Quanto sopra vale, a maggior ragione, in relazione ai legittimari che, non avendo partecipato al patto, decidessero ai sensi dell’art. 768-sexies c.c. di aderirvi, una volta aperta la successione. Qui tale adesione, atteso l’incontestabile diritto di tali soggetti di non aderire al patto, ma di  avvalersi, ove lo preferiscano, delle tutele disposte dalle norme a protezione dei legittimari, assume valore transattivo in relazione ad un diritto ormai pienamente maturato nei loro confronti.

Ma questi temi vengono ad introdurre la trattazione delle conseguenze che il patto dispiega in rapporto alla successione del disponente. 

 

 

Sezione V

I rapporti con la successione del disponente e le successive vicende del patto

 

 

23. Le attribuzioni di cui al patto e la vicenda successoria del disponente. Collazione, riduzione, riunione fittizia e imputazione ex se. Le attribuzioni ricevute dai legittimari non assegnatari.

 

        E’ giunto il momento di esaminare quali effetti le attribuzioni compiute in seno al patto di famiglia dispieghino sulla vicenda successoria del disponente. Le norme che vengono in considerazione al riguardo sono, in primo luogo, l’ultimo comma dell’art. 768-quater c.c., secondo cui «Quanto ricevuto dai contraenti non è soggetto a collazione o a riduzione», nonché il terzo comma del medesimo articolo, per il quale «I beni assegnati con lo stesso contratto agli altri partecipanti non assegnatari dell’azienda, secondo il valore attribuito in contratto, sono imputati alle quote di legittima loro spettanti».

        Ora, il tenore letterale della prima delle due disposizioni non sembra lasciare adito a dubbi sulla circostanza che non solo la liberalità ricevuta dagli assegnatari, ma anche l’attribuzione compiuta a favore dei legittimari esclusi, benefici dell’esenzione da collazione e riduzione [243]. D’altro canto, la seconda delle disposizioni in discorso (sull’imputazione dei beni ricevuti dai legittimari non assegnatari delle rispettive quote di legittima) sembra porsi in contraddizione con il sistema. Un sistema che, come si è esattamente rilevato [244], mostra, in primo luogo, di volere del tutto escludere che i beni assegnati con il patto tornino in gioco, visto che ne impedisce l’assoggettamento a riduzione e collazione, tenuto poi anche conto del fatto che, per regola comune, all’esonero da collazione consegue anche quello da imputazione (cfr. art. 564, ult. cpv., c.c.), nonché, per interpretazione corrente [245], l’esonero dalla confluenza nella riunione fittizia. E d’altro canto proprio la negazione del carattere donativo e liberale dell’attribuzione in favore dei legittimari non assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie [246] dovrebbe indurre ad escludere che costoro debbano procedere ad imputare ex se e a «conferire» nella riunione fittizia quanto ricevuto a titolo di liquidazione: si pensi, ad esempio, a quanto accade in relazione alle attribuzioni gratuite ricevute ex art. 770 cpv. c.c. «in occasione di servizi resi o comunque in conformità agli usi», che, escluse da collazione e da riduzione (cfr. artt. 742, terzo comma, 809 cpv. c.c.), non sono soggette neppure alla riunione fittizia [247]. 

Come interpretare, dunque, il terzo comma dell’art. 768-quater c.c., secondo cui «I beni assegnati con lo stesso contratto agli altri partecipanti non assegnatari dell’azienda, secondo il valore attribuito in contratto, sono imputati alle quote di legittima loro spettanti»?

La necessità di un’imputazione ex se in senso tecnico è stata giustificata [248] configurando le attribuzioni in discorso alla stregua di donazioni indirette del disponente; ma, come si è cercato di dimostrare in precedenza [249], il carattere di queste prestazioni può definirsi come tutt’altro che liberale. D’altro canto, non andranno trascurati alcuni elementi testuali, quali il fatto che la norma si riferisca, curiosamente, ai soli «beni assegnati» in natura e non già alla liquidazione in denaro, nonché la stessa collocazione della disposizione, che, anziché essere inserita nell’ultimo comma (dedicato alle «ricadute successorie» del patto), segue immediatamente la concessione della possibilità che i diritti dei legittimari siano soddisfatti, per l’appunto, in natura e non in denaro.

        Alla luce di quanto sopra sembra consentito prospettare una lettura della disposizione che intenda l’espressione «sono imputati alle quote di legittima» in maniera del tutto atecnica, cioè come riferita al fatto che, se le parti concordano nell’attribuzione di beni, il valore di questi va espresso in contratto ed è «imputato» – cioè riferito – all’importo corrispondente alla quota del valore dell’impresa (o delle partecipazioni societarie, qui rimaste nella penna del Legislatore…) espresso nel patto. Ne consegue che, se ad esempio, il valore dell’azienda è 90 e la quota del legittimario è 30 e se si attribuisce al predetto legittimario un bene del valore di 20, l’assegnatario dell’azienda dovrà ancora corrispondere (in denaro o in natura) la somma di 10. In altri termini, il termine «imputazione» va riferito non già all’imputazione ex se da compiersi al momento dell’apertura della successione del disponente, ma, molto più semplicemente, alla maniera in cui nel patto viene concretamente determinata la prestazione a vantaggio dei legittimari non assegnatari dell’azienda (o delle partecipazioni societarie).

        Da quanto detto deriva che quanto ricevuto dai legittimari non andrà a comporre alcuna riunione fittizia, né dovrà essere imputato ex se al momento dell’apertura della successione del disponente. 

 

 

24. Le attribuzioni di cui al patto e la vicenda successoria del disponente.  Le attribuzioni ricevute dagli assegnatari.

 

        A questo punto si presenta un ulteriore problema, che investe – questa volta – la necessità (o meno) che quanto ricevuto dagli assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie confluisca nella riunione fittizia e sia imputato ex se da parte di costoro, sempre al momento dell’apertura della successione del disponente.

        Come messo in luce in dottrina [250], lo sbarramento posto dall’esonero da riduzione e collazione, in aggiunta alla constatazione che nella liquidazione del legittimari esclusi la legge non prescrive di tenere conto di altre liberalità o lasciti provenienti dallo stesso disponente, vale a tradurre la questione in quella di dover stabilire se gli assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni debbano, o meno, vedersi conteggiare, a loro carico, il valore eccedente le quote di legittima, già calcolate con esclusivo riferimento all’uno o agli altri cespiti, quale da essi stessi acquisito in virtù del patto di famiglia.

In proposito si è prospettato il seguente caso. Posto che l’azienda assegnata ad uno dei figli dell’imprenditore sia del valore, quale calcolato all’epoca del patto, di 300 e che l’assegnatario abbia liquidato all’altro fratello la quota di 100 (cfr. art. 537, cpv., c.c.), egli avrà contabilizzato, a suo favore, oltre che il valore di 100, corrispondente alla sua quota di legittima, anche il restante valore di ulteriori 100, corrispondente alla quota disponibile, quale sempre ragguagliata al cespite assegnato. Ora il dilemma consiste proprio nel decidere se, apertasi la successione, l’assegnatario debba anche imputare alla sua quota di legittima quel residuo valore che pure ha effettivamente conseguito nel suo patrimonio [251].

        Sul punto non si può se non convenire sulla constatazione per cui l’efficienza dell’impresa può anche richiedere, in aggiunta alla inamovibilità dell’assegnazione, anche la stabilità dell’assetto economico quale originariamente realizzato con il patto [252]. A ciò s’aggiunga che la cennata conclusione può desumersi per implicito dal fatto che il Legislatore abbia escluso, per le attribuzioni di cui al patto, l’azione di riduzione e la collazione. Tali esclusioni rendono evidente la voluntas legis di considerare le attribuzioni in discorso del tutto sottratte ad ogni tipo di effetto successorio, con un conseguente risultato di «sterilizzazione» di quella massa rispetto al resto del patrimonio del disponente. Ciò in quanto la determinazione dei rapporti dare-avere in base alle regole a tutela della legittima è già avvenuta e si è esaurita al momento della conclusione del patto.

        Ci si può ricollegare qui al già presentato argomento [253] circa l’indiscutibile intangibilità di un’eventuale rinunzia espressa dai legittimari non assegnatari, anche di fronte al successivo tracollo patrimoniale del disponente. Ne consegue che a siffatta irrilevanza, sulle attribuzioni operate dal patto, dei mutamenti cui il patrimonio del disponente può andare incontro dopo la stipula del patto medesimo, deve reciprocamente corrispondere altrettanta irrilevanza delle attribuzioni operate dal patto sulle «aspettative» dei legittimari circa il residuo patrimonio del disponente.

        D’altra parte si è già visto [254] che costituisce regola generale del diritto successorio che all’esonero da collazione consegua anche quello da imputazione (cfr. art. 564, ult. cpv., c.c.), nonché l’esonero dalla confluenza nella riunione fittizia.

Ne consegue che, a prescindere dagli incrementi o decrementi patrimoniali del de cuius intervenuti dopo la stipula del contratto, al momento dell’apertura della successione del disponente gli assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni avranno il diritto di vedersi calcolata la loro quota a prescindere dalle attribuzioni ricevute con il patto. E ciò, si badi, non solo con riguardo al valore della disponibile sull’azienda o sulle partecipazioni oggetto del patto, ma con riferimento al valore complessivo delle attribuzioni ricevute. Ne consegue dunque che, nell’esempio sopra riportato, l’assegnatario non dovrà neppure contabilizzare, al momento della apertura della successione del genitore, la somma di 100 corrispondente al valore della sua legittima su quell’azienda.

        Non sembra poi illogico pensare che, nel momento in cui i legittimari decidono di aderire al patto, e ricevono la liquidazione (o vi rinunziano), in tal modo rinunzino anche al diritto di chiedere che l’azienda o le partecipazioni societarie siano fittiziamente riunite al relictum e al donatum e imputate ex se dagli assegnatari al momento dell’apertura della successione del disponente. Ne deriva che l’azienda e le partecipazioni societarie, trasferite con il patto, rimangono in toto e per tutto il relativo valore completamente scollegate dal restante patrimonio del de cuius e che, in definitiva, il patto colloca i cespiti, che con esso vengono assegnati, in una dimensione diversa rispetto a quella propria di ogni altro cespite del disponente [255].

        Sarà qui il caso di aggiungere che, avuto riguardo al più volte ricordato principio della privity of contract, anche questi effetti del patto rimarranno estranei ai legittimari che non lo abbiano sottoscritto. Al momento dell’apertura della successione, pertanto, i legittimari «terzi» potranno liberamente decidere se aderirvi (con le conseguenze ex art. 786-sexies c.c.), così subendo anche gli effetti del  mancato computo dell’azienda (o delle partecipazioni societarie oggetto del patto) nella riunione fittizia e nell’imputazione ex se da parte dell’assegnatario. In alternativa, costoro potranno decidere di non aderire al patto e di invocare le norme a tutela dei legittimari. In tal caso si procederà ad una determinazione della quota ad essi riservata, che sarà però effettuata in maniera diversa rispetto a quella degli altri legittimari che abbiano aderito al patto. Il fatto che si possa pervenire ad un calcolo della legittima su basi diverse per questa categoria di legittimari rispetto agli altri non deve destare stupore. Appartiene alla fisiologia del patto di famiglia che i legittimari rimasti estranei al contratto non ne subiscano gli effetti, con la conseguenza che, per loro, la riunione fittizia comprenderà anche i beni trasferiti con il patto, mentre, solo nei loro rapporti, gli assegnatari tali beni dovranno imputare ex se. Per questi stessi legittimari non varrà poi neppure l’esenzione da collazione e riduzione, per cui essi potranno agire ex artt. 553 ss. c.c.

        Non vi è dubbio che questo risultato possa sembrare in contrasto con la ratio della riforma, tesa ad evitare il più possibile che il trasferimento dell’azienda o di partecipazioni societarie possa essere successivamente attaccato dai legittimari. Qui però, lo si ripete, si sta parlando di legittimari che al patto non hanno aderito e le conseguenze di cui all’art. 768-sexies c.c. non sembra possano essere imposte (come si vedrà, l’impiego del verbo «possono» in tal sede appare quanto mai significativo [256]) a costoro in violazione del principio fondamentale espresso dall’art. 1372 cpv. c.c.

        Si è poi esattamente rilevato in dottrina che, quale sia il grado di autonomia delle attribuzioni che vi vengono compiute, il patto di famiglia è strumento in potenza suscettibile di avere ricadute anche sulle donazioni precedentemente eseguite dal disponente, e così di ripercuotersi anche a danno del terzi donatari del disponente o degli aventi causa da coloro che, pure legittimari, abbiano ricevuto per donazione da quest’ultimo il bene poi alienato. In effetti, l’esonero da riduzione delle attribuzioni liberali realizzate con il patto potrebbe determinare il coinvolgimento di donazioni precedenti che, in mancanza del patto, sarebbero invece rimaste fuori discussione, così alterando l’ordine di riducibilità delle donazioni, che è sancito dall’art. 559 c.c. e al quale l’ordinamento dedica particolare considerazione, come si evince anche dall’art. 564, terzo comma, c.c., sebbene non manchino eccezioni (cfr. ad es. art. 809 cpv. c.c.) [257].

 

 

25. I legittimari sopravvenuti.

 

Il già ricordato art. 768-sexies c.c., rubricato «rapporti con i terzi», disciplina il caso in cui all’epoca della effettiva apertura della successione sopraggiungano altri legittimari. Tali soggetti «possono chiedere ai beneficiari del contratto stesso il pagamento della somma prevista dal secondo comma dell’art. 768-quater, aumentata degli interessi legali». Da un punto di vista generale potrà rimarcarsi che la dizione della norma in commento non sembra porre distinzioni tra legittimari rimasti «terzi» perché, sebbene già esistenti, non abbiano sottoscritto per le più svariate ragioni (dissenso, incapacità, assenza, irreperibilità) il contratto e legittimari «terzi» perché nati (si pensi a figli sopravvenuti del disponente) o divenuti (si pensi al nuovo coniuge o al figlio adottato) o riconosciuti (si pensi al soggetto di cui sia stato dichiarato o riconosciuto il rapporto di filiazione naturale o accertato il rapporto di filiazione legittima) quali legittimari solo in epoca successiva alla stipula del negozio. Un corollario di tale constatazione risiede nel fatto che, a fronte della predisposizione del rimedio in esame, consistente nella possibilità che il legittimario sopravvenuto aderisca al patto di famiglia, quest’ultimo, a prescindere dalla questione sulla sua natura donativa (da chi scrive, peraltro, contestata, come si è visto), non sarà comunque revocabile per sopravvenienza di figli [258].

Si è già avuto modo di chiarire che i legittimari sopravvenuti, cui fa richiamo l’art. 768-sexies, primo comma, c.c., non possono essere quelli divenuti tali per premorienza del loro dante causa, legittimario del disponente (quelli, cioè, cui fa richiamo l’art. 536 ult. cpv., c.c.), bensì solo quelli direttamente legittimari del disponente medesimo: dal nuovo coniuge [259], al figlio (del disponente) nato, riconosciuto o dichiarato successivamene al patto, a quello che comunque, benchè già in vita al momento del patto, non vi avesse per qualunque ragione partecipato. Ai discendenti, invece, dei figli legittimi e naturali, cui l’art. 536 ult. cpv. c.c. riserva i medesimi diritti che competono ai figli legittimi e naturali del disponente, il patto è comunque opponibile, posto che essi succedono iure repraesentationis e pertanto si trovano nella medesima situazione del loro dante causa, cui il diritto verso il disponente era a suo tempo già stato (ovviamente: solo per la parte relativa all’oggetto del patto) liquidato, o che a tale diritto aveva rinunziato. 

        Tornando agli effetti di quanto disposto dall’art. 768-sexies cit., va ricordato che il termine «possono» di cui alla norma in commento è stato interpretato nel senso che sarebbe in facoltà dei legittimari sopravvenuti chiedere ai beneficiari del patto di famiglia una somma commisurata al valore della quota di legittima, solo qualora all’apertura della successione non vi siano nell’asse ereditario altri beni sui quali soddisfarsi [260]. Di questa regola però non vi è traccia nel testo normativo. Semmai l’impiego del verbo «potere» fa sorgere il dubbio (da risolversi in modo positivo, secondo chi scrive) che, per effetto del più volte ricordato principio della privity of contract, i legittimari «terzi», non vincolati in modo alcuno al patto di famiglia, abbiano purtuttavia il diritto di aderirvi, per effetto di una sorta di diritto di «opzione ex lege». Quanto sopra, naturalmente, fermo restando che, in alternativa, la legge consente loro di valersi degli ordinari strumenti a tutela dei legittimari.

Se è vero ciò che si è appena detto, l’espressione «possono chiedere…», di cui alla norma in commento, non denota tanto il conferimento ai legittimari «terzi» di un potere d’azione, da esercitarsi tramite l’esperimento di una procedura simile all’azione di riduzione [261]. Essa indica, semmai, la presenza di una situazione in cui, come si diceva, i terzi possono aderire al patto, mediante manifestazione di volontà unilaterale (rivestita, è da presumersi, delle stesse forme previste per il patto di famiglia), di adesione ad una sorta di «opzione ex lege». Solo nel caso di successivo inadempimento all’obbligo di liquidazione, da parte degli altri contraenti, secondo quanto previsto dalla norma, i legittimari già «terzi», ora parte del patto, potranno proporre azione d’impugnazione ai sensi dell’ultimo capoverso dell’art. 768-sexies c.c. Naturalmente, come non ci si stancherà mai di ripetere, i legittimari «terzi» potranno decidere di non aderire al patto e dunque di valersi degli ordinari strumenti a tutela della loro posizione.

In caso di adesione al patto da parte dei legittimari sopravvenuti, a costoro compete il diritto di chiedere «ai beneficiari del contratto stesso il pagamento della somma prevista dal secondo comma dell’articolo 768-quater, aumentata degli interessi legali». Il diritto in oggetto compete dunque nei confronti di tutti gli altri contraenti (diversi dal disponente, che non è «beneficiario» di alcunchè) e quindi non solo degli assegnatari. La somma, in base alla norma richiamata, è quella «corrispondente al valore delle quote previste dagli articoli 536 e seguenti». Posto quindi, che, come doveroso, sia stato indicato nell’originario patto di famiglia il valore dell’azienda o delle partecipazioni societarie, il quantum dovuto ai legittimari sopravvenuti sarà determinato sulla base di quel valore. Ciò a prescindere dal fatto che gli importi effettivamente riconosciuti e corrisposti agli altri legittimari, per effetto di rinunzie totali o parziali, o, al contrario, di atti di liberalità, sia stato diverso o addirittura pari a zero.

Per effetto dell’applicazione della regola generale in tema di obbligazioni con più soggetti ex latere debitoris (cfr. art. 1294 c.c.) dovrà affermarsi la natura solidale dell’obbligazione in discorso [262].  

Curiosa è poi la sanzione comminata per l’inadempimento dell’obbligo di liquidazione, con il conferimento all’ex legittimario sopravvenuto del potere di chiedere l’annullamento del contratto. Costituisce un’indubbia distonia del sistema aver previsto, per un’alterazione del sinallagma funzionale, uno strumento tipicamente diretto a porre rimedio alle alterazioni del sinallagma genetico, quale, per l’appunto, l’azione di annullamento. Al riguardo si è proposto che l’inciso «inosservanza delle disposizioni» vada inteso non già come equivalente ad «inadempimento di obblighi» (quale sarebbe il mancato pagamento del dovuto) e che lo stesso possa riferirsi a diversa fattispecie, cioè al mancato funzionamento del sistema previsto dal secondo comma dell’art. 768-quater c.c., dovuto a vizi quali, ad esempio, l’imprecisione dell’aspetto valutativo [263]. Ma la tesi appare veramente troppo antiletterale. D’altro canto l’esistenza di errori di valutazione potrà rilevare se ed in quanto sia il frutto di un vizio del consenso, in relazione al quale l’azione di annullamento è già esperibile ex art. 768-quinquies c.c. Occorre dunque rassegnarsi all’idea che il Legislatore, nella sua sovrana discrezionalità, ha fatto ricorso ad un’azione attinente al piano della validità del negozio per sanzionare l’inadempimento di quanto stabilito nel contratto.

Come per l’ipotesi «normale» di annullamento ex art. 768-quinquies c.c. l’azione sarà disciplinata dagli artt. da 1441 a 1446 c.c., ma sottoposta a termine di prescrizione annuale, decorrente dal giorno della stipula del contratto: cioè del contratto perfezionatosi con la sua adesione all’originario patto di famiglia. Quest’ultima conclusione deriva (a differenza, come si vedrà, del caso dell’azione d’annullamento per vizi del consenso) dalla semplice constatazione che nessuna delle situazioni descritte dal capoverso dell’art. 1442 c.c. sembra adattabile al caso di specie, con la conseguenza che sarà il comma terzo del citato articolo a doversi applicare. Da notare, poi, che la ricostruzione qui proposta – secondo cui il diritto di «chiedere ai beneficiari del contratto stesso» la liquidazione altro non è se non la previsione della possibilità per il legittimario «sopravvenuto» di aderire all’originario contratto – consente di evitare un’altra evidente distonia, rappresentata dal fatto che, altrimenti opinando, dovrebbe ammettersi che l’azione di annullamento di un contratto è stata concessa a un terzo, del tutto estraneo al contratto stesso.

 

 

26. Lo scioglimento del patto.

 

        Ai sensi dell’art. 768-septies c.c. «Il contratto può essere sciolto o modificato dalle medesime persone che hanno concluso il patto di famiglia nei modi seguenti:

1) mediante diverso contratto, con le medesime caratteristiche e i medesimi presupposti di cui al presente capo;

2) mediante recesso, se espressamente previsto nel contratto stesso e, necessariamente, attraverso dichiarazione agli altri contraenti certificata da un notaio».

        Non vi è dubbio che il negozio diretto a sciogliere o a modificare il patto di famiglia rientri nella stessa definizione contenuta nell’art. 1321 c.c. [264], ma le disposizioni qui in commento sono in gran parte (se si prescinde, cioè, dalle raccomandazioni in tema di forma) superflue, atteso che, avuto riguardo alla natura pacificamente contrattuale del patto di famiglia, risulta più che evidente che un contratto possa essere sciolto per mutuo dissenso o modificato da tutti i suoi contraenti (cfr. art. 1372 c.c.) e che, in base all’art. 1373 c.c. i contraenti originari possano attribuire ad uno o a più di essi il diritto potestativo di recedere.

Iniziando dalla formulazione dell’art. 768-septies n. 1 c.c., si è rilevato [265] che la stessa sembra confermare la teoria, sostenuta in dottrina [266], in base alla quale il mutuo dissenso è attuabile anche quando ha per oggetto lo scioglimento di un contratto i cui effetti si sono interamente prodotti. In definitiva, col mutuo dissenso del patto di famiglia, l’azienda o le partecipazioni sociali trasferite ritornano nel patrimonio del disponente, ripristinando la situazione precedente. Il mutuo dissenso dovrà essere concluso da tutti coloro che hanno preso parte al patto di famiglia e, di conseguenza, anche i non assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni sociali saranno tenuti a restituire quanto ricevuto a titolo di liquidazione [267].

Per quanto attiene, poi, al recesso, si è affermato che la facoltà concessa dall’art. 768-septies, n. 2, c.c., sarebbe difficilmente attuabile. Ciò in quanto tale previsione legislativa si scontra con il disposto dell’art. 1373 c.c., che, in tema di recesso unilaterale, riconosce la facoltà di recedere solo finché il contratto non abbia avuto un principio di esecuzione. Al di fuori di tale ipotesi, il recesso può essere esercitato nei contratti ad esecuzione continuata o periodica, facendo salve tuttavia le prestazioni già eseguite [268]. Ora, non vi è dubbio che nel caso del patto di famiglia, avuto riguardo all’effetto reale tipicamente dallo stesso prodotto, il contratto viene ad «avere esecuzione» fin dal momento della sua stipula. Ciò non toglie però che il Legislatore abbia qui chiaramente inteso far salva la possibilità per i contraenti di prevedere siffatta facoltà.

Sarà opportuno ribadire peraltro che, anche in assenza della disposizione in commento, le parti sarebbero potute pervenire ai medesimi risultati, utilizzando la facoltà concessa dall’ultimo capoverso dell’art. 1373 c.c., pur a dispetto della natura «non ad esecuzione continuata o periodica» del patto di famiglia. Secondo l’opinione preferibile, oltre che prevalente in dottrina, invero, non vi è motivo di intendere restrittivamente la disposizione testé citata: ragion per cui, anche nei contratti non di durata, appare sensato ammettere che le parti possano pattuire che il recesso sia esercitabile anche dopo che si sia dato principio alla loro esecuzione [269]. 

L’esercizio del diritto potestativo di recesso determinerà il venir meno degli effetti dell’intero negozio, se a recedere saranno il disponente o il destinatario dell’azienda o delle partecipazioni azionarie. Per ciò che attiene agli altri legittimari, il recesso di costoro comporterà solo l’obbligo di restituzione di quanto ricevuto e, ovviamente, la non estensibilità nei loro confronti degli effetti del patto, con il risultato che i medesimi verranno a trovarsi nella situazione descritta dall’art. 768-sexies c.c. Inutile dire, concludendo sul punto, che, attese le inevitabili complicazioni e gli immaginabili strascichi dell’atto in oggetto, sarà opportuno raccomandare ai notai di fare assai parco uso di questa clausola.

 

 

27. L’impugnativa del patto e le relative controversie.

 

L’art. 768-quinquies c.c. prevede la possibilità di impugnare il contratto per vizi del consenso ai sensi degli artt. 1427 ss. c.c. Anche questa disposizione può qualificarsi senz’altro come superflua. Superflua non è invece la riduzione del termine d’impugnativa, portato da cinque ad un anno. A differenza di quanto disposto dalla formulazione della norma in esame nel disegno di legge C/3870-A, della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, secondo cui l’azione si sarebbe dovuta prescrivere «nel termine di un anno dalla conoscenza del vizio», l’art. cit. non fissa il dies a quo per il computo del termine annuale. Nonostante ciò, appare ragionevole presumere che il termine di riferimento sia pur sempre quello stabilito dall’art. 1442 cpv. c.c., che fissa la decorrenza dal  giorno in cui è cessata la violenza o è stato scoperto l’errore o il dolo, tenuto conto del fatto che la norma novellamente introdotta rinvia agli artt. 1427 «e seguenti» e dunque, tra le norme «seguenti» ben può rientrare l’art. 1442 c.c. [270].

Il vero dubbio è invece quello di comprendere se l’espresso richiamo alla sola disciplina dei vizi del consenso induca ad escludere altre possibili forme d’impugnativa, sulla base dell’applicazione dei principi generali in tema di contratto. Per questa strada si è messo chi ha già iniziato ad escludere, ad esempio, l’applicabilità degli artt. 1425 e 1426 c.c., giustificando tale scelta in considerazione della forma imposta al patto: l’atto pubblico dovrebbe, invero, essere sufficiente a scongiurare il pericolo che, al momento della stipulazione del patto di famiglia una delle parti versi in stato di incapacità, ovvero sussistano raggiri usati dal minore [271]. Ma appare sin troppo facile replicare che, allora, non si riuscirebbe a comprendere perché mai siffatte disposizioni trovano pacifica applicazione in relazione ad ogni altro contratto stipulato per atto pubblico. Ed è del resto ormai chiaro che neppure l’eventuale autorizzazione da parte dell’autorità giudiziaria – qui non richiesta per il patto, a meno che, ovviamente, a stipularlo non siano chiamati incapaci o semi-incapaci [272] – vale a «proteggere» un negozio da eventuali impugnative in base alle disposizioni che prevedono ipotesi di nullità, annullabilità o rescindibilità [273].

Sembrerebbe poi veramente assurdo limitare l’impugnativa del patto al caso dell’annullamento per vizi del consenso, laddove è pacifico che lo stesso potrebbe di fatto presentare profili di nullità: si pensi, ad esempio, alla violazione dei principi in tema di forma per atto pubblico, in relazione ai quali l’art. 768-ter c.c. commina espressamente la sanzione della nullità. Si pensi anche, e sempre a titolo d’esempio, al trasferimento di beni non rientranti nel disposto dell’art. 768-bis c.c., posto che, come si è avuto modo di dire, l’estensione dei principi sul patto di famiglia a beni diversi dall’azienda (o da un ramo di essa) o dalle partecipazioni societarie presupporrebbe un’estensione analogica della disposizione vietata dal carattere eccezionale della stessa.

Non sembra azzardato ipotizzare che, in caso di nullità del patto, si possano verificare ipotesi di conversione negoziale. Così, ad esempio, il trasferimento nullo, perché avente ad oggetto beni diversi dall’azienda o dalle partecipazioni societarie, potrà produrre gli effetti di una donazione, sempre che di tale contratto siano stati rispettati i requisiti formali (ecco una ragione di più perché il patto sia stipulato alla presenza di testimoni, anche se tale presenza, come si è detto, non appare stricto iure necessaria), qualora, come richiesto dall’art. 1424 c.c., «avuto riguardo allo scopo perseguito dalle parti, debba ritenersi che esse lo avrebbero voluto se avessero conosciuto la nullità».

La conclusione di cui sopra non può ritenersi in contrasto con la negazione della tesi che ravvisa nel patto di famiglia una donazione. Invero, ferma restando la finalità liberale dell’attribuzione dal disponente ai destinatari dell’azienda o delle quote societarie, tale finalità si presenta nel patto appaiata alla liquidazione in denaro o in natura in favore degli altri legittimari, o alla rinunzia da parte di costoro: liquidazione che risponde, come si è detto, a finalità solutorie del «prezzo» per la rinunzia ai diritti che a costoro spetterebbero in quanto legittimari. Ma le due prestazioni (quella cioè effettuata dal disponente e quelle compiute dai destinatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie), pur se elementi essenziali del patto, non sono poste tra di loro in corrispondenza biunivoca, con la conseguenza che sembrano poter vivere vite autonome. Così, mentre la prima attribuzione potrà essere fatta salva grazie alla conversione del patto, alle condizioni precisate, in una donazione, più problematico sembra il salvataggio delle attribuzioni in favore degli altri legittimari, essendo assai difficile immaginare l’esistenza di un «contratto diverso» che produca gli effetti descritti dall’art. 768-quater, cpv., c.c. (e che sfugga al divieto dei patti successori).

Per le ragioni sopra illustrate dovrà poi anche ammettersi una convalida, alle condizioni richieste dall’art. 1444 c.c., di eventuali patti di famiglia annullabili [274].

Non vi è poi dubbio che il patto di famiglia, che è contratto a tutti gli effetti, sarà impugnabile con tutti i rimedi attinenti al profilo del sinallagma (oltre che genetico, anche) funzionale, con particolare riguardo a quelli risolutori. In proposito nulla impedirà alle parti di prevedere termini essenziali per l’adempimento (ad es.: la corresponsione differita o rateizzata della liquidazione) o di inserire clausole risolutive espresse, o magari anche penali per il caso di inadempimento di una determinata obbligazione (si pensi sempre al caso in cui determinate prestazioni siano previste come differite).

Ai sensi dell’art. 768-octies c.c. «Le controversie derivanti dalle disposizioni di cui al presente capo sono devolute preliminarmente a uno degli organismi di conciliazione previsti dall’articolo 38 del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5». La disposizione richiamata prevede, in relazione ai procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, la costituzione, da parte degli enti pubblici o privati, che diano garanzie di serietà ed efficienza, di organismi deputati, su stanza della parte interessata, a gestire un tentativo di conciliazione. Tali organismi debbono essere iscritti in un apposito registro tenuto presso il Ministero della giustizia. Il registro e le modalità di iscrizione sono regolate dal d.lgs. 23 luglio 2004, n. 222 [275].

        Il problema consiste nel comprendere il significato dell’espressione «sono devolute preliminarmente». Si è rilevato in proposito [276] che, secondo la Corte costituzionale [277], l’arbitrato deve essere una scelta e non un’imposizione legislativa. E’ noto del resto che, come più volte ribadito dalla Consulta, poiché la Costituzione garantisce ad ogni soggetto il diritto di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi, «il fondamento di qualsiasi arbitrato è da rinvenirsi nella libera scelta delle parti: perché solo la scelta dei soggetti (intesa come uno dei possibili modi di disporre, anche in senso negativo, del diritto di cui all’art. 24, comma primo, Cost.) può derogare al precetto contenuto nell’art. 102, comma primo, Cost. […], sicché la “fonte” dell’arbitrato non può più ricercarsi e porsi in una legge ordinaria o, più generalmente, in una volontà autoritativa», con conseguente incostituzionalità delle norme che prevedano forme di arbitrato obbligatorio [278].

        All’osservazione può però obiettarsi che altro è mediazione e altro è arbitrato. Inoltre, altro è mediazione preliminare all’instaurazione della causa (assimilabile al tentativo obbligatorio di conciliazione che si ha, ad esempio, nel rito del lavoro) e altro è arbitrato obbligatorio. Semmai la vera obiezione, sul piano dell’opportunità, investe la scelta di politica legislativa di demandare l’opera di mediazione in una materia caratterizzata da profili di esasperato tecnicismo nel campo del diritto successorio (ma anche di quello familiare e contrattuale in genere) a organismi di conciliazione propri del settore commerciale e societario.

        Trattandosi comunque di diritti disponibili non sembra impossibile ipotizzare (ed anzi, auspicare) l’inserimento di clausole compromissorie che demandino la devoluzione delle controversie sorgenti dal patto di famiglia – una volta superata eventualmente senza soluzione conciliativa la fase della mediazione – a collegi arbitrali a composizione notarile.

Lo svolgimento del procedimento di conciliazione secondo la norma in oggetto dovrà aver luogo nell’osservanza dei successivi articoli 39 e 40 del già citato d.lgs n. 5 del 2003, con la conseguenza, in particolare, che i contraenti, nell’atto pubblico con cui è concluso il patto di famiglia, avranno la facoltà di indicare specificamente l’organismo di conciliazione. Inoltre, il mancato preventivo esperimento della conciliazione, senza che sia rilevabile d’ufficio dal giudice, dovrà essere fatto valere dalla parte interessata nella prima difesa; la proposizione della domanda di conciliazione produrrà sulla prescrizione i medesimi effetti di quella giudiziale. Nel caso di successo del tentativo di conciliazione sarà redatto processo verbale che, previo accertamento della regolarità formale, andrà omologato dal presidente del tribunale nel cui circondario ha sede l’organismo di conciliazione. Il verbale acquisterà così l’efficacia non soltanto di titolo per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale, ma anche di titolo esecutivo sia per l’espropriazione forzata, sia per l’esecuzione forzata in forma specifica [279].

Atteso che l’articolo 768-octies c.c. non introduce direttamente novità nella specifica materia, in applicazione dell’articolo 1, lett. b), del d.lgs 5/2003, si deve ritenere che vada seguito il c.d. «rito societario» (artt. 1 ss., d.lgs. 5/2003) soltanto ove nella specie il disponente si sia servito del patto di famiglia per trasferire partecipazioni societarie. Al contrario, qualora l’imprenditore trasferisca «in tutto o in parte l’azienda», pare applicabile esclusivamente il procedimento ordinario di cognizione [280]. Almeno per questo tipo di controversie, dunque, ci saranno risparmiati (sia consentito concludere questa fatica con una nota non completamente negativa!) i bizantinismi inutilmente circonvoluti, gli interminabili scambi di memorie sempre più kilometriche, nonché i ripetitivi e snervanti minuetti processuali, conditi da tanto inutili quanto (de iure condito) inevitabili rimpalli tra relatore e collegio, propri del rito ex d.lgs. n. 5/2003, il cui scopo non sembra essere altro se non quello di rimpolpare le parcelle dei legali.

 

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(*) Testo provvisorio di un lavoro monografico destinato alla pubblicazione nella collana dal titolo Le monografie di Contratto e impresa, Serie diretta da Francesco Galgano, Cedam, Padova, 2006. L’autore prega di citare il presente scritto come segue: Oberto, Il patto di famiglia, testo della relazione presentata alla Giornata di studio sul tema «Patti di famiglia», organizzata dal Consiglio Notarile dei distretti riuniti di Torino e Pinerolo e dalla Scuola di Notariato «Franco Lobetti Bodoni» di Torino, svoltasi a Torino il 13 maggio 2006, in corso di pubblicazione nella collana dal titolo Le monografie di Contratto e impresa, Serie diretta da Francesco Galgano, Cedam, Padova, 2006 e disponibile al sito web seguente:

https://www.giacomooberto.com/pattodifamiglia/pattodifamiglia.htm.

[1] Cfr. Troplong, Spiegazione del codice civile. Delle donazioni tra vivi e de’ testamenti, Prima versione italiana, II, Palermo, 1856, p. 579. Si noti che l’Autore non faceva qui che riprendere il parere di giureconsulti più antichi: cfr. ad es. Louet e Brodeau, Recueil de plusieurs arrests notables du parlement de Paris, II, Paris, 1712, p. 320: «Les partages faits par les pere et mere, entre leurs enfans, prevenant l’Office des Arbitres ou Experts, sont favorablement reçus par la loi, et dispensez des formes, regles, et maximes ordinaires, pourvû que la forme de la volonté soit certaine et constante, et qu’ils ne blessent point la legitime de l’un des enfans».

L’idea del padre come «giusto giudice» della divisione dei propri beni tra i figli è assai presente in tutta l’evoluzione storica del diritto francese. Non per nulla i giureconsulti prenapoleonici richiamavano a piene mani brani della letteratura latina, greca e del Talmud, in cui i padri venivano definiti, nei rapporti con i figli, «magistrati domestici», «giudici» e «arbitri» (cfr. ad es. Louet e Brodeau, op. loc. ultt. citt.), o ricordavano il consiglio di Salomone, di cui riferisce l’Ecclesiaste al cap. 33: «in tempore dierum vitae tuae finiendorum, cum tibi moriendum erit, haereditatem distribue» (cfr. Tronçon, Le droit françois, et coustume de la  Prévosté et Vicomté de Paris, Paris, 1626, p. 562). Questa concezione di «giustizia distributiva» era sovente collegata al pensiero di «premio» e di «castigo» per la condotta dei figli stessi e per il rispetto dagli stessi mostrato (o non mostrato) verso l’autorità paterna. Si pensi, a titolo d’esempio, alle parole di un noto commentatore della coutume di Borgogna, secondo cui «les peres êtant poussés par un secret mouvement de la nature à faire tout le bien qu’ils peuvent à leurs enfans, sont les vrais arbitres et juges des interêts de ces mêmes enfans ; et par cette liberté de pouvoir partager avec inegalité leurs biens entre leurs enfans, ordinairement ils les retiennent mieux dans le respect auquel ils sont obligés par les Loix divines et humaines» (cfr. Taisand, Coutume generale des pays et duché de Bourgogne, Dijon, 1698, p. 419).

Proprio da tali considerazioni venivano fatte derivare notevoli conseguenze d’ordine pratico, come, ad esempio, il rifiuto d’estendere analogicamente il partage d’ascendants alla divisione operata (anziché dai genitori) dallo zio, posto che «ce droit de faire partage par les peres et meres de leur vivant entre leurs enfans, étant la suite et l’effet de la sincerité des jugements d’un pere, que l’on présume plus grande en sa personne qu’en celle d’un collateral, on ne doit pas étendere ce pouvoir aux collateraux, si la Coutume ne le permet expressément» (così Boucheul, Coutûmier general, ou corps et compilation de tous les commentateurs sur la coutûme du comté et pays de Poitou, I, Poitiers, 1727, p. 650; nello stesso senso v. anche Louet e Brodeau, op. loc. ultt. citt., secondo cui «ce droit étant un effet de la puissance et autorité paternelle ne doit pas être étendu aux collateraux, si la Coûtume ne le decide expressement»); si proponeva quindi una lettura restrittiva delle disposizioni di quelle coutumes che consentivano il partage solo ai genitori, e non anche ai collaterali: qualcosa di molto simile a ciò che, per le ragioni che verranno più tardi illustrate, va suggerito relativamente all’esegesi degli artt. 768-bis ss. c.c. (cfr. infra, § 14).

[2] Dal punto di vista della tecnica legislativa si potrà osservare, a titolo d’esempio, che il testo della novella utilizza una terminologia quanto mai variegata, per designare sovente le medesime situazioni. Per quanto attiene ai soggetti, invero, si parla di: imprenditore, titolare, discendenti, legittimari, assegnatari, partecipanti, contraenti, partecipanti non assegnatari, soggetti che li abbiano sostituiti, beneficiari del contratto, medesime persone. Dal punto di vista oggettivo si parla invece di: azienda, partecipazioni societarie, quote, patrimonio dell’imprenditore, somme, beni in natura, beni, quanto ricevuto, pagamenti di somme, interessi legali.

[3] V. la relazione al disegno di legge S/1353. Per la dottrina che negli ultimi anni ha iniziato ad interrogarsi su un possibile superamento del divieto dei patti successori v. Lenzi, Il problema dei patti successori tra diritto vigente e prospettive di riforma, in Riv. notar., 1989, p. 1209 ss.; Rescigno, Trasmissione della ricchezza e divieto dei patti successori, in Vita notar., 1993, p. 1281 ss.; Rescigno, Attualità e destino dei patti successori, in Aa.Vv., La trasmissione familiare della ricchezza. Limiti e prospettive di riforma del sistema successorio, Padova, 1995, p. 1 ss.;  Caccavale e Tassinari, Il divieto dei patti successori tra diritto positivo e prospettive di riforma, in Riv. dir. priv., 1997, p. 74 ss.; Roppo, Per una riforma del divieto dei patti successori, in Riv. dir. priv., 1997, p. 5 ss.; Ieva, Il trasferimento dei beni produttivi in funzione successoria: patto di famiglia e patto d’impresa. Profili generali di revisione del divieto dei patti successori, in Riv. notar., 1997, p. 1371 ss.; Dogliotti, Rapporti patrimoniali tra coniugi e patti successori, in Fam. dir., 1998, p. 293 ss.; Zoppini, Il patto di famiglia (linee per la riforma dei patti per le successioni future), in Aa. Vv., Studi in memoria di Salis, Torino, 2000, II, p. 1265 ss. Giudica «inevitabile alla luce del quadro europeo» l’abolizione del divieto dei patti successori anche S. Patti, Regime patrimoniale della famiglia e autonomia privata, in Familia, 2002, p. 312. Per uno studio comparatistico del divieto dei patti successori v. Zoppini, Le successioni in diritto comparato, in Aa. Vv., Trattato di diritto comparato, a cura di Sacco, Torino, 2002, p. 155 ss.

[4] V. la relazione al disegno di legge C/3870. Ed a questo proposito si potrà aggiungere che il parere del Comitato economico e sociale europeo in merito al Libro verde «Successioni e testamenti» (COM (2005) 65 def.) espressamente prevede (cfr. il § 3.2.) che «Se è vero che il diritto comunitario deve risolvere i problemi di determinazione del foro (o dei fori) competente(i) e di riconoscimento delle decisioni giudiziarie ai quali si è già  accennato, esso dovrà  prevedere la possibilità  di regolare anche le seguenti questioni: - in materia di successioni testamentarie: i requisiti di validità  del testamento (forma e contenuto, capacità  di testare, limitazioni dell’autonomia della volontà  del testatore), le riserve successorie, le successioni anomale, i patti successori (autorizzati o vietati), i trust successori, la qualità  di erede (…)». Sul tema v. anche Petrelli, La nuova disciplina del “patto di famiglia”, in Riv. notar., 2006, I, p. 401 ss.

[5] Ci si riferisce qui alla famosa dinastia francese, costretta a cedere il suo impero nello champagne per i dissidi tra i ben trentotto eredi del fondatore (sul tema v. ad esempio Chevrillon, Les Taittinger dans les affres du pluralisme, in L’Expansion, n. 564, 8 janvier 1998, p. 36 s., disponibile anche al seguente indirizzo web: http://www.lexpansion.com/art/6.0.122647.1.html).

[6] Cfr. Livini, Mai più liti sulle dinastie aziendali. Il provvedimento bipartisan facilita i passaggi generazionali nelle imprese italiane, consentendo in anticipo di designare il successore, in La Repubblica, 18 febbraio 2006. L’articolista ricorda che «Tante gloriose storie imprenditoriali del nord-est, dai Marzotto ai Tabacchi (Safilo), dai Bisazza fino ai Coin sono finite a carte bollate quando l’albero genealogico (e l’azionariato di famiglia) ha iniziato ad allargarsi troppo. E i divorzi, alla fine, sono stati traumatici quasi per tutti. In tribunale si è spostato anche il confronto imprenditoriale tra i diversi rami dei Garavoglia - i proprietari della Campari - mentre anche in casa Fossati (quelli della Star) fioccano negli ultimi mesi querele e denunce tra i “fratelli azionisti”. Il problema è che questi capricci dinastici finiscono quasi sempre per trasformarsi in crisi industriali. E se i litiganti (come hanno fatto i Taittinger) vendono subito la situazione, magari, si risolve. Mentre in caso contrario finiscono a rischio centinaia di posti di lavoro». Per analoghe osservazioni v. anche Iannaccone, Patto di famiglia: ascoltiamo chi l’ha voluto, in FederNotizie, marzo 2006, p. 56 ss., che sottolinea, tra l’altro, il ruolo svolto nell’approvazione del testo normativo in esame dalla lobby dell’AidAF, vale a dire l’Associazione Italiana delle aziende familiari, la quale era peraltro orientata (sulla base di un’indagine condotta con l’Università Bocconi) ad addivenire ad un patto di famiglia che determinasse il passaggio dell’azienda solo dopo la morte dell’imprenditore.

[7] Cfr. Cfr. Livini, op. loc. ultt. citt.

[8] Cfr. Montanari, Le aziende familiari, continuità e successione, Padova, 2003, p. 1 ss.

[9] Cfr. Zoppini, Il patto di famiglia (linee per la riforma dei patti sulle successioni future), cit., p. 1267.

[10] Cfr. Sciandra, Di padre in figlio, un passaggio problematico, disponibile al sito web seguente:

http://www.lavoce.info/news/view.php?SEARCH=&AUTHOR=sciandra&DATE=all&RECORD_PAGE=5&ACTION=search&BUTTON=T+r+o+v+a&id=16&cms_pk=1527&from=index.

[11] Cfr. Giacomelli e Trento, Proprietà, controllo e trasferimenti nelle imprese italiane. Cosa è cambiato nel decennio 1993-2003 ?, in Banca d’Italia, Temi di discussione del Servizio Studi, n. 550, Giugno 2005, disponibile all’indirizzo web seguente: http://www.bancaditalia.it/ricerca/consultazioni/temidi/td05/td550_05/tema_550.pdf. Sul punto v. anche Muritano, Strumenti alternativi per la trasmissione della ricchezza familiare, trust e ruolo del notaio, p. 3, disponibile al sito web seguente: http://www.notariato.it/cnn/News/Relazioni_Pesaro/Muritano/OKMuritano.pdf, il quale, a commento della citata indagine, afferma che «Al fine di realizzare una successione nell’impresa coerente con gli intendimenti dei “proprietari” di essa, anziché utilizzare strumenti giuridici tipici (l’indagine statistica svolta dalla Banca d’Italia mostra peraltro come nella stragrande maggioranza dei casi il governo delle successioni d’impresa avviene utilizzando clausole statutarie relative al trasferimento delle partecipazioni sociali o patti parasociali), si fa quindi ricorso a strumenti giuridici alternativi (la cui “tenuta” rispetto ai principi del nostro ordinamento è tutta da verificare) oppure si piegano gli strumenti giuridici tipici verso finalità diverse».

[12] Cfr. su questi temi, anche per gli ulteriori rinvii, Zoppini, Trasmissione intergenerazionale della ricchezza: comparazione giuridica ed efficienza economica, p. 1 ss., disponibile all’indirizzo web seguente: http://www.notariato.it/cnn/News/Relazioni_Pesaro/Zoppini/OKzoppini.pdf,  il quale rileva che «lo slittamento temporale dell’acquisto ereditario dei patrimoni, nonché le forme di “successione anticipata”, non sono senza conseguenze per le regole del diritto delle successioni, che in primo luogo smarrisce la funzione di dotare patrimonialmente la generazione successiva. Inoltre, proprio all’interno di questa strategia di pianificazione ereditaria, l’emersione di un sistema successorio “parallelo” per effetto di forme di delazione triangolari che prescindono e “sostituiscono” il testamento, da cui l’espressione will substitutes utilizzata per indicarli. La realizzazione di questo sistema è, in larga parte, affidata al ricorso a strumenti negoziali e societari, che intermediano la trasmissione dei patrimoni e attraverso cui si dispone (essenzialmente) della ricchezza mobiliare raggirando la vicenda ereditaria».

[13] Così Caccavale, Appunti per uno studio sul patto di famiglia: profili strutturali e funzionali della fattispecie, in CNN notizie. Notiziario di informazione del Consiglio Nazionale del Notariato, 22 marzo 2006, p. 6.

[14] Rileva Zoppini, Il patto di famiglia non risolve le liti, in Il Sole 24 ore, 3 febbraio 2006, p. 27, che la prevalenza dell’interesse dell’impresa rispetto a quello dell’autonomia privata del disponente sembra risultare del resto anche dal già citato passo della relazione alla proposta di legge n. 3870 dell’8 aprile 2003 – dal quale ha preso le mosse il provvedimento normativo in commento – secondo cui «la ratio del provvedimento deve essere rinvenuta nell’esigenza di superare in relazione alla successione di impresa la rigidità del divieto dei patti successori, che contrasta non solo con il fondamentale diritto all’esercizio dell’autonomia privata, ma altresì e soprattutto con la necessità di garantire la dinamicità degli istituti collegati all’attività d’impresa».

[15] Cfr. la proposta di legge C/4727/XIV, d’iniziativa dei deputati Collavini e altri, presentata il 19 febbraio 2004, dal titolo «Modifiche al codice civile in materia successoria e abrogazione delle disposizioni relative alla successione necessaria».

[16] Non appaiono pienamente condivisibili, sotto questo profilo, le argomentazioni di Busani, È sancito inoltre che l’attributario dell’azienda o delle quote «compensi» gli altri legittimari partecipanti alla stipula del patto; a meno che a detta operazione provveda colui che trasferisce, in Guida al dir., 2006, n. 13 del 1 aprile 2006, p. 45, secondo cui «Prima della riforma che oggi commentiamo, il tema della organizzazione della successione di un imprenditore (…) era quasi una mission impossible: come detto, da un lato, non era consentito stipulare patti, durante la vita dell’imprenditore, aventi a oggetto le sorti dell’azienda di famiglia dopo la morte dell’imprenditore stesso; dall’altro, era spesso impossibile ‘compensare’, per mancanza di sostanze, le ragioni dei familiari non imprenditori rispetto all’attribuzione dell’azienda al figlio o ai figli dell’imprenditore ritenuti idonei a proseguire l’attività paterna». Il patto di famiglia non produce, peraltro, effetti traslativi (si badi: traslativi) post mortem, né mortis causa e, d’altro canto, come si vedrà, il problema della «compensazione» degli altri legittimari continua drammaticamente a porsi, tanto più che l’improvvida normativa della novella tale obbligo di «compensazione» pone, non già a carico del disponente, ma dei destinatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie.

[18] Su questo tema specifico v. Moscati, Trusts e vicenda successoria, in Europa e dir. priv., 1998, p. 1075 ss.; Zoppini, Contributo allo studio delle disposizioni testamentarie «in forma indiretta», in Aa. Vv., Studi in onore di P. Rescigno, II, Diritto privato, Milano, 1998, p. 919 ss.

[19] Cfr. l’art. 2, comma 4-novies, l. 14 maggio 2005, n. 80, di conversione, con modificazioni, del d.l. 15 marzo 2005, n. 35.

[20] Sul punto v. per tutti Tagliaferri, La riforma dell’azione di restituzione contro gli aventi causa dai donatari soggetti a riduzione, in Notariato, 2006, p. 167 ss.; cfr. inoltre Consiglio Nazionale Del Notariato, L’atto di “opposizione” alla donazione (art. 563, comma 4, cod. civ.), Studio n. 5809/C, disponibile all’indirizzo web seguente: http://www.notariato.it/cnn/notaio/Studi_e_approfondimenti/Successioni/5809.htm.

[21] Sul tema che, per i suoi multiformi profili, non è richiamabile neppure per sommi capi in questa sede, si fa rinvio per tutti a Oberto, Contratto e vita familiare, in Aa. Vv., Trattato del contratto, a cura di Roppo, Milano, 2006 (in corso di stampa). L’argomento è stato sviluppato in particolare dallo scrivente nei seguenti lavori: Id., I contratti della crisi coniugale, I, Milano, 1999, p. 13 ss.; Id., L’autonomia negoziale nei rapporti patrimoniali tra coniugi (non in crisi), in Familia, 2003, p. 617 ss.; Id., Il regime di separazione dei beni tra coniugi. Artt. 215-219, in Il codice civile. Commentario fondato da Schlesinger e continuato da Busnelli, Milano, 2005, p. 64 ss. (e ivi per ulteriori rinvii).

[22] Il dato normativo proviene dal recepimento della normativa comunitaria in tema di commercio elettronico, laddove l’art. 11, d.lgs. 9 aprile 2003, n. 70 («Attuazione della direttiva 2000/31/CE relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione nel mercato interno, con particolare riferimento al commercio elettronico»), stabilisce l’inapplicabilità della relativa regolamentazione ai «contratti disciplinati dal diritto di famiglia». Può ben dirsi, dunque, che – quanto meno già dalla data di tale intervento – è lo stesso Legislatore ad ammettere che la normativa tradizionalmente qualificata come giusfamiliare può contenere norme che disciplinano contratti. Il richiamo legislativo, ad avviso dello scrivente, deve intendersi effettuato tanto alle convenzioni matrimoniali (sulla cui natura contrattuale cfr. per tutti Oberto, L’autonomia negoziale nei rapporti patrimoniali tra coniugi (non in crisi), cit., p. 617 ss.), quanto ai contratti della crisi coniugale che, come si è detto in altra sede (cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 696 ss.), rinvengono il loro fondamento causale in specifiche disposizioni giusfamiliari.

[23] In proposito andrà menzionato che l’art. 39-novies della l. 23 febbraio 2006, n. 51, di conversione con modifiche del d.l. 30 dicembre 2005, n. 273 («Recante definizione e proroga di termini, nonché conseguenti disposizioni urgenti. Proroga di termini relativi all’esercizio di deleghe legislative») ha introdotto l’art. 2645-ter c.c., secondo il quale «Gli atti in forma pubblica con cui beni immobili o beni mobili iscritti in pubblici registri sono destinati, per un periodo non superiore a novanta anni o per la durata della vita della persona fisica beneficiaria, alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche ai sensi dell’articolo 1322, secondo comma, possono essere trascritti al fine di rendere opponibile ai terzi il vincolo di destinazione; per la realizzazione di tali interessi può agire, oltre al conferente, qualsiasi interessato anche durante la vita del conferente stesso. I beni conferiti e i loro frutti possono essere impiegati solo per la realizzazione del fine di destinazione e possono costituire oggetto di esecuzione, salvo quanto previsto dall’articolo 2915, primo comma, solo per debiti contratti per tale scopo».

Il più grave dei tanti problemi posti da uno degli ultimi «regali» dell’agonizzante XIV legislatura consiste nell’accertare se ci si trovi o meno di fronte ad un nuovo tipo di negozio, qualificabile come «atto di destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela (riferibili a persone con disabilità)»: con la precisazione che l’eventuale risposta positiva dovrebbe indurre a ritenere che, forse per la prima volta, il Legislatore è riuscito ad introdurre un nuovo tipo negoziale operando esclusivamente sulle norme concernenti la pubblicità! Sul punto tre sono le possibili risposte. La prima consiste nel disapplicare puramente e semplicemente l’art. 2645-ter c.c., in quanto diretto all’attribuzione di rilievo sul piano delle sole formalità pubblicitarie ad un fenomeno (atto di destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela) che non è regolato dal diritto «sostanziale» (inteso come contrapposto al «diritto pubblicitario»). La seconda via è quella di cercare di individuare quali, tra gli istituti vigenti, sarebbero astrattamente idonei a dar luogo ad atti qualificabili come «di destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela», pur non potendo gli stessi concretamente produrre tali effetti, per la presenza di disposizioni in senso contrario. Disposizioni che dovrebbero dunque ritenersi derogate dall’introduzione dell’art. 2645-ter c.c. Ragionando in questi termini si dovrebbe allora dire che tanto il testamento che il contratto sarebbero istituti potenzialmente idonei a stabilire effetti di vincolo su determinati beni per tutta la vita di un disabile, ma, in concreto, non lo possono fare per via di principi quali il divieto di sostituzione fedecommissaria (al di là degli angusti limiti di cui all’art. 692 ss. c.c.) o il divieto dei patti successori. In quest’ottica si potrebbe, a titolo d’esempio, scorgere nella nuova norma il riconoscimento della validità di disposizioni testamentarie o di patti successori diretti, per l’appunto, a vincolare per il periodo successivo al decesso del disponente e per tutta la durata della vita di un determinato soggetto disabile, uno o più beni. Ne conseguirebbe che gli eredi si vedrebbero costretti a rispettare siffatti vincoli, ancorchè eventualmente disposti a suo tempo dal de cuius, magari con manifestazione di volontà inter vivos. Se e come tali norme dovrebbero poi interagire con i diritti attribuiti ai legittimari appare un vero e proprio mistero, per la soluzione del quale si potrebbe forse ricorrere alle disposizioni in tema di cautela sociniana (art. 550 c.c.).

L’ultima soluzione è quella di ipotizzare che il Legislatore abbia implicitamente inteso dar vita ad un’autonoma figura negoziale, come appare del resto confermato dal rilievo che la norma in esame contiene anche disposizioni che con il sistema della pubblicità nulla hanno a che vedere (si pensi al principio per cui «per la realizzazione di tali interessi può agire, oltre al conferente, qualsiasi interessato anche durante la vita del conferente stesso»), nonché dall’espresso richiamo al principio di libertà contrattuale di cui all’art. 1322 c.c. Una figura negoziale che potrebbe dunque costituire il primo esempio di trust «tricolore», in cui la destinazione alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela viene attuata tramite una forma di separazione patrimoniale quanto mai accentuata, estrinsecantesi nel principio per cui «I beni conferiti e i loro frutti possono essere impiegati solo per la realizzazione del fine di destinazione e possono costituire oggetto di esecuzione, salvo quanto previsto dall’articolo 2915, primo comma, solo per debiti contratti per tale scopo». In questo senso sembra deporre anche il fatto che la terminologia pare ispirata ad alcune (peraltro ben più ponderate) proposte di legge della XIV legislatura, che, sotto il titolo, rispettivamente, «Disciplina della destinazione di beni in favore di soggetti portatori di gravi handicap per favorirne l’autosufficienza» (cfr. la proposta contrassegnata dal N. 3972, presentata alla Camera dei Deputati il 14 maggio 2003) e «Norme in materia di trust a favore di soggetti portatori di handicap» (cfr. la proposta contrassegnata dal N. 2377, presentata alla Camera dei Deputati il 10 maggio 2002), miravano ad introdurre, a tutela delle persone disabili, la possibilità di dar luogo ad un vincolo assai simile a quello che si attua negli ordinamenti di common law con il trust, ma allo stesso tempo coerente con il nostro sistema civilistico e fiscale e, quindi, di più immediata e agevole fruibilità per i soggetti interessati.

Naturalmente, che la nuova figura negoziale possa contenere, oltre ad un profilo di vincolo, anche un vero e proprio momento dispositivo, come nel caso del trust (sulla cui ammissibilità nel nostro ordinamento e sui cui risvolti giusfamiliari si fa rinvio per tutti a Oberto, Trust e autonomia negoziale nella famiglia, in Fam. dir., 2004, p. 201 ss., 310 ss.; Id., Il regime di separazione dei beni tra coniugi. Artt. 215-219, cit., p. 183 ss.; Id.,  Il trust familiare, disponibile al seguente indirizzo web: http://utenti.lycos.it/giacomo305604/milano11giugno2005trust/relazionemilano.htm), è questione ancora tutta da discutere, posto che il concetto di vincolo non sembra, di per sé, in grado di abbracciare anche il ben diverso fenomeno traslativo del diritto dominicale (sul tema, e per perplessità analoghe a quelle qui espresse, si veda Trib. Trieste, 7 aprile 2006, disponibile al seguente indirizzo web: http://www.filodiritto.com/index.php?azione=visualizza&iddoc=230; in un’ottica invece molto diversa si colloca Lupoi, Gli “atti di destinazione” nel nuovo art. 2645-ter cod. civ. quale frammento di trust, in Trusts att. fid., 2006, p. 169 ss.).

[24] Si pensi (ma l’argomento è sviluppato dallo scrivente in altra sede: cfr. Oberto, Contratto e vita familiare, cit. cap. I, §§ 1, 6) alle disposizioni del nuovo art. 155, cpv. c.c. (estensibile anche alla materia divorzile, nonché a quella dei figli di soggetti non coniugati, come disposto dall’art. 4, l. 8 febbraio 2006, n. 54, «Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli»), che impone al giudice di «Prende(re) atto, se non contrari all’interesse dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori», o al nuovo quarto comma dell’art. cit., a mente del quale ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito «salvo accordi diversi, liberamente sottoscritti dalle parti». Va rilevato che quest’ultima disposizione viene addirittura a porsi (per quanto attiene alla derogabilità del criterio di proporzionalità) in evidente contrasto con quanto stabilito dall’art. 148 c.c., norma sino ad oggi ritenuta inderogabile, sollevando altresì (quanto a tale limitato aspetto) forse anche un problema di conformità all’art. 30 Cost. L’accordo delle parti può pure derogare ai parametri di adeguamento agli indici ISTAT dell’assegno per la prole (cfr. art. 155, comma quinto, c.c.).

[25] Per ulteriori approfondimenti su questo tema cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, Milano, 1991, p. 1 ss., 151 ss.; Id., I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 33 ss., 43 ss.; Id., I contratti di convivenza tra autonomia privata e modelli legislativi, in Contratto e impresa/Europa, 2004, p. 17 ss.;  Id., Il regime di separazione dei beni tra coniugi. Artt. 215-219, cit., p. 213 ss., 243 ss.

[26] E si noti che tale irrilevanza della sopravvenienza abbraccia non solo gli effetti di una rinunzia, ma «tiene ferma» anche la valutazione comunque effettuata in sede di patto, anche di fronte ai successivi mutamenti di valore dei cespiti aziendali, dell’avviamento e in genere dei beni oggetto del patto di famiglia: in questo senso, su quest’ultimo rilievo, v. anche Petrelli, op. cit., p. 437.

[27] Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 485 ss.; Id., «Prenuptial Agreements in Contemplation of Divorce» e disponibilità in via preventiva dei diritti connessi alla crisi coniugale, in Riv. dir. civ., 1999, II, p. 171 ss.; Id., Contratto e vita familiare, cit., cap. IV, §§ 6 ss.

[28] Cfr. infra, rispettivamente, i §§ 9, 12, 18, 21 e 27.

[29] Cfr. ad esempio Merlo, Il patto di famiglia, in CNN notizie. Notiziario di informazione del Consiglio Nazionale del Notariato, 14 febbraio 2006, p. 4 (dell’articolo in formato .pdf).

[30] Su cui v. in particolare Polacco, Della divisione operata da ascendenti fra discendenti, Verona-Padova, 1884; Bonelli, Il concetto giuridico della divisione d’ascendente per atto fra vivi, in Foro it., 1897, 8, c. 575 ss.; Belotti, La divisione di ascendente, Padova, 1933; Tedeschi, La divisione d’ascendente, Padova, 1936.

[31] Cfr. gli artt. 1115 ss. Codice Albertino; artt. 1031 ss. Codice per lo Regno delle Due Sicilie; artt. 1017 ss. Codice civile per gli Stati di Parma, Piacenza e Guastalla; artt. 1125 ss. Codice civile per gli Stati Estensi.

[32] La scelta di introdurre un capo numerato come V-bis (e non VI) all’interno di un titolo (il IV) del libro secondo del c.c., che di capi ne conta solo cinque, sebbene contraria ad ogni logica apparente, sembra rispondere ai criteri di tecnica legislativa contenuti nella Circolare del Presidente del Senato in data 20 aprile 2001, dal titolo «Regole e raccomandazioni per la formulazione tecnica dei testi legislativi», il cui testo è disponibile alla pagina web seguente: http://www.senato.it/istituzione/circolari/circolare3.htm. Pur non trattando espressamente del caso in oggetto (cioè dell’aggiunta di un nuovo capo al termine di un titolo), l’art. 6 della predetta circolare sembra dettare principi analoghi con riguardo alla numerazione degli articoli:

«6. Numerazione e rubricazione degli articoli aggiuntivi.

a) Gli articoli aggiuntivi, da inserire con ‘novelle’ in testi legislativi previgenti, sono contrassegnati con il numero cardinale dell’articolo dopo il quale devono essere collocati, integrato con l’avverbio numerale latino (bis, ter, quater, eccetera).

b) Il tipo di numerazione di cui alla lettera a) è adottato anche per gli articoli aggiuntivi inseriti dopo l’ultimo articolo del testo previgente.

c) Anche in caso di articolo unico non recante la numerazione cardinale, gli articoli aggiuntivi sono denominati: Art. 1-bis, Art. 1-ter, e via dicendo».

Chiaramente in questo senso v. l’art. 69 del testo intitolato Regole e suggerimenti per la redazione dei testi normativi, elaborato dall’Osservatorio legislativo interregionale (disponibile alla pagina web seguente:

  http://www.consiglio.regione.toscana.it/leggi-e-banche-dati/Oli/Manuale/drafting.asp#paragrafo%2069), che stabilisce quanto segue:

«69.        Numerazione degli articoli aggiuntivi e delle partizioni aggiuntive di livello superiore all’articolo

1.       Gli articoli aggiuntivi da inserire con modifiche testuali in testi normativi previgenti vanno contrassegnati con il numero cardinale dell’articolo dopo il quale essi sono collocati, integrato con l’avverbio numerale latino (25). Tale criterio va seguito anche nel caso di articoli da aggiungere dopo l’ultimo del testo previgente, e anche quando gli articoli sono aggiunti dopo un articolo unico privo di numerazione cardinale.

2.       Gli articoli aggiuntivi collocati prima dell’articolo 1 di un atto previgente vanno contrassegnati con il numero “01” (“02”, “03”, ecc.).

3.       Gli articoli da inserire con modifiche testuali in testi normativi previgenti, e che si renda indispensabile collocare in posizione intermedia tra articoli aggiunti successivamente al testo originario, vanno contrassegnati con il numero dell’articolo dopo il quale sono inseriti, integrato da un numero cardinale (l’articolo inserito tra l’1 bis e l’1 ter diviene quindi 1 bis 1).

4.       Quando s’inserisce un articolo fra l’articolo 1 e l’articolo 1 bis lo si indica come articolo 1.1. Quando, in un secondo tempo, s’inserisce un articolo fra l’1.1 e l’1 bis lo si indica come 1.1.1.

5.       Le predette regole si applicano anche nel caso di partizioni aggiuntive di livello superiore all’articolo.

6.       Non usare numeri corrispondenti ad articoli abrogati in precedenza.

7.       Quando si sostituiscono degli articoli non cambiarne radicalmente l’oggetto: se lo si vuol fare è meglio abrogare l’articolo originario e aggiungere un nuovo articolo».

[33] Cfr. Merlo, Il patto di famiglia, cit., p. 4.

[34] Cfr. Mengoni, La divisione testamentaria, Milano, 1950, p. 20, ss.; Casulli, Divisione ereditaria (dir. civ.), in Noviss. dig. it., VI, Torino, 1960, p. 57 ss.; Cicu, Successioni per causa di morte. Parte generale. Delazione e acquisto dell’eredità. Divisione ereditaria, Milano, 1961, p. 455 s.; Gazzara, Divisione ereditaria (dir. priv.), in Enc. dir., XIII, Milano, 1964, p. 435 ss.; Forchielli, Della divisione, in Commentario del codice civile, diretto da Scialoja e Branca, Libro secondo, Delle successioni, (art. 713-768), Bologna-Roma, 1970, sub art. 734, p. 193 ss.; Burdese, La divisione ereditaria, Torino, 1980, p. 253 ss.; Casulli, Divisione ereditaria (dir. civ.), Appendice, III, Torino, 1982, p. 61; Morelli, La comunione e la divisione ereditaria, Torino, 1986, p. 246 ss.; Amadio, La divisione del testatore, in Aa. Vv., Successioni e donazioni, a cura di Rescigno, II, Padova, 1994, p. 71 ss.;

[35] Cfr. la Relazione del Guardasigilli al progetto definitivo del libro secondo del c.c. (n. 199), in Codice civile. Libro delle successioni e donazioni, Roma, 1939, p. 183: «La soppressione della divisione per atto tra vivi è stata oggetto di vivaci critiche, non sembrando ad alcuni giustificata l’abolizione di un istituto che ha una lunga tradizione e una vita rigogliosa. Ho ritenuto tuttavia di dover mantenere l’innovazione del progetto preliminare, per due ordini di considerazioni: innanzi tutto, l’istituto ha sempre costituito uno dei più gravi problemi per la dottrina, la quale non è riuscita a dargli una soddisfacente costruzione a causa del suo carattere speciale e anomalo; in secondo luogo, la pratica insegna che la divisione inter liberos per atto tra vivi, anzichè raggiungere finalità di concordia tra i figli, si presta spesso alle più gravi iniquità, basandosi sul sentimento di rispetto che impedisce ai figli di ribellarsi alla volontà paterna. A ciò si aggiunge la considerazione, di valore decisivo, che le stesse finalità della divisio inter liberos si possono raggiungere dal genitore mediante atti di donazione».

[36] Cfr. Amadio, La divisione del testatore, cit., p. 72.

[37] Cfr. Cicu, Successioni per causa di morte. Parte generale. Delazione e acquisto dell’eredità. Divisione ereditaria, cit., p. 456: «Le difficoltà che aveva incontrato la dottrina nella costruzione giuridica dell’istituto erano dovute alla necessità che si sentiva di conciliare l’atto inter vivos col concetto di divisione e di successione ereditaria. Chi vi vedeva un’anticipata successione andava incontro alla difficoltà di ammettere una successione a persona vivente, ed una seconda successione alla stessa persona. Perciò altri vedevano nella divisione un titolo di trasmissione provvisoria, da diventar definitivo soltanto con la successione; la teoria poteva trovare sostegno nell’obbligo di collazione delle donazioni: senonchè era opinione generale che i beni divisi inter vivos non fossero soggetti a collazione. Altri ancora aveva ritenuto di superare la difficoltà attribuendo alla divisione fra vivi l’effetto di dare un titolo di acquisto particolare immediato, ma destinato a trasformarsi, con l’apertura della successione, in titolo universale: senza tuttavia riuscire a spiegare come il primo titolo, senza risolversi, potesse essere soppiantato da un diverso titolo. Altri infine vedeva nella divisione un atto traslativo inter vivos, ma sottoposto alla condizione risolutiva per il caso che il beneficato non venisse all’eredità, ritenendo di poter fissare in tal modo il legame fra l’atto tra vivi e la successione; al che era d’ostacolo l’art. 1003, per il quale il donatario, rinunziando alla successione, poteva ritenere la donazione». Rilevano F.S. Azzariti, Martinez e G. Azzariti, Successioni per causa di morte e donazioni, Padova, 1973, p. 658, che nell’istituto in questione «si vedeva (…) da alcuni un’anticipata successione; altri distinguevano in essa due momenti, l’uno attuale e certo, e cioè quello della donazione, l’altro futuro ed incerto e cioè quello della divisione; altri ancora negavano sia la figura dell’anticipata successione, sia quella della donazione che poi si tramutava in divisione, ravvisandovi una divisione vera e propria, ma con carattere provvisorio, e subordinata al futuro evento della successione; altri infine riconoscevano nell’atto la doppia natura di donazione e divisione».

[38] Sebbene contraddistinto dall’esistenza di taluni effetti mortis causa, come si avrà modo di vedere: cfr. infra, § 8.

[39] Così Denisart, Collection de décisions nouvelles et de notions relatives à la jurisprudence actuelle, II, Paris, 1775, p. 40.

[40] V. in questo senso la lettera del Cancelliere d’Aguesseau (cioè del «padre» delle ordonnances di Luigi XV sulle donazioni, sui testamenti e sulle sostituzioni), del 22 luglio 1731, al primo presidente del parlamento di Normandia, in cui si chiarisce che «c’est avec réflexion qu’on n’a pas jugé à propos de parler, dans la nouvelle ordonnance, des démissions de biens (…). Cela regarde la matière des partages et des dispositions entre enfans, qui forment un autre objet, sur lequel le Roi pourra s’expliquer dans la suite. Il n’est pas possible d’embrasser toutes les matieres en même temps, et pour bien juger d’un ouvrage tel que celui dont il s’agit, il faut attendre que toutes le parties en étant achevées, elles se prêtent un secours mutuel par le rapport et le concert de leurs dispositions» (cfr. d’Aguesseau, Lettre ccxcv, du 22 juillet 1731, in Œuvres de M. le Chancelier d’Aguesseau, IX, Paris, 1776, p. 386).

[41] Cfr. Denisart, op. loc. ultt. citt. Sul tema della démission de biens nell’antico diritto francese v. anche  Pothier, Coutumes des duché, bailliage et prévôté d’Orléans, et ressort d’iceux, Paris-Orléans, 1780, p. 616 ss.; secondo il grande giureconsulto transalpino si trattava di una «anticipation de succession, juris haereditarii praerogatio, suivant l’expression de d’Argentré» e proprio per questa ragione egli la collocò nell’appendice al titolo dedicato alle successioni del commentario alle consuetudini della sua città. «On peut définir la démission de biens – continuava Pothier – un act par lequel une personne, en anticipant le temps de sa succession, se dépouille de son vivant de l’universalité de ses biens, et en saisit d’avance ses héritiers préspomptifs, en retenant néanmoins le droit d’y rentrer lorsqu’elle le jugera à propos». Non appartenendo peraltro l’atto, nè alla materia delle donazioni entre-vifs, nè a quella dei testamenti, esso non era assoggettato alle formalità proprie dell’uno o dell’altro istituto (Pothier, op. cit., p. 617). Peraltro, proprio in considerazione del suo carattere di anticipata successione, la démission doveva necessariamente investire «l’universalité de biens et non des choses particulieres : car c’est l’universalité des biens des personnes que la Loi des successions transmet en celles de leurs héritiers». Nel caso in cui l’atto avesse invece investito beni particolari, non di démission si sarebbe trattato, ma di donazione (Pothier, op. cit., p. 617). Ancora, dal carattere di anticipata successione dell’atto derivava la conseguenza che, nel caso di predecesso di uno dei démissionnaires rispetto al disponente, «ce démissionnaire ne pouvant plus, par son prédécès être appellé par la Loi à sa succession, la démission devient nulle en sa personne pour sa part dans les biens compris en la démission»; nel caso in cui peraltro avesse lasciato dei figli chiamati a succedergli per rappresentazione, costoro avrebbero potuto «retenir ladite part dans les biens compris dans la démission» (anche Auroux des Pommiers, Coutumes générales et locales du pays et duché de Bourbonnois, I, Riom, 1780, p. 308, era dell’avviso che «non seulement les enfans, mais encore les descendans d’eux, en cas de leur prédécès, peuvent, après le décès du disposant, se dire saisis des choses à eux avenues par ledit partage»); in caso contrario, «sa part, dont il n’avoit joui que provisionnellement en attendant l’ouverture de la succession, et qui se trouve caduque par son prédécès, doit accroître à ses co-démissionnaires, auxquels la démission a été faite conjointement avec lui» (Pothier, op. cit., p. 617). Qualora invece tutti i co-demissionnaires fossero predeceduti rispetto al démittant, la démission sarebbe divenuta «absolument nulle ; et non seulement le démittant, mais ses héritiers après sa mort, peuvent en ce cas répéter les biens compris en la démission» (Pothier, op. cit., p. 617). Pothier sottolineava quindi con forza la revocabilità dell’atto sino alla morte del disponente, nonostante che esso determinasse il trasferimento della proprietà in capo ai destinatari dell’attribuzione (e per questa ragione lo stesso disponente non poteva successivamente alienare o ipotecare i beni, fin tanto che non avesse proceduto alla revoca della démission: cfr. Pothier, op. cit., p. 619), posto che «le démettant conserve toujours jusqu’à sa mort le pouvoir de révoquer sa démission, toutes et quantes fois qu’il le jugera à propos» (Pothier, op. cit., p. 617). L’unico caso di démission irrevocabile era costituito da quella che aveva luogo «par le contrat de mariage de l’un des héritiers présomptifs du démittant. La démission, en ce cas, n’est pas révocable pour la part qu’y a celui en faveur du mariage duquel la démission de biens a été faite ; car vis-à-vis de lui, et pour sa part, cette démission n’est pas une simple démission, mais une condition de son contrat de mariage ; mais elle ne laisse pas d’être révocable pour la part de ses co-démissionnaires, la même raison n’ayant pas lieu à leur égard» (Pothier, op. cit., p. 619). Il tema della démission de biens impegnò anche il Bourjon, il quale (cfr. Bourjon, Le droit commun de la France et la coutume de Paris réduits en principes, II, Paris, 1770, p. 66 ss.) giustificava la soluzione della revocabilità sulla base, da un lato, del carattere di successione anticipata dell’istituto (con la conseguente esclusione della natura di donazione entre-vifs) e, dall’altro del rilievo del «respect que les enfans doivent avoir à leurs ascendans», sottolineando comunque la necessità che l’atto investisse la totalità del patrimonio del démittant e che venisse effettuato a vantaggio di tutti i discendenti (p. 66), potendo valere altrimenti (e nel caso di rispetto delle relative regole formali) come una donazione. L’Autore aggiungeva peraltro una condizione ulteriore (non pacifica in dottrina): vale a dire che la disposizione rispettasse l’égalité entre les enfans: ché, in caso contrario, essa avrebbe dovuto essere considerata alla stregua di una donazione (e pertanto irrevocabile, ad eccezione, ovviamente, della sussistenza di una delle speciali cause di revoca delle donazioni).

Sulla revocabilità della démission de biens si pronunciò più volte anche il parlamento di Parigi, che si espresse con svariati arresti, sovente citati dai maestosi in folio degli arrêtistes d’oltralpe. Così, il 20 marzo 1643 (cfr. Soefve, Nouveau recüeil de plusieurs questions notables tant de droit que de coutumes, jugées par arrests d’audiances du parlement de Paris, I, Paris, 1682, p. 57) decise per la revocabilità ad nutum di una démission de bien piuttosto singolare, in quanto aveva ad oggetto l’usufrutto di tutti i beni di un ottantenne a vantaggio di uno dei suoi due generi, in cambio della promessa, da parte di costui, «qu’il le logeroit, nourriroit et entretiendroit sa vie durant et luy baylleroit une somme de cent livres par chacun an pour employer à ses charitez». Con sentenza dell’11 febbraio 1647 (in du Fresne, Journal des principales audiences du parlement, avec les arrêtes qui y ont été rendus, I, Paris, 1757, p. 392 ss.), lo stesso parlamento stabilì che una démission de biens fatta da un padre a vantaggio di tutti i figli era revocabile, in quanto réputée à cause de mort; il 14 maggio 1647 (in du Fresne, op. cit., p. 404 s.) venne deciso che un partage o démission de bien da parte dei genitori era sempre revocabile da parte di costoro, anche se i démissionnaires erano stati immessi nel possesso dei beni. Il medesimo parlamento, poi, con sentenza del 17 marzo 1671 (in Blondeau e Gueret, Journal du palais, ou recueil des principales decisions de tous les parlements, et cours souveraines de  France, I, Paris, 1737, p. 113 ss.), stabilì che la suocera del démittant, nominata curatrice à la démence di costui, poteva revocare l’atto di démission de biens in precedenza (cioè prima della nomina della curatrice) compiuto dal genero in favore dei propri figli, a causa dell’indegnità di uno dei figli stessi, che si era reso colpevole d’aver contratto matrimonio «sans demander le consentement de son père»; e ciò, nonostante che la donazione fosse stata seguita da un «partage entre les frères». Ancora successivamente, la stessa corte, con arresto del 9 agosto 1683 (in Blondeau e Gueret, Journal du palais, ou recueil des principales decisions de tous les parlements, et cours souveraines de  France, II, Paris, 1737, p. 448 ss., 451 ss.), si pronunziò sulla validità di una démission de biens compiuta dai genitori verso i propri figli, «à condition de les nourrir et entretenir». Per una minuziosa rassegna dei pareri degli Autori e delle pronunzie dei parlamenti sul tema della revocabilità della démission de biens v. Merlin, Recueil alphabétique des questions de droit qui se présentent le plus fréquemment dans les tribunaux, II, Paris, 1820, p. 196 ss., il quale peraltro pone in dubbio la revocabilità della disposizione, alla luce della contraddittorietà di svariate decisioni e di alcune opinioni discordi: cfr., in particolare, quella di Auzanet, Coûtumes de la prévôté et vicomté de Paris, in Œuvres de M. Barthelemy Auzanet, ancien avocat au parlement, Paris, 1708, p. 216, secondo cui «les démissions faites par pere et autres ascendans de tous leurs biens, ou de partie d’iceux, au profit de leurs enfans et descendans, sont irrevocables». Per ulteriori richiami in tema v. Merlin, Répertoire universel et raisonné de jurisprudence, III, Paris, 1812, p. 517 ss.

[42] Polacco, op. cit., p. 77 s., cui si fa rinvio per una dettagliata analisi dell’evoluzione nel diritto romano, dall’epoca classica a quella giustinianea e postgiustinianea, del testamentum inter liberos e della divisio parentum inter liberos, così come per gli ulteriori richiami. V. inoltre Grenier, Traité des donations, des testaments, et de toutes autres dispositions gratuites, I, Bruxelles, 1826, p. 105 ss.; Voci, diritto ereditario romano, II, Milano, 1963, p. 476 ss.; Burdese, op. cit., p. 252 ss.).

[43] Cfr. Grenier, op. cit., p. 106 s., il quale rimarca che generalmente «le partage devait être fait entre tous les enfans, et il devait comprendre tous les biens existants à l’époque où il était fait. Il était tellement favorable, qu’il pouvait réduire l’enfant à la moindre portion que la loi lui assurait, et dont on en pouvait le priver par aucun acte. Il était irrévocable dans quelques cas, comme, par exemple, s’il était fait en contrat de mariage en faveur des contractans ; ou s’il avait été exécuté par les père et mère, de leur vivant, en faisant la tradition réelle, en mettant les enfans en possession des biens partagés, sous la réserve d’une pension».

[44] Cfr. in particolare les coutumes della Bretagna (art. 560), del Poitou (art. 216), del Borbonese (art. 216), del Nivernese (titolo des Successions, art. 17), d’Amiens (art. 94) di Borgogna (titolo des Successions, artt. 7, 8, e 9), di Péronne (art. 107), di Montdidier e Roye (art. 107), nonchè del Poitou (art. 219).

[45] Cfr. ad esempio Tronçon, op. cit., p. 563 s., che riporta al riguardo due decisioni del parlamento di Parigi, di cui una del 6 aprile 1581 e l’altra del 14 marzo 1603. Si noti che il parlamento di Parigi (ressort la cui consuetudine non prevedeva espressamente il partage d’ascendant) si pronunziò più volte (cfr. supra, in questo stesso §) sulla démission de biens, il che giustifica il sospetto che con tale nome venisse, in buona sostanza, inteso il partage in quelle regioni di diritto consuetudinario le cui coutumes non prevedevano espressamente tale istituto.

[46] Nell’interpretazione del parlamento di Digione la regola dei venti giorni valeva peraltro solo nel caso di partage inégal (cfr. Taisand, op. cit., p. 423).

[47] «Hoc non solum metu suggestionum: sed ne dividens, nimium vicinus morti, facile erret in aequali distributione, sed per continuationem quadraginta dierum satis praesumitur errorem abesse» (così, testualmente, Molineo, in nota all’art. 216 della coutume del Borbonese, in Bourdot de Richebourg, Nouveau coutumier general, ou corps des coutumes generales et particulieres de France, et des provinces connues sous le nom des Gaules, III, Paris, 1724, p. 1248).

[48] Cfr. Sallé, L’esprit des ordonnances et des principaux édits et déclarations de Louis XV, en matière civile, criminelle et bénéficiale, Paris, 1759, p. 143 s. ; v. inoltre Furgole, Traité des testamens, codicilles, donations à cause de mort, et autres dispositions de dernière volonté, in Œuvres complètes de M. Furgole, III, Paris, 1775, p. 84 s.

[49] Cfr. ad esempio l’opinione di Taisand, op. cit., p. 425 e di Auroux des Pommiers, op. cit., 1780, p. 305, secondo cui, in assenza di una divisione di tutto il patrimonio, il partage sarebbe stato nullo; in senso contrario v. Furgole, op. cit., p. 82 ss., 84: «quoique certains Auteurs ayent cru, notamment Ferrières, sur la Novelle 107, chapitre 3, nombre 4, que le partage seroit nul, si quelqu’un des enfans étoit préterit, il est pourtant certain suivant les principes du Droit Romain, que cette disposition ne peut pas être annulée à cause de la prétérition ; parce que ce n’est point un testament, c’est une disposition ab intestat, qui doit valoir, ou comme codicille, ou comme donation à cause de mort, où il n’est pas nécessaire de faire mention de tous les enfans, ni de les instituer, ni de faire un ou plusieurs héritiers universels, mais les enfans prétérits pourront demander leur légitime à laquelle les ascendans ne peuvent donner aucune atteinte par leurs dispositions».

[50] Cfr. Coffinières, Analyse des novelles de Justinien, Paris, 1805, p. 276.

[51] Taisand, op. cit., p. 427 «…parce que ce partage est un Acte de derniere volonté».

[52] In questo senso v. le sentenze del parlamento di Parigi del 15 febbraio 1564 e del 27 febbraio 1576, in Papon, Recueil d’arrests notables des cours souveraines de France, Geneve, 1648, p. 920; cfr. inoltre la decisione del parlamento di provenza del 28 aprile 1659, in Boniface, Arrests notables de la cour du parlement de Provence, cour des comptes, aydes et finances du même païs, II, Lyon, 1708, p. 40 s. Sul necessario rispetto della legittima concordavano anche gli studiosi, tanto del diritto scritto, che di quello consuetudinario: cfr. Le Brun, Traité des successions divisé en quatre livres, in Œuvres de M. Denis Le Brun, Avocat au Parlement, I, Paris, 1700, p. 587 s., che richiamava sul punto i principi romanistici (cfr. C. 3, 28, 8 e C. 3, 28, 36); Tronçon, op. cit., p. 563: «et s’il estoit moins laissé à l’un des enfans que de sa legitime, elle est supplée par les autres enfans prorata, le partage au residu demeurant en sa force et vertu»; Furgole, op. cit., p. 82 ss., 84; Coquille, Les coustumes du pays et comté de Nivernois, enclaves et exemptions d’iceluy, in Œuvres de Me Guy Coquille Sr de Romenay, Paris, 1646, p. 401: «En cette division et partage n’est pas necessaire que l’equalité y soit proportionnement gardée, comme si les coheritiers partageoient entr’eux de gré à gré, mesme en cette Coustume qui permet aux peres et meres d’avantager aucuns de leurs enfans, sauve la legitime des autres»; Auroux des Pommiers, op. cit., p. 308: «Dans ce partage les pere et mere ne sont pas tenus de garder l’égalité, il suffit que la légitime des enfans ne reçoive pas d’atteinte ; et quand cela arrive, on supplée la légitime, et le partage s’exécute pour le surplus, dit notre article».

[53] Così Furgole, op. cit., p. 81 ss.

[54] Cfr. ad esempio Furgole, op. cit., p. 84 s.; cfr. inoltre Buvot, Nouveau recueil des arrests de Bourgogne, Geneve, 1623, p. 89 s., 234 ss.; Boucheul, op. cit., p. 655, che riporta svariati arresti in questo senso; Le Grand, Coutume du bailliage de Troyes, Paris, 1715, p. 41; Perrier e Raviot, Arrests notables du parlement de Dijon, II, Dijon, 1735, p. 148 s. : «Les partages que les peres et meres font entre leurs enfans, sont revocables de leur nature, à moins qu’ils ne soient faits par contrat de mariage, ou par donation entre vifs, quand même ils sont executez par la jouissance des enfans qui ont été mis en possession de ce qui leur a été donné en partage»; Berault, Godefroy e d’Aviron, Commentaires sur la coutume de Normandie, Rouen, 1776, p. 233; Tronçon, op. cit., p. 563.

[55] Cfr. Libro VII, cap. 248: «Praecipiente patre divisionem ab eo factam durare, si modo usque ad extremum ejus vivendi spatium voluntas eadem perseverasse doceatur».

[56] Cfr. Molineo, Commentarii in consuetudines parisienses, in Opera omnia, I, Lutetiae Parisiorum, 1625, c. 476.

[57] Le Brun, op.cit., p. 588.

[58] In questo senso v. Auroux des Pommiers, op. cit., p. 307 s., secondo cui l’atto sarebbe stato eccezionalmente irrevocabile «quand le partage est exécuté par les pere et mere, ou l’un d’eux, de leur vivant, en faisant la tradition réelle, et mettent les enfans en possession des biens partagés, sous la simple réserve d’une pension»; nello stesso senso, in precedenza, v. Louet e Brodeau, op. cit., p. 318 ss., ove è riportata una decisione in tal senso del parlamento di Parigi del 27 maggio 1595, che aveva dichiarato irrevocabile il partage operato da una madre, conformemente alla coutume di Péronne, a motivo del fatto che costei si era riservata l’usufrutto sui beni medesimi e che pertanto «il y avoit avantage audit partage, par le moïen de la renonciation que ledit Adrien [cioè il figlio che aveva concesso usufrutto alla madre, pagando, tra l’altro, alcuni debiti della madre medesima, relativi alle terre oggetto dell’atto] avoit faite par icelui de quelques droits qui lui appartenoient».  Contra, per la revocabilità anche in caso di partage c.d. anticipé, v. Ricard, Traité des donations entre-vifs et testamentaires, I, Riom, 1783, p. 488 s.

[59] Cfr. Le Brun, op. cit., p. 588 s.: «Il faut excepter de cette maxime generale les decisions ou donations faites par un pere dans les contrats de mariage des ses enfans : de crainte qu’une famille étrangere, qui a contracté une alliance sur le fondement d’une disposition de cette nature ne soit trompée, ne alioqui alterutri sponsorum illudatur, dit Monsieur Coras en ses Centuries, chap. 71». Nel medesimo senso v. anche Boucheul, op. cit., p. 656; Auroux des Pommiers, op.cit., p. 307: «le partage est constamment irrévocable, quand il est fait en contrat de mariage en faveur des contractans»; Ricard, op. cit., p. 488 s. Per un’ampia disamina sul partage e sulla sua revocabilità v. anche Merlin, Répertoire universel et raisonné de jurisprudence, IX, Paris, 1813, p. 55 ss.; per una raccolta di sentenze in materia v. anche Brillon, Dictionnaire des arrêts, ou jurisprudence universelle des parlemens de France et autres tribunaux, V, Paris, 1727, p. 83 s.

[60] Cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 79 ss.; Id., Gli accordi sulle conseguenze patrimoniali della crisi coniugale e dello scioglimento del matrimonio nella prospettiva storica, nota a Cass., 20 marzo 1998, n. 2955, in Foro it., 1999, I, c. 1306 ss.; Id., I precedenti storici del principio di libertà contrattuale nelle convenzioni matrimoniali, in Dir. fam. pers., 2003, p. 535 ss.

[61] Sul tema dei diritti dei primogeniti e del maggiorascato rimane memorabile l’eruditissima analisi del Tiraqueau (cfr. Tiraquelli, Commentarii de nobilitate et jure primigeniorum, Lugduni, 1617) che, trattava, tra l’altro, della questione circa la possibilità di stabilire in contratto di matrimonio che al primogenito di quell’unione sarebbe stata devoluta la facoltà di succedere in integram coniugum haereditatem. La soluzione positiva veniva argomentata, tra l’altro, sulla base della constatazione per cui «non parvi momenti debet videri favor honorque matrimonij, quod forte contractum non fuisset, nisi eo pacto apposito, ut primogenitus succederet» (v. p. 475 ss.); nello stesso senso, su questo specifico tema, cfr. anche i pareri di Guy Pape (Guidonis Papae, Decisiones, Lugduni, 1593, p. 433 s.) e di Boyer (Boerii, Decisionum aurearum in Sacro Burdegalens. Senatu olim discussarum ac promulgatarum pars prima, Lugduni, 1551, f. 172 ss.); d’avviso contrario un celebre consilium di Filippo Decio (Decii, Consilia, sive responsa, (I), Venetiis, 1570, f. 243 ss.).

[62] Da notare che parte della dottrina italiana aveva lamentato in passato l’assenza di un regime successorio speciale per i beni produttivi: v. Schlesinger, Successioni (Diritto civile): Parte generale, in Noviss. dig. it., XVIII, Torino, 1971, p. 749.

[63] «Le démissionnaire qui avait la propriété sous la condition de la révocation se flattait tojours qu’elle n’aurait pas lieu. Il traitait avec des tiers, il s’engageait, il dépensait, il aliénait, et la révocation n’avait presque jamais lieu sans des procès qui empoisonnaient le reste de la vie de celui qui s’était démis, et qui rendaient sa condition pire que s’il eût laissé subsister sa démission. On a supprimé cette disposition ; elle est devenue inutile. Les pères et mères pourront dans les donations entre-vifs imposer les conditions qu’ils voudront ; ils auront la même liberté dans les actes de partage, pourvu qu’il n’y ait rien de contraire aux règles qui viennent d’être exposées, et suivant lesquelles les démissions des biens, si elles avaient été autorisées, eussent été déclarées irrévocables» (cfr. Fenet, Recueil complet des travaux préparatoires du Code Civil, XII, Paris, 1827, p. 568). Sul concetto dell’irrevocabilità v. inoltre espressamente il rapport di Jaubert nella Communication officielle au Tribunat, con la quale veniva trasmesso dal Corps législatif al Tribunato il 3 floreale anno XI (23 aprile 1803) il projet e l’exposé des motifs del titolo (il II del libro III) del Code dedicato alle donazioni e ai testamenti, in Fenet, Recueil complet des travaux préparatoires du Code Civil, XII, Paris, 1827, p. 617. Sul partage d’ascendant nel Code Napoléon v. per tutti Demolombe, Traité des donations entre-vifs et des testaments, VI, Paris, 1866, p. 4 ss.; Michaux, Traité pratique des donations entre-vifs, entre époux, des partages d’ascendants et des actes qui en dérivent, Paris, 1866, p. 245 ss.; Laurent, Principes de droit civil, Bruxelles, XV, 1878, p. 6 ss.; Baudry-Lacantinerie e Colin, Traité théorique et pratique de droit civil. Des donations entre-vifs et des testaments, Paris, 1899, p. 651 ss.

[64] Cfr. Laurent, op. cit., p. 6 ss.; cfr. inoltre Pacifici-Mazzoni, Successioni, Parte II, VI, Torino, 1928, p. 388 ss. Nello stesso senso v. anche Cicu, op. cit., p. 455.

[65] Polacco, op. cit., p. 227.

[66] Polacco, op. cit., p. 227.

[68] Polacco, op. cit., p. 252 s. Considerazioni sostanzialmente analoghe sono rinvenibili in Belotti, La divisione dell’ascendente, Padova, 1933, p. 71 s., secondo cui l’istituto in oggetto non era «una divisione pura e semplice, perché il momento ‘divisione’, che pure è essenziale in essa, è inscindibilmente connesso col momento ‘disposizione’. Essa è invece una donazione, perché non soltanto la legge la fa considerare tale cogli art. 1044 e seg. Cod. civ., ma perché è evidentemente animata da una causa liberalitatis, che si perfeziona colla divisione e distribuzione dei beni donati. Al tempo stesso però, essa non è una donazione ordinaria, perché la causa liberalitatis ora detta è successoria, ossia è la stessa causa che sorregge le disposizioni successorie. La divisione dell’ascendente è dunque una donazione-divisione, collettiva, avente una causa successoria».

[69] Tedeschi, La divisione d’ascendente, Padova, 1936, p. 1 s.

[70] Sul punto v. in dettaglio Polacco, op. cit., p. 470 ss.; sui rapporti tra azione di riduzione e rescissione per lesione nel caso specifico della divisione d’ascendente per atto tra vivi v. sempre Id., op. cit., p. 483 ss.

[71] Polacco, op. cit., p. 394.

[72] Si noti che, peraltro, il patto potrebbe (parzialmente) convertirsi in donazione (sul punto v. infra, § 27), con la conseguenza che verrebbe aperta la via all’azione di riduzione.

[73] I testi proposti dal gruppo di lavoro coordinato da Antonio Masi e Pietro Rescigno erano i seguenti:

«Art. 734-bis (Patto di famiglia).

L’imprenditore può assegnare, con atto pubblico, l’azienda a uno o più discendenti.

Al contratto devono partecipare oltre all’imprenditore i discendenti che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione.

Coloro che acquistano l’azienda devono corrispondere agli altri discendenti legittimari e non assegnatari, ove questi non vi rinunzino in tutto o in parte, una somma non inferiore al valore delle quote previste dagli articoli 536 e seguenti.

Quanto ricevuto dai contraenti non è soggetto a collazione o riduzione.

All’apertura della successione, il coniuge e gli altri legittimari che non vi abbiano partecipato possono chiedere il pagamento della somma prevista dal terzo comma, aumentata degli interessi legali, a tutti i beneficiari del contratto».

«Art. 2355-bis (Patto d’impresa).

L’atto costitutivo può prevedere a favore della società, dei soci o di terzi il diritto di acquistare le azioni nominative cadute in successione.

Per l’esercizio del riscatto, l’atto costitutivo non può prevedere un termine superiore a sessanta giorni dalla comunicazione alla società della apertura della successione. Se non espressamente previsto, il termine è di sessanta giorni.

Il prezzo deve corrispondere al valore delle azioni e, salvo patto contrario, deve essere pagato contestualmente all’esercizio del riscatto.

In caso di mancato accordo, il valore è determinato da un perito nominato ai sensi dell’art. 2343-bis.

I costi della perizia sono a carico di chi intende esercitare il riscatto.

Dalla apertura della successione all’esercizio del riscatto, o all’espresso rifiuto di esercitarlo ovvero alla scadenza del termine di cui al secondo comma, il diritto di voto per le azioni cadute in successione è sospeso, ma esse sono tuttavia computate nel capitale ai fini del calcolo delle quote richieste per la costituzione e per le deliberazioni dell’assemblea. È altresì sospeso il termine per esercitare il diritto di opzione».

La formulazione delle norme codicistiche, secondo il disegno di legge S/2799/XIII, di iniziativa dei senatori Pastore ed altri, era la seguente :

«Art. 734-bis. Patto di famiglia.

L’imprenditore può assegnare, con atto di donazione, l’azienda a uno o più discendenti.

Al contratto devono partecipare anche i discendenti che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione; possono parteciparvi, ai soli effetti di cui al sesto comma, il coniuge dell’imprenditore e coloro che potrebbero divenirne legittimari a seguito di modificazioni del suo stato familiare.

Gli assegnatari dell’azienda devono liquidare gli altri partecipanti al contratto, ove questi non vi rinunzino in tutto o in parte, con il pagamento di una somma corrispondente al valore delle quote previste dagli articoli 536 e seguenti; i contraenti possono convenire che la liquidazione, in tutto o in parte, avvenga in natura.

Salvo patto contrario, i beni assegnati con lo stesso contratto agli altri partecipanti non assegnatari dell’azienda, secondo il valore attribuito in contratto, sono imputati alle quote di legittima ad essi spettanti; l’assegnazione può essere disposta anche con successivo contratto che sia espressamente dichiarato collegato al primo e purché vi intervengano i medesimi soggetti che hanno partecipato al primo contratto o coloro che li abbiano sostituiti.

Quanto ricevuto dai contraenti non è soggetto a collazione o riduzione.

All’apertura della successione dell’imprenditore, il coniuge e gli altri legittimari che non vi abbiano partecipato possono chiedere ai beneficiari del contratto il pagamento della somma prevista dal terzo comma, aumentata degli interessi legali.

Il presente articolo si applica anche alle partecipazioni sociali».

«Art. 2284-bis. Patto d’impresa.

L’atto costitutivo può prevedere a favore dei soci o di terzi il diritto di acquistare le quote cadute in successione.

In mancanza di diversa pattuizione contenuta nell’atto costitutivo, il diritto deve essere esercitato entro sessanta giorni dalla comunicazione alla società della apertura della successione.

Il prezzo deve corrispondere al valore delle quote e, salvo patto contrario, deve essere corrisposto contestualmente all’esercizio del diritto.

In caso di mancato accordo, il valore è determinato da un perito nominato ai sensi dell’art. 2343-bis.

I costi della perizia sono a carico di chi intende esercitare il diritto.

Dalla apertura della successione sino all’esercizio del diritto, all’espresso rifiuto di esercitarlo ovvero alla scadenza del termine di cui al secondo comma, i diritti connessi alla titolarità delle quote cadute in successione sono sospesi».

«Art. 2355-bis. Patto d’impresa. L’atto costitutivo può prevedere a favore della società, dei soci o di terzi il diritto di acquistare le azioni nominative cadute in successione.

In mancanza di diversa pattuizione contenuta nell’atto costitutivo ovvero nello statuto sociale, il diritto deve essere esercitato entro sessanta giorni dalla comunicazione alla società della apertura della successione.

Si applicano il terzo e il quarto comma dell’articolo 2284-bis.

Dalla apertura della successione sino all’esercizio del diritto, all’espresso rifiuto di esercitarlo ovvero alla scadenza del termine di cui al secondo comma, il diritto di voto per le azioni cadute in successione è sospeso; esse sono tuttavia computate nel capitale ai fini del calcolo delle quote richieste per la costituzione e per le deliberazioni dell’assemblea. E’ altresì sospeso il termine per esercitare il diritto di opzione».

La proposta prevedeva inoltre che all’art. 2479 c.c. fosse aggiunto il seguente comma:

«Si applicano alla società a responsabilità limitata le disposizioni dell’articolo 2355-bis, fatta eccezione per l’ultimo periodo del quarto comma».

[74] Sul punto v. per tutti Ieva, Il trasferimento dei beni produttivi in funzione successoria: patto di famiglia e patto d’impresa. Profili generali di revisione del divieto dei patti successori, cit., p. 1377; cfr. inoltre sul tema Perego, La disciplina della prelazione convenzionale e le prelazioni legali, in Riv. dir. comm., 1982, p. 157 ss.; Palazzo, Attribuzioni  patrimoniali  tra vivi e assetti successori per la trasmissione della ricchezza familiare, in Vita notar., 1993, p. 1228 ss.; Scaglione, Le successioni anomale nelle società di capitali, in Vita notar., 1994, p. 1520 ss.  Interessante al riguardo il testo della clausola contenuta nello statuto della «Giovanni Agnelli e c. ‑ Società in accomandita per azioni», ove all’art. 6 si legge «Le azioni pervenute in proprietà o altro diritto reale per donazione o successione legittima o testamentaria a soggetti che non siano discendenti consanguinei dell’azionista dante causa o di altri possessori di azioni dovranno essere offerte in opzione a questi ultimi nei modi e con gli effetti di cui ai precedenti commi [ove sono disciplinate le modalità dell’offerta e il criterio di determinazione del prezzo di acquisto ‑ n.d.r.]. Fino a quando, non sia stata fatta l’offerta e non risulti che questa non è stata accettata, l’erede, il legatario, o il donatario non sarà legittimato all’esercizio del diritto di voto e degli altri diritti amministrativi inerenti alle azioni e non potrà alienare le azioni, con effetto verso la società, a soggetti diversi dagli altri possessori di azioni» (v. il testo in Ieva, op. loc. ultt. citt.). Sul tema delle clausole che limitino la circolazione delle azioni nelle s.p.a. e delle quote delle s.r.l. v. ora, rispettivamente, gli artt. 2355-bis e 2469 c.c., così come risultanti dalle modifiche introdotte dal d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6 («Riforma organica della disciplina delle società di capitali e società cooperative, in attuazione della legge 3 ottobre 2001, n. 366»).

[75] Sul punto Ieva, Il trasferimento dei beni produttivi in funzione successoria: patto di famiglia e patto d’impresa. Profili generali di revisione del divieto dei patti successori, cit., p. 1380 ss.

[77] Cfr. Caccavale, Appunti per uno studio sul patto di famiglia: profili strutturali e funzionali della fattispecie, cit., p. 10 ss., secondo cui la natura inter vivos del patto di famiglia va riconosciuta «per la semplice ma decisiva ragione che il patto stesso non è disciplinato quale atto mortis causa, mentre, se tale fosse proprio la sua natura, occorrerebbe anche che, nell’ordinamento positivo, fosse contemplata una specifica regolamentazione, a essa natura funzionale, altrimenti irreperibile».

[82] In questo senso v. invece Caccavale, Appunti per uno studio sul patto di famiglia: profili strutturali e funzionali della fattispecie, cit., p. 13 ss., 17 ss.

[83] V. infra, §§ 11 s., 25.

[84] V. infra, §§ 6, 11 e 24.

[85] Sottolinea invece la produzione di soli effetti favorevoli verso i legittimari Caccavale, Appunti per uno studio sul patto di famiglia: profili strutturali e funzionali della fattispecie, cit., p. 17, che rileva come i legittimari non assumerebbero obbligazioni.

[86] Sul tema v. anche infra, § 8.

[87] Cfr. Buffone, Patto di famiglia: le modifiche al codice civile, in Altalex, 8 febbraio 2006, disponibile al sito web seguente: http://www.altalex.com/index.php?idstr=26&idnot=10337; Salomone, I patti di famiglia, in Il quotidiano giuridico, Ipsoa.it, 17 marzo 2006. Per la natura donativa del patto è anche Condò, Il patto di famiglia, in FederNotizie, marzo 2006, p. 59.

[88] Salomone, op. loc. ultt. citt.

[89] Buffone, op. loc. ultt. citt.

[90] Cicu, Successioni per causa di morte. Parte generale. Delazione e acquisto dell’eredità. Divisione ereditaria, cit., p. 455.

[91] Sul punto v. Merlo, Il patto di famiglia, cit., p. 2 ss.; nello stesso senso v. anche Caccavale, Appunti per uno studio sul patto di famiglia: profili strutturali e funzionali della fattispecie, cit., p. 24 ss.

[92] Merlo, Il patto di famiglia, cit., p. 3.

[93] Merlo, Il patto di famiglia, cit., p. 3.

[94] Se invece i legittimari non assegnatari rinunziano ai loro diritti il «modo» non viene neppure in considerazione. Ad analoghe conclusioni perviene anche Petrelli, op. cit., p. 407.

[95] Sul tema v. per tutti Carnevali, La donazione modale, Milano, 1969, p. 2.

[96] Lupetti, Patti di famiglia: note a prima lettura, in CNN notizie. Notiziario di informazione del Consiglio Nazionale del Notariato, 14 febbraio 2006, p. 3 (dell’articolo in formato .pdf).

[97] Cfr. infra, §§ 8, 19 e 22.

[98] Questa soluzione è anche prospettata da Merlo, Il patto di famiglia, cit., p. 4. Nello stesso senso v. inoltre Petrelli, op. cit., p. 407, il quale sottolinea come occorra rinunciare ad incasellare il patto di famiglia in uno degli schemi tipici preesistenti alla novella.

[99] Lupetti, Patti di famiglia: note a prima lettura, cit., p. 3.

[100] Pure prospettata, in alternativa, da Lupetti, Patti di famiglia: note a prima lettura, cit., p. 4.

[101] Invero, se si tiene conto del carattere negoziazione globale che la coppia in crisi attribuisce al momento della «liquidazione» del rapporto coniugale, di fronte alla necessità di valutare gli infiniti e complessi rapporti di dare-avere che la convivenza protratta per anni genera, v’è da chiedersi se, in luogo di una miriade di possibili accordi innominati, non sia possibile tentare di intraprendere un’opera ricostruttiva che faccia perno sull’individuazione di una vera e propria causa tipica del negozio patrimoniale della crisi coniugale, di un vero e proprio contratto, cioè, di definizione della crisi coniugale o, più esattamente, dei suoi aspetti patrimoniali. Tale negozio dovrebbe abbracciare ogni forma di costituzione e di trasferimento di diritti patrimoniali compiuti, con o senza controprestazione, in occasione della crisi coniugale, ancorché non necessariamente in seno ad una separazione consensuale, ben potendo intervenire, oltre che nei casi di separazione legale, annullamento, scioglimento e cessazione degli effetti civili del matrimonio, anche in relazione ad una separazione di fatto, oppure ancora in vista di una possibile crisi coniugale, addirittura prima della celebrazione delle nozze.

L’ipotesi sembra avvalorata dalla stessa terminologia impiegata dal Legislatore, laddove esso si riferisce alle «condizioni della separazione consensuale» (art. 711 c.p.c.), e alle «condizioni inerenti alla prole e ai rapporti economici» in sede di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio (art. 4, c. 16, l.div.). Ora, una lettura coordinata delle predette disposizioni, alla luce di quella giurisprudenza ormai costante del S. C. a mente della quale ciascun coniuge ha il diritto di condizionare il proprio assenso alla separazione a un soddisfacente assetto dei rapporti patrimoniali (cfr. per esempio Cass., 5 luglio 1984, n. 3940; Cass., 15 marzo 1991, n. 2788, Cass., 24 febbraio 1993, n. 2270; Cass., 22 gennaio 1994, n. 657), consente di attribuire a quel complemento di specificazione («della separazione») valore non più solo soggettivo, bensì anche oggettivo. In altri termini, «condizioni della separazione» non sono soltanto quelle «regole di condotta» destinate a scandire il ritmo delle reciproche relazioni per il periodo successivo alla separazione o al divorzio, bensì anche tutte quelle pattuizioni alla cui conclusione i coniugi intendono comunque ancorare la loro disponibilità per una definizione consensuale della crisi coniugale; e tra queste ultime non può non rientrare l’assetto, il più possibile definitivo, dei propri rapporti economici, con la liquidazione di tutte le «pendenze» ancora eventualmente in atto.

Ad avviso di chi scrive, dunque, dal momento che l’intento principe delle parti è quello di sistemare definitivamente e in considerazione della crisi coniugale le «pendenze» che un più o meno lungo periodo di vita comune ha determinato, sembra più appropriato parlare di una causa tipica di definizione della crisi coniugale o, se si vuole essere più corretti, ancorché meno efficaci sotto il profilo espressivo, di una causa tipica di definizione degli aspetti economici della crisi coniugale. Ad un siffatto negozio tipico – tipico, appunto, in quanto previsto e disciplinato da apposite disposizioni – potrebbe attribuirsi anche il nome di contratto tipico della crisi coniugale o di contratto postmatrimoniale. Questo negozio potrà pertanto definirsi come quel contratto a titolo oneroso che viene stipulato dai coniugi per regolare i reciproci rapporti giuridici patrimoniali sorti nel corso della loro relazione esistenziale, quando al regolamento di tali rapporti i coniugi stessi intendono condizionare la definizione consensuale della crisi coniugale o di una fase di quest’ultima (separazione di fatto, separazione legale, divorzio). Tale regolamento di rapporti si attua attraverso la previsione di prestazioni vuoi unilaterali, vuoi reciproche, di carattere sia obbligatorio che reale, periodiche o istantanee (cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 703 ss.).

[102] Cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 653 ss., II cit., p. 1143 ss.; Id., Prestazioni «una tantum» e trasferimenti tra coniugi in occasione di separazione e divorzio, Milano, 2000, p. 149 ss., 188 ss.; Id., Gli accordi a latere nella separazione e nel divorzio, in Fam. dir., 2006, p. 164 s.; Id., Contratto e vita familiare, cit., cap. IV, § 9.

[103] Per i richiami, Lo Sardo, La comunione convenzionale nel regime patrimoniale della famiglia, in Riv. notar., 1991, p. 1254 s. Sul punto v. anche Pittalis, Modifiche convenzionali alla comunione dei beni, in Aa. Vv., Trattato di diritto di famiglia, diretto da Zatti, III, Regime patrimoniale della famiglia, Milano, 2002, p. 442 s. Sembra evidente che la semplice stipula di una convenzione programmatica di comunione convenzionale non rappresenti di per sé una donazione. Ad escluderlo varrebbe già infatti il carattere reciproco delle previsioni, oltre che la (normale) presenza dell’intento di costituire le premesse economiche per un regolare svolgimento della vita coniugale, ciò che dovrebbe impedire in limine la possibilità di ravvisare un animus donandi (estremamente chiara sul punto la giurisprudenza tedesca: cfr. per esempio BGH, 27 novembre 1991, in FamRZ, 1992, 304). Peraltro non vi è dubbio che l’inserimento in comunione convenzionale di diritti di cui ciascuno dei coniugi era già titolare all’atto della convenzione possa essere inquadrato nello schema della donazione, quanto meno indiretta (cfr. per esempio Lo Sardo, op. cit., p. 1254 s.). Secondo la dottrina, poi, anche gli atti con i quali si procede all’acquisto di uno o più beni appartenenti a categorie non rientranti nella comunione legale, se effettuati con denaro o beni personali, costituirebbero altrettante donazioni indirette, con conseguente applicazione delle disposizioni in tema di revocazione degli atti a titolo gratuito compiuti in frode ai creditori, collazione e riduzione (A. e M. Finocchiaro, Diritto di famiglia, I, Milano, 1984, p. 1202 s.; Galletta, La comunione convenzionale, in Aa. Vv., La comunione legale, a cura di Bianca, II, Milano, 1989, p. 1056 ss.; secondo Bianca, Comunione legale e collazione, in Vita notar., 1981, p. 805 ss. la regola varrebbe addirittura anche per i beni caduti in comunione legale, purché acquistati con denaro personale o con il prezzo del trasferimento di beni personali o con il loro scambio), ferma restando comunque, ad avviso di chi scrive, la necessità di accertare, volta per volta, la reale esistenza di un animus donandi (esistenza che dovrebbe essere negata laddove, per esempio, l’intento che muoveva le parti fosse solo quello di poter usufruire di agevolazioni fiscali).

[104] Contra, Caccavale, Appunti per uno studio sul patto di famiglia: profili strutturali e funzionali della fattispecie, cit., p. 28 s., che proprio dalla qualificazione del patto alla stregua di una donazione fa derivare la necessaria presenza di testimoni.

[105] Sul tema della possibilità di dar vita ad un contratto della crisi coniugale coinvolgente eventualmente terzi soggetti v. Oberto, I contratti della crisi coniugale, II, cit., p. 1153 ss.; Id., Prestazioni «una tantum» e trasferimenti tra coniugi in occasione di separazione e divorzio, cit., p. 135 ss., 154 ss.

[106] Reputa invece «probabilmente più corretta l’interpretazione che ritiene necessaria l’assistenza dei testimoni» Petrelli, op. cit., p. 427.

[107] L’opinione dei primi commentatori della Riforma del 1975 era senz’altro favorevole alla sottoposizione alla lett. b) dell’art. 179 c.c. anche delle donazioni indirette (Schlesinger, Della comunione legale, in Commentario alla riforma del diritto di famiglia, a cura di Carraro, Oppo e Trabucchi, I, 1, Padova, 1977, p. 396, nota n. 3; Corsi, Il regime patrimoniale della famiglia, I, I rapporti patrimoniali tra coniugi in generale. La comunione legale, in Trattato di diritto civile e commerciale, già diretto da Cicu e Messineo e continuato da Mengoni, Milano, 1979, p. 101; Cian e Villani, Comunione dei beni tra coniugi (legale e convenzionale), in Noviss. dig. it., Appendice, II, Torino, 1981, p. 184; Barbiera, La comunione legale, in Trattato di diritto privato, diretto da  Rescigno, III, Torino, 1982, p. 46; Bianca, Diritto civile, II, la famiglia - le successioni, Milano, 1985, p. 156). La tesi contraria, propugnata da alcuni Autori che si sono invece espressi per la caduta in comunione di tale tipo di liberalità, è basata su  argomentazioni relative essenzialmente alle difficoltà pratiche ed applicative di individuazione della categoria in oggetto, con la conseguenza che la soluzione preferibile andrebbe reperita sulla base della disciplina del c.d. negozio-mezzo (si pensi ad una compravendita, nella quale il prezzo viene corrisposto dal donante indiretto), con correlativa ricaduta del bene in comunione (così Zuddas, L’acquisto dei beni pervenuti al coniuge per donazione o successione, in Aa. Vv., La comunione legale, a cura di Bianca, I, Milano, 1989, p. 411; nello stesso senso, in precedenza, v. anche Bartolini e Gregori, Donazione e acquisti a titolo gratuito in regime di comunione legale, in Aa. Vv., Il nuovo diritto di famiglia. Contributi notarili, Milano, 1975, p. 163 s. nello stesso senso Di Transo, Comunione legale, Napoli, 1999, p. 40). Questa impostazione è stata esattamente criticata da quella dottrina che, ponendo innanzi tutto in luce la variegata molteplicità delle ipotesi riconducibili alla donazione indiretta, ha individuato il caso più problematico (in relazione alle possibili ricadute ex artt. 177 e 179 c.c.) soprattutto nell’acquisto di un bene con denaro fornito da un terzo (per tutti v. a Beccara, [Il regime legale]. I beni personali, in Aa. Vv., Trattato di diritto di famiglia, diretto da Zatti, III, Regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 163 ss.). Al riguardo, va scartato l’argomento incentrato sul favor communionis, posto che l’eventuale volontà del donante di  destinare alla comunione il vantaggio oggetto della disposizione potrebbe sempre concretizzarsi facendo intervenire entrambi i coniugi alla conclusione del contratto (normalmente di compravendita) che fa da tramite per la realizzazione della donazione indiretta. Decisivo appare invece il richiamo al dato letterale. In effetti, proprio sull’impiego, da parte del Legislatore, del termine «liberalità» (idoneo, come noto, ad inglobare anche la figura della donazione indiretta: arg. ex art. 809 c.c.), si è fondata la giurisprudenza di legittimità, che nei suoi diversi interventi sul punto, ha sempre manifestato di optare per la tesi tradizionale della personalità dell’acquisto (si sono infatti pronunciate per l’assoggettamento delle donazioni indirette all’art. 179, lett. b), c.c. Cass., 15 novembre 1997, n. 11327, in Fam. dir., 1998, p. 323; Cass., 8 maggio 1998, n. 4680, in Riv. notar., 1998, p. 182; in Foro it., 1999, I, c. 994, nonché, da ultimo, Cass., 14 dicembre 2000, n. 15778, in Fam. dir., 2001, p. 289; in Dir. fam. pers., 2001, p. 938; in Vita notar., 2001, p. 1235; per la giurisprudenza di merito, nello stesso senso, v. Trib. Bari, 12 luglio 1978, in Giur. it., 1981, I, 2, c. 93; Trib. Milano, 6 novembre 1996, in Fam. dir., 1997, p. 469). Anche la dottrina più recente appare maggioritariamente orientata a ritenere che l’art. 179 lett. b) c.c., sia applicabile a tutte le liberalità, includendosi in queste le donazioni indirette (cfr. Basini, Donazione indiretta e applicabilità dell’art. 179 lett. b) c.c., in Contratti, 1998, p. 246; nello stesso senso cfr. anche Caravaglios, La comunione legale, I, Milano, 1995, p. 56; De Paola, Il diritto patrimoniale della famiglia coniugale, II, Milano 1995, p. 477; Morelli, Il nuovo regime patrimoniale della famiglia, Padova, 1996, p. 104; Gabrielli e Cubeddu, Il regime patrimoniale dei coniugi, Milano, 1997, p. 36; Finelli, Sul difficile rapporto tra donazione indiretta e comunione legale dei beni, in Nuova giur. civ. comm., 2001, I, p. 274 s.). Sotto il profilo della tecnica operativa andrà tenuto presente che l’opinione ormai prevalente individua nel bene acquistato – e non già nel denaro versato – l’oggetto della donazione indiretta che si realizza allorquando un soggetto acquista un bene con denaro altrui (Cass., 14 maggio 1997, n. 4231; Cass., 15 novembre 1997, n. 11327, in Foro it., 1999, I, c. 994; in dottrina sul tema cfr. Forchielli, Immobile acquistato dal discendente con denaro del «de cuius» e collazione, in Riv. dir. civ., 1985, p. 1395; Bianca, Diritto civile, III, Il contratto, Milano, 1998, p. 459). Sovente capita però che il denaro non sia versato direttamente al terzo, bensì sia corrisposto al donatario, quale mezzo al precipuo scopo di consentire l’acquisto. Peraltro pure in quest’ultima ipotesi la giurisprudenza più recente ravvisa un caso di donazione indiretta dell’immobile (e non già del denaro) (cfr. Cass., 15 novembre 1997, n. 11327, cit.; Cass., 24 febbraio 2004, n. 3642; contra Cass., 21 gennaio 1963, n. 86). La presenza, dunque, di un collegamento negoziale tra il versamento del denaro da parte del donante indiretto e la stipula del contratto d’acquisto a titolo oneroso con il terzo consente, secondo questo orientamento, di non ritenere operante la caduta in comunione, che altrimenti si dovrebbe affermare per effetto dell’impiego di denaro personale (per donazione), in assenza delle formalità ex art. 179 lett. f) e cpv. Per ciò che attiene alla posizione dei terzi si ritiene (a Beccara, op. cit., p. 167) che la proprietà  personale del coniuge donatario non possa essere opposta ai creditori della comunione, salvo il caso di una preventiva trascrizione (ex art. 2653, n. 1 c.c.), da parte del coniuge, della domanda giudiziale di accertamento della proprietà individuale del bene.

[109] Ci si intende riferire a Cass., 27 febbraio 2003, n. 2954, in Foro it., 2003, I, c. 1039, con nota di De Marzo; in Giust. civ., 2003, I, p. 910; in Giur. it., 2004, p. 281, con nota di Cerolini. Sul tema, che non si può approfondire in questa sede, si fa rinvio per tutti a Oberto, Contratto e vita familiare, cit., Cap. III, § 1.

[112] Sul tema dei patti successori in generale, e delle varie categorie di accordi che a tale figura appaiono ascrivibili – argomento, questo, che non può certo essere trattato in questa sede – v. per tutti Giampiccolo, Il contenuto atipico del testamento. Contributo ad una teoria dell’atto di ultima volontà, Milano, 1954, p. 37 ss.; Id., Atto mortis causa, in Enc. Dir., IV, Milano, 1959, p. 232 ss.; De Giorgi, I patti sulle successioni future, Napoli, 1976, passim, p. 37 ss.; L. Ferri, Disposizioni generali sulle successioni, in Commentario del codice civile, diretto da Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1997, p. 99 ss. In particolare sulla distinzione tra atto mortis causa, illecito, e post mortem e/o sotto modalità di morte, lecito, seguendo la strada già intrapresa in precedenza dallo stesso Giampiccolo v. De Giorgi, I patti sulle successioni future, cit.; Capozzi, Successioni e donazioni,  I, Milano, 1983, p. 33; Palazzo, Autonomia contrattuale e successioni anomale, Napoli, 1983; Lepri, Patto successorio, in Nuova giur. civ.comm., 1985, I, p. 95 ss.; Padovini, Rapporto contrattuale e successione a causa di morte, Milano, 1990; Costanza, Negozio mortis causa o post mortem, in Giust. civ., 1991, I, p. 956 ss.; Putortì, Promesse post mortem e patti successori, in Rass. dir. civ., 1991, p. 789 ss.;  Caccavale, Il divieto dei patti successori, in Aa. Vv., Successioni e donazioni, a cura di Rescigno, I, Padova, 1994, p. 25 ss.;  Caccavale, Patti successori: il sottile confine tra nullità e validità negoziale, in Notariato, 1995, p. 554 ss.; Antonini, Il divieto dei patti successori, in Studium Juris, 1996, p. 601 ss.; F. Pene Vidari, Patti successori e contratti post mortem, in The Cardozo Electronic Law Bulletin, disponibile all’indirizzo web seguente: http://www.jus.unitn.it/cardozo/Review/Contract/fpv.htm. Per l’evoluzione storica dell’istituto cfr. Vismara, Storia dei patti successori, I, II, Milano, 1941, passim; Pertile, Storia del diritto italiano, IV, Torino, 1893, p. 4 ss.

[114] Ieva, Il trasferimento dei beni produttivi in funzione successoria: patto di famiglia e patto d’impresa. Profili generali di revisione del divieto dei patti successori, cit., p. 1373 s.

[115] Caccavale, Appunti per uno studio sul patto di famiglia: profili strutturali e funzionali della fattispecie, cit., p. 20.

[116] Merlo, Il patto di famiglia, cit., p. 5.

[117] E’ opportuno ricordare qui che non viene soddisfatta l’intera quota di legittima bensì la porzione che a ciascun legittimario spetterebbe sul bene oggetto del patto di famiglia, che, nella maggior parte dei casi, non esaurisce l’intero asse ereditario. In altri termini, occorre calcolare la quota che spetterebbe a ciascun legittimario immaginando che quel singolo bene cada in successione.

[118] Per un’applicazione giurisprudenziale di siffatto principio, assolutamente pacifico, v. ad es. Cass., 15 novembre 2004, n. 21616, secondo cui «La possibilità di essere chiamato, in qualità di legittimario, alla successione mortis causa di altra persona ancora in vita non integra una situazione giuridica tutelabile in sè, nè si risolve in una ragione di credito idonea a legittimare l’interferenza nella sfera giuridica dell’altro soggetto (nel caso, esercitando un suo diritto, ad esso surrogandosi ex art. 2900 cod. civ.)».

[119] Merlo, Il patto di famiglia, cit., p. 5; nello stesso senso v. anche Petrelli, op. cit., p. 408.

[120] Merlo, Il patto di famiglia, cit., p. 5, 8; Petrelli, op. cit., p. 408.

[121] Così invece Caccavale, Appunti per uno studio sul patto di famiglia: profili strutturali e funzionali della fattispecie, cit., p. 21.

[122] Sul carattere di patto successorio della rinunzia ex art. 557, cpv., c.c. v. Santoro-Passarelli, Dei legittimari, in Aa. Vv., Codice civile. Libro delle successioni per causa di morte e delle donazioni, Commentario diretto da D’Amelio, Firenze, 1941, p. 317, secondo cui «si tratta di un’applicazione particolare del divieto dei patti successori rinunciativi»; v. inoltre Capozzi, Successioni e donazioni, I, cit., p. 322. Afferma il carattere eccezionale del patto di famiglia nei confronti del divieto dei patti successori anche Bolano, I patti successori e l’impresa alla luce di una recente proposta di legge, in Contratti, 2006, p. 94.

[123] Cfr. quanto esposto supra, § 6, circa l’immediata efficacia del patto di famiglia. Più esattamente rileva Petrelli, op. cit., p. 408 s. che «In primo luogo, il patto di famiglia produce effetti traslativi immediati e definitivi, non collegati cioè all’apertura della successione: l’azienda o le partecipazioni sociali entrano immediatamente nel patrimonio dell’assegnatario (con correlativa perdita del potere di disposizione in capo all’imprenditore), e lo stesso vale per le attribuzioni patrimoniali a favore dei legittimari. In secondo luogo, e come riflesso di tale efficacia immediata, l’oggetto del contratto è determinato con riferimento al momento della relativa stipula, essendo irrilevanti successive modifiche nella consistenza o nel valore dei beni attribuiti (il patto successorio istitutivo, al contrario, ha per oggetto l’id quod superest al momento dell’apertura della successione). In terzo luogo, i beneficiari delle attribuzioni patrimoniali sono individuati con riguardo al momento in cui il patto si perfeziona, e non con riferimento al momento della morte: il che significa che nel caso di premorienza dell’assegnatario al disponente, i beni assegnati, già entrati definitivamente nel suo patrimonio, faranno parte della sua successione, e non di quella del disponente».

[124] In questo senso v. Friedmann, Prime osservazioni sui patti di famiglia, in FederNotizie, marzo 2006, p. 62. Per la necessaria partecipazione ai fini della validità del contratto «di tutti i discendenti che sarebbero in quel momento legittimari» cfr. – anche se con riferimento alla citata (v. supra, § 5) proposta elaborata dal gruppo di studio in tema di «Successione ereditaria nei beni produttivi», dal contenuto non esattamente coincidente con le disposizioni oggi in vigore – Zoppini, Il patto di famiglia (linee per la riforma dei patti sulle successioni future), cit., p. 1269.

[125] Così Buffone, op. loc. ultt. citt.; nello stesso senso v. pure Venchiarutti, Patto di famiglia e successione nell’impresa, in Persona e danno, 20 marzo 2006, disponibile all’indirizzo web seguente: http://www.personaedanno.it/site/sez_browse1.php?browse_id=3359&campo1=23&campo2=211a; in senso contrario v. invece l’opinione di Caccavale, Appunti per uno studio sul patto di famiglia: profili strutturali e funzionali della fattispecie, cit., p. 13 ss., che, ad avviso dello scrivente, e come si avrà modo di vedere nel testo, «pecca» però in senso opposto, arrivando a negare ai legittimari la veste di parti del patto di famiglia.

[126] Nello stesso senso Venchiarutti, op. loc. ultt. citt.

[127] In senso conforme v. Petrelli, op. cit., p. 427 ss.

[128] Contra Petrelli, op. cit., p. 452, secondo cui i legittimari sopravvenuti sarebbero addirittura vincolati al patto e potrebbero unicamente esperire le azioni ex art. 768-sexies c.c. Ma allo scrivente sembra che un tale stravolgimento di un fondamentale principio, quale quello della privity of contract, potrebbe essere desunto solo da una chiara deroga normativa, inesistente nel caso di specie.

[129] Questa è l’opinione di Merlo, Il patto di famiglia, cit., p. 3.

[130] Così Merlo, Il patto di famiglia, cit., p. 3.

[131] Sulla norma v. per tutti Tedeschi, op. cit., p. 199 ss.; cfr. inoltre Polacco, op. cit., p. 433 ss.

[132] Caccavale, Appunti per uno studio sul patto di famiglia: profili strutturali e funzionali della fattispecie, cit., p. 13 ss.

[133] Caccavale, Appunti per uno studio sul patto di famiglia: profili strutturali e funzionali della fattispecie, cit., p. 13.

[134] Fietta, Patto di famiglia, in CNN notizie. Notiziario di informazione del Consiglio Nazionale del Notariato, 14 febbraio 2006, p. 14 (dell’articolo in formato .pdf).

[136] Sulla base di quanto rilevato nel testo sembra dunque emergere l’intenzione del Legislatore di attribuire effetti definitivi ed irrevocabili alle attribuzioni oggetto del patto. In questo senso v. anche Lupetti, Patti di famiglia: note a prima lettura, cit., p. 11, il quale rimarca che, se si dovesse imporre agli ex legittimari l’obbligo di restituzione di quanto ricevuto, il patto di famiglia verrebbe ad assumere connotati di aleatorietà, «in contrasto con la volontà del legislatore di evitare, quanto più possibile, successioni aleatorie nell’azienda». L’Autore rileva inoltre che «In realtà, il motivo per cui il patto di famiglia non è rivedibile nel caso non sopraggiungano “nuovi” legittimari (che non parteciparono al contratto) deriva proprio dal fatto che la liquidazione dei diritti di legittima (ivi comprese le eventuali rinunce) a favore dei partecipanti al patto si atteggia come un patto successorio, come tale volto a definire da subito, tra i contraenti, i futuri assetti successori».

[137] L’interrogativo è posto da Fietta, Patto di famiglia, cit., p. 14.

[139] Così Merlin, Répertoire universel et raisonné de jurisprudence, IX, cit., p. 61.

[140] In questo senso cfr. Bonilini, Gli effetti patrimoniali, in Bonilini e Tommaseo, Lo scioglimento del matrimonio, in Il Codice civile, commentario diretto da Schlesinger, Milano, p. 442; in senso conforme v. anche Barbiera, Il divorzio dopo la riforma del diritto di famiglia, in Commentario del codice civile, diretto da Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1979, p. 341; Id., Il divorzio dopo la seconda riforma, Bologna, 1988, p. 121; Oberto, I contratti della crisi coniugale, II, cit., p. 1056 ss.

[141] Cfr. Grziwotz, Wichtige Rechtsfragen zum Getrenntleben und zur Scheidung, München, 1996, p. 134; Maurer, Die rechtsgeschäftliche Vertragsübernahme, in BWNotZ, 2005, p. 115. Sull’inapplicabilità dell’art. 785 cpv. c.c. al divorzio, nel diritto italiano, cfr. Cass., 13 marzo 1976, n. 904, in Giust. civ., 1976, I, p. 1307, spec. 1316 ss.; Cass., 25 ottobre 1991, n. 11370; in dottrina v. Punzi Nicolò, Il divorzio e i rapporti fra i coniugi, in Riv. dir. civ., 1972, II, p. 78, 80 s., secondo cui occorre però distinguere a seconda che si tratti effettivamente di doni oppure di concessioni in comodato, ipotesi che si verificherebbe per lo più nel caso dei c.d. «gioielli di famiglia»; sull’inapplicabilità dell’art. 785 cpv. c.c. al caso di dispensa dal matrimonio rato e non consumato cfr. Cass., 18 febbraio 1967, n. 403, in Giust. civ., 1967, I, p. 917.

[142] Cfr. Lupetti, Patti di famiglia: note a prima lettura, cit., p. 13.

[143] Sull’ammissibilità di un preliminare di patto di famiglia cfr. infra, § 16.

[144] Per le quali esiste peraltro un elemento normativo incontestabile dato dal richiamo di cui all’art. 163 c.c. alle convenzioni «anteriori o successive al matrimonio», oltre ad un’indiscussa e millenaria tradizione storica.

[145] Sul tema si fa rinvio per tutti a Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p.  195 ss.; Id., I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 605 ss.

[146] Così Fietta, Patto di famiglia, cit., p. 2 s.; Petrelli, op. cit., p. 418 s.

[147] Cfr. Busani, Se si aderisse alla tesi dell’estensione, nel caso di denaro, strumenti finanziari e immobili, allora basterebbe conferirli in una “società cassaforte” le cui quote siano oggetto poi di patto, in Guida al dir., 2006, n. 13 del 1 aprile 2006, p. 46.

[148] Così Iannaccone, op. cit., p. 57.

[149] Così Friedmann, op. cit., p. 62; sostanzialmente nello stesso senso v. anche Bolano, op. cit., p. 94, il quale rileva che «solo colui che abbia una partecipazione maggioritaria al capitale dell’impresa può, quale dominus effettivo dell’impresa stessa, deciderne l’eventuale trasmissione». Di analogo avviso è Petrelli, op. cit., p. 415 ss.

[150] Caccavale, Appunti per uno studio sul patto di famiglia: profili strutturali e funzionali della fattispecie, cit., p. 8. Lo stesso Condò, op. cit., p. 59, il quale pure afferma che le partecipazioni che possono formare oggetto del patto potrebbero essere solo quelle «di società di famiglia», è costretto ad ammettere che «Ben difficile sarà identificare quali società si possano definire di famiglia». 

[151] Così Fietta, Patto di famiglia, cit., p. 3. Ammette l’applicabilità della norma alla cessione del diritto di usufrutto Petrelli, op. cit., p. 420.

[152] Sull’ammissibilità di un patto di famiglia avente ad oggetto la cessione della nuda proprietà dell’azienda v. – con riguardo alla citata (v. supra, § 5) proposta elaborata dal gruppo di studio in tema di «Successione ereditaria nei beni produttivi» – Zoppini, Il patto di famiglia (linee per la riforma dei patti sulle successioni future), cit., p. 1269.

[153] Cfr. anche Fietta, Patto di famiglia, cit., p., 4.

[154] Busani e Lucchini Guastalla, La portata degli effetti del patto di famiglia inducono a ritenere che l’atto vada inquadrato tra quelli di straordinaria amministrazione e che sia necessaria l’autorizzazione per gli incapaci, in Guida al dir., 2006, n. 13 del 1 aprile 2006, p. 47.

[155] Così, con riguardo alla citata (v. supra, § 5) proposta elaborata dal gruppo di studio in tema di «Successione ereditaria nei beni produttivi», Zoppini, Il patto di famiglia (linee per la riforma dei patti sulle successioni future), cit., p. 1272.

[157] Così Lupetti, Patti di famiglia: note a prima lettura, cit., p. 6; Petrelli, op. cit., p. 433 s.

[159] In senso contrario è orientato Lupetti, Patti di famiglia: note a prima lettura, cit., p. 13, che, riferendosi al caso della successione per rappresentazione per effetto di rinunzia del legittimario, riconosce la qualità di «terzi» ex art. 1372 cpv. c.c. ai discendenti del legittimario, che succedono per rappresentazione al disponente.

[160] Così Petrelli, op. cit., p. 434 s.

[162] Così Fietta, Patto di famiglia, cit., p. 5.

[163] Cfr. Fietta, Patto di famiglia, cit., p. 5.

[164] Polacco, op. cit., p. 288; alle medesime conclusioni perveniva anche Belotti, op. cit., p. 98 s.

[165] Cfr. per tutti Rescigno, Manuale del diritto privato italiano, Napoli, 1975, p. 266.

[166] Busani e Lucchini Guastalla, La portata degli effetti del patto di famiglia inducono a ritenere che l’atto vada inquadrato tra quelli di straordinaria amministrazione e che sia necessaria l’autorizzazione per gli incapaci, cit., p. 47.

[167] Cfr. supra, §§ 6 ss. Contra Petrelli, op. cit., p. 410.

[168] Sotto il vigore del c.c. 1865 si discuteva circa la possibilità di riconoscere al consiglio di famiglia o di tutela, ex art. 334, il potere di effettuare una divisione d’ascendente relativamente al patrimonio dell’interdetto, ma l’opinione dominante era per la negativa; il motivo di tale soluzione andava ricercato nel carattere eccezionale della disposizione sopra menzionata (concernente la dote e le altre stipulazioni contenute nei contratti di matrimonio) e, soprattutto, l’impossibilità di immaginare che altri esercitassero quell’ «alta magistratura domestica» di cui il partage d’ascendants costituiva espressione (cfr. Polacco, op. cit., p. 308; Belotti, op. cit., p. 96 s.).

[170] Su cui v. per tutti Jannuzzi, Manuale della volontaria giurisdizione, Milano, 1990, p. 314 ss. In giurisprudenza v. Cass., 19 gennaio 1981, n. 439, in Vita notar., 1981, I, p. 875, con nota di B. Corsi; in Dir. fam. pers., 1982, I, p. 1189, con nota di Barnini; in Giust. civ., 1981, I, p. 1042; in Riv. notar., 1981, II, p. 149; in Foro it., 1981, I, c. 678, secondo cui «In tema di donazione in favore di minore, per la cui accettazione è richiesta in ogni caso l’autorizzazione del giudice tutelare, a norma dell’art 320 terzo comma (nuovo testo) cod. civ., qualora la qualità di donante venga assunta da entrambi, o anche da uno solo dei genitori investiti della legale rappresentanza del minore stesso, si verifica un’ipotesi di conflitto di interessi patrimoniali, che rientra nell’ambito della previsione dell’ultimo comma del citato art. 320 cod. civ., con il conseguente potere-dovere del giudice tutelare di nominare un terzo curatore speciale, e non della previsione del successivo art 321, il quale con l’intervento del tribunale, regola il diverso caso dell’impedimento o della voluta omissione dei genitori medesimi rispetto all’attività necessaria per la tutela del figlio minore».

[171] Così Torrente, La donazione, Milano, 1956, p. 372; cfr. inoltre Mazzacane, La giurisdizione volontaria nell’attività notarile, Roma, 1980, p. 163.

[172] Così, per la donazione, Torrente, La donazione, cit., p. 373; Id., Sull’accettazione della donazione dal padre al figlio minore, in Foro it., 1953, I, c. 149; Jannuzzi, Manuale della volontaria giurisdizione, cit., p. 314. Contra, nel senso dell’esistenza di un conflitto di interessi tra il minore ed entrambi i genitori (donante e non donante), con conseguente necessità di nomina di un curatore speciale, cfr. Cass., 19 gennaio 1981, n. 439, cit.

[174] Cfr. ad es. Cass., 16 settembre 2002, n. 13507, in Nuovo dir., 2004, p. 148, con nota di Zavaglia, secondo cui «È ravvisabile un conflitto d’interessi tra chi è incapace di stare in giudizio personalmente ed il suo rappresentante legale (nella specie, figlio minore e rispettivi genitori), ogni volta che l’incompatibilità delle rispettive posizioni è anche solo potenziale, a prescindere dalla sua effettività; ne consegue che la relativa verifica va compiuta in astratto ed ex ante secondo l’oggettiva consistenza della materia del contendere dedotta in giudizio, anziché in concreto ed a posteriori alla stregua degli atteggiamenti assunti dalle parti nella causa. Pertanto, in caso di omessa nomina di un curatore speciale, il giudizio è nullo per vizio di costituzione del rapporto processuale e per violazione del principio del contraddittorio»; v. inoltre Cass., 16 novembre 2000, n. 14866, in Giust. civ., 2001, I, p. 695; Cass., 6 agosto 2001, n. 10822.

[175] Cfr. Cass., 19 gennaio 1981, n. 439, cit.; in dottrina v. per tutti Coppola, Donazione da genitori a figlio minore oltre il conflitto d’interessi, in Fam. dir., 2003, p. 632 ss.; Badalamenti, Sussiste il conflitto di interessi con il genitore non donante?, in Vita notar., 1990, III, p. CXXX ss.

[176] Per le ragioni che inducono ad escludere anche in questo caso un conflitto d’interessi v. per tutti Badalamenti, op. loc. ultt. citt.

[177] Sul concetto di continuazione dell’esercizio di attività di impresa e sulla possibilità che esso comprenda l’acquisto sia a titolo gratuito che oneroso d’una azienda, che peraltro si trovi già ad essere costituita, v. per tutti Jannuzzi, Manuale della volontaria giurisdizione, cit., p. 444 ss., 454 ss.

[178] Sul tema v. per tutti Oberto, Il regime di separazione dei beni tra coniugi. Artt. 215-219, cit., p. 59 s.

[179] Cfr. Trib. Pinerolo, 13 dicembre 2005 e Trib. Pinerolo, 9 novembre 2005, in Dir. e giust., 2006, n. 16, p. 29 ss.

[180] O, come si è visto, di usufrutto: cfr. supra, § 13.

[181] Sull’inammissibilità di un preliminare di donazione v. per tutti Mirabelli, Dei contratti in genere (artt. 1321-1469), nel Commentario del codice civile, Torino, 1980, p. 212 ss.; Scognamiglio, Dei contratti in generale, in Commentario del codice civile, diretto da Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1970, p. 438 ss. (contra v. però Biondi, Le donazioni, Torino, 1961, p. 1004 ss.; Di Lalla, Incertezze in tema di promessa di donazione, in Foro it., 1981, I, 1, c. 1702 ss.; Bertusi Nanni, Note sul contratto preliminare di donazione, in Riv. notar., 1984, p. 123 ss.). La ragione di questa inammissibilità viene reperita nel fatto che il carattere della spontaneità, implicito nella nozione legale della donazione (attraverso il riferimento allo spirito di liberalità: art. 769 c.c.), è incompatibile con l’adempimento e quindi con la natura di «atto dovuto», propria del definitivo. In giurisprudenza per questa soluzione cfr. Cass., 12 giugno 1979, n. 3315, in Foro it., 1981, I, c. 1702; cfr. inoltre Cass., Sez. Un., 18 dicembre 1975, n. 4153, in Giust. civ., 1976, I, p. 726.

[184] Cfr. Rescigno, Manuale del diritto privato italiano, cit., p. 266.

[186] In questo senso v. Cass., 30 dicembre 2003, n. 19842, in Foro amm., 2004, I, p. 1095, con nota di Cosio; v. inoltre Cass., 4 dicembre 2002, n. 17207, in Foro it., 2003, I, c. 103, con nota di Perrino; in Foro it., 2003, I, c. 458, con nota di Cosio; in Riv. notar., 2003, II, p. 687, con nota di Di Zillo, secondo cui «Ai fini di ritenere applicabile l’art. 2112 cod. civ., relativo al trasferimento dell’azienda, anche al trasferimento di un ramo della attività aziendale, è necessario che sia ceduto un complesso di beni che oggettivamente si presenti quale entità dotata di una propria autonomia organizzativa ed economica, funzionalizzata allo svolgimento di una attività volta alla produzione di beni e servizi, mentre è da escludersi che il ramo d’azienda possa essere identificato come tale solo al momento del trasferimento ed in esclusiva funzione di esso, in quanto ciò consentirebbe di estromettere dall’impresa i lavoratori eccedenti, senza rispettare per essi le garanzie previste dal rapporto di lavoro preesistente, quali sussistenza di contratti collettivi o diritto alla stabilità del posto di lavoro. (In applicazione del su indicato principio di diritto, la Suprema Corte ha ritenuto esente da vizi di motivazione la sentenza del giudice di merito che, a fronte di un processo di “esternalizzazione”, ovvero di cessione all’esterno di svariati singoli servizi da parte di un’impresa, non aveva ritenuto che la cessione avesse ad oggetto una realtà organizzativa riconducibile alla nozione di unità produttiva, e pertanto aveva qualificato l’operazione come cessione di una pluralità di rapporti lavorativi non assoggettabili alla normativa di cui all’art. 2112 cod. civ. e necessitante, per il suo perfezionamento, del consenso del lavoratore ceduto)».

[187] Cass., 10 gennaio 2004, n. 206, in Giust. civ., 2004, I, p. 2027, con nota di Sitzia.

[188] Cass., 10 gennaio 2004, n. 206, cit.

[189] Cass., 21 ottobre 1995, n. 10993, in Riv. giur. edilizia, 1996, I, p. 381.                    .

[190] Così Petrelli, op. cit., p. 420 s.

[191] Nello stesso senso v. Petrelli, op. cit., p. 415; contra Condò, op. cit., p. 59, secondo cui «il patto di famiglia non potrà superare il diritto di prelazione previsto dall’art. 230-bis».

[192] Per quest’ultima osservazione v. Merlo, Il patto di famiglia, cit., p. 8 s. Come rilevato dalla Cassazione (cfr. Cass., 12 gennaio 1989, n. 93, in Giur. comm., 1990, II, p. 563, con nota di Squillace; in Riv. dir. comm., 1990, II, p. 1, con nota di Revigliono; in Riv. notar., 1989, II, p. 1244; in Giust. civ., 1989, I, p. 1378) «l’istituto della prelazione, traducendosi nella sostituzione di un soggetto all’altro nella posizione di acquirente dietro un predeterminato corrispettivo, è naturalmente riferibile ai soli trasferimenti onerosi». Escludono il diritto di prelazione previsto dall’art. 230-bis c.c. nel caso di trasferimento gratuito Balestra, L’impresa familiare, Milano, 1996, p. 317; Palmeri, Regime patrimoniale della famiglia, II, in Commentario del codice civile diretto da Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 2004, p. 169.

[193] Così Merlo, Il patto di famiglia, cit., p. 9.

[194] Contra Petrelli, op. cit., p. 421 s., il quale è peraltro costretto ad ammettere che il notaio non è in grado di sapere, con i mezzi a sua disposizione, se con i beni del patrimonio sociale venga o meno esercitata attività d’impresa.

[195] Sulle società immobiliari di godimento, cfr. per tutti Ferrero, Le società immobiliari: profili descrittivi e problemi di validità, in C.N.N.-Luiss, La casa di abitazione tra normativa vigente e prospettive, II - Aspetti civilistici, Milano 1986, p. 11 ss.; Marchetti, Le società immobiliari, ibidem, p. 213 ss.; De Paola, Immobiliare (società), in Digesto discipline privatistiche, Sez. comm., VI, Torino 1991, p. 496 ss.; Costa, Le società di godimento tra disciplina civilistica e disciplina fiscale, in Vita notar., 1995, p. 564 ss.; Baralis, Riflessioni sui rapporti fra legislazione tributaria e diritto civile. Un caso particolare: le società semplici di mero godimento, in Riv. dir. comm., 2004, p. 171 ss.; in giurisprudenza v. Cass., 9 luglio 1994 n. 6515, in Giur. comm., 1995, II, p. 625; App. Genova, 9 giugno 1994, in Vita notar., 1995, p. 1460; Trib. Milano, 21 aprile 1997, e Trib. Milano, 3 luglio 1997, in Giur. comm., 1998, II, p. 626; Trib. Milano, 4 novembre 1993, in Giur. comm., 1994, II, p. 866.

[196] Cfr. per tutti Galgano, sub art. 2248, in Aa. Vv., Commentario al codice civile, diretto da Cendon, V, 2, Torino, 1991, p. 773 ss.

[197] Così Fietta, Patto di famiglia, cit., p. 7.

[198] Fietta, Patto di famiglia, cit., p. 7.

[199] Fietta, Patto di famiglia, cit., p. 7.

[200] Sul punto v., anche per i richiami, Merlo, Il patto di famiglia, cit., p. 9; cfr. inoltre Petrelli, op. cit., p. 415 s.

[201] I dati normativi di riferimento, come novellati dal già citato decreto legislativo n. 6/2003, sono rappresentati dagli artt. 2355-bis c.c. e 2469 c.c.

[202] Cfr. Merlo, Il patto di famiglia, cit., p. 9.

[203] Cfr. il resoconto della seduta della Commissione affari costituzionali del Senato, sottocommissione per i pareri, del 31 gennaio 2006, n. 276, nel corso della quale il senatore Pastore, con l’accordo della Commissione, ha sostenuto la conformità della nuova normativa all’art. 3 Cost. sulla base dei rilievi riportati nel testo; v. inoltre Petrelli, op. cit., p. 404 s.

[204] Cfr. Fietta, Patto di famiglia, cit., p. 8.

[205] In senso conforme, sul carattere eccezionale delle norme del patto di famiglia, v. Petrelli, op. cit., p. 405.

[206] Ciò, quanto meno, secondo la lettura preferibile che dell’art. 14 disp. prel. c.c. dottrina e giurisprudenza danno, nel senso che, per l’appunto, la norma vieterebbe il solo procedimento analogico e non l’interpretazione estensiva (per richiami sul punto v. Guastini, sub art. 14 disp. prel. c.c., in Aa. Vv., Commentario al codice civile, diretto da Cendon, I, Torino, 1991, p. 71 s.).

[207] Sull’immediata operatività dell’effetto traslativo del patto cfr. supra, § 6.

[208] Ai sensi di questa disposizione «ciascuna nota [di trascrizione, iscrizione o annotazione] non può riguardare più di un negozio giuridico o convenzione oggetto dell’atto di cui si chiede la trascrizione, l’iscrizione o l’annotazione». Sul riconoscimento del negozio giuridico da parte della legislazione speciale v. per tutti Oberto, Le cause in materia di obbligazioni, Giuffrè, 1994, p. 215.

[210] Cfr. Fietta, Patto di famiglia, cit., p. 8.

[212] E dunque senza l’intento di ripetere dal debitore ciò che si è corrisposto al creditore: sul tema v. Torrente, La donazione, cit., p. 42; in giurisprudenza v. Cass., 3 maggio 1969, n. 1465 e, più di recente, Cass., 2 febbraio 2006, n. 2325.

[213] Che anche le liberalità indirette siano soggette a collazione è desumibile dall’avverbio «indirettamente», di cui al testo dell’art. 737 c.c.

[214] E lo stesso varrebbe anche per il caso in cui a tale liquidazione provvedesse un terzo, non legato da un rapporto di provvista con i beneficiari.

[215] A conclusioni sostanzialmente diverse perviene Petrelli, op. cit., p. 440 s., il quale, come lo scrivente, ammette la possibilità di una liquidazione effettuata dal disponente, ma la equipara, quanto agli effetti, all’attribuzione compiuta dagli assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie, anche per quanto attiene alla disposizione di cui all’art. 768-quater, comma quarto, c.c. (esonero da collazione e riduzione), laddove l’attribuzione in discorso costituisce, come si è detto, una donazione indiretta a favore degli assegnatari (dell’azienda o delle partecipazioni sociali), che, in quanto esula dallo schema disciplinato dagli artt. 768-bis ss. c.c., non può beneficiare dei relativi e speciali effetti mortis causa.

[216] Per il terzo, invece, il problema non può porsi, atteso che lo stesso non è, per definizione, parte del patto e che gli effetti descritti dalla norma in oggetto sono riferiti alla sola successione del disponente.

[217] Cfr. Caccavale, Appunti per uno studio sul patto di famiglia: profili strutturali e funzionali della fattispecie, cit., p. 31, secondo cui «Anche il momento dell’adempimento della predetta obbligazione deve ritenersi rimesso alla disponibilità delle parti, le quali possono dunque convenire di posticiparlo ad una fase successiva rispetto a quella della stipulazione del patto e della eventuale liquidazione della quota dei legittimari».

[218] Sul quale v. Mariconda, Il pagamento traslativo, in Contratto e impresa, 1988, p. 735 ss.; Id., Art. 1333 e trasferimenti immobiliari, in Corr. Giur., 1988, p. 144 ss.; Sciarrone Alibrandi, Pagamento traslativo e art. 1333 c.c., in Riv. dir. civ., 1989, II, p. 525 ss.; Costanza, Art. 1333 c.c. e trasferimenti immobiliari solvendi causa, in Giust. civ., 1988,1, p. 1237 ss.; Gazzoni, Babbo Natale e l’obbligo di dare, in Riv. notar., 1991, p. 1414 ss.; Maccarone, Obbligazione di dare e adempimento traslativo, in Riv. notar., 1994, p. 1319 ss.; Oberto, Prestazioni «una tantum» e trasferimenti tra coniugi in occasione di separazione e divorzio, cit., p. 266 ss.; Id., I trasferimenti patrimoniali in occasione della separazione e del divorzio, in Familia, 2006 (in corso di pubblicazione), § 7.  Sul problema in generale v. poi anche La     Porta, Il problema della causa del contratto, 1, La causa e il trasferimento dei diritti, Torino, 2000, p. 70 ss.; Navarretta, La causa e le prestazioni isolate, Milano, 2000, p. 1 ss., 81 ss.; L. Bozzi, Note preliminari sull’ammissibilità del trasferimento astratto, in Riv. dir. comm., 1995, I, p. 210 ss; Di Sabato, Unità e pluralità di negozi (Contributo alla dottrina del collegamento negoziale), in Riv. dir. civ., 1959, I, p. 412 ss.). Per la dottrina più risalente che aveva negato l’ammissibilità del pagamento traslativo v. Allara, Principi di diritto testamentario, Torino, 1957, p. 157 ss.; Schlesinger, Il pagamento al terzo, Milano, 1961, p. 24 ss.; Pugliatti, Studi sulla rappresentanza, Milano, 1965, p. 413 ss. La più recente giurisprudenza, dal canto suo, ammette l’applicabilità dell’art. 1333 c.c. anche ai contratti ad effetti reali (Cass., 30 giugno 1987, n. 5748, in Giust. civ., 1988, I, p. 1023; Cass., 21 dicembre 1987, n. 9500, in Corr. giur., 1988, 144 ss., con nota di Mariconda; in Giust. civ., 1988,1, p. 1237 ss., con nota di Costanza; Cass., 9 ottobre 1991, n. 10612, in Giust. civ., 1991, 1, 2895, con nota di Gazzoni). La dottrina, dal canto suo, sulla base del dato testuale della norma, confortato da riflessioni comparatistiche, nega l’idoneità della proposta diretta a concludere un contratto «con effetto reale a carico del solo proponente» a porre in opera il meccanismo formativo del contratto descritto dall’art. 1333 c.c.: cfr. Sacco, Il contratto, Torino, 1975, p. 44 ss.; Bianca, Diritto civile, III, Il contratto, Milano, 1987, p. 264; Sacco e De Nova, Il contratto, nel Trattato di diritto civile diretto da Sacco, I, cit., p. 75 ss.; cfr. anche Rimini, Il problema della sovrapposizione dei contratti e degli atti dispositivi, Milano, 1993, p. 288 s.; Sesta, Contratto a favore di terzo e trasferimento dei diritti reali, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1993, p. 956. Questa conclusione, sicuramente preferibile, non sembra peraltro tale da inficiare la validità della tesi che ammette (sulla base dei principi sintetizzati nella nota che segue) la validità di negozi traslativi di adempimento.

[219] All’ammissibilità di negozi traslativi a causa esterna perviene da tempo la più autorevole dottrina: cfr. M. Giorgianni, Causa, in Enc. dir., VI, Milano, 1960, p. 564 ss.; Natoli, L’attuazione del rapporto obbligatorio. Appunti dalle lezioni, II, Milano, 1967, p. 42 ss.; Mengoni, Gli acquisti a non domino, Milano, 1975, p. 200 ss.; per ulteriori richiami cfr. Camardi, Principio consensualistico, produzione e differimento dell’effetto reale, in Contratto e impresa, 1998, p. 572 ss., 590 ss. Tale conclusione trova, come noto, il suo punto d’appoggio principale nella constatazione per cui nel nostro ordinamento positivo non fanno certo difetto bene individuate ipotesi di atti del genere di quelli testé descritti: si pensi, ad esempio, alle fattispecie disciplinate dagli artt. 651, 1197 cpv., 1706 cpv. c.c. Neanche il fatto che il nostro sistema abbia accolto il principio consensualistico può rappresentare un ostacolo al riguardo, posto che qui il trasferimento non è qualificabile come astratto, ma è pur sempre operato in virtù del consenso, appoggiato ad una valida causa ed espresso nel negozio obbligatorio; come si è esattamente rilevato, l’art. 1376 c.c. agevola le parti, ma non può vincolarle contro la loro stessa volontà: cfr. Chianale, Obbligazioni di dare e atti traslativi solvendi causa, in Riv. dir. civ., II, 1989, p. 246 ss.; Id., Obbligazioni di dare e trasferimento della proprietà, Milano, 1990, p. 48 ss., cui si fa rinvio anche per ulteriori richiami dottrinali; analoghe considerazioni anche in Sacco e De Nova, Il contratto, nel Trattato di diritto civile diretto da Sacco, II, Torino, 1993, p. 56; Di Majo, Causa e imputazione negli atti solutori, in Riv. dir. civ., I, 1994, p. 782, il quale rileva che la causa solvendi non intende porsi in concorrenza con la «regola consensualistica», che trova il suo baricentro nell’art. 1376 c.c., ma, anzi, per così dire, affiancarla su terreni sui quali quella regola non è destinata a trovare applicazione; cfr. inoltre Scalisi, Negozio astratto, in Enc. dir., XXVIII, Milano, 1978, p. 52 ss.; Sciarrone Alibrandi, op. cit., p. 525 ss.; Camardi, op. cit., p. 572 ss., 599 ss.; Maccarone, Considerazioni d’ordine generale sulle obbligazioni di dare in senso tecnico, in Contratto e impresa, 1998, p. 626 ss., 679 ss.; per una rivisitazione in chiave critica della figura del negozio astratto v. L. Bozzi, op. cit., p. 199 ss.; sulla distinzione storica tra titulus e modus adquirendi v. Chianale, Obbligazioni di dare e trasferimento della proprietà, cit., p. 103 ss.; sull’applicazione specifica del tema della causa praeterita al caso ai trasferimenti immobiliari tra coniugi in sede di crisi coniugale cfr. Oberto, I trasferimenti mobiliari e immobiliari in occasione di separazione e divorzio, in Fam. dir., 1995, p. 165 s.; Id., Prestazioni «una tantum» e trasferimenti tra coniugi in occasione di separazione e divorzio, cit., p. 266 ss.; Id., I trasferimenti patrimoniali in occasione della separazione e del divorzio, in Familia, 2006 (in corso di pubblicazione), § 7. Del resto, che il principio consensualistico possa essere derogato si desume anche dal secondo comma dell’art. 1465 c.c. (in materia di risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta della prestazione), che consente che l’effetto traslativo o costitutivo sia differito fino allo scadere di un termine, nonché dalla ammissibilità nel nostro ordinamento, della clausola che eleva il pagamento del prezzo a condizione sospensiva di efficacia del contratto (così Maccarone, Obbligazione di dare e adempimento traslativo, cit., p. 1334; Id., Considerazioni d’ordine generale sulle obbligazioni di dare in senso tecnico, cit., p. 679).

[220] V., in particolare, Navarretta, La causa e le prestazioni isolate, cit., p. 8, secondo la quale il tratto distintivo della categoria delle c.d. prestazioni isolate, ispirata ai Leistungsgeschäfte della tradizione tedesca, è «il carattere unilaterale dell’effetto dell’attribuzione patrimoniale».

[221] Cfr. Caccavale, Appunti per uno studio sul patto di famiglia: profili strutturali e funzionali della fattispecie, cit., p. 31; Fietta, Patto di famiglia, cit., p. 10.

[223] Fietta, Patto di famiglia, cit., p. 6; Petrelli, op. cit., p. 439.

[224] Così Fietta, Patto di famiglia, cit., p.  12.

[225] Fietta, Patto di famiglia, cit., p. 7.

[226] Sul punto v. infra, § 24.

[227] Così Petrelli, op. cit., p. 436 s.

[228] Caccavale, Appunti per uno studio sul patto di famiglia: profili strutturali e funzionali della fattispecie, cit., p. 32.

[229] Caccavale, Appunti per uno studio sul patto di famiglia: profili strutturali e funzionali della fattispecie, cit., p. 32 s.

[230] Merlo, Il patto di famiglia, cit., p. 8.

[231] Su cui v. per tutti Scognamiglio, Collegamento negoziale, in Enc. dir., VII, Milano, 1960, p. 375 ss.; Messineo, Contratto collegato, in Enc. dir., X, Milano, 1962, p. 48 ss.; Clarizia, Collegamento negoziale e vicende della proprietà: due profili della locazione finanziaria, Rimini, 1982; Schizzerotto, Il collegamento negoziale, Napoli, 1983; Colombo, Operazioni economiche e collegamento negoziale, Padova, 1999; Lener, Profili del collegamento negoziale, Milano, 1999.

[232] Merlo, Il patto di famiglia, cit., p. 8.

[233] Sull’immediata operatività degli effetti traslativi del patto cfr. anche quanto illustrato supra, § 6.

[234] Per l’ammissibilità di un pagamento differito ad una data eventualmente anche successiva a quella del decesso del disponente v. Petrelli, op. cit., p. 445.

[235] Così invece Petrelli, op. cit., p. 438; contra, Fietta, op. loc. ultt. citt.

[236] Lupetti, Patti di famiglia: note a prima lettura, cit., p. 9.

[237] Fietta, Patto di famiglia, cit., p. 11 s.

[238] Così Caccavale, Appunti per uno studio sul patto di famiglia: profili strutturali e funzionali della fattispecie, cit., p. 34, il quale però giustifica la conclusione con il non condivisibile assunto secondo il quale «se gli originari legittimari vengono a mancare, poiché la liquidazione dovrà andare comunque a beneficio di chi sia legittimario all’apertura della successione, risulterebbe incongruo farla conseguire a soggetti che è già stabilito debbano poi riversarla ad altri». Ad avviso dello scrivente, invece, chi si trovi ad essere legittimario al momento della stipula del patto ha diritto a trattenere quanto ricevuto (e pertanto a trasmetterlo ai propri eredi, nel caso di premorienza: sul punto cfr. supra, § 12). Diverso è invece il discorso per quanto attiene all’individuazione di chi possa partecipare al patto in veste, per l’appunto, di legittimario o di sostituto di costui.

[239] Sul punto v. supra, § 14 e infra § 25.

[240] Cfr. Caccavale, Appunti per uno studio sul patto di famiglia: profili strutturali e funzionali della fattispecie, cit., p. 25 s.

[243] In questo senso cfr. anche Caccavale, Appunti per uno studio sul patto di famiglia: profili strutturali e funzionali della fattispecie, cit., p. 35, il quale pone peraltro l’accento sui (condivisibili) motivi di equità e ragionevolezza di tale soluzione.

[244] Caccavale, Appunti per uno studio sul patto di famiglia: profili strutturali e funzionali della fattispecie, cit., p. 35.

[245] Per tutti v. Capozzi, Successioni e donazioni, I, cit., p. 303; cfr. inoltre Palazzo, Le successioni, I, Introduzione al diritto successorio, istituti comuni alle categorie successorie, successione legale, in Aa. Vv.,  Trattato di diritto privato, a cura di Iudica e Zatti, Milano, 1996, p. 535.

[246] Su cui v. supra, §§ 8, 22.

[247] Cfr. Cass., 23 aprile 1969, n. 1311.

[248] Fietta, Il patto di famiglia, cit., p., 9.

[249] V. supra, §§ 8, 22.

[250] Caccavale, Appunti per uno studio sul patto di famiglia: profili strutturali e funzionali della fattispecie, cit., p. 35:

[251] Caccavale, Appunti per uno studio sul patto di famiglia: profili strutturali e funzionali della fattispecie, cit., p. 35

[252] Caccavale, Appunti per uno studio sul patto di famiglia: profili strutturali e funzionali della fattispecie, cit., p. 36

[254] Cfr. il § precedente.

[255] Secondo Fietta, Patto di famiglia, cit., p.  12 s. non esisterebbero invece motivi per escludere che l’assegnatario del bene impresa relativamente al resto dell’asse debba imputare ex se quanto ricevuto, quantificabile nella differenza del valore attribuito al bene impresa rispetto al valore di quanto da lui liquidato agli altri legittimari, con la sola precisazione che il bene impresa andrà pure esso imputato al valore determinato nel patto. Secondo Lupetti, Patti di famiglia: note a prima lettura, cit., p., 12, tale dovere di imputazione ex se dovrebbe desumersi dall’interpretazione estensiva (ma forse sarebbe più corretto dire: dall’estensione analogica) del terzo comma dell’art. 768-quater c.c.; norma che però, come si è cercato di dimostrare, non si riferisce all’imputazione in senso tecnico e da cui comunque non è possibile desumere l’obbligo per i legittimari «liquidati» di imputare ex se quanto ricevuto a titolo di liquidazione.

[257] Così Caccavale, Appunti per uno studio sul patto di famiglia: profili strutturali e funzionali della fattispecie, cit., p. 36

[258] Nello stesso senso v. Merlo, Il patto di famiglia, cit., p. 10. Per la medesima conclusione, con riferimento alla citata (v. supra, § 5) proposta elaborata dal gruppo di studio in tema di «Successione ereditaria nei beni produttivi», cfr. Zoppini, Il patto di famiglia (linee per la riforma dei patti sulle successioni future), cit., p. 1272.

[259] Sulla cui peculiare situazione v. supra, § 12.

[260] Merlo, Il patto di famiglia, cit., p. 10.

[261] Questo è invece l’avviso di Fietta, Patto di famiglia, cit., p. 13.

[262] In questo senso v. anche Merlo, Il patto di famiglia, cit., p.  10; Petrelli, op. cit., p. 458.

[263] Così Fietta, Patto di famiglia, cit., p. 13 s.

[264] Così Merlo, Il patto di famiglia, cit., p., 11.

[265] Merlo, Il patto di famiglia, cit., p., 12.

[266] Cfr. Capozzi, Il mutuo dissenso nella pratica notarile, in Vita notar., 1993, p. 635 ss. Secondo Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2004, p. 1008, il mutuo dissenso rappresenta un negozio con esclusivi effetti solutori e non è idoneo a produrre l’effetto traslativo costituito dal ritrasferimento. Di conseguenza, secondo tale tesi, l’effetto del ritrasferimento verrebbe prodotto da un atto separato solutionis causa, giustificato dal pregresso accordo.

[267] Così Merlo, Il patto di famiglia, cit., p., 13.

[268] Così Merlo, Il patto di famiglia, cit., p., 13.

[269] Di Majo, Recesso unilaterale e principio di esecuzione, in Riv. dir. comm., 1963, II, p. 112; De Nova, in Sacco e De Nova, Obbligazioni e contratti, in Trattato di diritto privato, diretto da Rescigno, 10, II, Torino, 1982, p. 548; contra Cass., 16 novembre 1973, n. 3071, secondo cui «Non può configurarsi come recesso unilaterale a norma dell’art 1373 cod. civ. una facoltà esercitabile, per espressa previsione delle parti, soltanto a contratto eseguito. (Nella specie la C. S. ha escluso la natura di recesso alla clausola contrattuale con la quale si facultava il venditore di un terreno di chiedere la risoluzione del negozio se il compratore non vi avesse costruito entro un dato termine e secondo un determinato progetto)». 

[270] In questo senso v. anche Villani, Il nuovo patto di famiglia, in Pratica fiscale e professionale, n. 10, 6 marzo 2006; Lupetti, Patti di famiglia: note a prima lettura, cit., p. 9; Buffone, op. loc. ultt. citt.; Venchiarutti, op. loc. ultt. citt.

[271] Così Villani, Il nuovo patto di famiglia, loc. cit.

[273] Per un approfondimento del tema con riguardo agli accordi in sede di separazione consensuale tra coniugi cfr. Oberto, Simulazioni e frodi nella crisi coniugale (con qualche accenno storico ad altri ordinamenti europei), nota a Cass., 5 marzo 2001, n. 3149, in Familia, 2001, p. 795 ss.; Id., Simulazione della separazione consensuale: la Cassazione cambia parere (ma non lo vuole ammettere), nota a Cass., 20 novembre 2003, n. 17607, in Corr. giur., 2004, p. 315 ss.

[274] Così anche Petrelli, op. cit., p. 458.

[275] Sulla disciplina della conciliazione stragiudiziale in materia societaria cfr. Minervini, La conciliazione stragiudiziale delle controversie in materia societaria, in Società, 2003, p. 657 ss.; Brunelli, Clausole compromissorie, dell’arbitrato e della conciliazione stragiudiziale in materia societaria, in Aa. Vv., La riforma delle società. Aspetti applicativi, a cura di Bortoluzzi, Torino, 2004, p. 421 ss.; Miccolis, La conciliazione e la disciplina del nuovo processo introdotto con il D.Lgs. n. 5 del 2003, in Riv. dir. civ., 2004, II, p. 97 ss.; Sanzo e Migliaccio, Della conciliazione stragiudiziale, in Aa. Vv., Il nuovo diritto societario, Commentario diretto da Cottino, Bonfante, Cagnasso e Montalenti, Bologna, 2004, p. 2998 ss. Sui provvedimenti attuativi cfr. Brunelli, Gli organismi di conciliazione extragiudiziale in materia societaria, in Vita notar., 2004, p. 1734 ss.; Soldati, Il decreto attuativo degli organismi di conciliazione del nuovo processo societario, in Contratti, 2004, p. 1074 ss.; Picaroni, Note sui regolamenti di attuazione del D.Lgs. n. 5/2003 in tema di conciliazione stragiudiziale ‑ DD. MM. 23 luglio 2004, nn. 222 e 223, in Società, 2004, p. 1424 ss.

[276] Cfr. Buffone, op. loc. ultt. citt.

[277] Cfr. da ultimo Corte cost., 8 giugno 2005, n. 221, con ampi richiami ai precedenti della stessa Corte in motivazione.

[278] V. Corte cost., 8 giugno 2005, cit.

[279] Cfr. Busani, L’incertezza riguarda il rito da seguire nel processo successivo al tentativo fallito, in Guida al dir., 2006, n. 13 del 1 aprile 2006, p. 49.

[280] Così Busani, L’incertezza riguarda il rito da seguire nel processo successivo al tentativo fallito, cit., p. 49.

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